Teoria del valore-lavoro, totalità dello sviluppo ed egemonia della classe operaia
di Eros Barone
L’oggettività del valore delle merci si distingue da Mrs. Quickly perché non si sa dove trovarla. In diretta contrapposizione all’oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci, nemmeno un atomo di materiale naturale passa nell’oggettività del valore delle merci stesse. Quindi potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile. Tuttavia, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressioni di una identica unità sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale, e allora sarà ovvio che quest’ultima può presentarsi soltanto nel rapporto sociale tra merce e merce.
Karl Marx 1
1. L’unica merce che produce valore
L’analisi che Marx conduce nel I libro del Capitale mostra una rete di scambi in cui si incrociano quantità di lavoro differenti, in una parola scambi ineguali. Si tratta allora di comprendere quale posto hanno questi processi nell’analisi complessiva di Marx, al fine di comprendere, fra le altre cose, l’importanza politica che tali problemi assumevano agli occhi dello stesso Marx. E qui si colloca una pietra angolare dell’analisi della società capitalistica, poiché all’interno di quella rete di scambi esiste uno scambio che assolve un ruolo assiale, definendo la società capitalistica e determinandone la differenza rispetto alla società mercantile: lo scambio tra salario e forza-lavoro.
Sennonché, come è noto, affinché tale scambio possa prodursi occorre che sia venuto a compimento in precedenza un lungo e tormentato processo storico, che ha portato alla polarizzazione, da una parte, dei proprietari dei mezzi di produzione e, dall’altra, di coloro che non posseggono altro che la loro forza-lavoro. Le condizioni storiche d’esistenza del capitale infatti «non sono affatto date di per se stesse con la circolazione delle merci e del denaro. Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale. Quindi il capitale annuncia fin da principio un’epoca del processo sociale di produzione». 2
Questo scambio è il vero, autentico motore della società capitalistica, perché è per definizione uno scambio ineguale, perché esso significa di fatto appropriazione, da parte del capitalista, del valore d’uso specifico della forza-lavoro, della sua specifica capacità di creare valore e quindi di incrementare e valorizzare il capitale. Marx insiste molto su questa specificità del valore d’uso della forza-lavoro, giacché il suo intento non è solo quello di sottolineare la perfetta organicità tra la condizione di merce della forza-lavoro e lo sfruttamento capitalistico, ma anche quello di conferire la massima evidenza al ruolo che svolge la forza-lavoro umana come unica merce che produce, crea valore. Perché tanta insistenza? La ragione è ovvia: ciò che costituisce la differentia specifica tra lo scambio di salario e forza-lavoro ed altri scambi ineguali, che pure si possono produrre su altri mercati che non siano appunto quello della forza-lavoro, è la circostanza per cui, mentre nel primo caso l’ineguaglianza dello scambio deriva da un processo nel quale si forma un valore nuovo, un valore che precedentemente non esisteva, nel secondo caso si tratta di un’ineguale ripartizione e distribuzione del valore già esistente: lo scambio è ineguale perché in esso si intersecano quantità di lavoro diverse.
La differenza risulta con chiarezza anche nelle sue implicazioni politiche: mentre per la classe operaia la radice dello sfruttamento risiede nella riduzione a merce della propria forza-lavoro, ossia nella sua separazione sociale dai mezzi di produzione, nella sua sussunzione all’interno di un rapporto di scambio, per i soggetti sfavoriti nello scambio su altri mercati si tratta invece di una violazione del criterio di equivalenza che regola lo scambio. Dunque, la radice dello sfruttamento non è nel prezzo che il capitalista paga all’operaio, giacché tale prezzo corrisponde al valore (storicamente variabile) della forza-lavoro, ma è nella separazione tra produttori e strumenti di produzione. La centralità della classe operaia nel processo rivoluzionario nasce quindi (sia detto in linea di principio, poiché empiricamente la coscienza di classe varia nelle diverse congiunture storiche) da ciò, che essa, ut talis, lotta per l’abolizione della separazione tra produttori e strumenti di produzione, ossia per il socialismo/comunismo, mentre gli altri soggetti lottano per la restaurazione integrale della legge dello scambio. In altri termini, la prima lotta contro quella legge, i secondi per la sua universale applicazione. È questa la differenza che intercorre, dal punto di vista storico, tra la rivoluzione proletaria e la rivoluzione democratico-borghese, e, dal punto di vista del livello raggiunto dalla coscienza di classe, tra una posizione tradunionista o riformista e una posizione rivoluzionaria.
Marx pone in evidenza la netta cesura esistente fra i due tipi di scambio e i due tipi di rapporto con la società capitalistica che ne derivano: se la classe operaia diviene ciò che è, ovvero una classe che critica in radice la società fondata sullo scambio e la sua scienza, l’economia politica, i soggetti sociali colpiti da un’ineguale ripartizione del valore creato dalla classe operaia (piccola e media borghesia, ‘mezze classi’, ceti intermedi e strati salariati non produttori di valore) lottano per il pieno rispetto della legge del valore e, più in generale, delle leggi dell’economia politica.
D’altra parte, se la preoccupazione di Marx fosse stata esclusivamente quella di porre in evidenza tale cesura, di sottolineare come la società capitalistica si fondi sullo sfruttamento della classe operaia, di mettere in luce l’esemplare filisteismo del principio dello scambio, la sua organicità allo sfruttamento della classe operaia, insomma se Marx si fosse voluto limitare a questo semplice intento, probabilmente gli sarebbe bastato arrestarsi all’ultima pagina del I volume del Capitale, dove viene svelato l’arcano della produzione borghese: l’organicità di scambio e sfruttamento. Come si spiega però l’attenzione che egli continuò a prestare ai problemi della formazione dei prezzi e del loro rapporto con i valori? E come si spiega la prima sezione del I volume del Capitale, il cui cardine è la determinazione del criterio che regola le ragioni di scambio tra le merci?
2. Teoria dello sfruttamento senza teoria del valore: una critica monca
Orbene, il significato di queste domande si chiarisce soltanto se si comprende la loro ragione, che è insieme e inscindibilmente teorica e politica. Si tratta, cioè, di capire che l’intenzione che animava la ricerca di Marx era quella di mettere a punto nel Capitale non solo le categorie per una critica operaia della società capitalistica, ma qualcosa di più: gli strumenti teorici per l’emancipazione della classe operaia. Quegli strumenti grazie ai quali la classe operaia poteva non solo riconoscere la propria schiavitù, ma superare il livello della propria coscienza spontanea per giungere a costruire la propria coscienza politica attraverso una visione capace di inquadrare la totalità dello sviluppo capitalistico.
A questo punto, la preoccupazione, sempre viva in Marx, di fornire una teoria del valore delle merci e del loro valore di scambio non sembra più la semplice preoccupazione dello scienziato di dare una risposta ai classici del pensiero economico borghese, ma si rivela come strettamente funzionale al progetto di fornire un fondamento scientifico alla politica rivoluzionaria della classe operaia. Quando Marx scrive Il Capitale sa già che la «lotta di classe contro classe è lotta politica», 3 ma sa anche che il problema centrale è quello di una fondazione scientifica della lotta della classe operaia come lotta politica, del passaggio dalla classe in sé alla classe per sé. E invero, se la preoccupazione di Marx fosse stata soltanto quella di svelare i rapporti di dominio su cui si fonda la società capitalistica, a questo fine sarebbe stato sufficiente formulare una teoria dello sfruttamento dando come presupposte le ragioni di scambio tra le merci e quindi non vincolando necessariamente il proprio ragionamento ad una teoria del valore. Una teoria dello sfruttamento così fondata ha una sua plausibilità anche se prescinde, convertendolo in un presupposto, dal problema dei prezzi e delle ragioni di scambio tra le merci. Pur non essendo una teoria del valore, è una teoria dello sfruttamento e, pur non affrontando direttamente il problema del criterio secondo il quale si formano e si costruiscono le ragioni di scambio tra le merci, permette tuttavia di descrivere un aspetto fondamentale della società capitalistica: il suo reggersi sulla appropriazione di lavoro non pagato, sullo sfruttamento della classe operaia.
Certamente riuscire a descrivere quest’aspetto della società capitalistica è essenziale, perché consente di mostrarne l’arcano, di ribadire il fine che deve essere sotteso alla lotta politica della classe operaia: la sua liberazione dalle catene del lavoro salariato, il superamento della separazione tra produttori e strumenti di produzione, la costruzione di una società senza classi fondata sull’autogoverno dei produttori. Ma, come si è detto, Marx, con Il Capitale, intende costruire gli strumenti teorici idonei ad esplicare una critica complessiva del processo sociale di produzione e ad investire la totalità dello sviluppo capitalistico.
La disgiunzione del concetto di sfruttamento dalla teoria del valore-lavoro, la disarticolazione di quella relazione che Marx istituisce nel Capitale, comporta quindi conseguenze di non poco conto, così sul piano teorico come sul piano politico: conseguenze che sfociano in una visione ove tutta la complessa fenomenologia del processo di formazione del mercato si appiattisce in una riproduzione scalare dell’unica realtà dello sfruttamento della classe operaia. Quella disgiunzione e quella disarticolazione hanno pertanto un prezzo assai alto sul piano politico, poiché circoscrivono l’azione della classe operaia all’interno della fabbrica, limitando la visuale dei lavoratori alla pura osservazione del proprio processo di sfruttamento e lasciando, quanto meno a livello analitico e sul terreno dell’agitazione, che il processo di formazione del mercato sia un problema esclusivo del capitalista e che la direzione dello sviluppo capitalistico non sia oggetto di critica da parte del movimento di classe. In questo senso, la problematica della pianificazione economica, riproposta negli ultimi tempi da più parti, è il sintomo positivo di un potenziamento e di un allargamento della visuale teorica e politica del movimento di classe. 4
3. Dalla teoria alla politica, dalla classe in sé alla classe per sé
A questo punto è allora nitida sino in fondo l’intenzione di Marx: la costruzione della teoria del valore coincide con il tentativo di elaborare gli strumenti teorici necessari alla costruzione della coscienza politica della classe operaia, della sua capacità di confrontarsi con tutte le contraddizioni dello sviluppo e della crisi del capitalismo, così come con l’apparato di dominio complessivo che media nella società le istanze del modo di produzione capitalistico e organizza con lo Stato il consenso a questo modo di produzione. Perciò, in forza di quella disgiunzione e di quella disarticolazione si impedisce alla teoria di superare il livello della coscienza spontanea della classe operaia, che viene bloccata nell’osservazione, pur essenziale, dei rapporti immediati tra capitalista ed operaio. Scompare in tal modo quello che è stato un problema di Marx e dei classici del socialismo scientifico, quello che è stato il problema del giovane Lenin: l’analisi del processo di formazione del mercato, 5 che va individuata oggi in base alle dimensioni, regionali e globale, che a tale processo ha conferito il capitalismo monopolistico transnazionale. Quella disarticolazione in altri termini rischia di porre un diaframma troppo netto tra Marx e Lenin (un diaframma che a questo punto non sarebbe solo teorico, ma anche politico), impedendo di individuare il terreno che pure è comune ad entrambi: il terreno dell’analisi delle contraddizioni che percorrono il processo di sviluppo/crisi del capitalismo.
4. Teoria del valore e analisi del capitalismo
È un grande merito di Paul Mattick quello di aver ripreso la teoria dell’accumulazione di Marx e di aver mostrato che il capitalismo contemporaneo, lungi dall’aver alterato le condizioni di validità della teoria marxiana del valore, ne costituisce l’ultima conseguenza, sviluppatasi logicamente dalle leggi dell’accumulazione del capitale. 6 Così facendo, Mattick ha tagliato il nodo gordiano di molte discussioni erroneamente impostate sulla teoria del valore di Marx. 7 In particolare, la critica secondo cui la legge del valore avrebbe come condizione di validità un regime economico di libera concorrenza e cesserebbe in una situazione di mercato monopolistico, critica accreditata, ad esempio, da Baran e Sweezy, 8 appare essere priva di fondamento. Come Mattick fa vedere, 9 la teoria del valore non è una teoria dei prezzi relativi, in quanto il suo status logico non è quello degli empirici rapporti di mercato. Il fatto che il prezzo di monopolio non possa coincidere con il valore è, in questo caso, una banalità che non ha niente che fare con una ‘confutazione’ della teoria del valore, in quanto per Marx sono i rapporti di produzione che permettono di spiegare i fenomeni del mercato, così come la concentrazione del capitale e il predominio del monopolio che ne conseguono. Il prezzo di monopolio è quindi intelligibile soltanto partendo dalla legge del valore, allo stesso modo in cui le deviazioni da una legge sono soltanto intelligibili sulla base della legge stessa.
La legge del valore si configura pertanto come l’espressione della struttura centrale e delle tendenze storiche di una società i cui rapporti di produzione si fondano sulla divisione del lavoro e sulla proprietà privata. Da questo punto di vista, la legge del valore mostra come la produttività del lavoro umano debba esprimersi in termini di valorizzazione, ossia in termini di accumulazione del capitale, fermo restando che l’accumulazione del capitale sociale totale è il quadro in cui l’accumulazione dei capitali singoli, e quindi anche i prezzi come rapporti empirici di scambio, diventano intelligibili e scientificamente spiegabili.
Insomma, la divaricazione tra prezzi e valori non è la, da più parti conclamata, smentita della teoria, ma il segno di un processo sociale che, avendo modificato le condizioni dell’equilibrio perfetto, attende la sua spiegazione. Sennonché questa spiegazione non può venire da una nuova teoria del valore e dei prezzi (o, ad esempio, da qualche ircocervo ricardiano-walrasiano-sraffiano), ma soltanto dallo sviluppo dell’analisi sociale materialistica: l’equazione di prezzi e valori presuppone un certo rapporto tra i produttori, la divaricazione tra prezzi e valori indica che questo rapporto si è modificato; l’analisi delle ragioni che presiedono a tale divaricazione è l’unico strumento che consente di comprendere la dinamica concreta dello sviluppo capitalistico. La mancata coincidenza di prezzi e valori, di ragioni di scambio e quantità di lavoro, l’ineguaglianza dello scambio non è la smentita della teoria, ma è l’ineguaglianza stessa dello sviluppo capitalistico; la divaricazione tra prezzi e valori non è la contraddizione tra il fatto e la teoria, ma la fenomenologia concreta dello sviluppo capitalistico in quanto sviluppo ineguale; l’astrazione dei prezzi dai valori è un’astrazione reale.
Di fronte a questo fenomeno (la divaricazione tra valori e prezzi) due ipotesi appaiono allora in tutta la loro debolezza (debolezza che si appalesa nel modo più chiaro a proposito della ‘vexata quaestio’ della cosiddetta trasformazione dei valori in prezzi di produzione): da una parte, quella che di fronte alla suddetta divaricazione risponde dichiarando la irrilevanza del processo di formazione dei prezzi in Marx e demandando così il tema dello sviluppo alla direzione del capitale; dall’altra, quella che, muovendosi nella direzione esattamente opposta, di fronte a questo fenomeno risponde dichiarando l’incapacità della teoria del valore-lavoro nel ricostruire il processo di formazione dei prezzi. Peraltro, spesso accade che l’operaismo della prima debba fare ricorso, allorché vuole misurarsi con il tema dello sviluppo, all’economicismo volgare della seconda ipotesi.
A questo punto, è possibile vedere un vizio che accomuna entrambi questi atteggiamenti nel loro atteggiarsi di fronte al problema della divaricazione tra prezzi e valori: in entrambi i casi, di fronte alla tensione dipolare che si produce tra il valore e la sua forma fenomenica (il prezzo), la reazione è quella di elidere la tensione sopprimendo uno dei due poli tra i quali quella tensione si produce: nel primo caso negando la rilevanza del problema dei prezzi, nel secondo caso mettendo in discussione la ‘validità’ della teoria del valore-lavoro. Si recide così qualsiasi legame tra teoria del valore-lavoro e processo di sviluppo/crisi del capitalismo, eludendo proprio quel compito di potenziamento ed allargamento del raggio d’azione della critica dell’economia politica rispetto al tema del processo complessivo di sviluppo/crisi del capitalismo, di cui proprio la divaricazione tra valori e prezzi fonda la concreta possibilità. 10
In entrambi i casi rimane scoperto, innanzitutto sul piano teorico e quindi strategico, tutto quel terreno di analisi che coincide con il processo di formazione del mercato (non solo nazionale), su cui il capitale può esercitare indisturbato la sua direzione teorico-pratica. Non a caso è stato proprio questo il terreno d’analisi che, per primo dopo Marx, Lenin ha esplorato; 11 non a caso questo compito è stato quello sul quale si sono misurati i grandi dirigenti del movimento operaio internazionale. È su questo terreno infatti che vanno costruite in concreto la teoria della rivoluzione proletaria e l’egemonia della classe operaia.
Quando ho scritto: "mi pare di capire che devo leggere Geymonat" intendevo fare nient'altro che un'ammissione di ignoranza. Davvero nessuna ironia nè su Geymonat, nè su Barone, nè su nessun altro.
Se poi l'ho fatto, magari ignorando certi meccanismi delle chat che possono portare a dei fraintendimenti, oppure in qualunque altro modo potesse succedere, allora me ne scuso.
Non so quanti anni hai, ma dal basso dei miei 47 anni posso dare questo stupendo bilancio:
- "zero titul", ma proprio z dolce, anzi, pronunciato alla modenese con anche la "e" spalancata.
- qualche pseudovittoria, tipo lo zapatismo di quando avevo vent'anni, e che se ne è andato via con i miei vent'anni... "filosofando pure sui perché", come cantava il barbone di Pàvana.
- tutto il resto... grandi e sonore mazzate.
Persino ai ferraristi è andata meglio! :-)
Quindi, per natura, cerco sempre di trovare il sedicesimo, il trentaduesimo di bicchiere pieno...
Come dice poi giustamente AlsOb qui sotto, " gli illusi che si aspettavano il paradiso hanno ottenuto la giusta punizione capitalistico imperialistica", ed è vero... da noi gruppacci che poi si scoperse passarono da Langley a ritirare la parcella cantavano "take me into the magic of the moment..", qui anche per i non anglofoni erano sempre "notti magiche", di là si mettevano in coda non più per il mausoleo di Lenin ma per i McDonald... e via! giù mazzate per tutti.
Di una cosa son contento, tuttavia. Che per una concatenazione di sfighe (in gran parte autogenerate dal mio bianco bianco nero nero, si si no no), per quattro lunghi anni (fine secolo scorso) ho lavorato, gratis e per molto di più del normale saggio di sfruttamento, tipo il mio attuale da trasportatore, a stretto contatto con lavoratori cinesi e richiedenti asilo ex-sovietici. Facendomi massicce iniezioni di vita reale, e raccontata, e documentata, e filmata, ancora (quasi) fresca, che mi ha portato a interessarmi di quello che Eros scrive da un'altra parte e che mi mancava all'appello: allo scientifico (e a Lingue Orientali era anche peggio!) mancava il nesso fra scienze naturali e cosiddetto "bagaglio umanistico".
E lì diciamo ho avuto il battesimo del fuoco. Che mi ha fatto interrogare, prima ancora che sul "COSA NON HA FUNZIONATO?", sul "COME CAVOLO FUNZIONAVA?". Da qui la mia ricerca, ormai ventennale, l'unico viaggio in Russia a botte di boršč e tessera studente con la mia prima busta paga, eccetera.
Oggi che un'idea più chiara del "come cavolo ha funzionato" ce l'ho (anche se più ricerco e più scopro cose che mi continuano a far sorgere ulteriori domande... ma tant'è!), posso dire di essere nella posizione di pormi, saltuariamente, anche la domanda "cosa non ha funzionato".
All'inizio pensavo, "ma guarda 'sti marcantoni! Avessero avuto la nostra bella Costituzione che, guarda, han provato tutti a cambiarla nella prima parte, ma li abbiamo sempre legnati..." (dai, questa possiamo annoverarla tra le "vittorie di Pirro", a metà fra le sconfitte e le pseudovittorie, tipo "articolo 18 primo tempo e metà del secondo tempo", eccetera...), e invece loro "c'era stato il referendum, c'era una Costituzione, c'era tutto... e con quattro firme han mandato carte e quarantotto tutto!" Vuol dire che la loro Costituzione non era abbastanza protetta!
Ti confesso, è una cosa che non ho del tutto escluso... cominciamo a fare un bel passaggio corte costituzionale-camere-referendum, pausa di riflessione di due o tre anni (che fretta c'è...), secondo passaggio per esser sicuri, anno sabbatico e POI, ma proprio POI POI, è possibile cambiare di una virgola la prima parte PREVIO 97% dei consensi sul totale degli aventi diritto... magari ci avrebbero messo di più a smantellarla.
Ma da sola non sarebbe bastata, come da noi non è bastata tutta la rete di protezione messa a suo tempo. E allora occorre andare un po' più a fondo nell'interrogarsi.
Resto però convinto del fatto che, almeno a questo livello di ricerca, "cosa non ha funzionato" è una domanda subordinata a "come ha funzionato": neanche "come sarebbe dovuta funzionare", proprio "come ha funzionato".
Questo, senza nulla togliere al fatto che non si va da nessuna parte senza i due cardini:
- proprietà sociale dei mezzi di produzione
- conduzione pianificata degli stessi secondo PRECISE MODALITA', ovvero,
- quello che i sovietici chiamavano "Legge fondamentale del modo socialistico di produzione" in contrapposizione alla legge fondamentale del capitalismo
- e LUNGO UN VETTORE BEN DELINEATO, ovvero "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni".
Tutto questo ci pone ulteriori interrogativi su questioni fondamentali, quali:
- partecipazione alla gestione delle attività economiche, sociali, culturali (di cui per esempio l'emulazione socialista è un importante cardine e su cui ho accennato qualcosa)
- conseguente definizione PARTECIPATA della nozione di "crescenti bisogni", come li chiamavano loro. Bisogni tesi a una sempre maggior definizione di quel "totaler mensch" marxiano o sviluppo onnilaterale всесторонное развитие lenininano, che costituisce BEN PIU' DI UN BICCHIERE MEZZO PIENO.
Eccetera eccetera. Poi noi siamo italiani, non posso inquadrare questo percorso lungo i cardini della russkaja duša, e neppure di una fantomatica "route 66" fra la via Emilia e il West... Troveremo un nostro modo di espressione, frutto della nostra partecipazione, della nostra creatività, oltre che del percorso secolare e millenario del nostro "volgo disperso" che si sarà "destato" una volta per tutte. Ma non possiamo prescindere dalla strada che qualcuno ha fatto prima di noi e che a un certo punto ha mollato lì. Più che altro per EVITARE DI SCOPRIRE L'ACQUA CALDA "NATA VOTA!" Non possiamo permettercelo... perché nel frattempo gli altri corrono, nel loro turbocapitalismo, e contro il muro poi mandano noi a sfracellarci.
Ecco allora che la mia ricerca verte su quella direzione. Scusami lo sproloquio, ma era giusto perché non passasse il concetto di una "idealizzazione" come anticamera (o brutta copia!) della "sclerosi". Il mio è uno studio "di parte", наше дело правое!, ma non con le fette di salame sugli occhi!
A proposito di fette di salame.. buon appetito!
Paolo