Chi critica la critica? Alla ricerca di soggetti storici
di Roberto Fineschi
I. Per una definizione meno vaga del concetto di “critica” attraverso Marx
Nel mondo anglosassone e non solo, la popolarità del termine “critica” è tale che sulla “critical theory” si possono trovare in libreria dizionari, glossari, antologie.1 Sfogliando le pagine di queste pubblicazioni, tuttavia, talvolta si resta un po’ disorientati vedendo accostati autori assai lontani tra di loro, al punto che è difficile scovare un tratto comune, se non in un generico atteggiamento anti-mainstream. Che cosa sia mainstream resta del resto non chiaramente espresso. Ovviamente, non si intende qui liquidare il contributo di autori assai importanti; si tratta piuttosto di prendere atto che questo galassia pare riconducibile a una qualche unità solo per via negativa, un criterio di distinzione/identificazioni troppo generico e, da sempre, potenzialmente foriero di accostamenti pericolosi.2
Un tentativo di ricostruzione della storia del termine andrebbe ovviamente molto al di là dei limiti di questo contributo, in questa prospettiva però si può forse fare qualche considerazione di carattere generale a partire dall’autore che meglio conosco, vale a dire Karl Marx. È noto, infatti, che molte delle sue opere contengono la parola “critica” addirittura nel titolo3 e che l’ambiente della “critica critica”, come sarcasticamente Marx la definisce nel sottotitolo della Sacra famiglia, rappresentò il contesto culturale nel quale avvenne la sua formazione e dal quale prese successivamente le distanze. La tesi da indagare, che qui si espone solo come spunto di ricerca da approfondire, è che il termine venga utilizzato in una maniera analoga a quella che si configura nell’ambito della metodologia storico-critica dell’esegesi biblica tedesca degli anni trenta e quaranta dell’ottocento grazie a interpreti come Strauss, Bruno Bauer, ecc.
Esso ha quindi solo mediatamente a che fare con la critica kantiana e sembra piuttosto riguardare il processo di riconduzione dei fenomeni storici alle cause storico-politico-culturali che li hanno determinati; si tratta insomma di ricostruire e conoscere il contesto per cui essi si determinano in una certa maniera, contesto che sempre più si configurerà come “economico”.4 Questo processo della conoscenza, illuministico in senso lato, è comprensione, chiarimento e quindi superamento del non conosciuto dentro la sfera del conosciuto. Nel contesto post-hegeliano in cui questa critica si sviluppa, tale processo viene facilmente riconfigurato come modalità di attuazione dell’autocoscienza che, nell’alterità, riconosce se stessa e, ancor di più, il processo per cui essa si scinde in sé e nel proprio altro per poi individuare in questa modalità nient’altro che la dinamica di autoattuazione dell’autocoscienza stessa. Il limite di questa “critica critica” consiste nell’accontentarsi di questa riconciliazione nel pensiero e di non comprendere la natura reale dell’alterità, che può essere superata solo dalla soppressione reale dei processi che la generano; in questo senso, l’alienazione non è altro che la versione filosofica di ciò che spiega assai più efficacemente l’economia politica inglese, ovvero la filosofia tedesca post-hegeliana non è che la versione speculativa la cui chiave reale è l’economia politica classica. In sostanza sono i – per adesso non meglio definiti – processi reali a determinare le ipostatizzazioni ideologiche, intellettuali, culturali, istituzionali e non viceversa; senza una “critica” reale che trasformi questi ultimi, gli altri continueranno a sussistere.
II. Critica ed esposizione scientifica. Le ipostasi della circolazione semplice
Smascherare la parvenza – e le giustificazioni di esse da parte delle teorie mainstream – è sicuramente un elemento cruciale dell’atteggiamento critico. Tuttavia, sarebbe erroneo per Marx ritenere che, spiegando l’origine storica e causale dei fenomeni, si sia giunti al termine del processo critico e che ciò basti a far comprendere e bloccare i meccanismi per cui certe ideologie si producono e si affermano. In questo senso la posizione del Marx maturo è molto chiara; la comprensione ad es. del denaro come rapporto sociale di per sé non scalfisce minimamente l’effettualità funzionale del denaro ed il suo feticismo: esso continua a funzionare come cosa che ha valore di per sé anche dopo che si è dimostrato come questa sua qualità sia tutt’altro che naturale, ma frutto di uno specifico rapporto di produzione storicamente determinato. Lo stesso vale per l’astratta personalità o, in termini più generali, per l’antropologia filosofica: mostrare che l’individuo in generale è una forma storicamente determinata generata dalla dinamica dello scambio e universalizzata – grazie al modo di produzione capitalistico – dall’estensione della merce a forma universale del prodotto non basta a eliminare la parvenza della sua sostanzialità presociale. Quindi non solo è necessaria la spiegazione che la chiave del denaro è la merce, si tratta anche di spiegare come i meccanismi obiettivi producano determinate parvenze: non basta mostrare che esse sono tali, bisogna dare ragione della loro pervasività sociale, ovvero di come si creino ideologie vere e proprie.
Quest’ultimo caso in particolare è paradossale e determinante per quanto concerne l’individuazione dei soggetti della critica e dei caratteri fondamentali dell’ideologia borghese: la parvenza della sostanzialità dell’individuo-persona, prodotto dalla generalizzazione della circolazione delle merci, è così forte, che la stessa teoria del feticismo è stata letta in chiave essenzialistica, come alienazione… dell’essere umano in generale. Vale a dire che la teoria che mostra come la “personalità” sia il riflesso soggettuale della cosa “denaro” – il corrispettivo “personale” del “feticismo della merce” – viene disgiunta dal nesso di modo che si considera la persona addirittura l’essenza che viene alienata dal denaro prima, dal capitale poi. Proprio la teoria che spiega come l’individuo astratto sia un prodotto storico tipicamente borghese viene utilizzata per sostenere la “alienazione” capitalistica di questo preteso “essere umano” in generale che si vorrebbe transstorico. Talvolta si pretende addirittura “critico” il discorso che svelerebbe l’apparenza invertita rispetto a siffatta “essenza”.
Quest’ultimo aspetto è veramente rilevante nella prospettiva dell’elaborazione di un discorso critico, perché prendere la mosse dalla sostanzialità dell’individuo rispetto al quale si misura il suo rapporto con il “potere”, con il “capitalismo”, con lo “Stato” con le “astrazioni” e via dicendo, da subito colloca il presunto discorso critico nell’orizzonte di senso borghese, vale a dire in quello che ipostatizza l’individuo presociale ad attore ut sic, per poi misurare la costituzione della socialità come sua azione successiva. Si rinuncia in linea di principio a pensare la co-definizione dell’individuo come momento della dinamica processuale complessiva; esso, da necessario ed insostituibile luogo dell’azione, diviene sì luogo dell’azione, ma anche sostanza autofondativa del processo di mediazione.5
Anche molti di coloro che hanno inteso interpretare “criticamente” il mondo della circolazione semplice si sono fermati alla sfera della circolazione e hanno affrontato il passaggio alla trattazione del capitale mantenendo la prospettiva delle forme di soggettualità da essa create, quindi non cogliendo veramente, al di là delle dichiarazioni, che esse sono di “superficie”, come lo è la circolazione semplice.6 Quest’ultima si nega nella misura in cui si pone completamente e passa nel capitale. Il necessario passaggio al rapporto di capitale instaura nuove figure di soggettualità, le classi, che sono il fondamento funzionale e dinamico dell’intero rapporto, vale a dire sostanziali, e che spiegano la circolazione, coi suoi feticci materiali ed ideologici, per quello che è: parvenza fenomenica. Non è, e non può essere quindi, la persona – trasfigurata nell’astratto umano – il termine di paragone dello sfruttamento capitalistico, ma la classe. Anzi, la persona funge da mascheramento universalistico dell’effettivo rapporto di classe.7
III. Soggetti della critica. Classi o persona? Un capitolo da scrivere
La domanda implicita quindi in quanto detto finora è: chi esercita la critica? e su che cosa la esercita? La risposta implica pensare un tutto in cui tanto chi esercita la critica quanto l’oggetto su cui essa è esercitata si definiscano nel rapporto stesso ed abbiano forme di movimento processuali sostanziali, vale a dire che determinano le caratteristiche dei soggetti e le loro possibilità conoscitive.
Se la determinazione del soggetto e dell’oggetto fa parte in realtà dello stesso processo che si va ad investigare, la questione in gioco è pensare una processualità che ponga soggetti essi stessi co-determinati dal processo che studiano. Quindi, la critica non può più essere un qualcosa che si fa preliminarmente prima di investigare, a partire da un dato soggetto e un dato oggetto per poi vedere come il primo spieghi il secondo. Questa è l’illusione scientista. Lo sviluppo stesso dell’articolazione teorica del reale è a sua volta, contemporaneamente, la sua critica. Non a caso Marx alla fine decise di mettere Critica dell’economia politica solo come sottotitolo della sua opera, adesso intitolata Il capitale. Non viceversa. L’esposizione della teoria del reale diviene un aspetto della sua stessa autocomprensione critica.8
Marx “supera” dunque il concetto di critica discutendo i limiti dell’illuminismo. La critica di Marx non è quella di Bauer o quella dello “illuminismo”, ma una sua ridefinizione nel pensiero concettuale-speculativo di matrice hegeliana, che certo non la fa scomparire, ma la ricontestualizza. Per questa diventa sottotitolo e non più titolo. Critica per Marx è certo riconduzione delle ideologie alla loro base materiale, ma non solo: è esposizione dialettica della teoria che, di fatto, mostra la genesi obiettiva delle false teorie. Mostrare questa genesi è esposizione dialettica, non la “mera” critica filologica o delle fonti, o delle cause materiali contingenti storicamente date. Questo è solo un punto di partenza, giusto, necessario, ma limitato. L’illusione dell’illuminismo è credere che, mostrando questa genesi o l’insussistenza di certe conclusioni, il discorso sia finito. Per Marx invece è solo iniziato: bisogna mostrare concettualmente, non solo di fatto, come quella parvenza necessaria si produca. Ciò fatto, resta la questione di fondo: solo mutando la struttura dei rapporti sociali, quel tipo di parvenza oggettiva cesserà di prodursi.
La comprensione della natura ipostatica della personalità, fondamento dell’antropologia filosofica, è un primo importante risultato critico. Tuttavia, si deve stare attenti a non scambiare la prospetticità della teoria della conoscenza legata alla funzionalità di classe,9 cui si è fatto cenno sopra, con una mera reintroduzione della teoria della forza, che fa il paio con l’assunto della relatività assoluta della verità. Il rischio è cadere nell’idea che il criterio di verità o non esista affatto o sia il suo stesso farsi – verum et factum convertuntur –, ovvero che l’unico modo per determinarla sia la capacità di autorealizzazione di un principio incarnato, immanente alla prassi di attori determinati.10 La pratica teorica di Marx è la dimostrazione di quanto egli fosse lontano da un approccio di questo tipo e di come avesse un concetto fortemente argomentativo di sapere e scienza: migliaia di pagine di dimostrazioni e ragionamenti, l’idea di un tutto sistematico di fin troppo chiara radice hegeliana; per sua stessa dichiarazione: un metodo dialettico. Insomma: dato il contesto e la configurazione prospettica, Marx ha un’idea solida di sapere, dimostrativa.11
Accettando questa impostazione, si tratta adesso di configurare 1) una adeguata nozione di classe – il soggetto pratico e conoscitivo che opera la critica – e 2) un contesto più determinato, a un livello di astrazione più basso rispetto alla teoria generale del capitale, nel quale essa si esercita. Si tratta ovviamente di un compito che non è possibile svolgere in queste pagine.12
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