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sinistra

La teoria del valore nel capitalismo e nel socialismo/comunismo

di Eros Barone

6872c3893ac5058b505224cac9dd8089 XLQuanto più ci addentriamo nel processo di valorizzazione del capitale, tanto più il rapporto capitalistico apparirà mistificato e tanto meno si scoprirà il segreto del suo intrinseco organismo.

K. Marx, Il Capitale, libro III.

1. Plusvalore e profitto: l’autoriflessione del capitale

«Nel primo Libro si sono analizzati i fenomeni che il processo di produzione capitalistico, preso in sé, presenta come processo di produzione immediato, astraendo ancora da tutte le influenze secondarie di circostanze ad esso estranee. Ma questo processo di produzione immediato non esaurisce il corso dell’esistenza del capitale. Esso, nel mondo della realtà, viene completato dal processo di circolazione, il quale ha costituito oggetto delle indagini del secondo Libro. Vi si mostrava, specie nella terza sezione, che tratta del processo di circolazione quale mediazione del processo di riproduzione sociale, che il processo di produzione capitalistico, preso nel suo complesso, è unità dei processi di produzione e circolazione. Scopo del presente Libro... [è quello] di scoprire ed esporre le forme concrete che sorgono dal processo di movimento del capitale, considerato come un tutto... Gli aspetti del capitale, come noi li svolgiamo nel presente volume, si avvicinano quindi per gradi alla forma in cui essi si presentano alla superficie della società, nell’azione dei diversi capitali l’uno sull’altro, nella concorrenza e nella coscienza comune degli agenti stessi della produzione». 1

È questo l’incipit del terzo libro del Capitale, quale si presenta, alla pari del secondo libro, in base all’ordinamento che Engels ha conferito ai quaderni inediti di Marx. Il fatto centrale, su cui quest’ultimo richiama l’attenzione del lettore, è che la concorrenza capitalistica porta ad occultare la realtà del plusvalore che nella realtà fenomenica “si dilegua”, cedendo il posto al profitto.

Un effetto di occultamento che si produce giacché il saggio del profitto, essendo calcolato sull’intero capitale anticipato (costante e variabile), nasconde la sua reale origine. In virtù dello stesso meccanismo che produce la conversione/inversione della realtà sostanziale, incentrata sul valore e sul plusvalore, nella realtà fenomenica, incentrata sul prezzo e sul profitto, anche l’agente della valorizzazione del capitale, rappresentato dal lavoro vivo, viene del tutto obliterato ed equiparato ad un semplice “fattore di produzione” accanto ad altri, laddove l’intero capitale appare come dotato della capacità demiurgica di valorizzare se stesso indipendentemente da qualsiasi apporto esterno.

La triade categoriale ‘capitale costante (C) + capitale variabile (V) + plusvalore (S)’ determina quindi il valore di una merce M (per questo viene anche definita come l’espressione matematica della legge del valore), laddove la somma dei primi due elementi che formano tale triade viene definita come il prezzo di costo di una merce. A questo riguardo Marx afferma esplicitamente che «la categoria del prezzo di costo non ha a che fare in alcun modo né con la formazione del valore della merce, né col processo di valorizzazione del capitale». 2 Sta di fatto che il capitale variabile nelle sue eventuali variazioni quantitative non incide sul valore della merce, bensì soltanto sulla ripartizione tra lavoro pagato e lavoro non pagato. D’altro canto, il rapporto tra plusvalore e capitale variabile definisce il saggio del plusvalore, il quale è ancora una categoria astratta che si situa a livello della realtà sostanziale e quindi non risulta immediatamente visibile nella realtà fenomenica.

Pertanto, nel terzo libro del Capitale Marx esamina il rapporto tra la categoria del plusvalore e la categoria del profitto, affermando che «in realtà il profitto è la forma fenomenica del plusvalore il quale ultimo deve essere enucleato dal primo mediante un processo di analisi». 3 Ciò nondimeno, se dal punto di vista quantitativo il plusvalore e il profitto intesi come massa sono identici, il saggio del plusvalore ‘S / V’ e il saggio del profitto ‘S / C + V)’ si presentano sin dal principio diversi. I prezzi di produzione secondo i quali le merci si scambiano sul mercato sono invece determinati dai prezzi di costo (C + V), più una quota del plusvalore complessivo che è stato prodotto (profitto medio) e che viene ripartito in proporzione diretta tra i differenti capitali individuali impegnati nei vari settori produttivi. Se poi si considerano diversi capitali con diversa composizione organica (la quale dipende dalla composizione tecnica del capitale), si può constatare, secondo Marx, che a parità di saggio del plusvalore si otterranno differenti saggi di profitto per ciascuno di essi. A questo punto interviene la concorrenza che, livellando i diversi saggi di profitto, agisce in modo che ogni capitale venga remunerato con una quota di profitto indipendentemente dalla sua composizione organica. Così, con l’apporto della quota di profitto medio il prezzo di costo compie la sua metamorfosi in prezzo di produzione, configurandosi come nuova forma di valore.

 

2. La discrasia tra valori e prezzi

Sennonché l’azione correttiva e perequativa svolta dalla concorrenza sul terreno dei saggi di profitto sembra non trovare conferma nel procedimento di calcolo che dimostra, attraverso una serie di passaggi matematici che in questa sede possono essere tralasciati, che sussiste una discrasia tra i valori e i prezzi di produzione e che, almeno dal punto di vista del calcolo algebrico, la trasformazione dei valori in prezzi di produzione non soddisfa il requisito formale della identità. Sorge, a questo punto, una ‘vexata quaestio’ che ha fatto versare fiumi di inchiostro nella letteratura marxista, marxologica e antimarxista, e che è stata commentata, con gustoso ‘sense of humour’, in questi termini: «Presso molti di coloro che sono interessati alla teoria marxista il problema della trasformazione possiede la dubbia fama di esistere solo allo scopo di fornire a matematici o economisti matematici occasione di saggiare la loro creatività con nuove ‘soluzioni’. In effetti si tratta per lo più di una quantità di contributi non privi di smisurate operazioni algebriche. Ne consegue un’avversione ad esaminare testi intrisi di formule... misurarsi con questa critica richiede ovviamente un notevole dispendio di tempo, fatto che pregiudica lo studio più completo dei ‘libri azzurri’ o il lavoro di analisi concreta (per non parlare del lavoro politico-pratico)». 4

Vediamo allora come ha reagito Marx allorché ha riscontrato tale discrasia, ne ha ricercato l’origine e ha ritenuto di poterla sanare con l’argomentazione che segue. Nelle pagine del terzo libro del Capitale, in cui tratta il problema, egli lo pone in questi termini: «Dato che il prezzo di produzione può differire dal valore della merce, anche il prezzo di costo di una merce, in cui è incluso il prezzo di produzione di altre, può essere superiore o inferiore a quella parte del valore complessivo di essa costituita dal valore dei mezzi di produzione che entrano in quella merce. È necessario tener presente questo nuovo significato del prezzo di costo e ricordare quindi che un errore è sempre possibile quando, in una determinata sfera di produzione, il prezzo di costo della merce viene identificato col valore dei mezzi di produzione in essa consumati». 5

Giova anche ricordare quanto Marx ha rilevato in precedenza, e cioè che «nella produzione capitalistica gli elementi del capitale produttivo sono di regola acquistati sul mercato, che i loro prezzi di produzione contengono quindi un profitto già realizzato e che per conseguenza il prezzo di produzione di un ramo dell’industria insieme col profitto che esso contiene entra nel prezzo di costo dell’altro». E aveva inoltre aggiunto: «Ma se si mettono da un lato la somma dei prezzi di costo delle merci dell’intero paese e dall’altro la somma dei suoi profitti o plusvalori, è evidente che il conto deve tornare». 6

Dopodiché così conclude la sua ampia e articolata trattazione: «L’indagine che stiamo presentemente compiendo non richiede che ci si addentri in un esame più particolareggiato di questo punto». 7 In sostanza, Marx è convinto che sussiste, a livello di quantità complessive, un’eguaglianza tra prezzi di costo e plusvalori e ciò lo spinge a ricercare la discrasia tra valori e prezzi, rilevabile nella realtà, riconducendola al modo di funzionare della legge del valore la quale, eguagliando le quantità complessive anzidette, agisce «come tendenza predominante solo in modo assai complicato e approssimativo sotto forma di una media, che non è mai possibile determinare, di oscillazioni incessanti». 8

Marx dunque non porta avanti il problema: non prova, cioè, a vedere che cosa succede se il procedimento della trasformazione viene riformulato tenendo conto della necessità di includere nella trasformazione non solo le merci in quanto prodotti ma anche le merci in quanto elementi del capitale. Nel Novecento la questione sarà ripresa in esame da altri economisti, ai quali accenneremo brevemente più avanti. Prima però è bene dire che cosa implica, in generale, il completamento del procedimento della trasformazione, vale a dire l’inclusione dei valori degli elementi del capitale nel procedimento. Se le merci che costituiscono gli elementi del capitale non possono essere considerate in termini di valore, ma devono essere considerate esse stesse in termini di prezzo, non si può più calcolare il saggio del profitto come rapporto tra il valore del plusvalore e il valore del capitale, appunto perché questi valori fanno parte di ciò che deve essere trasformato. La conclusione è dunque questa: la successione logica che caratterizza il procedimento di Marx (valore – saggio del profitto – prezzo) non può più essere mantenuta: non si può più determinare il saggio del profitto prima di aver determinato i prezzi, perché il saggio del profitto è un rapporto tra grandezze determinabili in base ai prezzi; quindi è impossibile presupporre il saggio del profitto ai prezzi; ma, d’altra parte, non è nemmeno possibile fare il contrario, cioè calcolare i prezzi e poi, sulla loro base, il saggio del profitto, dal momento che i prezzi includono il saggio del profitto e quindi non possono essere conosciuti senza di esso. Rimane allora, dal punto di vista logico, una sola via: poiché non si può presupporre il saggio del profitto ai prezzi, né questi a quelli, non resta che determinarli simultaneamente, mediante un opportuno sistema di equazioni. D’altra parte, affinché questo procedimento abbia ancora qualche rapporto con il problema di Marx, si chiede una condizione, ossia che i dati da cui si parte per determinare simultaneamente i prezzi e il saggio del profitto siano ancora i valori delle merci, e lo siano in un modo essenziale, cioè nel senso che soltanto con quei dati la determinazione dei prezzi e del saggio del profitto sia possibile. 9

 

3. Cenni sulla disputa relativa alla “trasformazione”

La questione della “trasformazione” fu ripresa e impostata in forma squisitamente matematica da Bortkiewicz agli inizi del Novecento. Con questo economista si apre la strada che, attraverso successivi sviluppi, porterà alla ‘soluzione’ sraffiana del problema della “trasformazione”. Il limite della soluzione proposta da Bortkiewicz, limite peraltro comune ad altre soluzioni dello stesso tipo, è che il saggio del profitto sulla base dei valori scompare e il suo posto viene occupato dall’unico saggio del profitto che interessa per definire il rapporto tra valore e prezzo, cioè quello che viene calcolato simultaneamente ai prezzi per mezzo della soluzione di equazioni opportunamente impostate.

A partire dal 1960, con la traduzione del libro di Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, 10 la ‘soluzione’ del problema della “trasformazione”, proposta dall’economista torinese amico di Antonio Gramsci, ha alimentato un vivace dibattito sia in campo marxista che negli ambienti accademici dell’economia borghese. È evidente che tale dibattito ha suscitato un forte interesse fra i marxisti per le implicazioni che la soluzione sraffiana ha rispetto alla teoria del valore-lavoro considerata uno dei pilastri della critica marx-engelsiana dell’economia politica. Ma l’elaborazione di Sraffa ha interessato anche gli economisti borghesi in quanto essa ha posto in discussione l’apparato teorico della concezione neoclassica. A riprova di ciò è sufficiente leggere, per quanto concerne il primo aspetto, il sottotitolo dell’opera di Sraffa, «Premesse a una critica della teoria economica», e per quanto concerne il secondo il fatto che alcuni marxisti abbiano ritenuto di cogliere delle analogie con l’opera di Marx, finendo con l’accettare la ‘soluzione’ di Sraffa come compatibile con la teoria di Marx. Quest’ultimo è il caso di certi autori inglesi come Dobb e Meek, i quali ritengono che i risultati a cui perviene Sraffa siano da considerarsi come il superamento di quelle discrasie che peraltro erano già state individuate dallo stesso Marx. Altri studiosi, fra i quali va annoverato Napoleoni, ritengono, come si è visto, che Marx non abbia conferito l’impostazione adeguata al suo ragionamento nell’affrontare il problema del rapporto tra valori e prezzi. Lo studioso testé citato sostiene, ad esempio, che il rapporto di mediazione dialettica esistente, secondo lo stesso Marx, tra il piano dei valori e quello dei prezzi è venuto a cadere quando , sulla scia di Ricardo, ha impostato il problema della “trasformazione” in termini di equazioni. Sennonché il vizio di fondo della ‘soluzione’ sraffiana è quello di eludere la problematica marxiana, poiché la categoria del valore, esclusa e sostituita dalla categoria fisiocratica della “merce-tipo” (ferro o grano), viene ritenuta inessenziale ai fini della determinazione dei prezzi.

Vediamo ora le critiche principali che i marxisti ortodossi hanno rivolto all’opera di Sraffa.In genere, gli argomenti usati nella critica marxista a Sraffa sono ricalcati su quelli usati da Marx nella critica a Ricardo e ai suoi seguaci, argomenti in gran parte reperibili nelle Teorie sul plusvalore. 11 L’impostazione di Sraffa viene infatti considerata una riedizione aggiornata della teoria ricardiana. I motivi fondamentali di questa critica riguardano prima di tutto la concezione sraffiana della forza-lavoro, laddove questa viene riguardata non come una merce particolare, bensì come un valore d’uso pari ad altri che sono necessari alla produzione. A sua volta, la produzione viene considerata come un dato naturale, talché l’analisi economica deve appuntarsi soltanto sul problema della distribuzione del plusprodotto tra le diverse classi. Poiché il processo produttivo risulta escluso dall’analisi, l’origine del plusprodotto torna ad essere un enigma e il capitale viene inteso, secondo la concezione naturalistica di Ricardo, come un elemento fisico e non come un rapporto sociale. 12 In questo senso, giova anche notare che nell’analisi condotta dall’economista torinese non esiste un vero e proprio processo lavorativo, in quanto esso è sussunto quale mero salario del lavoro. Da rilevare, infine, è il carattere del tutto arbitrario della separazione tra produzione e distribuzione, che segna la netta distanza intercorrente fra l’impostazione di Sraffa e l’analisi di Marx. Più in generale, come afferma l’economista e critico dell’economia politica Gianfranco Pala nella sua brillante confutazione della teoria sraffiana, tanto istruttiva sul piano analitico e dialettico quanto gustosa su quello letterario e sociopolitico, «gli sraffiani si impongono di non sapere in che misura l’opera di Marx sia enormemente più vasta e complessa di quanto vogliano credere e far credere. Essa è assolutamente incontenibile nelle rigide strettoie quantitative di distribuzione e reddito. Una volta “separata” dal suo modo di produzione, questa sfera di per sé non può più dire nulla. Gli aspetti qualitativi dell’intero processo complessivo di produzione e riproduzione sociale non possono essere accantonati per puro comodo. Una volta tolti, divengono storicamente e teoricamente irrecuperabili. La loro preliminare inclusione o esclusione è capace di capovolgere e metter in contrasto insanabile, l’una contro l’altra, le teorie economiche che ne discendono». 13

 

4. Profitto medio, prezzo di costo e prezzo di produzione nel capitalismo sviluppato

Che la forza-lavoro da cui dipendono l’espansione e l’accrescimento del capitale sia sistematicamente celata non solo dal capitale stesso e dalla teoria economica che ne riflette gli interessi, ma da tutte le forme correnti di pensiero attraverso molteplici procedimenti, è un dato non difficile da verificare. Questo accade già in quel rapporto socio-economico germinale che è il profitto, ove il capitale si presenta inizialmente come una generica anticipazione che cancella ogni traccia della differenza tra capitale costante e capitale variabile, anticipazione in cui il singolo capitalista, guidato dal suo infallibile senso pratico, vede l’origine del profitto.

Per la critica marxiana dell’economia politica, però, è da questo primo scambio che nasce un problema teorico, che si può così formulare: da un lato, quel rapporto da cui, in apparenza, nasce il profitto ha, entro certi limiti, un significato operativo e ciò significa che esso incide in qualche modo sulla realtà; dall’altro, esso cela la vera genesi della valorizzazione e, sostenuto dall’evidenza accecante del senso comune, si accampa al centro dei fenomeni economici. In effetti, se non vi è dubbio che definire il capitale come denaro che valorizza se stesso è un modo errato di risolvere il problema del suo incremento, pure vi sono dei rapporti non evidenti che fanno sì che quel rapporto fenomenico non sia solo falso, ma stabilisca anche un preciso contatto con la realtà sostanziale.

Chi abbia un po’ di familiarità con lo studio del Capitale sa che, a partire da questo punto, si incontra la problematica del profitto medio e del suo nesso con i prezzi di produzione. Il singolo capitalista, sempre guidato dal suo senso pratico, sa infatti, prendendo le mosse dal presupposto secondo cui il capitale da lui anticipato deve valorizzarsi, che egli deve aggiungervi un profitto medio uguale per tutti i rami dell’industria. Ed ecco costituirsi il prezzo di produzione, risultato della somma tra il prezzo di costo della merce prodotta e il profitto medio che il capitalista vi aggiunge. È dunque su tale base che, facendo astrazione dalle oscillazioni di mercato, il capitalista fissa il prezzo del prodotto. Sennonché nei diversi rami dell’industria la composizione tecnica del capitale, data dal rapporto tra la massa dei mezzi di produzione usati e la quantità di lavoro necessaria per il loro uso, è diversa e, di conseguenza, è diversa anche la composizione organica, data dal rapporto tra capitale costante e capitale variabile. Così, il ‘modus operandi’ del singolo capitalista, il quale applica lo stesso profitto medio allo stesso capitale anticipato, sembra confliggere con la realtà e generare in lui una nuova illusione.

Da questa premessa Marx ricava quindi una considerazione di carattere fortemente problematico che investe la teoria del valore, ossia il fondamento della sua stessa analisi: «D’altra parte, non vi ha dubbio che nella realtà, a prescindere da differenze di poco rilievo, accidentali e che si compensano a vicenda, la differenza dei saggi medi di profitto fra i diversi rami dell’industria non esiste e non può esistere senza annullare tutto il sistema della produzione capitalistica. Sembra quindi che la teoria del valore sia in questo caso inconciliabile col movimento reale; inconciliabile con la reale fenomenologia della produzione, che bisogna perciò rinunciare a comprendere». 14

Orbene, dal punto di vista del singolo capitalista questa difficoltà non esiste, giacché per lui il prezzo di costo è una mera anticipazione di capitale in cui scompare ogni differenza tra il capitale costante e il capitale variabile. La concorrenza esercita il suo condizionamento in rapporto all’entità di questa anticipazione, inducendolo ad investire nei rami dell’industria più profittevoli, ed i saggi di profitto, originariamente molto diversi nei rami vari dell’industria, si conguagliano in forza di tale concorrenza. Il fattore invariante risulta così, dal punto di vista del singolo capitalista, il profitto conguagliato dalla concorrenza in una media proporzionale rispetto al capitale anticipato, mentre il fattore variabile risulta essere costituito dal prezzo di costo del prodotto.

Dal canto suo, nell’àmbito del capitalismo sviluppato, come si è visto, il concetto di prezzo di produzione si configura pertanto come la nuova forma fenomenica che assume il concetto di valore. Nella sua nuova forma fenomenica il valore, ora eguagliato al prezzo di produzione, risulta essere uguale al prezzo di costo più il profitto medio. In realtà, sia la prima che la seconda forma non sono che metamorfosi fenomeniche di una legge più generale valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi, secondo cui il valore di tutti i prodotti del lavoro è uguale al lavoro in essi contenuto. Se ci si propone di comprendere (almeno sul piano concettuale) il procedimento di Marx è da questo principio generale che occorre partire. Il significato di tale principio è quello proprio di una legge generale che assume però, storicamente ed empiricamente, varie forme, le quali a loro volta, pur nella loro diversità e specificità, non possono che esprimere la legge generale che è loro sottesa. Il problema scientifico che sorge è allora quello di individuare il nesso di ogni specifica forma fenomenica con il rapporto sostanziale che la determina. In questa ottica emergono sia la differenza sia l’identità tra il valore come forma storica di un’epoca in cui le merci erano ancora misurabili nei termini delle quantità di lavoro necessarie a produrle, e il prezzo di produzione come forma storica dell’epoca in cui il capitale condiziona a tal punto i prodotti del lavoro, che la legge del valore può esplicare la sua azione solo a livello sociale (quindi non necessariamente a livello dei singoli scambi) ed attraverso la mediazione del mercato.

 

5.Capitalisti falsi fratelli e vera massoneria nei confronti della classe operaia”

La domanda che sorge è allora la seguente: come può la forma fenomenica del valore che si esprime nel prezzo di produzione corrispondere al valore? Secondo Marx, questa corrispondenza può stabilirsi grazie ad un meccanismo oggettivo che corregge la visione soggettiva del singolo capitalista e compensa la deformazione della realtà che essa implica. Fermo restando che il profitto medio, in quanto obiettivo cui tende il singolo capitalista, è il risultato della ripartizione della massa complessiva del plusvalore tra le varie masse di capitale delle diverse sfere, nella pratica è la concorrenza tra i capitali a creare tale equilibrio. Il che significa che la concorrenza si è estesa anche a monte della vendita delle merci e condiziona le scelte che il capitale compie verso l’uno o l’altro ramo dell’industria; significa inoltre che il valore individuale di una merce può essere superiore o inferiore al suo valore di mercato e che quest’ultimo va perciò considerato come il valore medio delle merci prodotte in una certa sfera di produzione. Le merci che determinano il valore di mercato sono quindi le merci prodotte in questa condizione media, ancorché oscillante. In altri termini, ciò significa che nelle condizioni storiche in cui il valore viene fissato come prezzo di produzione la legge del valore si verifica solo se vi è concorrenza tanto tra i possessori del capitale quanto tra i produttori del medesimo tipo di merce, ossia se in generale vi è un mercato. 15

La questione della validità della legge del valore come espressione generale della equazione tra lavoro e prodotti del lavoro si articola perciò su due livelli: storico e logico. A livello storico, tale equazione si verifica, in un primo momento, attraverso lo scambio delle merci e, in un secondo momento, attraverso quello scambio più complesso che riguarda sia i capitali sia le merci di uno stesso ramo dell’industria, talché il punto di vista del singolo capitalista risulta essere mediato da questo fattore oggettivo.

Marx così delinea la complessità di questo secondo momento dello scambio:

«Nel modo capitalistico di produzione non si tratta soltanto di ricavare dalla massa di valore, messa in circolazione sotto forma di merce, una massa di valore equivalente sotto altra forma (denaro o altra merce), ma si tratta di ricavare dal capitale anticipato per la produzione lo stesso plusvalore o profitto di ogni altro capitale della stessa grandezza..., qualunque sia il grado di produzione in cui esso è impiegato; si tratta quindi di vendere le merci a prezzi che assicurino come minimo almeno il profitto medio ossia di venderle ai lro prezzi di produzione. Sotto questo aspetto il capitale si rende conto di essere una forza sociale, di cui ogni capitalista costituisce un elemento tanto più importante, quanto più importante è la sua partecipazione al capitale complessivo sociale». 16

Dopodiché, Marx prosegue la sua analisi del comportamento del capitale in quanto forza sociale osservando che «da quanto si è detto risulta che ogni singolo capitalista, come pure l’insieme dei capitalisti di ogni particolare sfera di produzione, sono interessati allo sfruttamento e al grado di sfruttamento di tutta la classe operaia da parte del capitale complessivo, non soltanto per solidarietà di classe ma per diretto interesse economico, perché...il saggio medio del profitto dipende dal grado di sfruttamento del lavoro complessivo da parte del capitale complessivo». E, articolando il suo ragionamento, mostra quanto sia importante la nozione del capitale come forza sociale, cioè come classe. Una volta chiarito che «il particolare interesse che un capitalista... porta allo sfruttamento degli operai che impiega direttamente si riduce a ciò, che egli possa ottenere un guadagno particolare, un profitto superiore alla media, sia mediante un sopralavoro eccezionale, sia mediante la riduzione del salario al di sotto della media, sia mediante una produttività eccezionale del lavoro impiegato», 17 Marx procede poi esaminando due casi-limite opposti che oggi, a differenza della sua epoca, sono casi relativamente diffusi in forza dei crescenti processi di automazione e informatizzazione dei processi lavorativi o in forza del ritorno a forme di sfruttamento di tipo schiavistico, e dimostra, alla luce del rapporto precedentemente evocato tra capitale complessivo, capitale di una sfera dell’industria e singolo capitalista, 18 come operi l’interesse generale della classe capitalistica in quanto “forza sociale”:

«Qualora queste differenze nello sfruttamento del lavoro non esistessero, un capitalista che, nella sua sfera di produzione, non impiegasse assolutamente del capitale variabile e perciò non impiegasse alcun operaio (ipotesi in realtà esagerata), sarebbe interessato allo sfruttamento della classe operaia da parte del capitale e ritrarrebbe il suo profitto dal pluslavoro non pagato, precisamente allo stesso modo di un capitalista che (altra ipotesi esagerata) impiegasse tutto il suo capitale in salari.» 19

L’analisi di classe, condotta da Marx con il rigore della critica dell’economia politica e attraverso il ricorso ad una brillante metafora storica, si conclude con la rilevazione di due diversi tipi di contraddizione: quella principale tra capitale e lavoro e quella secondaria tra i singoli capitalisti: «Quanto si è detto dimostra con esattezza matematica le ragioni per cui i capitalisti, che si comportano come dei falsi fratelli quando si fanno concorrenza, costituiscono tuttavia una vera massoneria nei confronti della classe operaia nel suo complesso.» 20

 

6. La teoria del valore nel socialismo/comunismo

Nella sua disàmina della legge del valore Marx prospetta, oltre alle due forme di scambio sopraccennate (la forma semplice e quella complessa), una terza forma: quella di una società in cui gli operai siano essi stessi proprietari dei mezzi di produzione e quindi le merci non siano prodotti del capitale. Sennonché anche in una società comunistica di produttori associati i quali scambiano reciprocamente i prodotti del loro lavoro sussisterebbe una diversità della composizione tecnica del capitale pur socializzato. In questo tipo di società, poiché il tempo di lavoro dovrebbe essere uguale per tutti e, di conseguenza, i valori nuovi incorporati nelle merci dal lavoro sarebbero anch’essi uguali, i valori delle merci varierebbero solo in quanto, per adottare l’ottica capitalistica, varierebbero i saggi di profitto (ossia il rapporto tra il plusvalore e il valore complessivo dato dalla somma del capitale costante e del capitale variabile). Ma per i produttori di una siffatta società questa variazione non avrebbe alcuna influenza. Essi avrebbero infatti i loro eguali mezzi di sussistenza, corrispondenti a ciò che nella società capitalistica si chiama salario, ed inoltre riceverebbero eguali frazioni di valori, corrispondenti a ciò che nella società capitalistica si chiama plusvalore. In questo tipo di società la cui riproduzione è regolata razionalmente dall’autogoverno dei produttori, i profitti non avrebbero alcun ruolo da esplicare e «la differenza del saggio del profitto sarebbe dunque nell’ipotesi fatta senza importanza, precisamente come per l’operaio salariato è oggi indifferente quale sia il saggio del profitto che corrisponde al plusvalore che gli è estorto, e precisamente come nel commercio internazionale la differenza dei saggi del profitto non interessa le diverse nazioni che scambiano i loro prodotti». 21

Pertanto, in una società comunista di liberi produttori il problema sarebbe soltanto quello di acquisire collettivamente il corrispettivo di ciò che nella società capitalistica si chiama salario e plusvalore, detraendo dal valore il capitale costante necessario al ricambio organico con la natura. Certamente, essendo diversi i valori delle merci, il produttore che lavora là dove la frazione di valore dei mezzi di produzione è maggiore avrebbe bisogno di fare degli anticipi maggiori che, argomenta Marx, «sarebbero rimborsati da una frazione maggiore del valore della sua merce, che sostituisce questa parte costante ed in conseguenza... sarebbe costretto a riconvertire una parte più cospicua del valore complessivo del suo prodotto in elementi materiali di questa parte costante». Per converso, il produttore che lavora là dove è minore la frazione dei mezzi di produzione impiegati e maggiore la frazione di lavoro vivo «incasserebbe... una parte minore, ma avrebbe anche meno da riconvertire». 22

Questo significa che in una società in cui i mezzi di produzione sono proprietà collettiva e sono regolati dai produttori associati il problema del profitto non esiste in quanto non sorge il problema del rapporto tra il plusvalore e la totalità del capitale investito, mentre l’importanza del capitale costante si riduce al problema tecnico della ricostituzione (o dell’incremento) delle condizioni di base della riproduzione. Nella società comunista il calcolo del valore passa quindi attraverso la separazione dei due suoi componenti (capitale costante e capitale variabile) con la correlativa destinazione del capitale costante allo sviluppo umano. In questo senso, non è difficile capire che oggettivamente il capitalismo sviluppato non è che la gestazione di questa separazione.

D’altronde, in queste pagine del III libro del Capitale Marx riprende e approfondisce un tema analogo svolto nel I libro, là dove egli delinea «un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni e spendono coscientemente le loro molte forze-lavoro individuali come una sola forza-lavoro sociale». 23 Nel III libro del Capitale (in questo passo che un’importanza centrale ai fini della comprensione dell’idea di valore) Marx riprende dal I libro proprio questa ipotesi e se ne avvale per dimostrare che in una società siffatta non sorge più il problema del profitto, ma solo quello della destinazione di ciò che nella vecchia società si chiamava salario e plusvalore. Tale ipotesi getta una viva luce sulla concezione marxiana del funzionamento della legge del valore nella società comunistica. Il problema allora non è quello di restaurare la legge del valore nella forma che ha caratterizzato la società nell’epoca del comunismo primitivo, ma è quello di instaurare un uso sociale delle forze produttive che assicuri la disponibilità individuale di ciò che, nel linguaggio mutuato dalla vecchia società, Marx chiama salario o plusvalore. Pertanto ciò che resta naturale e, in un certo senso, eterno non è la legge del valore nella forma in cui essa appare nella circolazione semplice, ma è qualche cosa di più profondo e di meno storico che si esprime nella tautologia secondo la quale ogni prodotto vale come oggettivazione del lavoro umano. Di conseguenza, il modo come tale legge naturale eterna si configura nella società comunistica non ha più bisogno di quel rapporto il cui rispecchiamento è dato dal profitto e il cui aggiustamento è imposto dal mercato, poiché, avendo come assi di riferimento l’appropriazione del plusvalore da parte dei lavoratori associati e la pianificazione razionale del ricambio organico con la natura, non è più mediato da rapporti formali, ma dall’intelletto sociale dei produttori. 24

Il problema del valore nel suo aspetto invariante è proprio di tutte le epoche storiche. Esso assume poi, volta per volta, diverse configurazioni, una delle quali è appunto connessa al calcolo del profitto ed ai molteplici rapporti economici di cui tale calcolo è il rispecchiamento e, insieme, il ‘primum movens’. La storicità di questa configurazione deriva non solo dalle sue interne contraddizioni, ma anche dalla possibilità di “immaginare” (come dice Marx nel luogo citato del I libro) 25 una serie di variabili relative al futuro, che sono la condizione per dare uno sbocco al rovesciamento della dialettica. Infatti, perché la storia progredisca occorre che il suo esito non sia solo il cataclisma che scuote la presente società, ma anche un modello emergente di forme più alte di produzione e di convivenza umana che, basandosi da un lato sul disvelamento dei contenuti sottesi alle presenti forme sociali e dall’altro sulla possibilità di sostituirle con “un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni”, indichi la dimensione del progresso storico non solo come un fatto meccanicamente necessario, ma anche come un fattore dialetticamente necessario che implica la costruzione dell’“intellettuale collettivo organico” dapprima a livello politico e poi a livello statale. 26


Indicazioni bibliografiche essenziali
Per orientarsi nella vasta e disuguale letteratura relativa al problema della “trasformazione” possono essere utilmente consultate le diverse annate delle seguenti riviste: «Critica marxista», «Problemi del socialismo», «Lineamenti», «Plusvalore», «La Contraddizione» e «Proteo». Particolarmente utile per il taglio divulgativo e nel contempo rigoroso, l’articolo di P. Bendinelli, Elementi di dibattito per una critica dell’economia politica, in «Lineamenti – quale marxismo oggi», a. I, n. 1, 1983. Di elevato livello teorico e critico è stato inoltre il confronto, a tratti duramente polemico, fra M. Bontempelli, G. Pala e A. Vitale, svoltosi nei nn. 10, 11 e 12 della stessa rivista.
N. Badaloni, Per il comunismo – Questioni di teoria, Einaudi, Torino 1972
E. von Böhm-Bawerk in AA. VV., Economia borghese ed economia marxista, a cura di P. M. Sweezy, La Nuova Italia, Firenze 1971
L. von Bortkiewicz, La teoria economica di Marx e altri saggi su Böhm-Bawerk, Walras e Pareto, Einaudi, Torino 1973
M. Dobb, Storia del pensiero economico. Teorie del valore e della distribuzione da Adam Smith a oggi, Editori Riuniti, Roma 1974
G. Carandini, Lavoro e capitalenella teoria di Marx, Mondadori, Milano 1979
R. Hilferding, La critica di Böhm-Bawerk a Marx nel vol. Economia borghese ed economia marxista
M. Lippi, Marx. Il valore come costo sociale reale, Etas Libri, Milano 1976
A. Macchioro, Premesse a una critica della teoria economica e il sistema tipo, in Studi di storia del pensiero economico, Feltrinelli, Milano 1970, ristampato in Il dibattito su Sraffa, De Donato, Bari 1974
E. Roll, Storia del pensiero economico, Boringhieri, Torino 1962
R. Rosdolsky, genesi e struttura del Capitale di Marx, Laterza, Bari 1971
J. A. Schumpeter, Storia dell’analisi economica, Boringhieri, Torino 1970
P. M. Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri, Torino 1970 (con un’Appendice contenente i contributi principali al problema della “trasformazione”)
F. Vianello, Valore prezzi e distribuzione del reddito, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1970
V. S. Vigodskij, Introduzione ai“Grundrisse”di Marx, La Nuova Italia, Firenze 1974
A. Vitale, Critica a Piero Sraffa, Edizioni GB, Padova 1986

Note
1K. Marx, Il Capitale, libro III, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 53.
2Il carattere bilaterale ed asimmetrico della categoria del prezzo di costo – della sua computabilità capitalistica e della sua irrilevanza ai fini del calcolo del valore reale, della sua inerenza (se riguardato dal punto di vista del singolo agente del capitale) e della sua parvenza (se considerato dal punto di vista della formazione del valore) rispetto alla fase della circolazione ‘capitale monetario → capitale produttivo → capitale merce’ - giustifica l’ampia citazione del passo che precede quello citato nel nostro testo: «La riunione, sotto la categoria di prezzo di costo, dei diversi elementi del valore della merce che sostituiscono puramente il valore del capitale speso nella sua produzione, esprime in un certo senso il carattere specifico della produzione capitalistica. Il costo capitalistico della merce si misura secondo la spesa di capitale, il suo costo reale secondo la spesa di lavoro. Il prezzo di costo capitalistico della merce è perciò quantitativamente diverso dal suo valore o dal suo prezzo reale di costo; esso è inferiore al valore della merce, giacché, posto M = C + V [prezzo di costo] + S, è C + V = M – S. D’altra parte il prezzo di costo della merce non è affatto una voce che esista soltanto nella contabilità capitalistica. L’individuazione di questa parte del valore si impone praticamente di continuo nella effettiva produzione, giacché essa attraverso il processo della circolazione deve ognora essere ritrasformata dalla forma di merce nella forma di capitale produttivo, deve ricostituire insomma di continuo gli elementi produttivi consumati nella produzione. [dopo il passo citato nel nostro testo Marx fornisce la seguente esemplificazione] Quand’anche sappia che i 5/6 del valore di una merce pari a Lst. 600, cioè Lst. 500, costituiscono soltanto un equivalente, un valore sostitutivo del capitale speso di Lst. 500, e perciò bastano solo per il riacquisto degli elementi materiali del capitale medesimo, non mi è noto con ciò come siano stati prodotti né questi 5/6 del valore della merce, che costituiscono il suo prezzo di costo, né l’ultimo sesto, che rappresenta il suo plusvalore. L’indagine mostrerà però che in regime capitalistico il prezzo di costo acquista la falsa apparenza di una categoria della produzione stessa del valore» (Ibidem, pp. 54-55).
3K. Marx, op. cit., p. 74.
4J. Glombowski, «Il Problema della Trasformazione», Plusvalore, n. 1, mar. 1980, p. 60.
5K. Marx, op. cit., p. 200.
6K. Marx, op. cit., p. 200-201.
7Ivi, p. 206.
8Ivi, p. 202. Va da sé, come fa notare Marx, che il saggio del profitto (S / C + V) può astrattamente coincidere con il saggio del plusvalore (S / V) solo nel caso in cui il capitale costante sia nullo.
9Riguardo al valore quale principio su cui si fonda l’economia politica, scienza della società borghese-capitalistica, e al suo rilievo filosofico, importante già in Smith e decisivo in Hegel e in Marx, è da tenere presente il saggio di Claudio Napoleoni, Valore, ISEDI, Milano 1976, in particolare le pp. 81-100 (“Il saggio del profitto e i prezzi di produzione”) e 160-178 (“La teoria dei prezzi di Piero Sraffa”).
10P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, Torino 1960. Il titolo del libro suggerisce implicitamente che la “produzione di merci” si svolga soltanto “a mezzo di merci”, e non anche e soprattutto a mezzo di lavoro. Difficile trovare un titolo di libro più schiettamente programmatico di questo.
11Le Teorie sul plusvalore possono essere considerate il quarto libro del Capitale: libro I, pubblicato da Marx; libri II e III, ordinati da Engels sulla base dei brogliacci di Marx; libro IV, ordinato da Kautsky e da lui intitolato Teorie sul plusvalore. In lingua italiana sono disponibili due edizioni delle Teorie sul plusvalore: una con questo titolo a cura degli Editori Riuniti, Roma 1961, 2 volumi, e una con il titolo di Storia delle teorie economiche a cura della Einaudi, Torino 1971, 3 volumi.
12Utilizzando il concetto hegeliano dell’autoriflessione, così scrive Marx in una pagina a cui si è già fatto riferimento nella nota 3: «Nel plusvalore è messo a nudo il rapporto fra capitale e lavoro; nel rapporto fra capitale e profitto, appare da una parte come eccedenza realizzata nel processo di circolazione sul prezzo di costo della merce, e dall’altra parte come un’eccedenza più strettamente determinata per mezzo del suo rapporto rispetto a se stesso, un rapporto in cui esso capitale si differenzia come somma di valore originaria da un nuovo valore da esso stesso creato. Ci si rende conto che esso dia vita a un tale nuovo valore nel corso del suo movimento attraverso il propcesso di produzione e il processo di circolazione. Ma come ciò accada è processo mistificato che sembra tragga origine da qualità segrete inerenti al capitale stesso». E Marx avverte: «Quanto più ci addentriamo nel processo di valorizzazione del capitale, tanto più il rapporto capitalistico apparirà mistificato e tanto meno si scoprirà il segreto del suo intrinseco organismo» (K. Marx, op. cit., pp. 74-75. 
13G. Pala, Pierino e il lupo. Per una critica a Sraffa dopo Marx, Franco Angeli, Milano 2015.
14Ivi, p. 193.
15Di passaggio, è opportuno osservare che fra gli elementi teorici comuni a Sraffa e a Keynes vi è il fatto che essi considerano il capitale come unico e non contraddittorio, talché la decisionalità capitalistica risulta essere non conflittuale. La molteplicità dei capitali rimane pertanto puramente formale e non è mai effettivamente operante. Ma ciò ha conseguenze importanti sulla rappresentazione del modo di produzione capitalistico come sistema sociale, e in particolare sulla sua crisi e sulle sue tendenze evolutive.
16Ivi, p. 239.
17Ivi, p. 241.
18«Il particolare interesse che il capitale di una sfera di produzione, in contrapposizione al capitale complessivo, porta allo sfruttamento degli operai da esso direttamente occupati, il capitalista particolare lo porta, in opposizione alla sua sfera, nello sfruttamento degli operai da lui personalmente sfruttati» (Ivi, pp. 241-242).
19Ibidem, p. 241.
20Ibidem, p. 242.
21Ivi, p. 219.
22Ibidem.
23K. Marx, Il Capitale, libro I, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 110.
24Circa il rapporto tra produzione distribuzione vale sempre la pena rammentare ciò che Marx scrive nella sua Critica al programma di Gotha. Note in margine al programma del partito operaio tedesco (1875): «Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall'attuale. Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e a sua volta da esso una parte della democrazia), l'abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione. Ma dopo che il rapporto reale è stato da molto tempo messo in chiaro, perché tornare nuovamente indietro?». Questo testo marxiano è reperibile sulla Rete al seguente indirizzo: https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/cpg-cp.htm.
25Cfr. il luogo cui si riferisce la nota 23. Marx si esprime in questi precisi termini: «Immaginiamoci... un’associazione di uomini liberi che lavorino con mezzi di produzione comuni...».
26Quello dell’intellettuale collettivo è un tema classico dell’elaborazione gramsciana. Per un approfondimento di tale tema ai livelli sopraccennati sono utili due testi importanti della bibliografia su Gramsci: L. Paggi, Gramsci e il moderno Principe, Editori Riuniti, Roma 1970, e Ch. Buci-Glucksmann, Gramsci e lo Stato, Editori Riuniti, Roma 1976.

Comments

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AlsOb
Friday, 03 April 2020 19:56
Belle e condivisibili considerazioni che dovrebbero costituire la essenziale base comune su cui costruire una prospettiva.
A ribadire, per quanto concerne una società comunista, moralmente, intellettualmente e spiritualnente piû avanzata, l'organizzazione della produzione ha ancora a che fare con una curva di trasformazione e la generazione di un surplus ma I rapporti di scambio e prezzi si devono definire su criteri razionali di pianificazione e di consapevoli e condivise scelte politiche, il che sarebbe pure agevolato dalle esistenti tecnologie: il rapporto formale di mediazione definito dalla legge del valore svanirebbe
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