Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Teoria del valore-lavoro, totalità dello sviluppo ed egemonia della classe operaia

di Eros Barone

metalmeccanici 1969 scioperoL’oggettività del valore delle merci si distingue da Mrs. Quickly perché non si sa dove trovarla. In diretta contrapposizione all’oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci, nemmeno un atomo di materiale naturale passa nell’oggettività del valore delle merci stesse. Quindi potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile. Tuttavia, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressioni di una identica unità sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale, e allora sarà ovvio che quest’ultima può presentarsi soltanto nel rapporto sociale tra merce e merce.

Karl Marx 1

1. L’unica merce che produce valore

L’analisi che Marx conduce nel I libro del Capitale mostra una rete di scambi in cui si incrociano quantità di lavoro differenti, in una parola scambi ineguali. Si tratta allora di comprendere quale posto hanno questi processi nell’analisi complessiva di Marx, al fine di comprendere, fra le altre cose, l’importanza politica che tali problemi assumevano agli occhi dello stesso Marx. E qui si colloca una pietra angolare dell’analisi della società capitalistica, poiché all’interno di quella rete di scambi esiste uno scambio che assolve un ruolo assiale, definendo la società capitalistica e determinandone la differenza rispetto alla società mercantile: lo scambio tra salario e forza-lavoro.

Sennonché, come è noto, affinché tale scambio possa prodursi occorre che sia venuto a compimento in precedenza un lungo e tormentato processo storico, che ha portato alla polarizzazione, da una parte, dei proprietari dei mezzi di produzione e, dall’altra, di coloro che non posseggono altro che la loro forza-lavoro. Le condizioni storiche d’esistenza del capitale infatti «non sono affatto date di per se stesse con la circolazione delle merci e del denaro. Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale. Quindi il capitale annuncia fin da principio un’epoca del processo sociale di produzione». 2

Questo scambio è il vero, autentico motore della società capitalistica, perché è per definizione uno scambio ineguale, perché esso significa di fatto appropriazione, da parte del capitalista, del valore d’uso specifico della forza-lavoro, della sua specifica capacità di creare valore e quindi di incrementare e valorizzare il capitale. Marx insiste molto su questa specificità del valore d’uso della forza-lavoro, giacché il suo intento non è solo quello di sottolineare la perfetta organicità tra la condizione di merce della forza-lavoro e lo sfruttamento capitalistico, ma anche quello di conferire la massima evidenza al ruolo che svolge la forza-lavoro umana come unica merce che produce, crea valore. Perché tanta insistenza? La ragione è ovvia: ciò che costituisce la differentia specifica tra lo scambio di salario e forza-lavoro ed altri scambi ineguali, che pure si possono produrre su altri mercati che non siano appunto quello della forza-lavoro, è la circostanza per cui, mentre nel primo caso l’ineguaglianza dello scambio deriva da un processo nel quale si forma un valore nuovo, un valore che precedentemente non esisteva, nel secondo caso si tratta di un’ineguale ripartizione e distribuzione del valore già esistente: lo scambio è ineguale perché in esso si intersecano quantità di lavoro diverse.

La differenza risulta con chiarezza anche nelle sue implicazioni politiche: mentre per la classe operaia la radice dello sfruttamento risiede nella riduzione a merce della propria forza-lavoro, ossia nella sua separazione sociale dai mezzi di produzione, nella sua sussunzione all’interno di un rapporto di scambio, per i soggetti sfavoriti nello scambio su altri mercati si tratta invece di una violazione del criterio di equivalenza che regola lo scambio. Dunque, la radice dello sfruttamento non è nel prezzo che il capitalista paga all’operaio, giacché tale prezzo corrisponde al valore (storicamente variabile) della forza-lavoro, ma è nella separazione tra produttori e strumenti di produzione. La centralità della classe operaia nel processo rivoluzionario nasce quindi (sia detto in linea di principio, poiché empiricamente la coscienza di classe varia nelle diverse congiunture storiche) da ciò, che essa, ut talis, lotta per l’abolizione della separazione tra produttori e strumenti di produzione, ossia per il socialismo/comunismo, mentre gli altri soggetti lottano per la restaurazione integrale della legge dello scambio. In altri termini, la prima lotta contro quella legge, i secondi per la sua universale applicazione. È questa la differenza che intercorre, dal punto di vista storico, tra la rivoluzione proletaria e la rivoluzione democratico-borghese, e, dal punto di vista del livello raggiunto dalla coscienza di classe, tra una posizione tradunionista o riformista e una posizione rivoluzionaria.

Marx pone in evidenza la netta cesura esistente fra i due tipi di scambio e i due tipi di rapporto con la società capitalistica che ne derivano: se la classe operaia diviene ciò che è, ovvero una classe che critica in radice la società fondata sullo scambio e la sua scienza, l’economia politica, i soggetti sociali colpiti da un’ineguale ripartizione del valore creato dalla classe operaia (piccola e media borghesia, ‘mezze classi’, ceti intermedi e strati salariati non produttori di valore) lottano per il pieno rispetto della legge del valore e, più in generale, delle leggi dell’economia politica.

D’altra parte, se la preoccupazione di Marx fosse stata esclusivamente quella di porre in evidenza tale cesura, di sottolineare come la società capitalistica si fondi sullo sfruttamento della classe operaia, di mettere in luce l’esemplare filisteismo del principio dello scambio, la sua organicità allo sfruttamento della classe operaia, insomma se Marx si fosse voluto limitare a questo semplice intento, probabilmente gli sarebbe bastato arrestarsi all’ultima pagina del I volume del Capitale, dove viene svelato l’arcano della produzione borghese: l’organicità di scambio e sfruttamento. Come si spiega però l’attenzione che egli continuò a prestare ai problemi della formazione dei prezzi e del loro rapporto con i valori? E come si spiega la prima sezione del I volume del Capitale, il cui cardine è la determinazione del criterio che regola le ragioni di scambio tra le merci?

 

2. Teoria dello sfruttamento senza teoria del valore: una critica monca

Orbene, il significato di queste domande si chiarisce soltanto se si comprende la loro ragione, che è insieme e inscindibilmente teorica e politica. Si tratta, cioè, di capire che l’intenzione che animava la ricerca di Marx era quella di mettere a punto nel Capitale non solo le categorie per una critica operaia della società capitalistica, ma qualcosa di più: gli strumenti teorici per l’emancipazione della classe operaia. Quegli strumenti grazie ai quali la classe operaia poteva non solo riconoscere la propria schiavitù, ma superare il livello della propria coscienza spontanea per giungere a costruire la propria coscienza politica attraverso una visione capace di inquadrare la totalità dello sviluppo capitalistico.

A questo punto, la preoccupazione, sempre viva in Marx, di fornire una teoria del valore delle merci e del loro valore di scambio non sembra più la semplice preoccupazione dello scienziato di dare una risposta ai classici del pensiero economico borghese, ma si rivela come strettamente funzionale al progetto di fornire un fondamento scientifico alla politica rivoluzionaria della classe operaia. Quando Marx scrive Il Capitale sa già che la «lotta di classe contro classe è lotta politica», 3 ma sa anche che il problema centrale è quello di una fondazione scientifica della lotta della classe operaia come lotta politica, del passaggio dalla classe in sé alla classe per sé. E invero, se la preoccupazione di Marx fosse stata soltanto quella di svelare i rapporti di dominio su cui si fonda la società capitalistica, a questo fine sarebbe stato sufficiente formulare una teoria dello sfruttamento dando come presupposte le ragioni di scambio tra le merci e quindi non vincolando necessariamente il proprio ragionamento ad una teoria del valore. Una teoria dello sfruttamento così fondata ha una sua plausibilità anche se prescinde, convertendolo in un presupposto, dal problema dei prezzi e delle ragioni di scambio tra le merci. Pur non essendo una teoria del valore, è una teoria dello sfruttamento e, pur non affrontando direttamente il problema del criterio secondo il quale si formano e si costruiscono le ragioni di scambio tra le merci, permette tuttavia di descrivere un aspetto fondamentale della società capitalistica: il suo reggersi sulla appropriazione di lavoro non pagato, sullo sfruttamento della classe operaia.

Certamente riuscire a descrivere quest’aspetto della società capitalistica è essenziale, perché consente di mostrarne l’arcano, di ribadire il fine che deve essere sotteso alla lotta politica della classe operaia: la sua liberazione dalle catene del lavoro salariato, il superamento della separazione tra produttori e strumenti di produzione, la costruzione di una società senza classi fondata sull’autogoverno dei produttori. Ma, come si è detto, Marx, con Il Capitale, intende costruire gli strumenti teorici idonei ad esplicare una critica complessiva del processo sociale di produzione e ad investire la totalità dello sviluppo capitalistico.

La disgiunzione del concetto di sfruttamento dalla teoria del valore-lavoro, la disarticolazione di quella relazione che Marx istituisce nel Capitale, comporta quindi conseguenze di non poco conto, così sul piano teorico come sul piano politico: conseguenze che sfociano in una visione ove tutta la complessa fenomenologia del processo di formazione del mercato si appiattisce in una riproduzione scalare dell’unica realtà dello sfruttamento della classe operaia. Quella disgiunzione e quella disarticolazione hanno pertanto un prezzo assai alto sul piano politico, poiché circoscrivono l’azione della classe operaia all’interno della fabbrica, limitando la visuale dei lavoratori alla pura osservazione del proprio processo di sfruttamento e lasciando, quanto meno a livello analitico e sul terreno dell’agitazione, che il processo di formazione del mercato sia un problema esclusivo del capitalista e che la direzione dello sviluppo capitalistico non sia oggetto di critica da parte del movimento di classe. In questo senso, la problematica della pianificazione economica, riproposta negli ultimi tempi da più parti, è il sintomo positivo di un potenziamento e di un allargamento della visuale teorica e politica del movimento di classe. 4

 

3. Dalla teoria alla politica, dalla classe in sé alla classe per sé

A questo punto è allora nitida sino in fondo l’intenzione di Marx: la costruzione della teoria del valore coincide con il tentativo di elaborare gli strumenti teorici necessari alla costruzione della coscienza politica della classe operaia, della sua capacità di confrontarsi con tutte le contraddizioni dello sviluppo e della crisi del capitalismo, così come con l’apparato di dominio complessivo che media nella società le istanze del modo di produzione capitalistico e organizza con lo Stato il consenso a questo modo di produzione. Perciò, in forza di quella disgiunzione e di quella disarticolazione si impedisce alla teoria di superare il livello della coscienza spontanea della classe operaia, che viene bloccata nell’osservazione, pur essenziale, dei rapporti immediati tra capitalista ed operaio. Scompare in tal modo quello che è stato un problema di Marx e dei classici del socialismo scientifico, quello che è stato il problema del giovane Lenin: l’analisi del processo di formazione del mercato, 5 che va individuata oggi in base alle dimensioni, regionali e globale, che a tale processo ha conferito il capitalismo monopolistico transnazionale. Quella disarticolazione in altri termini rischia di porre un diaframma troppo netto tra Marx e Lenin (un diaframma che a questo punto non sarebbe solo teorico, ma anche politico), impedendo di individuare il terreno che pure è comune ad entrambi: il terreno dell’analisi delle contraddizioni che percorrono il processo di sviluppo/crisi del capitalismo.

 

4. Teoria del valore e analisi del capitalismo

È un grande merito di Paul Mattick quello di aver ripreso la teoria dell’accumulazione di Marx e di aver mostrato che il capitalismo contemporaneo, lungi dall’aver alterato le condizioni di validità della teoria marxiana del valore, ne costituisce l’ultima conseguenza, sviluppatasi logicamente dalle leggi dell’accumulazione del capitale. 6 Così facendo, Mattick ha tagliato il nodo gordiano di molte discussioni erroneamente impostate sulla teoria del valore di Marx. 7 In particolare, la critica secondo cui la legge del valore avrebbe come condizione di validità un regime economico di libera concorrenza e cesserebbe in una situazione di mercato monopolistico, critica accreditata, ad esempio, da Baran e Sweezy, 8 appare essere priva di fondamento. Come Mattick fa vedere, 9 la teoria del valore non è una teoria dei prezzi relativi, in quanto il suo status logico non è quello degli empirici rapporti di mercato. Il fatto che il prezzo di monopolio non possa coincidere con il valore è, in questo caso, una banalità che non ha niente che fare con una ‘confutazione’ della teoria del valore, in quanto per Marx sono i rapporti di produzione che permettono di spiegare i fenomeni del mercato, così come la concentrazione del capitale e il predominio del monopolio che ne conseguono. Il prezzo di monopolio è quindi intelligibile soltanto partendo dalla legge del valore, allo stesso modo in cui le deviazioni da una legge sono soltanto intelligibili sulla base della legge stessa.

La legge del valore si configura pertanto come l’espressione della struttura centrale e delle tendenze storiche di una società i cui rapporti di produzione si fondano sulla divisione del lavoro e sulla proprietà privata. Da questo punto di vista, la legge del valore mostra come la produttività del lavoro umano debba esprimersi in termini di valorizzazione, ossia in termini di accumulazione del capitale, fermo restando che l’accumulazione del capitale sociale totale è il quadro in cui l’accumulazione dei capitali singoli, e quindi anche i prezzi come rapporti empirici di scambio, diventano intelligibili e scientificamente spiegabili.

Insomma, la divaricazione tra prezzi e valori non è la, da più parti conclamata, smentita della teoria, ma il segno di un processo sociale che, avendo modificato le condizioni dell’equilibrio perfetto, attende la sua spiegazione. Sennonché questa spiegazione non può venire da una nuova teoria del valore e dei prezzi (o, ad esempio, da qualche ircocervo ricardiano-walrasiano-sraffiano), ma soltanto dallo sviluppo dell’analisi sociale materialistica: l’equazione di prezzi e valori presuppone un certo rapporto tra i produttori, la divaricazione tra prezzi e valori indica che questo rapporto si è modificato; l’analisi delle ragioni che presiedono a tale divaricazione è l’unico strumento che consente di comprendere la dinamica concreta dello sviluppo capitalistico. La mancata coincidenza di prezzi e valori, di ragioni di scambio e quantità di lavoro, l’ineguaglianza dello scambio non è la smentita della teoria, ma è l’ineguaglianza stessa dello sviluppo capitalistico; la divaricazione tra prezzi e valori non è la contraddizione tra il fatto e la teoria, ma la fenomenologia concreta dello sviluppo capitalistico in quanto sviluppo ineguale; l’astrazione dei prezzi dai valori è un’astrazione reale.

Di fronte a questo fenomeno (la divaricazione tra valori e prezzi) due ipotesi appaiono allora in tutta la loro debolezza (debolezza che si appalesa nel modo più chiaro a proposito della ‘vexata quaestio’ della cosiddetta trasformazione dei valori in prezzi di produzione): da una parte, quella che di fronte alla suddetta divaricazione risponde dichiarando la irrilevanza del processo di formazione dei prezzi in Marx e demandando così il tema dello sviluppo alla direzione del capitale; dall’altra, quella che, muovendosi nella direzione esattamente opposta, di fronte a questo fenomeno risponde dichiarando l’incapacità della teoria del valore-lavoro nel ricostruire il processo di formazione dei prezzi. Peraltro, spesso accade che l’operaismo della prima debba fare ricorso, allorché vuole misurarsi con il tema dello sviluppo, all’economicismo volgare della seconda ipotesi.

A questo punto, è possibile vedere un vizio che accomuna entrambi questi atteggiamenti nel loro atteggiarsi di fronte al problema della divaricazione tra prezzi e valori: in entrambi i casi, di fronte alla tensione dipolare che si produce tra il valore e la sua forma fenomenica (il prezzo), la reazione è quella di elidere la tensione sopprimendo uno dei due poli tra i quali quella tensione si produce: nel primo caso negando la rilevanza del problema dei prezzi, nel secondo caso mettendo in discussione la ‘validità’ della teoria del valore-lavoro. Si recide così qualsiasi legame tra teoria del valore-lavoro e processo di sviluppo/crisi del capitalismo, eludendo proprio quel compito di potenziamento ed allargamento del raggio d’azione della critica dell’economia politica rispetto al tema del processo complessivo di sviluppo/crisi del capitalismo, di cui proprio la divaricazione tra valori e prezzi fonda la concreta possibilità. 10

In entrambi i casi rimane scoperto, innanzitutto sul piano teorico e quindi strategico, tutto quel terreno di analisi che coincide con il processo di formazione del mercato (non solo nazionale), su cui il capitale può esercitare indisturbato la sua direzione teorico-pratica. Non a caso è stato proprio questo il terreno d’analisi che, per primo dopo Marx, Lenin ha esplorato; 11 non a caso questo compito è stato quello sul quale si sono misurati i grandi dirigenti del movimento operaio internazionale. È su questo terreno infatti che vanno costruite in concreto la teoria della rivoluzione proletaria e l’egemonia della classe operaia.


Note
1 K. Marx, Il capitale, libro I, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 79.
2 Ivi, pp. 202-203.
3 Il passo, che giova riportare per esteso, è tratto dall’ultimo capitolo della Miseria della filosofia, intitolato Gli scioperi e le coalizioni degli operai, in cui Marx, polemizzando con Proudhon il quale sosteneva che un rialzo dei salari era destinato a provocare il rialzo dei prezzi (correlazione poi formalizzata in altri termini da Ferdinand Lassalle come “legge bronzea dei salari”), elabora tre tesi fondamentali del socialismo scientifico: a) la necessità delle coalizioni degli operai ed il loro valore rivoluzionario; 2) la lotta di classe come lotta politica; 3) la prospettiva dell’abolizione delle classi. Ed ecco il passo in questione: «Le condizioni economiche avevano dapprima trasformato la massa della popolazione del paese in lavoratori. La dominazione del capitale ha creato a questa massa una situazione comune, interessi comuni. Così questa massa è già una classe nei confronti del capitale, ma non ancora per se stessa. Nella lotta… questa massa si riunisce, si costituisce in classe per se stessa. Gli interessi che essa difende diventano interessi di classe. Ma la lotta di classe contro classe è una lotta politica» (K. Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 145).
4 Degno di nota, anche se condizionato da una prospettiva neoriformista che induce a coltivare illusioni sulla possibilità della pianificazione in un regime capitalistico, è il libro recente di Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020, ove viene formulata, non in opposizione ma neanche in coerenza con la legge marxiana della caduta tendenziale del saggio medio di profitto, la cosiddetta “legge di riproduzione e tendenza del capitale”.
5 Non si dimentichi che il sottotitolo dello Sviluppo del capitalismo in Russia è Processo di formazione del mercato interno (cfr. V. I. Lenin, op. cit., in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1969, vol. III, pp. 3-669).
6 P. Mattick, Marx e Keynes, De Donato, Bari 1972.
7 Mi sia permesso segnalare in questa stessa sede, oltre a vari commenti sugli articoli concernenti tale tema, i seguenti contributi:
https://www.sinistrainrete.info/marxismo/17340-eros-barone-la-teoria-del-valore-nel-capitalismo-e-nel-socialismo-comunismo.html e https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/20756-eros-barone-due-pilastri-della-teoria-marxista.html.
8 Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968 (ed. or. Monthly Review Press, New York 1966), p. 5: «… l’analisi marxista del capitalismo, in fondo, riposa ancora sul presupposto di una economia concorrenziale».
9 P. Mattick, op. cit., cap. 3.
10 Cfr. il paragrafo 2 del presente articolo.
11 Naturalmente, non va dimenticato, pur con tutti i suoi limiti ma anche con numerosi elementi di convergenza rispetto all’opera di Lenin, l’importante ruolo svolto da Karl Kautsky, sulla cui Agrarfrage mi sia consentito di segnalare il seguente articolo:
https://www.sinistrainrete.info/teoria/20581-eros-barone-alla-ricerca-dell-alleato-la-agrarfrage-di-karl-kautsky.html. Si tenga presente che la Agrarfrage di Kautsky e lo Sviluppo del capitalismo in Russia di Lenin sono, quanto alla pubblicazione, coevi, essendo entrambi apparsi nel 1899. Va però notato che la prima raccoglie, per la maggior parte, articoli che l’autore era venuto pubblicando sulla «Neue Zeit» a partire dai dibattiti agrari del 1894-95.

Comments

Search Reset
0
Eros Barone
Monday, 26 July 2021 19:37
Riprendo e cerco di sviluppare un concetto chiave - quello di "Doppelform" - su cui si sono soffermati, se non erro, Paolo e Alfonso. Orbene, lo spazio teorico in cui si costituisce la dialettica della liberazione del proletariato è dischiuso proprio dalla radicale dissimmetria che caratterizza il ‘Doppelcharakter’ del lavoro rappresentato nelle merci (ragione per cui ciò che conta non è che la merce sia qualcosa di duplice, insieme valore d’uso e valore di scambio, cosa ovvia ai tempi di Marx, ma che il lavoro espresso nel valore abbia caratteristiche diverse dal lavoro produttore di valore d’uso: cosa, questa, che non solo era ignota al pensiero di quel tempo, ma rappresenta inoltre la scoperta fondamentale che sta alla base del "Capitale"). Il passaggio cruciale per la transizione dal capitalismo al comunismo si identifica allora con il passaggio dal lavoro contenuto nella merce alla classe operaia contenuta nel capitale, in quanto la ‘zwieschlächtige Natur’ della classe operaia consiste nell’essere insieme lavoro concreto e lavoro astratto, lavoro e forza-lavoro, valore d’uso e lavoro produttivo, capitale e non-capitale: in altri termini capitale e classe operaia, quindi, nello stesso tempo, capitale variabile (che riproduce la forza-lavoro e genera il plusvalore) e potenza della cooperazione dei produttori associati. Ma proprio perché la classe operaia è parte del capitale, essa non può negare il capitale se non negando se stessa in quanto capitale (= necessità permanente, affermata con il massimo rigore dai maestri del socialismo scientifico, della lotta contro il revisionismo, contro il riformismo, contro l’opportunismo, cioè contro tutte le forme di subordinazione della classe operaia al capitale derivanti dalla ‘natura duplice’ di tale classe): «La rivoluzione – sottolinea infatti Marx – non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume».
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Sunday, 25 July 2021 06:49
Ringrazio Paolo per i video musicali che ci ha postato, i quali contribuiscono a smorzare la tetraggine e l'apparente pessimismo dei miei interventi.

Nessuno qui intende dare una descrizione negativa o sprezzantemente critica dell'esperienza sovietica, il primo grandioso e glorioso (solo la sua fine fu ingloriosa) tentativo di edificare una società di uguali e di veramente liberi.

Al contrario la lealtà a quella storia (e per far sì che essa non sia passata invano) esige non che ci si fermi a quello che loro sapevano già e a venerare ciò che loro seppero fare, ma che si indaghi e si capisca (con tutti i nostri limiti spirituali, mentali e materiali) cosa fu che non funzionò, per scoprire quello che loro ancora non potevano sapere e per divenire capaci di fare di più e di meglio.

Si deve essere capaci di guardare in faccia la tragedia e di accettare (razionalmente) il fallimento, per trovare la forza di uscire dalla paralisi pietrificante che ci ha colpiti.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Sunday, 25 July 2021 20:11
Con permesso mi inserisco qui per difficoltà a dipanarmi in anguste strettoie. Paolo non me ne voglia. Rispondo a Fabio su Geymonat. Se fosse vivo avrei suggerito di andarlo a trovare. Lo conobbi una quarantacinquina di anni fa, era molto attento a quello che poteva dire anche uno che veniva dal paesello come me, se operaio meglio. A me mancava salivazione, per capirci. Insomma, era stato comandante partigiano, e tutto il resto, una examined life a tutto campo. Eleonora Fiorani era più politica, se vogliamo. Quello che voglio dire, se questi, come anche i Gianfranco, sembravano Montale: "solo questo possiamo dirvi....organizieren organizieren organizieren", avranno avuto gli stessi crucci, e non per voler evitare la partiticità come la chiama Eros. È che non puoi scalare, fatti certi passi. Quindi, le biografie dei rivoluzionari sono un po' come le biografie dei matematici: permettono di orientarsi nei crucci che ci si trova....di fronte. Grazie
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Monday, 26 July 2021 00:38
Su Ludovico Geymonat, oggetto di un riferimento ironico che Rontini si poteva risparmiare, aggiungo due considerazioni a quelle di Alfonso. La prima riguarda, oltre al profilo intellettuale del pensatore eminente e del divulgatore rigoroso, cioè del filosofo che sa ‘pensare difficile e mostrare semplice’, il profilo politico di un militante comunista che, in un paese dominato dalla ricerca del compromesso sui princìpi e dall’opportunismo, ha costantemente espresso un impegno lucido e generoso nella lotta per la trasformazione sociale. La seconda riguarda il profilo etico di Geymonat, che mi piace ricordare con un passo tratto da un testo nel quale egli esamina dieci sentimenti esemplari, che vanno dalla collaborazione all’odio, dall’amore alla superbia (cfr. "I sentimenti", libro di cui consiglio vivamente la lettura per l’alto valore delle analisi e delle riflessioni che contiene). A proposito della lotta e della violenza (che egli distingue in violenza fisica e in “una violenza più velata e civile, ma non meno aspra né meno spietata” della prima), Geymonat osserva quanto segue: “Il vero nemico non è oggetto di odio né di disprezzo: è oggetto di lotta. Egli è un ostacolo al compimento di un nostro progetto e, come tale, va necessariamente abbattuto. La constatazione di questa necessità non impedisce che si riconosca a lui il diritto di combatterci, e si parli di lui con rispetto comprendendo il suo valore e la sua energia. Ciò che separa i due avversari non è un sentimento di odio, ma la constatazione che i fini, cui essi tendono, sono fatalmente incompatibili tra loro”. L’autore, che aveva scritto queste righe nel corso della lotta partigiana, precisa in una nota che, alla luce delle esperienze del secondo dopoguerra, quanto da lui notato a pro-posito della “violenza più velata e più civile” dimostra “la sua scarsa fiducia nelle lotte condotte entro il quadro designato come ‘Stato di diritto’”.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Monday, 26 July 2021 09:35
Il livello di comprensione che dimostro di possedere sui meccanismi dell’ironia è talmente basso che non capisco neanche l'ironia che pratico, forse involontariamente, io stesso.

Quando ho scritto: "mi pare di capire che devo leggere Geymonat" intendevo fare nient'altro che un'ammissione di ignoranza. Davvero nessuna ironia nè su Geymonat, nè su Barone, nè su nessun altro.

Se poi l'ho fatto, magari ignorando certi meccanismi delle chat che possono portare a dei fraintendimenti, oppure in qualunque altro modo potesse succedere, allora me ne scuso.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Monday, 26 July 2021 07:56
Per esplicitare la metafora, altrimenti dite che indico troppi gelsi per 'ste maledette acacie, il mio voleva essere un omaggio a Jean Cavaillès. Ce n'erano e ce ne sono tanti, di quello stampo. Grazie
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Paolo Selmi
Sunday, 25 July 2021 11:47
E di cosa Fabio! è stato un piacere.

Non so quanti anni hai, ma dal basso dei miei 47 anni posso dare questo stupendo bilancio:
- "zero titul", ma proprio z dolce, anzi, pronunciato alla modenese con anche la "e" spalancata.
- qualche pseudovittoria, tipo lo zapatismo di quando avevo vent'anni, e che se ne è andato via con i miei vent'anni... "filosofando pure sui perché", come cantava il barbone di Pàvana.
- tutto il resto... grandi e sonore mazzate.
Persino ai ferraristi è andata meglio! :-)

Quindi, per natura, cerco sempre di trovare il sedicesimo, il trentaduesimo di bicchiere pieno...

Come dice poi giustamente AlsOb qui sotto, " gli illusi che si aspettavano il paradiso hanno ottenuto la giusta punizione capitalistico imperialistica", ed è vero... da noi gruppacci che poi si scoperse passarono da Langley a ritirare la parcella cantavano "take me into the magic of the moment..", qui anche per i non anglofoni erano sempre "notti magiche", di là si mettevano in coda non più per il mausoleo di Lenin ma per i McDonald... e via! giù mazzate per tutti.

Di una cosa son contento, tuttavia. Che per una concatenazione di sfighe (in gran parte autogenerate dal mio bianco bianco nero nero, si si no no), per quattro lunghi anni (fine secolo scorso) ho lavorato, gratis e per molto di più del normale saggio di sfruttamento, tipo il mio attuale da trasportatore, a stretto contatto con lavoratori cinesi e richiedenti asilo ex-sovietici. Facendomi massicce iniezioni di vita reale, e raccontata, e documentata, e filmata, ancora (quasi) fresca, che mi ha portato a interessarmi di quello che Eros scrive da un'altra parte e che mi mancava all'appello: allo scientifico (e a Lingue Orientali era anche peggio!) mancava il nesso fra scienze naturali e cosiddetto "bagaglio umanistico".

E lì diciamo ho avuto il battesimo del fuoco. Che mi ha fatto interrogare, prima ancora che sul "COSA NON HA FUNZIONATO?", sul "COME CAVOLO FUNZIONAVA?". Da qui la mia ricerca, ormai ventennale, l'unico viaggio in Russia a botte di boršč e tessera studente con la mia prima busta paga, eccetera.

Oggi che un'idea più chiara del "come cavolo ha funzionato" ce l'ho (anche se più ricerco e più scopro cose che mi continuano a far sorgere ulteriori domande... ma tant'è!), posso dire di essere nella posizione di pormi, saltuariamente, anche la domanda "cosa non ha funzionato".

All'inizio pensavo, "ma guarda 'sti marcantoni! Avessero avuto la nostra bella Costituzione che, guarda, han provato tutti a cambiarla nella prima parte, ma li abbiamo sempre legnati..." (dai, questa possiamo annoverarla tra le "vittorie di Pirro", a metà fra le sconfitte e le pseudovittorie, tipo "articolo 18 primo tempo e metà del secondo tempo", eccetera...), e invece loro "c'era stato il referendum, c'era una Costituzione, c'era tutto... e con quattro firme han mandato carte e quarantotto tutto!" Vuol dire che la loro Costituzione non era abbastanza protetta!

Ti confesso, è una cosa che non ho del tutto escluso... cominciamo a fare un bel passaggio corte costituzionale-camere-referendum, pausa di riflessione di due o tre anni (che fretta c'è...), secondo passaggio per esser sicuri, anno sabbatico e POI, ma proprio POI POI, è possibile cambiare di una virgola la prima parte PREVIO 97% dei consensi sul totale degli aventi diritto... magari ci avrebbero messo di più a smantellarla.

Ma da sola non sarebbe bastata, come da noi non è bastata tutta la rete di protezione messa a suo tempo. E allora occorre andare un po' più a fondo nell'interrogarsi.

Resto però convinto del fatto che, almeno a questo livello di ricerca, "cosa non ha funzionato" è una domanda subordinata a "come ha funzionato": neanche "come sarebbe dovuta funzionare", proprio "come ha funzionato".

Questo, senza nulla togliere al fatto che non si va da nessuna parte senza i due cardini:
- proprietà sociale dei mezzi di produzione
- conduzione pianificata degli stessi secondo PRECISE MODALITA', ovvero,
- quello che i sovietici chiamavano "Legge fondamentale del modo socialistico di produzione" in contrapposizione alla legge fondamentale del capitalismo
- e LUNGO UN VETTORE BEN DELINEATO, ovvero "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni".
Tutto questo ci pone ulteriori interrogativi su questioni fondamentali, quali:
- partecipazione alla gestione delle attività economiche, sociali, culturali (di cui per esempio l'emulazione socialista è un importante cardine e su cui ho accennato qualcosa)
- conseguente definizione PARTECIPATA della nozione di "crescenti bisogni", come li chiamavano loro. Bisogni tesi a una sempre maggior definizione di quel "totaler mensch" marxiano o sviluppo onnilaterale всесторонное развитие lenininano, che costituisce BEN PIU' DI UN BICCHIERE MEZZO PIENO.

Eccetera eccetera. Poi noi siamo italiani, non posso inquadrare questo percorso lungo i cardini della russkaja duša, e neppure di una fantomatica "route 66" fra la via Emilia e il West... Troveremo un nostro modo di espressione, frutto della nostra partecipazione, della nostra creatività, oltre che del percorso secolare e millenario del nostro "volgo disperso" che si sarà "destato" una volta per tutte. Ma non possiamo prescindere dalla strada che qualcuno ha fatto prima di noi e che a un certo punto ha mollato lì. Più che altro per EVITARE DI SCOPRIRE L'ACQUA CALDA "NATA VOTA!" Non possiamo permettercelo... perché nel frattempo gli altri corrono, nel loro turbocapitalismo, e contro il muro poi mandano noi a sfracellarci.

Ecco allora che la mia ricerca verte su quella direzione. Scusami lo sproloquio, ma era giusto perché non passasse il concetto di una "idealizzazione" come anticamera (o brutta copia!) della "sclerosi". Il mio è uno studio "di parte", наше дело правое!, ma non con le fette di salame sugli occhi!

A proposito di fette di salame.. buon appetito!
Paolo
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
AlsOb
Sunday, 25 July 2021 01:20
In un recente articolo didascalico del Bollettino Culturale, proposto alla lettura su questo sito, dal titolo, L'originalità della Teoria del Crollo di Henryk Grossman, emerge come un grosso problema per la sinistra sia da lungo tempo quello di capire la dinamica del capitalismo secondo categorie marxiane, che non siano di convenienza e sclerotizzate. Questo per rimuovere e ostracizzare uno dei pochissimi cervelli che potevano avvicinarsi a Marx, quello di Rosa Luxemburg.
Se già il nucleo centrale economico di Marx non viene colto o elaborato o investigato secondo prospettive adeguate, le parti più filosofiche/psicologiche aggiunte finiscono per essere un elemento appiccicato o di surrogazione, nel tentativo di derivare da Marx una rassicurante dottrina politica di riferimento.
Così il pervenire alla critica del presunto aspetto “ossimorico”, cioè “scientifico-utopistico” del concetto di comunismo in Marx , sembra creare il fatto che, a prescindere dalle categorie analitico economiche, che possono anche non essere adeguatamente conosciute, sia centrale l'ottimismo teologico di Marx. Il che ha una sua legittimità e probabilmente utilità, se l'interpretazione teologica fosse adeguata, tuttavia già Marx aveva maturato una visione o percezione minimamente problematicizzata in merito, come si evince dalle continue ricerche e studi sulla evoluzione del sistema finanziario e suoi rapporti con le crisi e dalle considerazioni sulla comune russa, quando non esclude che configurazioni strutturali e spirituali, caratterizzate da un percorso storico economico differente, possano generare condizioni ugualmente appropriate per un salto verso la socializzazione dei mezzi di produzione.

Indubbiamente l'incapacità da parte di Stalin di prepararsi la successione e il sorprendente violento, scomposto e emozionale attacco di Khrushchev contro Stalin stesso, in un quadro di incomprensione e incapacità di definire politiche economiche, monetarie e di istruzione che non fossero slla fine subalterne alla propaganda e ideologia capitalista, ha segnato, con il logico contorno di senza cervello, il cammino verso il disastro nazionale e di una idea di comunismo. Ma gli illusi che si aspettavano il paradiso hanno ottenuto la giusta punizione capitalistico imperialistica.
Le critiche pertanto, specie se romantiche e intellettualistiche, possono essere tanto unilaterali e sclerotizzate quanto criticati dogmatici schematismi.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Thursday, 22 July 2021 18:52
Ho imparato da György Lukács, il maggiore filosofo marxista del ’900, che la società capitalistica costituisce una totalità interconnessa; ma ho anche imparato, fra gli altri, da Ludovico Geymonat, il maggiore filosofo della scienza che abbia avuto il nostro paese nella seconda metà del ’900, che il potenziale critico e conoscitivo, che le categorie del materialismo storico e dialettico contengono, nasce dalla sintesi tra le ‘sensate esperienze’ e le ‘certe dimostrazioni’: sintesi che solo il metodo scientifico (da Galileo ad Einstein) è in grado di compiere. Naturalmente, tutto ciò può funzionare a condizione che ci si liberi sia dall’inganno grossolano sulla ‘fine delle ideologie’, sia dalle mistificazioni post-moderne sulla ‘fine delle grandi narrazioni’ (che sono una variante sofisticata di quell’inganno), sia da una concezione filologica e culturalistica della teoria marx-engelsiana, sia da un generico, ancorché generoso, apocalittismo di sinistra, per ‘tornare alle cose stesse’, per riprendere il contatto con i duri fatti, che dànno sostanza alle lotte fra le classi che si sviluppano in questo inizio del XXI secolo. Un inizio non separabile (bensì connesso da mille fili) a quell’epoca che si può definire, richiamando (e nel contempo integrando) una definizione classica, come epoca dell’imperialismo, delle guerre, delle rivoluzioni proletarie e dei primi grandiosi esperimenti, temporaneamente sconfitti, di costruzione del socialismo. Ma la condizione essenziale per dimostrare la forza teorico-pratica del punto di vista marxista nella conoscenza della complessa fenomenologia delle società capitalistiche e degli Stati borghesi contemporanei consiste nel non dimenticare mai che la critica dell’economia politica e la critica dell’ideologia hanno valore solo in quanto contribuiscono allo sviluppo di un più generale movimento di classe, solo in quanto sono l’altra faccia di una strategia proletaria di avanzata verso il socialismo. In effetti, le due istanze complementari che definiscono la dottrina marxista (‘analisi positiva del presente’ e ‘critica spietata dell’esistente’), per quanto valide sul piano teorico, resterebbero monche, unilaterali e inefficaci, rischiando, a loro volta, di degradare in ideologia, se non si saldassero al “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, se, cioè, il marxismo si esaurisse in un esercizio critico-interpretativo senza conseguenze ideali e politiche e non fosse capace di fornire una direttiva precisa al movimento di classe, ossia di essere, come diceva Engels, “una guida per l’azione”. So bene che i tempi che stiamo vivendo sono quanto mai difficili, se non cupi: le conferme di tale giudizio, dalle guerre in Africa e nel Vicino Oriente agli episodi sempre più numerosi e pericolosi di contrasti armati fra i poli imperialisti, non mancano (tralascio la pandemia poiché, a mio avviso, essa è soltanto un sintomo rivelatore, non una causa efficiente, della crisi generale che si sta svolgendo). Tuttavia, lungi dall’essere finita, la storia continua e mostra in modo sempre più chiaro di avere il suo motore nella lotta fra le classi, anche se tale lotta, che si svolge avendo come teatro il mercato capitalistico mondiale e come protagoniste classi e masse che emergono da un passato feudale o semifeudale, è inestricabilmente intrecciata ai fattori di razza, di nazione e di religione. E proprio perché la storia continua, per l’essenziale, lungo il tracciato scoperto 173 anni fa da Marx e da Engels, i naturali destinatari dei miei contributi sono i lavoratori politicamente coscienti e sindacalmente organizzati, che sanno che la loro lotta sarebbe una vana fatica di Sisifo se, oltre al posto di lavoro e al salario, non mirasse ad abolire l’intero sistema del lavoro salariato; sono gli studenti che hanno compreso di quante sottili violenze e di quante cocenti ingiustizie sia gravida la società in cui vivono, e che ricercano un’alternativa globale alla degradazione della vita sotto il capitalismo; sono infine gli intellettuali che non si sono venduti ai padroni vecchi e nuovi e che non rinunciano, per il timore di entrare in conflitto con i poteri costituiti, ad esercitare la loro essenziale funzione critica e antagonistica. Sappiamo che non si tratta di vincere oggi. Ma, per vincere domani, bisognerà provare di essere capaci di batterci anche oggi, quando la situazione è quasi completamente contro di noi e chi la pensa come noi. Il problema che si pone oggi al movimento di classe è, certo, quello di individuare il legame fra la tattica e la strategia, gli obiettivi intermedi fra il programma minimo e il programma massimo e il percorso che conduce dalla democrazia capitalistica alla società comunista. Ma è, innanzitutto e soprattutto, il problema di costruire il partito rivoluzionario del proletariato, di cui il punto di vista marxista e comunista, quale cerco di esemplificare negli articoli, nelle note e nei commenti, è solo, per quanto basilare, un aspetto. Carissimi compagni, la divisione non è fra sunniti e sciiti, democratici e repubblicani (e permettétemi di aggiungere, tra fascisti e antifascisti, tra sinofobi e filocinesi, tra negazionisti e consenzienti): la divisione è tra chi ha e chi non ha (sottinteso: i mezzi di produzione). Questo è quanto afferma nel film americano “Shooter” un senatore che opera negli ipogei del “Deep State”, pianificando interventi ‘non convenzionali’ all’estero e tessendo trame eversive all’interno. Per quanto tempo ancora vogliamo restare al di sotto del livello di consapevolezza espresso da questa potente figura della “coscienza sprezzante”?
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Friday, 23 July 2021 23:17
Non posso dirmi d'accordo. Vi è una fiducia fanatica nella giustezza della teoria marxista-leninista così com'è, che sembra prescindere dalle smentite che la storia ci ha elargito con grande generosità. La mancata rivoluzione in occidente, la fine ingloriosa dell'URSS, l'adozione di un'economia di mercato in Cina, il fatto che più la condizione dei lavoratori peggiora, più i comunisti fanno fatica a trovare consenso tra di essi. Lenin una volta disse che, dal momento che (cito a memoria) la rivoluzione riguardava ormai la parte maggiore dell'umanità, Russia, India e Cina, la vittoria del comunismo era praticamente certa. Ebbene, si sbagliava! Barone tocca, giustamente, l'argomento della scientificità della teoria marxista, ma sembra trascurare che la caratteristica distintiva del metodo scientifico, rispetto ad altri sistemi, religiosi o tradizionali, di indagine della realtà, è il processo di revisione delle ipotesi alla luce dei fatti. Tant'è vero che il noto epistemologo Popper propose la falsificabilità come criterio decisivo per stabilire la scientificità di una teoria. Ora, sebbene si possano sollevare delle obiezioni sui dettagli del sistema filosofico dell'anticomunista Popper, si dovrà convenire che non si dà che uno scienziato degno di questo nome affermi: "l'esperimento (socialista) ha dato risultati diversi da quelli previsti, tuttavia la teoria è perfetta così com'è".

E non vale l'argomento che il fallimento si è verificato nel momento, e nella misura in cui, la teoria marxista-leninista è stata abbandonata. Poichè a chi avanza la suddetta obiezione spetta l'onere di rispondere alla seguente domanda: perchè interi partiti ( e non un singolo dirigente traditore) di vari paesi diversi (quasi tutti) armati di sì portentosa teoria hanno finito, chi prima chi poi, per abbandonarla? E perchè tutto ciò è successo proprio nel momento in cui le difficoltà maggiori sembravano essere passate, e una terribile guerra era stata vinta? Si capirà, allora, riflettendoci a fondo, che non è possibile dare una risposta razionale a queste domande senza postulare un insieme di fattori causali che la teoria non aveva previsto, o contro i quali la teoria stessa non ha saputo offrire adeguata protezione; ovvero senza postulare una qualche insufficienza della teoria marxista-leninista. Come potremmo, infine, essere sicuri, anche una volta vinta una grande rivoluzione, che non abbia a succedere di nuovo la stessa cosa?

Chi scrive è convinto che il marxismo-leninismo, dal momento che ha permesso ai comunisti di conseguire alcuni dei più grandi traguardi storici (la rivoluzione di Ottobre, l'edificazione dell'Urss, la sconfitta del fascismo ecc.), è certamente da considerarsi veritiero nella maggior parte delle sue asserzioni, e adeguato nella formulazione della maggior parte dei suoi concetti. Tuttavia è convinto anche che, pena il protrarsi a tempo indefinito di una condizione di impotenza e di frammentazione, non ci si può esimere da un processo di cauta, paziente, ma decisa, revisione, oppure riformulazione, oppure completamento, della teoria rivoluzionaria, mettendo in atto un processo, già auspicato da Losurdo, di apprendimento alla luce degli errori che sono stati commessi.

La sclerosi dogmatica del marxismo-leninismo è l'anticamera della sua liquidazione.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Saturday, 24 July 2021 13:45
Ancora una volta l’amico Fabio Rontini, che comunque ringrazio per l’attenzione prestata ai miei articoli, non riesce ad impostare correttamente la questione fondamentale della lotta contro il revisionismo: questione centrale per la comprensione del crollo di buona parte dei paesi socialisti a partire dall’URSS, così come per la comprensione della degenerazione della RPC, e a ruota dei partiti comunisti di tutto il mondo (non di tutti però, come dimostra l’esempio del KKE e di alcuni altri). Né gli ‘escamotage’ concettuali affidati alla distinzione tra revisione e revisionismo o al popperiano criterio di falsificazione, cui spesso si appellano i moderni revisionisti, possono sostituire l’analisi concreta delle situazioni concrete condotta alla luce della teoria marxista-leninista. Limitando il discorso da fare in questa sede alla parabola del revisionismo italiano, osservo innanzitutto che il presupposto del giudizio storico-politico, che è sotteso ai giudizi di Rontini, è quello secondo cui il revisionismo sarebbe cominciato nel periodo della direzione di Berlinguer, mentre il periodo precedente (1945-1970) sarebbe stato un periodo immune dal virus revisionista. Al contrario, un’analisi storica non superficiale basta a dimostrarci che la degenerazione revisionista risale perlomeno al 1945, ossia alla gestione semi-opportunista della “svolta di Salerno”, laddove la ‘svolta’ fu una scelta giusta e l’errore di Togliatti, all’inizio minima deviazione angolare destinata a diventare poi sempre più ampia nei cinque lustri successivi, fu quello di trasformare una scelta tattica in una prospettiva strategica. Perché questo processo involutivo è potuto avvenire? Per rispondere a questa cruciale domanda occorre ribadire che, al netto dell’azione di contrasto esplicata, con l’appoggio di Stalin, da Secchia e da una frazione minoritaria antirevisionista, la trasformazione del Pci in “partito operaio borghese” (secondo la classica definizione di Engels e di Lenin), prima della sua finale liquidazione ad opera di Occhetto e di Napolitano, non è stata semplicemente l’opera soggettiva di un gruppo di dirigenti revisionisti (quasi che il Pci fosse un ‘corpo sano’ con una ‘testa malata’). Questi dirigenti infatti erano l’espressione di una precisa realtà sociale, rappresentata dal crescente predominio, all’interno di quel partito, dell’aristocrazia operaia, della burocrazia sindacale, della piccola borghesia, degli intellettuali borghesi e piccolo-borghesi. «Oggi – scrive Lenin già nel 1916 – il “partito operaio borghese” è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti… Nella lotta fra queste due tendenze – continua Lenin riferendosi alla lotta fra il revisionismo di cui è portatore il “partito operaio borghese” e il marxismo rivoluzionario di cui sono portatori i comunisti – si svolgerà ora inevitabilmente la storia del movimento operaio, poiché la prima tendenza non è casuale, ma economicamente determinata». Evidentemente, come rivela ‘ad abundantiam’ l’involuzione del partito comunista di Marco Rizzo, non è né facile né semplice liberarsi dal retaggio identitario, opportunista e revisionista del PRC e del PCI se non si fanno i conti con quella che è stata a suo tempo felicemente definita come l'ideologia della "rivoluzione senza rivoluzione" e, più in generale, con il gramscismo. Segnalo dunque a Rontini, anche al fine di aiutarlo ad evitare semplificazioni cognitive di una problematica articolata e complessa quale è quella del revisionismo moderno, i seguenti punti: a) la necessità di analizzare, nei processi di degenerazione del movimento operaio e comunista innescati dall’imperialismo, sia le differenze sia i peculiari intrecci tra l’opportunismo, il riformismo e il revisionismo (“distingue frequenter”!); b) la necessità di una posizione intransigente nella lotta contro l'opportunismo, quale è affermata da Lenin: «La lotta contro l'imperialismo è una frase vuota e falsa se non è indissolubilmente legata alla lotta contro l'opportunismo»; c) l’imprescindibile criterio, che deve presiedere all’unificazione dei comunisti e che è insieme di metodo e di contenuto, per cui «prima di unirsi, e per unirsi, è necessario innanzi tutto definirsi risolutamente e nettamente». In questo senso, come ho già argomentato in questa stessa sede, la costruzione del partito comunista non va confusa con la ‘ricostruzione’ giacché ciò che era marcio non va ricostituito, e per essere effettiva e non meramente postulatoria o formale non può che poggiare su un'unica base: quella del marxismo-leninismo. Sennonché vi è un’altra cruciale domanda che coloro i quali disquisiscono della “mancata rivoluzione in Occidente e della fine ingloriosa dell’URSS” non si pongono; perché la (social-)democrazia è stata sconfitta? e perché i rapporti di forza si sono rovesciati? Per quanto mi riguarda, proverò ad abbozzare una sintetica risposta a tale domanda. In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si concretò in stragi (a partire da quella di piazza Fontana, che ebbe luogo a Milano il 12 dicembre 1969), attentati, tentativi golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla ‘via pacifica al socialismo’, elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc. Da Berlinguer partì la proposta, rivolta alla Dc, della politica di ‘solidarietà nazionale’, che nel nefasto triennio 1976-1979 si tradusse dapprima nella ‘non sfiducia’ al governo Andreotti e poi nell’ingresso diretto del Pci nella maggioranza governativa. La politica berlingueriana di ‘unità nazionale’ modificò profondamente i rapporti di forza tra le classi in Italia, indebolendo il proletariato e i movimenti antagonistici, rafforzando lo Stato borghese e la Dc, e creando le premesse per la controffensiva reazionaria scatenata, negli anni ’80, dal capitalismo contro il movimento operaio. La progressiva trasformazione del Pci in senso revisionista e socialdemocratico (sfociata, da ultimo, nella liquidazione, ad opera di Occhetto e di Napolitano e all’insegna dell’integrale adesione ai postulati della democrazia liberale borghese, di quello che era “il più grande partito comunista dell’Occidente capitalistico”) è stata, quindi, un importante fattore della involuzione e della sconfitta del movimento di massa, che in tal modo restò privo di un punto di riferimento politico, culturale e strategico essenziale nella lotta rivoluzionaria diretta a trasformare in senso socialista e comunista gli assetti sociali esistenti. D’altra parte, i diversi tentativi che furono compiuti dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Avanguardia Operaia, gruppi marxisti-leninisti ecc.) per costituire un punto di riferimento alternativo al Pci attraverso la fuoriuscita dall’università e la ricerca di un rapporto con i nuclei più combattivi del proletariato di fabbrica, stretti come furono fra l’emergere della strategia della lotta armata e l’incombere della ‘strategia della tensione e del terrore’, non si rivelarono all’altezza del compito, che si pose con forza ed urgenza negli anni ’70, di realizzare quella ‘massa critica’ che avrebbe potuto dare ad un partito comunista di tipo nuovo una vasta base sociale e un peso significativo nello scontro di classe. In realtà, quei tentativi si risolsero in un ‘mixtum compositum’ di soggettivismo, volontarismo ed economicismo, e si rivelarono (non come il superamento ma) come l’espressione politica e ideologica dei limiti e delle contraddizioni interne di un movimento di massa in cui era molto marcato il peso della piccola borghesia intellettuale. Di tutto ciò nelle obiezioni che Rontini ha avanzato non vi è però la minima traccia né può esservi, mancando le categorie cognitive, euristiche e teleologiche della teoria marxista-leninista: partito operaio borghese, imperialismo, aristocrazia operaia, opportunismo, revisionismo, riformismo, fascistizzazione.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Saturday, 24 July 2021 18:27
No, Barone mi attribuisce delle opinioni che assolutamente non mi appartengono. Non penso affatto che la degenerazione opportunista del PCI cominci con Berlinguer e sulla questione del comunismo italiano la penso esattamente come lui, che ci creda oppure no.

(Confermo che leggo sempre con interesse i suoi articoli, anche perchè si prestano facilmente, nei commenti, a questo tipo di discussioni.)

E mi attribuisce queste opinioni probabilmente perchè ritiene, non a torto, che esse siano tipiche di coloro che sono interessati a corrompere la purezza del marxismo-leninismo, rendendolo più socialdemocratico, più spendibile nelle competizioni elettorali, meno rivoluzionario. Oppure a demolirlo del tutto.

Invece, ribadisco che considero il leninismo sostanzialmente corretto nelle sue istanze principali, che sono la teoria del partito come avanguardia intellettuale della classe lavoratrice (che fare), la teoria dello stato (stato e rivoluzione) e la teoria dell'imperialismo (imperialismo come fase suprema del capitalismo).

A differenza di Barone, tuttavia, non ritengo che l'intero corpus del marxismo-leninismo, soprattutto nelle parti più filosofiche/psicologiche, sia perfetto, privo di contraddizioni, e, tantomeno, completo. In effetti, gli intellettuali nemici del comunismo cominciano con l'attaccare il Materialismo Dialettico, finendo poi per demolire le succitate parti politiche del M-L (teoria del partito, dello stato, dell'imperialismo), le quali rappresentano il vero obiettivo dell'attacco.

Me se lo fanno, e hanno spesso anche buon gioco nel farlo, è perchè, a mio avviso, c'è veramente qualcosa che non quadra nel Materialismo Dialettico, che ne fa un punto debole della teoria generale rendendola attaccabile e disfunzionale, e trincerarsi dietro una presunta (ma a mio avviso inesistente) immodificabilità, e coerenza logica perfetta di tutte le singole parti del M-L non fa che facilitare il compito dei nostri nemici.

Questo intendevo dicendo che la sclerosi dogmatica del marxismo-leninismo è l'anticamera della sua liquidazione.

D'altra parte, tornando sul tema del revisionismo, mi sembra che le spiegazioni di Barone, seppure sempre utili e istruttive, passino però a lato delle questioni che avevo sollevato. Egli sceglie il terreno più facile dando una interpretazione marxista-leninista della degenerazione del Partito Comunista Italiano, in un paese (imperialista, seppure straccione) in cui i comunisti non hanno mai preso il potere e, oltretutto, a sovranità limitata.

Più difficile, e anche più inquietante, è interpretare la svolta revisionista del PCUS guidato da Kruscev, dopo la morte di Stalin, che era poi quello a cui alludevo nel mio intervento. Qui non ci sono aristocrazie operaie, sovrapprofitti imperialistici, i comunisti hanno il potere e il pieno controllo dello stato, hanno appena vinto la guerra, sono una superpotenza, il paese più esteso, più forte militarmente, più ricco di materie prime e più amato dai popoli di tutto il mondo. Certo affrontano delle difficoltà e dei pericoli, ma mai grandi quanto quelli che avevano appena superato.

Eppure la maggioranza del partito (non il solo Kruscev) opera e appoggia una indiscutibile svolta opportunista, con relativo smerdamento pubblico del proprio operato fino ad allora, che non viene mai più corretto, che spacca il campo socialista e pone le premesse per la successiva disgregazione del paese e la sconfitta (si spera non definitiva) del comunismo internazionale.

Questo è un pò più difficile da spiegare.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Sunday, 25 July 2021 12:05
Prendendo volentieri atto della sua dichiarata ortodossia marxista-leninista in campo politico, ripropongo due questioni poste da Fabio Rontini nel suo ultimo commento: la svolta revisionista del PCUS ad opera di Krusciov e della sua cricca e l’autonomia teorica del marxismo-leninismo. Riguardo alla prima questione, vi è da dire che la capacità di Stalin è stata essenzialmente quella di coniugare la difesa delle posizioni conquistate dal proletariato nell’URSS e la concretezza del processo di cambiamento ivi avviato con una visione strategica dell'alternativa al capitalismo e all'imperialismo. Va da sé che su tutte queste vicende e sulla loro corretta interpretazione i marxisti-leninisti debbono svolgere un lavoro di analisi approfondita al fine di trasformare i suoi risultati in battaglia politica e teorica. La domanda a cui rispondere è allora la seguente: come si spiega, dopo la morte di Stalin, l’origine della controrivoluzione? Rispondere che Kruscev ha tradito è, da un punto di vista marxista, una tautologia, poiché la questione vera è capire perché Kruscev è riuscito nel suo intento, su quali forze ha fatto leva, qual è stata la responsabilità del movimento comunista internazionale. In effetti, è ancora Stalin, il quale non aveva mai interrotto la sua battaglia antirevisionista, a fornire la chiave interpretativa degli avvenimenti successivi al marzo 1953. Egli ha insegnato, nel trentennio in cui ha diretto il movimento comunista, che per un'intera epoca storica lo sviluppo di un processo rivoluzionario non può che avere una stabilizzazione relativa, ragione per cui pretendere che si possa avere un socialismo realizzato mentre è in corso una lotta mortale tra due sistemi è fuori della realtà e della storia. Quindi la teoria di Stalin secondo cui, a mano a mano che il socialismo avanza, lo scontro di classe si acuisce, con il rovesciamento controrivoluzionario del XX congresso del PCUS è stata pienamente confermata. E invero, alla morte di Stalin vi erano due possibilità: o si proseguiva sul terreno della inevitabile competizione con il capitalismo e l'imperialismo oppure si addiveniva ad un compromesso che poneva fine all'antagonismo innescando processi controrivoluzionari. Questa è la premessa da cui occorre partire per impostare l’analisi storica e la stessa deduzione teorica. Per impostare e sviluppare la seconda questione, concernente il materialismo dialettico, partirò invece dall’importante contributo di Ludovico Geymonat, che negli anni ’70 del secolo scorso sostenne un nuovo approccio alla filosofia marxista rilanciando un tema, quello per l’appunto del materialismo dialettico, tradizionalmente poco frequentato in Italia. Riflettere sul significato, sul valore e anche sui limiti di questa esperienza culturale è necessario non solo per tornare a dipanare, nell’attuale congiuntura ideologica e teorica, il filo rosso del materialismo dialettico engelsiano e leniniano, ma anche per dimostrare, in primo luogo, che il marxismo ha un nucleo filosofico proprio e indipendente che si sviluppa in relazione alla lotta teorica, quindi in ultima istanza in relazione alla lotta di classe, e, in secondo luogo, che esso è in grado di conservare la sua autonomia nella misura in cui si sviluppa sulle proprie basi. Questa specificità e originalità del modo di concepire e di praticare la filosofia è un tratto saliente del marxismo, che non può venire meno senza che venga meno la sua stessa esistenza come filosofia: da qui nasce la necessità di riprendere in esame la concezione geymonatiana del materialismo dialettico a partire dalla individuazione della centralità di due testi di Lenin, quali “Materialismo ed empiriocriticismo” e i “Quaderni filosofici” che si possono considerare terreni elettivi per saggiare il significato e il valore di tale concezione. In effetti, il primo di essi, come è ben noto, ha conosciuto nel marxismo occidentale una tale ‘sfortuna’ (peraltro simmetrica alla ‘fortuna’ dei Quaderni filosofici) che, già per questo solo motivo, una simile sorte richiederebbe una specifica ed approfondita riflessione (per converso, come è altrettanto noto, ha conosciuto la massima auge nel marxismo orientale): comprendere e spiegare quale precisa funzione teorica abbia svolto il suo rifiuto, parziale o totale, significherebbe scrivere un capitolo non secondario della storia del marxismo. Sennonché il problema di fondo, che sottostà all’uno come all’altro caso, è lo stesso: il problema cioè della concezione leniniana della scienza, che si sdoppia nei due distinti problemi del rapporto tra scienza e filosofia, da una parte, e del rapporto tra scienza e politica, dall’altra. Basta spingere più a fondo la riflessione per capire che si tratta di un problema che coinvolge la sostanza stessa del marxismo, giacché investe il rapporto tra la ‘dialettica’ e il ‘materialismo’. Siamo dunque in presenza di un nodo che non è solo di derivazione engelsiana e che non è estraneo alla scienza del “Capitale” (basti pensare al citato “Poscritto” del 1873): un nodo che trova in Lenin, se non la soluzione, il grado più alto di elaborazione e di approfondimento. Da questo punto di vista, è abbastanza chiaro, allora come oggi, che l’incomprensione di questo livello di elaborazione e di approfondimento richiede una definizione e precisazione delle basi filosofiche del marxismo, tanto più necessaria di fronte ai tentativi revisionistici di cercare altrove quelle basi filosofiche. Il materialismo dialettico, quale nucleo ‘filosofico’ del marxismo (laddove il materialismo storico, all’interno di quella ‘unità duale’ che è la teoria marxista, ne è il nucleo ‘scientifico’), viene così a trovarsi in una situazione dicotomica, scindendosi nei due elementi - il materialismo meccanicistico e la dialettica hegeliana - che, per esserne le fonti storiche, vengono riguardati come parti meccanicamente giustapposte: da un lato, la ripresa di un materialismo di tipo settecentesco, dall’altro, la dialettica marxista curvata in direzione idealistica; da una parte, quella di un materialismo grezzo, si trova allora “Materialismo ed empiriocriticismo”; dall’altra, quella di una dialettica hegelianeggiante, si trovano i “Quaderni filosofici”. Laddove, semmai, sarà bene osservare che l’operazione condotta da Lenin e poi proseguita in modo sistematico da Lukács, non è quella di hegelianizzare il marxismo, bensì quella di marxistizzare la dialettica hegeliana. In realtà, esiste un legame stretto fra questi due momenti fondamentali dell’opera teorica di Lenin, smarrito il quale si perde insieme con esso, inevitabilmente, anche il legame tra l’opera teorica e l’opera pratica di Lenin. Tornando a Geymonat, va allora sottolineata l’acquisizione più importante che il pensatore torinese ricava, sul piano epistemologico, dallo studio del materialismo dialettico di Engels, e cioè che l’intento di quest’ultimo è stato quello di fornire un fondamento filosofico al materialismo storico e che proprio in questa direzione trovano la loro piena giustificazione le tre leggi della dialettica desunte dalla “Scienza della logica” di Hegel. Se una critica può invece essere mossa a Geymonat per quanto riguarda la ricostruzione del materialismo dialettico in Lenin, essa concerne il fatto di aver messo in secondo piano il ‘principio della partiticità della filosofia’ a favore di una pura caratterizzazione in senso epistemologico, il cui prezzo è la perdita non solo della specificità del discorso marxista sulla filosofia, ma anche della possibilità di distinguere in modo rigoroso la filosofia dalla scienza. Comunque sia, per quanto riguarda i testi filosofici di Lenin, occorre sottolineare che il merito precipuo di Geymonat è stato quello di riconoscere con forza il contenuto teorico di “Materialismo ed empiriocriticismo”, da una parte, e dall’altra la continuità tra quest’opera e i “Quaderni filosofici”. Ciò è stato possibile a Geymonat perché egli è riuscito a ravvisare negli scritti di Lenin la portata di un intervento esplicato in una congiuntura teorica determinata, la cosiddetta “crisi delle scienze” avvenuta all’inizio del secolo ventesimo. Dunque Geymonat non ha inteso la discussa opera leniniana come un manuale di teoria materialistica della conoscenza, ma come una riflessione critica su quella congiuntura teorica, che sbocca sì in una teoria materialistica della conoscenza, non però per una mera deduzione filosofica, ma per rispondere ai problemi nati da uno stato proprio delle scienze, cioè per risolvere, alla luce del materialismo dialettico, le antinomie filosofiche della scienza contemporanea. Da questo punto di vista, è allora possibile capire alcune cose fondamentali come, ad esempio, la differenza che Lenin stabilisce tra il materialismo metafisico, il materialismo spontaneo (che caratterizza il ‘modus operandi’ degli scienziati in quanto tali) e il materialismo dialettico. La dialettica ha qui un ruolo fondamentale, poiché permette di distinguere rigorosamente il materialismo di Lenin dal materialismo filosofico tradizionale e anche da quella “filosofia spontanea degli scienziati” che è, secondo Lenin, orientata nella direzione giusta, ma non è in grado, proprio perché sconta un ‘deficit’ dialettico, di difendersi dagli attacchi dell’idealismo. Se dunque il materialismo, nel sintagma ‘materialismo dialettico’, resta ‘determinante’ proprio perché esprime la scelta di campo, la giusta posizione filosofica, è però la dialettica che è ‘dominante’. Fra gli esempi dell’incidenza del materialismo dialettico sul materialismo storico basti, allora, citarne uno, che è fondamentale e che dovrebbe fugare i dubbi e le riserve di Rontini su “ciò che non quadra nel materialismo dialettico”: la teoria del rapporto tra struttura, sovrastrutture e prassi, la cui articolazione è data dalle categorie dialettiche di determinazione in ultima istanza, retroazione e influenza reciproca,
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontin
Sunday, 25 July 2021 18:53
Va bene, mi pare di aver capito che devo leggere Geymonat (speriamo di farcela). Vi ringrazio per le segnalazioni.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Sunday, 25 July 2021 17:57
Su Geymonat, mmmh...era più complesso.. Rileggere Classe operaia e scienza, in Lavoro Scienza Potere. Grazie
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Friday, 23 July 2021 23:15
Non posso dirmi d'accordo. Vi è una fiducia fanatica nella giustezza della teoria marxista-leninista così com'è, che sembra prescindere dalle smentite che la storia ci ha elargito con grande generosità. La mancata rivoluzione in occidente, la fine ingloriosa dell'URSS, l'adozione di un'economia di mercato in Cina, il fatto che più la condizione dei lavoratori peggiora, più i comunisti fanno fatica a trovare consenso tra di essi. Lenin una volta disse che, dal momento che (cito a memoria) la rivoluzione riguardava ormai la parte maggiore dell'umanità, Russia, India e Cina, la vittoria del comunismo era praticamente certa. Ebbene, si sbagliava! Barone tocca, giustamente, l'argomento della scientificità della teoria marxista, ma sembra trascurare che la caratteristica distintiva del metodo scientifico, rispetto ad altri sistemi, religiosi o tradizionali, di indagine della realtà, è il processo di revisione delle ipotesi alla luce dei fatti. Tant'è vero che il noto epistemologo Popper propose la falsificabilità come criterio decisivo per stabilire la scientificità di una teoria. Ora, sebbene si possano sollevare delle obiezioni sui dettagli del sistema filosofico dell'anticomunista Popper, si dovrà convenire che non si dà che uno scienziato degno di questo nome affermi: "l'esperimento (socialista) ha dato risultati diversi da quelli previsti, tuttavia la teoria è perfetta così com'è".

E non vale l'argomento che il fallimento si è verificato nel momento, e nella misura in cui, la teoria marxista-leninista è stata abbandonata. Poichè a chi avanza la suddetta obiezione spetta l'onere di rispondere alla seguente domanda: perchè interi partiti ( e non un singolo dirigente traditore) di vari paesi diversi (quasi tutti) armati di sì portentosa teoria hanno finito, chi prima chi poi, per abbandonarla? E perchè tutto ciò è successo proprio nel momento in cui le difficoltà maggiori sembravano essere passate, e una terribile guerra era stata vinta? Si capirà, allora, riflettendoci a fondo, che non è possibile dare una risposta razionale a queste domande senza postulare un insieme di fattori causali che la teoria non aveva previsto, o contro i quali la teoria stessa non ha saputo offrire adeguata protezione; ovvero senza postulare una qualche insufficienza della teoria marxista-leninista. Come potremmo, infine, essere sicuri, anche una volta vinta una grande rivoluzione, che non abbia a succedere di nuovo la stessa cosa?

Chi scrive è convinto che il marxismo-leninismo, dal momento che ha permesso ai comunisti di conseguire alcuni dei più grandi traguardi storici (la rivoluzione di Ottobre, l'edificazione dell'Urss, la sconfitta del fascismo ecc.), è certamente da considerarsi veritiero nella maggior parte delle sue asserzioni, e adeguato nella formulazione della maggior parte dei suoi concetti. Tuttavia è convinto anche che, pena il protrarsi a tempo indefinito di una condizione di impotenza e di frammentazione, non ci si può esimere da un processo di cauta, paziente, ma decisa, revisione, oppure riformulazione, oppure completamento, della teoria rivoluzionaria, mettendo in atto un processo, già auspicato da Losurdo, di apprendimento alla luce degli errori che sono stati commessi.

La sclerosi dogmatica del marxismo-leninismo è l'anticamera della sua liquidazione.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Paolo Selmi
Saturday, 24 July 2021 01:32
Caro Fabio,

volevo integrare il tuo discorso con un'osservazione, per quello che può servire e per come uscirà formulata a quest'ora.
Penso che non troverai nessuno, fra i quattro gatti che siamo rimasti sulla faccia del pianeta, a esporre una "sclerosi dogmatica del marxismo-leninismo".
Persino Confucio, del quale si riporta nei Dialoghi: "l Maestro disse: «Io non son nato con la scienza infusa: amo l’antichità e mi applico a indagarla» (子曰:「我非生而知之者,好古,敏以求之者也。」)", in realtà usava l'antichità (gu 古) per parlare all'oggi, la riscriveva per parlare all'oggi, la stravolgeva per parlare all'oggi.

Uscendo fuor di metafora, e tornando sul pezzo, ragionare in questi termini per un marxista-leninista è come tirarsi la zappa sui piedi da solo: il Grande Ottobre fu un momento di un lungo processo, socialmente e storicamente determinato. La grandezza, l'immensità di Vladimir Ilič Lenin, lo rese protagonista, politicamente, ideologicamente, culturalmente, MOLTO del prima, tutto il durante e gran parte del dopo di questo processo.

Questo è un patrimonio che non va perso. Moltiplichiamo questo ragionamento per sessantacinque anni almeno di storia sovietica, per tutti i suoi attori, nel senso non teatrale del termine ma di persone che hanno agito, entro questo contesto. Centinaia di migliaia di dirigenti, scienziati, studiosi, ma anche operai, impiegati, colcosiani, insegnanti, medici, soldati, col vezzo di lasciare una traccia scritta del loro vissuto. Andiamo a esaminare ciò che ci hanno lasciato, la loro esperienza, le loro osservazioni. Troveremo un patrimonio non immenso, ma sterminato.

Ti saluto con la "Marcia dei ragazzi allegri"
https://www.youtube.com/watch?v=dOa6HaGVjzQ
tratta da un film del 1934 divenuto col tempo cult.

A un certo punto cantano:

Мы можем петь и смеяться, как дети,
Среди упорной борьбы и труда,
Ведь мы такими родились на свете,
Что не сдаемся нигде и никогда.
(possiamo cantare e ridere come bambini
anche in mezzo alla lotta e al lavoro più duri
è perché noi così siam venuti al mondo
che non molliamo mai e da nessuna parte.)

Non è un caso che in questa versione a più voci
https://www.youtube.com/watch?v=h_ILUSMJ1zM
questa strofa sia cantata da un Chor veteranov, ovvero da un coro di pensionati.

Ciao!
Paolo
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
AlsOb
Wednesday, 21 July 2021 23:53
Il completo sbandamento e disastro della sinistra lo si osserva dalla mancanza e incapacità di utilizzare una propria grammatica per raccontare il mondo e dalla conseguente inettitudine con l'accettare irrazionalmente e passivamente le fantasmagoriche rappresentazioni imposte efficacemente dalla classe dominante mediante la pseudometafisica.
Pertanto contribuisce a generare falsa coscienza, di cui inevitabilmente sono imbevuti anche o soprattutto tutti coloro che apparentemente e velleitariamente vorrebbero promuovere alternative.
Nonostante la rappresentazione di Marx e i suoi schemi riproduttivi, con magari qualche essenziale contributo della Rosa Luxemburg, formino il più potente strumento intellettuale per descrivere e capire il capitalismo, sono gettati alle ortiche, surrogati dall'irrazionalismo pseudometafisico.
Così le tematiche avanzate da Eros Barone, invece di costituire in modo abbastanza scontato l'intelaiatura di una visione logica e politica, su cui misurarsi e confrontarsi, per la lontananza da ciò che convenzionalmente ormai si percepisce come senso comune, appaiono discorsi di alieni.

Nella fantasmagorica rappresentazione della realtà, brutalmente oggettiva in sé, da parte della propagandistica e condivisa pseudometafisica, il profitto viene spiegato non come il sacrificio dei lavoratori, (o di una società nel suo complesso), ma dei capitalisti: non plusvalore estratto e sottratto ai lavoratori, ma risparmio dei capitalisti. Perciò il capitalista, che generosamente si sacrifica e astiene dal consumo, viene giustamente ricompensato dal profitto sull'investimento.
Se per caso quelle risorse e risparmio appartenessero ai lavoratori, la loro remunerazione dovrebbe seguire un destino differente.
Perciò nel capitalismo, per evitare dubbi e equivoci e rispettare la gradevole narrazione, la proprietà e controllo delle risorse produttive deve essere mantenuto rigorosamente nelle mani dei capitalisti.

Marx si muove infine in un orizzonte sistematicamente teologico, per mantenere la logica di Hegel, riformulata e ribaltata però nella sua azione, al fine di spurgare gli aspetti di misticismo e astrattismo dalla rappresentazione del mondo e cristianesimo hegeliani. In ciò, nella messa da parte o circoscrizione della metafisica e del suo astratto illusorio linguaggio, risiede l'identità "spirituale" e linguistica tra il Dio è morto e la religione è l'oppio dei popoli, ma al tempo stesso, per la separatezza della prospettiva e orizzonte, l'apparente differenza con Nietsche.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Thursday, 22 July 2021 09:42
Scusa AlsOb, ho bisogno di alcune precisazioni. Senso comune: in Causalità, rigorosa, common sense è cruciale, nel senso della espressione italiana di 'buon senso'. Siamo, come ai tempi di Hegel, oltre la disputa empirismo/razionalismo, e tenacemente con Galileo. Quindi, non è che si parte dalla esperienza MA non ci si ferma lì; si parte da "si presenta", "immane raccolta di merci", E non ci si ferma lì. Neanche il reazionario peggiore, Posner o Friedman scegli tu, distoglie la attenzione dalla misura di validità. Quindi, tornando al cruccio di Fabio, è misurabile la ricchezza delle società dove predomina il modo di produzione presente come somma di tutti i prezzi? Sì. Ora, prendo una variabile proxy, la chiamo somma di tutti i Valori (tra Wert e Value, preferisco Value per polisemico) e ottengo una equazione. Che come sempre in fisica, è reversibile, altrimenti non è. Può essere un logaritmo giallo, va bene, se non ci sono clashes it's fine. Posso tagliare via e lasciare gli schemi di riproduzione? Per il principio di ragion sufficiente, dati assiomi e postulati, certo. Posso anche prendere l'universo e sostituire alla costante di Planck una variante, per esempio la moltiplico per due. Faccio danni? Nessuno sopravvivrebbe per raccontarlo, mi suggerisce ORA il common sense. Falsa coscienza: se ne parla molto, ma nessuna traccia. A differenza di Valore, che ha la 'forza di un pregiudizio popolare', questa fantasia della falsa coscienza rimane appannaggio delle succursali di Max Weber. Insomma, è più vuota della totalità di Heidegger. Sul campo, serve a niente. Garroni diceva che gli esseri umani lottano non per I loro interessi ma per quello che pensano siano i loro interessi. Con tutto il rispetto, it needs revision, incomplete, wrong. Ah, questa dialettica orizzonte-prospettiva mi piace assai. Grazie
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
AlsOb
Friday, 23 July 2021 01:19
Il cruccio di Fabio Rontini rappresenta, almeno nella sua parte esortativa, un importante suggerimento a evitare gli sclerotizzati approcci settaristici e dogmatici, che di norma, dietro la finzione di un catechismo autoritativo e semplificato, sono improduttivi, accentuano divisioni e tradiscono lo spirito di Marx. Inoltre l'applicazione delle categorie di Marx, con alcune addizionali sofisticazioni più moderne, per descrivere il capitalismo e accumulazione contemporanei, non è un processo immediato e semplicisticamente schematico, ma richiede del tempo di riflessione e studio.
Per quanto concerne l'uso dell'espressione senso comune, essa non vuole altro che richiamare la convenzione, che spazia dai luoghi comuni ai criteri ideologici, come prevalentemente creati da indottrinamenti e mitologie. Perciò non è strettamente buon senso e per la distinzione in italiano fa da riferimento la spiegazione del Manzoni.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Paolo Selmi
Tuesday, 20 July 2021 00:56
Cari Eros e Fabio,

la mia ignoranza caprina di Shakespeare mi aveva fatto ignorare fino a poco fa chi fosse Miss Quickly (Wittib Hurtig nell'originale tedesco): una "vedova allegra", molto allegra, la locandiera (quindi tutti sanno dove trovarla...) amica di Falstaff (che peraltro Marx ama associare alla figura del capitalista). A onor del vero, ora ne so qualcosa di più solo perché i compagni sovietici a loro tempo scrivevano testi come Čitaja Marksa (leggendo Marx https://www.rulit.me/books/chitaya-marksa-sbornik-rabot-read-400468-23.html) dove, per esempio, si parlava della vena ironica di Marx, come in questo caso, e si aiutava il lettore sovietico (ma anche italiano, a questo punto) a capire il gioco che stava dietro.

O "sotto". Perché vado avanti a leggere e trovo "Субстанция стоимости товаров тем отличается от вдовицы Квикли" (La sostanza (substancija) del valore delle merci si differenzia così tanto dalla vedova Kvikli (traslitt. di Quickly)) Substancija -> Substantia -> che sta sotto, alla base. E allora decido di andare a fondo anch'io...
col testo originale davanti gentilmente offerto dagli amici della DDR (http://www.mlwerke.de/me/me23/me23_049.htm#Kap_1_3)
vado a colpo sicuro e trovo: "Die Wertgegenständlichkeit der Waren unterscheidet sich dadurch von der Wittib Hurtig"

E trovo quel Wertgegenständlichkeit che si compone di Wert (valore, facile) e gegenständlichkeit, che noi traduciamo come oggettività. Ma che i russi traducono sia come "essere oggetto" (predmet oggetto + nost' = predmetnost'), ma anche come substantia o substancija. Certo che tolti quei suffissi finale resta solo "gegenständ", che ti sta di fronte. Che non è proprio la stessa cosa di objcere (lanciare contro, da cui obiettare) e quindi Objectum. Che per altro esiste in russo come termine, giunto via Polonia qualche secolo fa (объект). Ma che in questo caso non appare nella traduzione.

Qui mi fermo, ma quel "sostanza" ammetto che mi piace di più... e vado una riga sopra. Dove Marx parla di Doppelform, di duplice forma quando si affronta il tema della merce (Ware): Naturalform und Wertform, FORMA NATURALE E FORMA VALORE.

E lì capisco perché mi piace di più. Perché alla fine, in questo "travaso impossibile" di atomi, il senso è reso decisamente meglio. E " Im graden Gegenteil zur sinnlich groben Gegenständlichkeit der Warenkörper geht kein Atom Naturstoff in ihre Wertgegenständlichkeit ein. " diventa "В прямую противоположность чувственной грубой субстанции товарных тел ни один атом естественного вещества не входит в субстанцию их стоимости", ovvero: In diretta contrapposizione (andando contro, quasi a sbattere, non a caso abbiamo il verbo di moto geht negato dopo) alla sostanza rozzamente sensibile dei corpi delle merci, neanche un atomo di "stoffa naturale" riesce a entrare nella sostanza del loro valore.

Niente da fare, no pasaran. E a differenza della vedova allegra Quickly, che tutti sanno dove trovare... gira che ti rigira questa merce, la puoi scuotere per sentire se fa qualche rumore strano, la puoi anche spaccare per amore della scienza (e un po' meno del portafoglio...) ma di questo benedetto Wert nessuna traccia!

Grazie mille e
Ciao!
Paolo
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Tuesday, 20 July 2021 14:02
Importante precisazione di Paolo. Il termine usato da Marx era, pace Fineschi, di uso comune nei manuali di filosofia (e di diritto, secondo Dussel) germanici di allora. Quello che ti trovi di fronte, o davanti. Quindi, Marx non contraddice il suo procedere quando nelle Glosse Marginali afferma di non essere MAI partito da concetto, Begriff. Come oggi, c'erano questi gruppi di giovani che scalpitavano, pataleaban quizás, e davano poca retta al Moro. "La proprietà è un furto": va bene, vediamo fin dove ci porta abolirla. Il giusto salario! Va bene, vediamo dove arriviamo. Sempre però vigeva un presupposto non scritto, un Grund sul quale tutti poggiavano: prendere il potere. Alla scuola quadri delle Frattocchie, come nel più scalcagnato gruppetto extraparlamentare, nessuno pensava diversamente. Per alcuni era faccenda per pochi amichetti loro, per altri era la stragrande maggioranza della umanità, ma si parte da lì (pace Heidegger). Quindi, quando si parla della merce ci si trova sempre davanti la propria soggettività storica, ed è il suo stesso procedere, la contraddizione in processo, che espone la propria soggettività politica. Come per il pensiero in Hegel, soggetto oggetto movimento diventano. Attività pratico-critica, un lavoro. Io preferisco una opera. E il metodo come lavora? Be', la rivoluzione lavora con metodo.

Per quanto concerne la relazione, pace Rubin, e Rovelli, per Marx non è la relazione che fa l'attributo, ma lo porta avanti. Non può creare nulla che non sia già portato. Quindi, e non è lana caprina all'aurora della presa del potere, il movimento reale, quello che distrugge e supera eccetera, pone il suo stesso presupposto. Non è che deve farlo; porta in sé la necessità di farlo. A voi la palla. Ah, qualcuno potrebbe chiedere 'ma dove dice Marx questo!' Non lo so, sono io a dirlo. Grazie
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Wednesday, 21 July 2021 11:50
Non creda, Barone, che non apprezzi, o non consideri importante la tematica del rapporto tra valori e prezzi, sulla quale so di non avere le competenze per dare un contributo rilevante, e sulla quale, perciò, mi astengo da commenti.

Per quello che ne riesco a capire si può stabilire un collegamento tra la dinamica di divaricazione tra prezzi e valori e la capacità dei monopoli di ottenere dei sovrapprofitti per comprarsi la classe operaia dei paesi a capitalismo avanzato (forse Barone troverà questo passaggio un pò rocambolesco...).

Si può prevedere, e anche constatare, che la rinnovata capacità di concorrenza da parte del capitalismo/socialismo cinese provocherà un consistente abbassamento dei salari in occidente, con conseguente perdita di consenso nel sistema capitalista da parte dei lavoratori.

E tuttavia ciò, a mio avviso, non può essere sufficiente per far sì che le grandi masse abbraccino la prospettiva comunista: vi è da smantellare la potentissima capacità di "programmazione della personalità" che, attraverso media sempre più pervasivi, ma basandosi su conoscenze scientifiche approfondite e sempre più perfezionate, il sistema capitalista occidentale, a guida statunitense, ha costruito negli anni.

Per fare questo occorre un grande sforzo di critica ideologica, di cui un esempio rilevante potrebbe essere il recente lavoro del compagno Pascale (http://intellettualecollettivo.it/il-totalitarismo-liberale-le-tecniche-imperialiste-per-legemonia-culturale/).

Tuttavia non appena si provi ad impostare una cornice teorica a questi tentativi (niente più che tentativi, attualmente), ci si scontra con un riflesso condizionato dei comunisti che li porta a formulare immediatamente la condanna di "idealismo", "marxismo occidentale", "revisionismo" ecc. ecc.

Fatto che mi porta a presumere vi sia una fissazione su un malinteso materialismo (volgare) che limita le possibilità di ricerca all'interno della cornice del marxismo-leninismo, e che costituisce una parte non indifferente del problema che dobbiamo risolvere.

Va da sè che ho semplicemente tratto spunto dalla frase in epigrafe per ribadire un concetto che mi preme in modo particolare.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Monday, 19 July 2021 18:52
"...nemmeno un atomo di MATERIALE naturale passa nell’OGGETTIVITA' del valore delle merci stesse...[...]...dunque la loro OGGETTIVITA' di valore è puramente sociale" K.Marx

Da questa frase potremmo dedurre che la filosofia di Marx, piuttosto che come MATERIALISMO, potrebbe essere più utilmente definita come REALISMO integrale, nel senso in cui la scolastica lo contrapponeva (il Realismo) al NOMINALISMO dei concetti.

Delle due l'una: o il concetto di MATERIA indica l'insieme di ciò che ha un'estensione nello spazio, come riferito in qualunque enciclopedia filosofica;

oppure, se esso, come sostiene Lenin è sinonimo di OGGETTIVITA', allora è talmente egemonizzato dalla borghesia che chiunque (persino Marx) lo usa per indicare tutto ciò che è composto da atomi.

Ripropongo questa osservazione, non nuova, per sottolineare come un appiattimento del marxismo su quello che in gergo comunista viene definito come "materialismo volgare" (io credo tipico della maggior parte dei militanti comunisti) sia contrario alla lettera e allo spirito della stessa dottrina di Marx.

Di fatto la lotta contro l'Idealismo ha finito per far trionfare il materialismo volgare nella mente dei comunisti; o meglio, io credo, i revisionisti e i nemici dei lavoratori presenti nel movimento comunista hanno utilizzato l'accusa di Idealismo contro ogni sviluppo e ampliamento del materialismo dialettico, con grande danno per il movimento dei lavoratori.

La rinascita in occidente del comunismo passa per un abbandono del dogmatismo dottrinale ed una doverosa riconsiderazione dei concetti basilari della teoria rivoluzionaria.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Tuesday, 20 July 2021 00:45
Per la verità, un minimo di rigore storico e teoretico suggerisce di distinguere, nell’àmbito della disputa sugli universali svoltasi nel secolo XII, tra il realismo e il nominalismo (tralasciando per comodità espositiva il concettualismo) e i significati che caratterizzano il realismo e il materialismo nel lessico filosofico contemporaneo. Ma limitiamoci al materialismo, di cui è questione, distinguendo in primo luogo il materialismo metafisico, che è presente nell’antichità e che è derivato dall’antica filosofia ilozoistica (a partire da Talete e Anassimene per giungere a Democrito ed Epicuro), dal materialismo scientifico, che cerca di dimostrare che la materia è quel principio unitario da cui dev’essere derivata tutta la molteplicità dei fenomeni. A questi due tipi di materialismo occorre poi aggiungere il cosiddetto materialismo volgare o naturalismo, vale a dire la concezione secondo cui i processi spirituali vanno identificati con determinati processi cerebrali. A volte questo tipo di materialismo viene anche espresso asserendo che l’uomo è ciò che mangia. E qui si potrebbe osservare che purtroppo le cose non stanno così, poiché l’uomo non vive di solo pane, ma anche delle ideologie che gli vengono cacciate in testa, e che in certe circostanze lo portano persino a scegliere situazioni come le guerre o il genocidio, che finiscono col negare proprio il contenuto di quell’asserzione generando penuria materiale e fisica. Vi è poi il materialismo antropologico che cerca di ricondurre tutti i fenomeni, e soprattutto quelli sociali, all’uomo concepito come un essere naturale. Sennonché, se si considera la sua genesi, la teoria marxista è essenzialmente la critica del materialismo antropologico, poiché contro questa riduzione statica ed astorica di tutti i fenomeni all’uomo ha fatto nuovamente valere il principio hegeliano del movimento e della contraddittorietà interna. Infatti, il materialismo dialettico, come insegnano Marx, Engels e Lenin, rappresenta sostanzialmente l’antitesi del materialismo volgare così come di quello antropologico. Ciò che sfugge all’ottimo Rontini, forse a causa della seduzione esercitata da Mrs. Quickly su di lui, è che il materialismo non deve essere necessariamente empiristico; al contrario, il materialismo di Marx comprende delle categorie come quelle di sistema e di processo complessivo, che corrispondono al concetto hegeliano della totalità. Si tratta, peraltro, delle categorie di cui mi sono servito nell’articolare fra di loro la teoria del valore-lavoro e la costruzione dell’egemonia operaia. Ma il materialismo non è neanche realistico, giacché non ritiene che la realtà si identifichi con il fatto immediato, ma la considera come intrinsecamente mediata dalla società. Riguardo poi all’affermazione di Marx che compare nell’epigrafe del mio articolo, secondo cui “nemmeno un atomo di materiale naturale passa nell’oggettività del valore delle merci stesse”, affermazione per cui Rontini mena scandalo, vi è da sperare, visto che egli non fa alcun riferimento al contenuto specifico dell’articolo, che il livello di comprensione del tema oggetto di discussione non sia pari a quello che dimostra di possedere sui meccanismi dell’ironia, giacché il suo modo di reagire mi ha fatto venire in mente la situazione comica di un novello Calandrino il quale all’affermazione: “Questa birra è divina!”, risponda: “No, è un prodotto umano e industriale”…
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Wednesday, 21 July 2021 11:51
Non creda, Barone, che non apprezzi, o non consideri importante la tematica del rapporto tra valori e prezzi, sulla quale so di non avere le competenze per dare un contributo rilevante, e sulla quale, perciò, mi astengo da commenti.

Per quello che ne riesco a capire si può stabilire un collegamento tra la dinamica di divaricazione tra prezzi e valori e la capacità dei monopoli di ottenere dei sovrapprofitti per comprarsi la classe operaia dei paesi a capitalismo avanzato (forse Barone troverà questo passaggio un pò rocambolesco...).

Si può prevedere, e anche constatare, che la rinnovata capacità di concorrenza da parte del capitalismo/socialismo cinese provocherà un consistente abbassamento dei salari in occidente, con conseguente perdita di consenso nel sistema capitalista da parte dei lavoratori.

E tuttavia ciò, a mio avviso, non può essere sufficiente per far sì che le grandi masse abbraccino la prospettiva comunista: vi è da smantellare la potentissima capacità di "programmazione della personalità" che, attraverso media sempre più pervasivi, ma basandosi su conoscenze scientifiche approfondite e sempre più perfezionate, il sistema capitalista occidentale, a guida statunitense, ha costruito negli anni.

Per fare questo occorre un grande sforzo di critica ideologica, di cui un esempio rilevante potrebbe essere il recente lavoro del compagno Pascale (http://intellettualecollettivo.it/il-totalitarismo-liberale-le-tecniche-imperialiste-per-legemonia-culturale/).

Tuttavia non appena si provi ad impostare una cornice teorica a questi tentativi (niente più che tentativi, attualmente), ci si scontra con un riflesso condizionato dei comunisti che li porta a formulare immediatamente la condanna di "idealismo", "marxismo occidentale", "revisionismo" ecc. ecc.

Fatto che mi porta a presumere vi sia una fissazione su un malinteso materialismo (volgare) che limita le possibilità di ricerca all'interno della cornice del marxismo-leninismo, e che costituisce una parte non indifferente del problema che dobbiamo risolvere.

Va da sè che ho semplicemente tratto spunto dalla frase in epigrafe per ribadire un concetto che mi preme in modo particolare.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit