Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Alla ricerca dell’alleato: la Agrarfrage di Karl Kautsky

di Eros Barone

bagna1La Questione agraria (1899) di Karl Kautsky si compone di tre parti distinte, anche se fra loro logicamente connesse: una prima parte generale e prevalentemente teorica; una seconda parte dedicata all’analisi degli aspetti specifici dell’agricoltura sul finire del secolo XIX, con una particolare attenzione alla Germania; una terza parte conclusiva in cui sono formulate le grandi linee del programma politico della socialdemocrazia tedesca nei confronti dei contadini e riguardo ai problemi dell’agricoltura. Il fine che viene esplicitamente perseguito dall’autore è quello di «… studiare se e come il capitale si impadronisce dell’agricoltura, la trasforma, rende insostenibili vecchie forme di produzione e di proprietà e crea la necessità di nuove forme. Soltanto quando avremo risposto a queste questioni potremo vedere se la teoria di Marx è applicabile all’agricoltura o no…». 1 In altri termini, Kautsky si è prefisso di sottoporre Il Capitale ad una specie di verifica, e quanto questa sia stata positiva è testimoniato dall’influsso durevole di quest’opera sull’ala sinistra della socialdemocrazia e sul pensiero di Lenin in particolare. 2 Nelle note seguenti si cercherà di porre in luce le categorie teoriche, i contenuti più rilevanti e il metodo dialettico che caratterizzano il ‘magnum opus’ kautskiano e, grazie anche al confronto con l’elaborazione di Lenin sullo stesso tema, ne rendono quanto mai ricca ed istruttiva la lettura.

 

  1. La transizione dall’agricoltura feudale all’agricoltura moderna

Innanzitutto, Kautsky sottolinea che il mutamento che si è compiuto nell’agricoltura va collegato, per usare le parole di Lenin, «con lo sviluppo del mercato (in particolare, lo sviluppo delle città) e la subordinazione della economia rurale alla concorrenza che ha imposto la trasformazione dell’agricoltura e la sua specializzazione». 3

La famiglia contadina medievale costituisce una comunità economica quasi autosufficiente sia per i mezzi di sussistenza che per quelli di produzione, ed il mercato non ne condiziona l’esistenza. Il ‘virus’ che aggredisce il mondo agricolo è l’industria urbana, la quale, con i suoi prodotti a buon mercato, emargina rapidamente l’artigianato delle campagne. I prodromi di tale mutamento già si avvertono verso la fine del medioevo per opera dell’artigianato cittadino; ma è solo l’industria capitalistica che vibra il colpo mortale: «…e soltanto il sistema di comunicazioni capitalistico sottopone tutta la popolazione rurale…a questo processo». 4 Così, divenuta mercantile la produzione del contadino, si accresce il suo bisogno di denaro per acquistare l’indispensabile alla vita dell’azienda. Egli ora dipende strettamente dal mercato e quanto più lontani e stabili sono i mercati per cui egli produce, tanto più si rende necessaria l’intermediazione del mercante. E, ugualmente, di riflesso rispetto alla trasformazione del prodotto in merce, aumentano l’importanza del credito ipotecario e la soggezione del contadino a quest’ultimo. D’altra parte, se vi è ancora un limite alla definitiva liquidazione dell’economia domestica, esso è soprattutto da attribuirsi al fatto che il mercato interno è debole e che i suoi sviluppi sono lenti.

Non è qui possibile esaminare la questione di come la produzione mercantile aggravi nell’àmbito dei feudi lo stato di soggezione e di sfruttamento del contadino sollecitando una maggiore divisione del lavoro parallelamente ai nuovi metodi di coltura, mentre la proprietà comune viene erosa con velocità proporzionale alla trasformazione capitalistica dell’agricoltura. Ciò che merita di essere posto in particolare evidenza è che, secondo Kautsky, il passaggio dell’agricoltura alle forme capitalistiche si verifica in primo luogo come azione dall’esterno, il che provoca l’intervento dall’interno di altre forze dissolvitrici corrispondenti alla necessità di un maggior volume di produzione. La distruzione dell’artigianato contadino crea l’agricoltura pura, nettamente separata dall’industria, ne sollecita il ricorso al mercato urbano e quindi, contemporaneamente, lo sviluppo produttivo e la necessità d’un crescente plusprodotto. Da qui nasce la spinta che mette in moto forze endogene che progressivamente dissolvono le tradizionali comunità contadine in direzioni molteplici con la formazione di una classe di possidenti all’interno e la preponderanza della grande proprietà all’esterno. Parimenti, si evolve la proprietà fondiaria delle famiglie feudali (e dall’analisi di Kautsky si evince come l’apparizione dell’affittuario capitalista sia solo uno dei fenomeni, anche se tipico) ed il possesso della terra si attua in forme giuridiche sempre più rispondenti al nuovo contenuto. D’altro canto, ancora dall’esterno intervengono ulteriori fattori di rivolgimento: le macchine, i concimi e le innovazioni scientifiche condizionano in modo nuovo l’agricoltura. E si vanno ugualmente delineando due movimenti in apparenza contraddittori, ma non per questo meno sinergici: da un lato, il contadino abbandona il campo che non basta più alla sua esistenza; dall’altro, le aziende agricole richiedono una massa crescente di manodopera. «Lo stesso processo che da un lato crea il bisogno di operai salariati, dall’altro crea questi operai». 5 Il capitale – fino ad un certo momento attore esterno del processo, come capitale usurario e commerciale – giunge ora a realizzare e ad estendere anche nelle campagne le sue basi sociali, il suo modo di produzione.

Con ciò l’esame del processo di trasformazione, se per un verso si presenta come estremamente complesso dal punto di vista storico, per un altro verso delimita il campo della trattazione svolta nel V capitolo, dove la teoria della rendita viene inquadrata in una sinossi storica delle leggi economiche, che tiene presenti tutte le forze che si contrappongono allo schema teorico puro, così da permettere l’identificazione di quest’ultimo come linea di forza operante nella realtà, ma non come risoluzione totale della realtà stessa, giacché la permanenza dell’antico nel nuovo (che in parte condiziona il nuovo e in parte ne è modificato) dà luogo ad un processo necessariamente vario ed originale.

«Lo sviluppo degli organismi è condizionato non soltanto dall’adattamento ma anche dalla eredità; le lotte delle classi che sviluppano la società umana sono dirette non soltanto alla distruzione ed alla creazione ex novo, ma anche alla conquista, e però alla conservazione di ciò che esiste […]». 6

Ed a questa realtà di fatto deve corrispondere evidentemente uno specifico orientamento del pensiero, che Kautsky esprime attraverso la distinzione tra situazioni e tendenze: «Le tendenze dello sviluppo sociale, anche quelle dello sviluppo agricolo, sono fondamentalmente le stesse in tutti i paesi civili, ma le situazioni che esse hanno creato sono estremamente diverse nei diversi paesi e persino nelle diverse parti d’uno stesso paese, in virtù delle differenze della situazione geografica, del clima, della configurazione del suolo, del passato storico, e di conseguenza, della forza delle differenti classi sociali ecc. […]». 7 Ne deriva insomma la necessità di mantenere intatto ed anzi rafforzare il cordone ombelicale che lega le situazioni alle tendenze; e questo risulta ancora più chiaramente quando dalla teoria si passa al programma politico, all’azione: qui - si può aggiungere - la distinzione fra tendenza e situazione in un certo senso si annulla.

D’altronde, la distinzione è plausibile solo come volgarizzazione del rapporto fra essere e modo d’essere, ma non come ipostatizzazione della tendenza in un essere assoluto, del quale le situazioni sarebbero gli accidenti (a questo livello dell’analisi logico-dialettica giova semmai recuperare la categoria ontologica, spesso trascurata, di inerenza). 8 Chi possiede una conoscenza anche soltanto superficiale del Capitale sa che per Marx le situazioni non rappresentano l’oggettivarsi particolare dello spirito (cioè delle leggi dell’economia politica), ma sono il reale, la cui conoscenza diviene possibile solo attraverso un processo di astrazione, talché le tendenze sono di fatto, ‘inter alia’, il risultato del processo conoscitivo secondo il quale il dato si ordina. 9

Un esempio, fra i tanti, risulta illuminante: il fenomeno della moneta può considerarsi come una situazione (quindi un modo d’essere) rispetto alla tendenza, ossia rispetto al valore di scambio nella sua formulazione più generale; ed ancora i prezzi di produzione si configurano come una forma del valore che apparentemente entra in contraddizione con il concetto stesso di valore. Questo però significa che la tendenza o legge generale si configura, a sua volta, come il punto più alto dell’astrazione. Sennonché, se si pone mente al caso particolare della teoria del valore, non si tratta soltanto di astrazione come mero processo conoscitivo, bensì come astrazione delle e nelle cose stesse: la legge del valore, violata nel particolare dal sistema dei prezzi di produzione che opera a livello di astrazione pura, nel generale (quindi nel complesso dell’economia) si trova confermata come reale. L’astrazione è qui astrazione dei fenomeni stessi e non solo un processo del conoscere. D’altro canto, ciò che oggi figura come astrazione, nel divenire storico appare come immediata realtà oggettiva dei fenomeni (dal baratto delle tribù al moderno mercato capitalistico), conformemente a quanto asserisce Engels circa le metamorfosi del modo logico che, sia pure attraverso molteplici mediazioni, non è altro che «il modo storico unicamente spogliato della forma storica e degli elementi occasionali perturbatori», laddove naturalmente il “modo logico” e il “modo storico” vanno intesi come due aspetti alternativi, almeno dal punto di vista metodologico, di messa in esecuzione dell’unico metodo di Marx (nella sua critica dell’economia politica). 10

Se per contro la distinzione fra tendenza e situazione viene cristallizzata, subentra il pericolo di subordinare forzatamente la realtà concreta e particolare ai princìpi generali, di irrigidire, cioè, i princìpi generali riducendoli o a mete verso cui muove irresistibilmente la storia, indipendentemente dalla coscienza del complesso e sottile rapporto situazione-tendenza, o a metodo che, come un ‘passe-partout’, apra tutte le porte della realtà. Da questo genere di premesse possono poi derivare altre conseguenze: la sottovalutazione del ruolo dell’azione cosciente, da una parte; la sopravvalutazione di alcuni schemi concettuali, dall’altra. Questa digressione sembra necessaria, in quanto Kautsky, se avverte che lo studio delle situazioni è decisivo, di contro, come si vedrà meglio nel prosieguo dell’esposizione, non evita che la distinzione fra situazioni e tendenze si ritorca contro di lui, spingendolo verso una sorta di fatalismo e di accentuazione delle tendenze come tali, mentre le situazioni divengono “accidenti”.

 

  1. La teoria della rendita agraria

Come è noto, la teoria della rendita agraria di Marx è contenuta nella Sesta sezione del terzo volume del Capitale, pubblicato da Engels nel 1894, cioè solo cinque anni prima della Questione agraria. Inoltre Kautsky già doveva conoscere, ancor prima della morte di Friedrich Engels, quella parte fondamentale delle Teorie sul plusvalore che è dedicata alla rendita e che apparve solo dopo il 1905. 11

D’altro canto non si può certo dire che nel 1898 (come oggi, del resto) la conoscenza complessiva del Capitale fosse molto diffusa nell’ambiente socialdemocratico e tanto meno in quello cosiddetto colto. I motivi che concorrevano (e che concorrono) a tale stato di cose erano molteplici; ma soprattutto uno era rilevante, quello puntualizzato da Engels: «Sombart e Schmidt […] non tengono abbastanza in considerazione che non si tratta qui solo di un puro processo logico, ma di un processo storico e del suo riflesso interpretativo nel pensiero, la ricerca logica dei suoi nessi interni». 12 Nella introduzione Kautsky ricorda infatti proprio Werner Sombart per il quale la fortuna del marxismo era legata alla fortuna della grande azienda agricola; ed osserva quanto segue: «La teoria marxista del modo di produzione capitalistico non consiste […] semplicemente nel ridurre lo sviluppo di questo modo di produzione alla formula “eliminazione della piccola azienda da parte della grande azienda”, in modo che chi conosca a memoria questa formula ha in tasca la chiave di tutta la moderna economia. Se si vuole studiare la questione agraria secondo il metodo di Marx, non si può allora porre soltanto la questione se nell’agricoltura la piccola azienda ha un avvenire; dobbiamo invece studiare tutti i mutamenti ai quali l’agricoltura soggiace nel corso del modo di produzione capitalistico. Noi dobbiamo studiare se e come il capitale si impadronisce dell’agricoltura, la trasforma, rende insostenibili vecchie forme di produzione e di proprietà e crea la necessità di nuove forme». 13

La prima forma di rendita che Marx analizza è quella differenziale, la quale può essere ricondotta, in prima approssimazione, alla categoria del plusprofitto. 14 Marx offre a questo proposito l’esempio di due industrie dello stesso ramo di produzione di cui una utilizzi come forza motrice una macchina a vapore e l’altra l’energia idraulica di una cascata. Ipotizzando che la seconda sopporti un costo di forza motrice inferiore alla prima e che la maggioranza delle industrie di quel ramo impieghi macchine a vapore, si verifica che quella che impiega l’energia idraulica realizza un plusprofitto. Questo deriva evidentemente dalla differenza tra il prezzo di produzione individuale di quella particolare industria e il prezzo di produzione generale che regola i prezzi di mercato in quella sfera. Ma l’analogia della rendita differenziale col plusprofitto finisce qui perché essa se ne distingue per la sua particolare origine. Il plusprofitto che si realizza nella rendita differisce infatti dal comune plusprofitto in quanto non scaturisce da una particolare applicazione del capitale stesso o da una sua più accorta utilizzazione, ma dall’impiego di una forza naturale che può essere soggetta a monopolio e che in effetti è stata monopolizzata. A questo punto il plusprofitto si trasforma in rendita che, nel caso in oggetto, spetta al proprietario della cascata. Sennonché Marx non accetta la rendita differenziale nella stretta formulazione degli economisti classici (Malthus e Ricardo), basata sulla produttività sempre decrescente dell’agricoltura. Il presupposto della rendita differenziale, scrive Marx, «è unicamente la diseguaglianza di diversi tipi di terreno. Per quanto riguarda lo sviluppo della produttività, essa presuppone che l’accrescimento della fertilità assoluta della superficie complessiva non sopprima questa differenza, ma l’aumenti, la lasci stazionaria, oppure la diminuisca semplicemente». 15

D’altro canto, è evidente che se Marx avesse accettato la rendita differenziale classica avrebbe anche dovuto accettare la teoria malthusiana secondo cui «la popolazione esercita una pressione sui mezzi di sussistenza». Comunque, basti ricordare la vasta tipologia della rendita differenziale che Marx svolge dal capitolo 39° al 44°, con particolare riferimento alla cosiddetta rendita intensiva (e che Marx chiama rendita II). E proprio in relazione ai molteplici casi della rendita intensiva, Marx nota come Ricardo si sia limitato a considerare uno solo dei molteplici casi possibili, cioè solo quello in cui il rendimento decrescente dei capitali investiti porta ad un aumento del prezzo, ad una diminuzione del saggio di profitto e all’aumento della rendita. Ed infatti sia Kautsky che Lenin 16 dedicheranno grande spazio alla critica della teoria della produttività decrescente.

Per quanto concerne la rendita soluta, Marx non si è mai sognato di attribuirne la causa alla bassa composizione del capitale nell’agricoltura. Dopo aver esposto l’importanza del tempo di rotazione del capitale, Kautsky osserva, riferendosi ad un autore molto letto e discusso negli ambienti socialdemocratici, che «Rodbertus è dunque in errore quando suppone che dalla bassa produttività del capitale agricolo debba per necessità naturale derivare un profitto straordinario, se i prodotti agricoli vengono venduti al loro valore. In primo luogo la composizione di questo capitale non è necessariamente bassa, in secondo luogo gli effetti possono essere più che compensati dalla lentezza della rotazione del capitale nell’agricoltura». 17

E che l’osservazione di Kautsky risponda al pensiero di Marx anche per quanto riguarda la composizione del capitale agricolo è dimostrato da ciò che Marx stesso scrive nel terzo volume sulla diminuzione assoluta del capitale variabile nell’agricoltura di contro all’aumento assoluto dello stesso nell’industria o, in genere, nell’attività economica dei centri urbani (quindi, per quanto concerne la situazione contemporanea, nel campo del commercio, del cosiddetto terziario avanzato, della logistica ecc.). 18 In realtà - aggiunge Kautsky - Rodbertus, cercando di dimostrare che dalla bassa composizione del capitale agricolo deve nascere la rendita assoluta, ha indicato come può nascere. Kautsky qui si riferisce al problema che Marx esponeva ad Engels nella sua nota lettera del 9 agosto 1862: «L’unica cosa che io debbo dimostrare teoricamente è la possibilità della rendita assoluta, senza ledere la legge del valore». 19

Ed infatti per Marx la più bassa composizione del capitale agricolo rispetto al capitale medio è la condizione per cui il valore dei prodotti agricoli può superare il loro prezzo di produzione. «Tuttavia – soggiunge Marx – il semplice fatto di una eccedenza del valore dei prodotti agricoli al di sopra del loro prezzo di produzione, non basterebbe di per sé a spiegare l’esistenza di una rendita fondiaria indipendente dal differente grado di fertilità dei terreni o dai successivi investimenti di capitale sul medesimo terreno, in breve di una rendita che […] possiamo perciò chiamare rendita assoluta». 20 È necessario quindi che una forza estranea intervenga ad impedire quel livellamento dei prezzi di produzione al prezzo generale che è assicurato dalla concorrenza. «Ma appunto come una tale forza estranea, come una tale barriera la proprietà fondiaria si contrappone al capitale nei suoi investimenti nella terra, ossia il proprietario fondiario si contrappone al capitalista». 21

 

  1. I diversi aspetti del rapporto ‘capitale – proprietà’

È peraltro indubbia l’importanza che la teoria della rendita ha avuto nei programmi della socialdemocrazia per quanto concerne la nazionalizzazione della terra. In questo senso è allora opportuno soffermarsi su una questione che in parte ne deriva, ed attiene alla separazione fra proprietà della terra e rapporti capitalistici di produzione. Osserva Marx che uno dei grandi risultati del modo di produzione capitalistico è costituito dalla razionalizzazione dell’agricoltura (nel quadro dei rapporti dati con la proprietà fondiaria) e dal «liberare radicalmente la proprietà fondiaria, da un lato, dai rapporti di servitù e di schiavitù, il separare nettamente, dall’altro, la terra, come condizione di lavoro, dalla proprietà fondiaria e dal proprietario fondiario […]»: insomma, «la riduzione ad absurdum della proprietà fondiaria». 22

Orbene, questa tendenza del capitalismo a creare le forme adeguate ai sottostanti rapporti sociali di produzione deve mettere in guardia contro certe interpretazioni sovrastrutturali del marxismo, rivolte ad identificare in modo semplicistico capitale e proprietà privata. Scrive infatti Kautsky, trattando del comunismo di villaggio: «La rivoluzione cui tende la socialdemocrazia è in primo luogo una rivoluzione economica, non giuridica, un rovesciamento non dei rapporti di proprietà, ma del modo di produzione. Suo scopo è l’abolizione non della proprietà privata, ma del modo di produzione capitalistico: essa tende alla eliminazione della prima soltanto come mezzo per l’abolizione del secondo. Le maggiori difficoltà che si ergono davanti al socialismo non sono nel campo giuridico ma in quello economico». 23

Questa affermazione, sotto il profilo teorico, è del tutto coerente con la definizione di capitale come rapporto sociale di produzione. Codesto rapporto sociale, sancito nel contratto di lavoro, si basa apparentemente su due condizioni giuridiche: l’inalienabilità della persona da un lato, la proprietà privata dei mezzi di produzione dall’altro. Ma l’una e l’altra non determinano affatto la nascita del capitale sin tanto che la proprietà privata dei mezzi di produzione non è negata ad una parte della società, sin tanto che non esiste il proletariato, sin tanto che non si è instaurato un determinato rapporto sociale di produzione. Caratteristica del capitale, infatti, non è solo quella di produrre merci, ma anche quella di produrre proletari. Se ne deduce quindi che le variazioni nell’estensione, nelle forme e nei soggetti del diritto di proprietà sono solo indici del grado di sviluppo del capitalismo, ma non della sua esistenza o inesistenza.

Ciò che, ad esempio, caratterizza l’evoluzione del diritto di proprietà nella società capitalistica è, al netto della volgare propaganda sulla centralità dell’impresa e, ‘of course’, degli imprenditori, il suo crescente grado di spersonalizzazione: proprietario non è solo l’individuo capitalista, ma in misura crescente un ente astratto costituito dall’associazione dei capitalisti, ciascuno dei quali si configura non come proprietario ma come creditore verso l’associazione stessa e quindi separa le proprie responsabilità da quelle dell’impresa, limitando il rischio alla perdita del capitale anticipato. Nella società per azioni il processo di vanificazione del rapporto ‘capitalista – mezzi di produzione’ si accentua ulteriormente, in quanto l’azione non è solo un titolo di credito verso l’azienda, ma è anche un mezzo di assorbimento di denaro e di trasformazione del denaro in capitale. In tal modo, all’interno della associazione capitalistica si vengono a distinguere di fatto (e in parte anche di diritto) i maggiori creditori dalla miriade dei piccoli azionisti: i primi sono creditori e controllori, ossia determinano l’indirizzo generale dell’azienda come se fossero i proprietari dei mezzi di produzione ‘stricto sensu’; i secondi sono meri creditori e i loro poteri di fatto nella gestione aziendale non superano quelli dei depositanti nei confronti della gestione delle banche. Come osserva Marx, le società per azioni «sono l’annullamento dell’industria privata capitalistica sulla base del sistema capitalistico stesso, e distruggono l’industria privata a misura che esse si ingrandiscono e invadono nuove sfere di produzione» 24 ; e ancora: esse sono «la soppressione del capitale come proprietà privata nell’àmbito del modo di produzione capitalistico stesso». 25 È poi superfluo aggiungere che il modo di produzione capitalistico non muta perché la proprietà dei mezzi di produzione è stata sostituita dal possesso di titoli di credito su quei mezzi di produzione, anche se quegli stessi titoli di credito sono solo una maggioranza relativa. Dedurre quindi dalla vanificazione della proprietà o, viceversa, dall’azionariato operaio, la conclusione secondo la quale il capitalismo si autoelimina o il marxismo perde in ciò una delle basi di fatto su cui poggia la sua analisi del capitale, significa soltanto aver frainteso il pensiero di Marx ed aver confuso la forma con la sostanza, il diritto con l’economia (laddove è da notare che i giuristi cadono nell’equivoco assai meno facilmente degli economisti).

Per contro, va rilevato che lo sviluppo delle società per azioni determina, oltre all’ulteriore sviluppo del modo collettivo di produzione, anche la socializzazione crescente del capitale stesso, mentre lascia intatto il modo privato dell’appropriazione (la quale, a sua volta, assume forme nuove, in relazione al passaggio dalla proprietà al controllo) e acuisce ulteriormente il contrasto fra i molteplici aspetti dell’economia capitalistica. Così, mentre la collettività è più che mai impotente nel determinare la destinazione di quel plusvalore che essa stessa ha creato o ha contribuito a creare, il modo di produzione capitalistico è più vivo e vegeto di prima, poiché, grazie al credito, la proprietà si è andata oscurando.

Sennonché chi non vede che oggi l’abolizione del diritto di proprietà privata dei mezzi di produzione, inteso nel senso letterale della parola, comporterebbe soprattutto l’espropriazione degli artigiani, e in genere della piccola proprietà contadina, lasciando invece intatto il modo di produzione capitalistico? E in realtà codesta espropriazione viene attuata dal capitale stesso che, se nella proprietà di tipo tradizionale (precapitalistica) vede entro certi limiti un presidio sociale contro la pressione politica del movimento di classe, di converso non può non considerarla un limite alla sua stessa espansione (basti pensare allo sviluppo ipertrofico della grande distribuzione organizzata nei diversi settori del consumo di massa, a partire da quello alimentare). Del resto, su come la proprietà privata venga svuotata di contenuto nelle campagne e riduca il proprietario, ‘de jure’ indipendente, ad una posizione di dipendenza ‘de facto’, Kautsky ha scritto numerose e tuttora interessanti pagine. In questi casi il rapporto ‘capitale – proprietà’ assume decisamente nuovi aspetti.

Lo schema classico del sistema dell’agricoltura capitalistica, quale si presenta a Ricardo e a Marx, era basato sul triplice rapporto ‘proprietario – affittuario capitalista – lavoratore salariato’. Con lo sviluppo del credito ipotecario la tripartizione diviene meno chiara: «Qui – osserva Kautsky – ritroviamo ancora la dicotomia del proprietario fondiario e imprenditore, celata […] sotto forme giuridiche particolari. La rendita fondiaria, che nel sistema dell’affittanza tocca al proprietario fondiario, nel sistema ipotecario spetta al creditore; questi è il proprietario della rendita fondiaria, e di conseguenza il vero proprietario della terra. Il proprietario nominale, al contrario, è in realtà un imprenditore capitalista che percepisce il guadagno d’imprenditore e la rendita fondiaria, e restituisce la rendita sotto forma di interessi ipotecari: se la sua impresa fallisce, se non può pagare la rendita fondiaria di cui è debitore, deve abbandonare la sua pseudo-proprietà, come l’affittuario che non paga l’affitto deve abbandonare la sua affittanza […]. L’unica differenza fra il sistema di affittanza e il sistema ipotecario è che nel secondo l’effettivo proprietario fondiario si chiama capitalista e l’effettivo imprenditore capitalista si chiama proprietario fondiario». 26

Effettivamente, dal punto di vista della ripartizione del reddito in rendita, profitto e salari (punto di vista da cui parte Kautsky) le differenze fra i due sistemi si configurano in questi termini. Si può aggiungere che nel sistema ipotecario ha un peso determinante, rispetto ai tradizionali diritti di proprietà, l’esistenza del credito, ossia l’impiego di capitale-denaro nella terra. In tal modo la proprietà, intesa come momento separato dalla gestione dell’impresa, si ricostituisce, ma su una base economicamente del tutto nuova, ossia prettamente capitalistica. Nel caso dell’affittanza capitalistica il capitale introduce il suo modo di produzione dentro la proprietà preesistente, riducendola, per usare l’espressione di Marx, ‘ad absurdum’, fino al punto di ottenere l’identificazione ‘capitale – proprietà’. Nel caso del sistema ipotecario, invece, il modo di produzione capitalistico già esiste, imprenditore e proprietario sono la stessa persona ed è il mutuo ipotecario che fa del capitalista, in quanto nuovo tipo di percettore di rendita, un capitalista in atto. E se si riflette che il creditore-ipotecario è in pratica un’associazione di capitalisti – una società per azioni, appunto – è facile notare anche qui, in forma latente, quel processo che Marx descrive nel terzo volume del Capitale: «Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari». 27

In sostanza, è possibile identificare due tendenze opposte: quella che tende a fare dell’imprenditore un proprietario e quella che porta l’imprenditore a divenire “amministratore di capitale altrui”. La prima passa attraverso l’eliminazione della proprietà come momento autonomo, la seconda ricostituisce l’autonomia della proprietà su basi nuove, corrispondenti allo sviluppo del credito e della società per azioni.

Un’altra questione interessante, cui Kautsky accenna, è quella relativa allo sviluppo dell’industria agricola (industria di trasformazione), la quale sia come attività svolta dalla grande azienda agricola, sola od associata in cooperative, 28 sia come intervento dell’industria urbana fa sì che «il contadino cessa di essere il padrone della sua azienda agricola, che diviene un’appendice dell’azienda industriale, sulle esigenze della quale deve regolarsi. Il contadino diventa un operaio parziale della fabbrica». 29 Così, il contadino si trova a dipendere tecnicamente ed economicamente dall’industria di trasformazione non solo perché questa fa credito, ma anche perché essa tende a divenire l’unica acquirente delle merci del contadino stesso.

Ovviamente Kautsky si riferisce qui al piccolo proprietario contadino e non alla grande azienda. Ora, ciò che giova rilevare è come in questo caso il capitale non aggredisca necessariamente e principalmente la proprietà ma il modo di produzione, tendendo a trasformarlo da lavoro artigiano in lavoro di tipo capitalistico, sia pure con alcune caratteristiche peculiari: resta intatto il diritto di proprietà, quindi il lavoratore-contadino non percepisce il salario come tale ma come profitto, sebbene non manchino i casi in cui tale profitto è inferiore alla media dei salari industriali. La “reductio ad absurdum” della proprietà assume ancora un’altra fisionomia e rivela la natura proteiforme del capitale stesso, nel mentre stravolge i rapporti sociali reali presentandoli secondo modalità apparentemente inadeguate e in contraddizione con il rispettivo contenuto. Sennonché il “mondo stregato del capitale” opera in modo che tali forme, pur essendo stravolte, restino idonee ad includere oggettivamente il contenuto stesso. 30

 

  1. Il principio della supremazia della grande azienda

Il plesso di problemi che è stato qui preso in considerazione è strettamente collegato, nella Agrarfrage, con il principio della supremazia della grande azienda agraria sulla piccola. E del resto, come è noto, Lenin – sulle orme di Kautsky, in polemica con i critici di Marx e dello stesso Kautsky – ha dedicato largo spazio alla delucidazione del principio e della sua portata. In questa sede occorre rilevare, prima di tutto, che la grande azienda (e non solo quella agricola) ha, per il marxismo, dimensioni date non solo tecnicamente ma anche economicamente in ogni momento del processo di sviluppo del capitalismo: la grandezza dell’azienda 31 è determinata di volta in volta, a parità di circostanze, dal livello delle forze produttive (grado di meccanizzazione, impiego di concimi chimici ecc.).

D’altro canto, quelle forze che favoriscono lo sviluppo della grande azienda e che determinano la subordinazione della piccola alla grande, sono anche le stesse che, entro certi limiti, conservano le piccole aziende e persino ne moltiplicano il numero, in apparente contraddizione con il principio. E invero l’abolizione del fedecommesso e di analoghi residui del medioevo apre le porte dell’agricoltura al capitale, ma nel contempo favorisce la parcellizzazione delle terre. 32 Comunque sia, vale in genere il principio osservato da Kautsky: «Là dove [la grande azienda] diviene la forma predominante, fa scomparire le aziende più piccole, ma ciò non vuol dire che i piccoli imprenditori divengano tutti operai di fabbrica: essi si dedicano ad altri mestieri, in cui la grande azienda ancora non predomina, e li sovraffollano. Così la concorrenza capitalistica rovina anche quelle branche dell’industria in cui non regna ancora la grande azienda. Ma questo processo non si manifesta sotto forma di una diminuzione generale delle piccole aziende, al contrario esso produce qua e là un aumento delle piccole aziende […]». 33 Inoltre anche nei settori dove la grande azienda ha trionfato, la scomparsa della piccola azienda non avviene automaticamente: il sopralavoro «prolunga la loro agonia all’estremo» 34 e fa della piccola azienda, sotto il profilo sindacale, il luogo d’ogni sopruso, tanto più che essa si configura, spesso, come fornitrice della grande azienda in aspra concorrenza con innumerevoli altre aziende similari. 35 Ma vi è di più: in taluni casi, specialmente nel settore dell’industria, si è vista la grande azienda dissolversi, vendere (ad esempio) i telai ai lavoratori trasformandoli in artigiani e ricreare ‘ex novo’ (cosa che forse sarebbe sembrata assurda persino a Kautsky) il lavoro a domicilio, percorrendo a ritroso il cammino già compiuto. Infine, giustamente, Kautsky sottolinea che lo Stato può dare, e spesso dà, il suo appoggio, per ragioni politiche, agli strati sociali che hanno perso la loro forza economica, addossando i costi di tale appoggio al proletariato.

 

  1. Dalla teoria al programma

«In quanto il proletariato interviene in questo processo dello sviluppo capitalistico, il suo compito non può essere quello di favorirlo […], tuttavia non può essere nemmeno quello di impedirlo, ma soltanto di attenuare, fin che è possibile e senza danneggiare lo sviluppo, le conseguenze rovinose, degradanti, che ne derivano agli strati della popolazione da esso colpiti». Questo è in sintesi il principio che domina la visione politica di Kautsky per quanto riguarda il programma agrario della socialdemocrazia. Non desta pertanto meraviglia, nella situazione storica tedesca, il suo atteggiamento sfavorevole alla nazionalizzazione della terra e al monopolio statale del credito ipotecario e del commercio del grano, cui fa riscontro l’atteggiamento nettamente favorevole alla municipalizzazione della terra, ma con l’esclusione dei comuni rurali, ritenuti incapaci di provvedere alla gestione di una moderna grande azienda. 36 Di conseguenza, fatta eccezione per i boschi e per le acque, Kautsky esclude (per il momento) l’intervento dello Stato e limita quello municipale alle sole città.

L’azione della socialdemocrazia viene dunque incardinata su due assi portanti: a) politica in favore del proletariato rurale e cioè provvedimenti che eliminano gli ostacoli alla libera attività ed organizzazione del proletariato e che sono diretti a tutelarne le capacità fisiche, intellettuali e morali (diritto di coalizione, libertà di domicilio, protezione dei fanciulli, scuole obbligatorie, bracciantato vagante, orario di lavoro ecc.); b) politica in favore dell’agricoltura e della popolazione rurale nel suo complesso (liquidazione die privilegi feudali, unificazione delle proprietà parcellari, bonifiche, lotta contro le epidemie, per un verso; istituzione dell’esercito popolare, attribuzione delle spese per le scuole allo Stato, nazionalizzazione del sistema sanitario, gratuità dell’amministrazione della giustizia, ricorso all’imposta progressiva sui redditi, nazionalizzazione o municipalizzazione dei monopoli privati ecc., per un altro verso).

Come si può notare, il programma agrario di Kautsky comprende elementi che tuttora sono parte integrante dei programmi dei partiti della sinistra socialista e comunista, anche se ovviamente il contenuto è spesso molto cambiato. È poi opportuno rammentare quale fosse la congiuntura storica in cui si inseriva la ricerca di Kautsky sulla questione agraria e la conseguente elaborazione del corrispettivo programma della socialdemocrazia tedesca. D’altra parte, la crisi agraria, che investì l’Europa negli ultimi decenni dell’800 e che provocò un impoverimento delle masse contadine, non poteva lasciare indifferenti le organizzazioni socialiste che vedevano concretizzarsi in agricoltura le contraddizioni tipiche dello sviluppo capitalistico: la concentrazione economica e la proletarizzazione sociale. Inoltre, occorre tener conto del fatto che in Germania le leggi antisocialiste impedirono fino al 1890 un’azione aperta e continuativa del partito nel territorio nazionale, talché non fu possibile porre ed affrontare i problemi inerenti all’attività politico-sindacale nelle campagne prima di tale data.

In effetti, Kautsky, all’epoca della pubblicazione della Agrarfrage, era preoccupato a causa di due fattori di debolezza della socialdemocrazia: il pericolo di isolamento della classe operaia e, quindi, la necessità di una politica agraria; il pericolo, d’altro canto, di subordinare, su questa strada, la classe operaia e il suo partito alla politica economica del capitale. Ecco perché il programma agrario da lui elaborato sulla scorta di una elaborazione teorica rigorosa e di un’inchiesta approfondita intorno alle condizioni concrete delle campagne, è un programma a favore del proletariato rurale e, in generale, dell’agricoltura (nella misura in cui questa coincide con gli interessi del proletariato), ma non a favore del contadino (proprietario-capitalista).

A parte resta la questione del piccolo proprietario; sennonché, anche se sussistono qui le condizioni oggettive d’una alleanza, a giudizio di Kautsky il programma politico della socialdemocrazia non deve imperniarsi su tale questione, pur non ignorandola, perché non deve perdere di vista il quadro generale. Il limite che acquista semmai un crescente risalto per via del metodo che presiede alla elaborazione teorico-politica di Kautsky, pur così ricco di spunti dialettici e di pregi analitici, è una visione fatalistica della storia come un processo scandito da una sorta di divenire in sé ineluttabile con tre protagonisti: la borghesia che incarna il presente e nel presente opera per il futuro, la piccola borghesia che proietta nel presente il passato e la classe operaia che incarna il futuro e agisce nel presente solo in quanto vi intravede i germi del futuro. In questa visione la lotta di classe come azione cosciente, come espressione di una volontà, come affermazione di una funzione egemonica, si offusca necessariamente. Non a caso l’autore così declina il ruolo storico del partito operaio nella parte conclusiva della Agrarfrage: «La socialdemocrazia, che deve svolgere un’azione positiva e animatrice quando si tratta di operare nell’interesse del proletariato, allorché si trova a difendere gli interessi della generalità nella società odierna, non può che assumere in sostanza un atteggiamento negativo, di difesa. In questo campo i suoi aspetti positivi rimarranno per forza sempre in secondo piano di fronte ai suoi aspetti negativi, almeno fintanto che essa non avrà un’influenza determinante nella vita dello Stato». 37

 

6. L’approccio di Lenin alla questione agraria

In uno scritto del 1899, in cui polemizza con un certo Bulgakov, scritto nel quale vengono illustrate e difese, contro le critiche del suo interprete russo, le tesi esposte da Kautsky nella Agrarfrage, Lenin affermava, ribattendo un’opposta affermazione del suo interlocutore, che dall’opera di Kautsky risultava perfettamente chiaro come nell’agricoltura moderna il progresso tecnico fosse promosso dalla «borghesia rurale, grande e piccola». 38 Sennonché Lenin in questo scritto non si limita ad esporre il pensiero di Kautsky e a difenderlo contro gli attacchi e le critiche di cui era stato oggetto da parte del Bulgakov, ma avanza implicitamente un’accentuazione delle tesi contenute nell’Agrarfrage. Lenin era evidentemente portato a sottolineare quegli aspetti di tale tesi che confermavano i punti di vista da lui stesso espressi nello Sviluppo del capitalismo in Russia, cui proprio in quel torno di tempo aveva finito di lavorare. Quando infatti, nel marzo 1899, ricevette in Siberia, dove era deportato, il testo dell’opera kautskiana, egli si affrettò a scrivere al suo editore pregandolo di consentirgli di aggiungere, nella prefazione, un cenno su questa importante novità saggistica. Tale integrazione dell’ultima ora venne così inserita nella prefazione alla prima edizione dello Sviluppo del capitalismo in Russia. In essa l’Agrarfrage veniva definita l’«avvenimento più notevole della più recente letteratura economica dopo il terzo volume del Capitale» 39 e veniva sottolineata la concordanza di molti dei giudizi in essa formulati con quelli dell’autore per concludere con la constatazione della «piena corrispondenza fra le concezioni dei marxisti dell’Europa occidentale e quelle dei marxisti russi». 40 Sembra quasi di notare in Lenin, oltre all’esplicito riferimento polemico agli esponenti del populismo che insistevano sulla differenza fra tali concezioni, una sorta di compiacimento per l’autorevole conferma che ai suoi punti di vista era venuta dall’opera del rappresentante più prestigioso del socialismo scientifico occidentale.

In effetti, non pochi e non secondari erano i punti di contatto fra le due opere. Entrambe partivano dal presupposto che lo sviluppo della società moderna costituisce un processo unitario ed organico nell’àmbito del quale, come dice Kautsky citato da Lenin, le tendenze e le leggi dell’economia agricola si inseriscono «come manifestazioni particolari di un unico processo generale». 41 Era questo il senso della polemica svolta da Lenin contro i populisti, così come questo era stato il senso della polemica condotta da Kautsky contro il revisionista von Vollmar nel corso dei dibattiti agrari del 1894-95 sino all’Agrarfrage. Sulla base di questo presupposto comune, i due autori giungevano, indipendentemente l’uno dall’altro, a delineare un profilo sostanzialmente identico del modo in cui era avvenuta l’avanzata del capitalismo nelle campagne, sovvertendo il modo di produzione preesistente e sgombrando il terreno per l’avvento della grande azienda retta con criteri capitalistici. Entrambi infine giudicavano questa avanzata capitalista nelle campagne un fatto positivo ed inarrestabile.

Accanto a queste analogie fondamentali, che dànno spesso luogo ad una sorprendente concordanza nei giudizi anche relativamente ad aspetti minori del problema generale al centro della disàmina, si possono però notare anche talune differenze e divergenze che, se potevano sfuggire ai contemporanei per i quali il nocciolo della questione era quello della formulazione di un pensiero marxista autonomo sulla questione agraria nei confronti delle ideologie di carattere populistico, risultano invece oggi più facilmente individuabili. Se si volesse riassumere in una formula il carattere e la portata di queste differenze, si potrebbe dire che, mentre Kautsky tende a sottolineare principalmente l’aspetto economico dello sviluppo delle campagne in senso capitalistico e, da questo punto di vista, è indotto a far battere l’accento prevalentemente sulla ineluttabilità e necessità di questo processo, in Lenin invece la maggiore attenzione prestata agli aspetti politici e sociali, alle “contaminazioni” che condizionano il processo stesso, conduce a una consapevolezza del suo carattere contraddittorio e contrastato.

Acquista perciò presso di lui maggior rilievo il problema delle “forze” sociali e politiche, delle classi e dei partiti che possono contribuire ad accelerare e a sospingere lo sviluppo oggettivo delle cose, quel problema cioè che era rimasto sostanzialmente in ombra nell’Agrarfrage. In effetti, se viene osservato dal punto di vista delle classi antagoniste e delle diverse stratificazioni sociali esistenti nelle campagne, il panorama risulta più complesso, più articolato e più contraddittorio che non da quello del contrasto tra grande e piccola proprietà agraria, tra elementi precapitalistici e capitalismo. Si comprende così perché Lenin alla affermazione secondo la quale «la borghesia contadina… è la padrona delle campagne» 42 faccia seguire la rettifica che ciò era vero soltanto nella misura in cui si faceva astrazione dai «fattori che frenano la disgregazione: semiservitù, usura, otrabotki [altri tipi di dipendenza personale]» e che «in realtà oggi i veri signori delle nostre campagne sono il più delle volte non gli esponenti della borghesia contadina, ma gli usurai rurali e i proprietari terrieri delle vicinanze». 43 In Lenin, dunque, vengono posti in maggior rilievo l’intreccio storico e l’intersecarsi dei diversi piani che ancora contraddistinguevano la realtà delle campagne. Non per nulla la sua opera, a differenza dell’Agrarfrage che è, in definitiva, un’opera teorica, ha un più spiccato carattere storico e si riferisce esplicitamente ad una specifica situazione ambientale.

Certo, le diverse accentuazioni che si possono riscontrare tra l’Agrarfrage e lo Sviluppo del capitalismo in Russia possono e debbono, in qualche misura, esser ricondotte alla differenza delle situazioni che esse più direttamente riflettevano. È infatti innegabile che quell’intreccio tra vecchio e nuovo, tra feudalesimo e capitalismo che dominava la realtà delle campagne russe, si presentava in Germania con minor evidenza e rilievo. Di qui però a concludere che la teoria leniniana della questione agraria (i cui elementi essenziali sono già presenti nello Sviluppo del capitalismo in Russia) sia solo una generalizzazione di un’esperienza tipicamente russa, il passo è lungo. Semmai la sorprendente coincidenza di giudizi, che emerge da due opere scritte contemporaneamente, l’una nel cuore della remota Siberia e l’altra nel cuore della Germania prussiana, è un fatto che prova piuttosto quanto di europeo e di universale vi è nel marxismo e nel pensiero di Lenin.

A mano a mano però che la personalità ed il pensiero di Lenin e di Kautsky andranno sviluppandosi per cammini ed esperienze diverse, l’angolo di divergenza che, attorno al 1899, è appena accennato, verrà sempre più approfondendosi e accentuandosi. Il plesso di problemi che aveva contraddistinto il dibattito sulla questione agraria in Germania e fuori della Germania negli ultimi anni del XIX secolo, plesso che affiora anche dalle pagine dell’Agrarfrage, si andrà allora gradatamente sciogliendo nella pratica della rivoluzione russa. E quando nel 1917-18, davanti alla realtà della rivoluzione d’Ottobre, Kautsky assumerà le posizioni ben note ed esprimerà le proprie riserve per il carattere “contadino” di essa, egli certo non si renderà conto che alle origini di quella politica dei bolscevichi che egli disapprovava, stavano anche la sua Agrarfrage e l’impulso che essa aveva dato allo studio della questione agraria nelle file della socialdemocrazia russa. Non lo dimenticherà però Lenin che, anche nei momenti più aspri della polemica, si preoccuperà di distinguere il Kautsky “rinnegato” dal “marxista” che, un tempo, gli era stato maestro.


Note
1 Karl Kautsky, La questione agraria, Feltrinelli, Milano 1971, p. 18.
2 È da vedere al riguardo la Teoria della questione agraria, Editori Riuniti, Roma 1972, ove è raccolto un gruppo particolarmente importante di scritti di Lenin.
3 V. I. Lenin, Teoria della questione agraria, cit., p. 16.
4 K. Kautsky, op. cit., p. 22.
5 Ivi, p. 25.
6 Ivi, p. 6.
7 Ivi, pp. 10-11.
8 La rivalutazione teoretica di questa categoria, operata nell’Estetica e nell’Ontologia dell’essere sociale, è uno dei tanti meriti di György Lukács.
9 Mi sia consentito rinviare, per un approfondimento di questa fondamentale problematica di ordine metodologico, ontologico e gnoseologico, al seguente saggio: https://www.sinistrainrete.info/filosofia/17473-eros-barone-come-si-vede-il-mondo.html.
10 F. Engels, Per la critica dell’economia politica (recensione), in «Das Volk» del 6 e 20 agosto 1859, poi in appendice a K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 208.
11 Per una valida illustrazione dell’articolazione e del significato di questa opera marxiana cfr. Teorie sul plusvalore, 3 voll., Editori Riuniti, Roma 1993, a cura di Cristina Pennavaja, introduzione di Giorgio Lunghini. Quest’ultima è reperibile nella Rete al seguente indirizzo:
http://www.criticamente.com/marxismo/marxismo_lavori/Lunghini_Giorgio_-_Teorie_sul_plusvalore_(Libro_IV_del_Capitale).pdf.
12 K. Marx, Il Capitale, libro terzo, Considerazioni supplementari di F. Engels, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 34.
13 K. Kautsky, op. cit., p. 18.
14 K. Marx, op. cit., Sesta sezione, Trasformazione del plusprofitto in rendita fondiaria, capp. 37°-38°, 39°, pp. 713-750.
15 Ivi, p. 762.
16 La questione agraria e i “critici di Marx, in V. I. Lenin, op. cit., pp. 65-199.
17 K. Kautsky, op. cit., p. 94.
18 K. Marx, op. cit., cap. 37°, pp. 713-740.
19 Carteggio Marx–Engels, vol. III, Edizioni Rinascita, Roma 1950-53, pp. 86-87.
20 K. Marx, op. cit., p. 868.
21 Ibidem, p. 870.
22 Ivi, p. 717.
23 K. Kautsky, op. cit., p. 375.
24 K. Marx, op. cit., p. 521. Si tratta del fondamentale capitolo 27° del terzo libro del Capitale, relativo alla Funzione del credito nella produzione capitalistica.
25 Ibidem, p. 518.
26 K. Kautsky, op. cit., pp. 104-105.
27 K. Marx, op. cit., p. 518.
28 Kautsky svolge un’aspra critica delle cooperative di produzione e di consumo nel X capitolo della Agrarfrage: « […] nella società moderna ogni cooperativa […], se prospera, e quindi si allarga, ha in se stessa la tendenza a diventare un’impresa capitalistica. […]. La cooperativa di produzione agricola di questo tipo […] è una fase di passaggio verso il capitalismo e non verso il socialismo» (op. cit., pp. 295-296). Quella che era una tendenza nel periodo storico in cui Kautsky scriveva – la diffusione dei consorzi agricoli promossa dai liberali tedeschi alla Schultze-Delitzsch e sostenuta dal socialismo piccolo-borghese – è poi diventata una corposa realtà economica nel sistema capitalistico attuale.
29 K. Kautsky, op. cit., p. 299.
30 Per Marx ad essere “fantasmatica” è la realtà stessa del modo di produzione capitalistico: «… mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose» (K. Marx, op. cit., p. 943).
31 K. Kautsky, op. cit., p. 118.
32 Ivi, p. 226 e sgg.
33 Ivi, p. 161.
34 Ibidem.
35 Queste interessantissime pagine della Agrarfrage, lette alla luce della storia italiana degli anni Ottanta del secolo scorso, mettono in luce la “lunga durata” di certi fenomeni del capitalismo e accendono nella memoria dello scrivente, che vi partecipò come militante, il ricordo dell’importante iniziativa politico-sociale promossa da Democrazia Proletaria nel 1982 con la raccolta delle firme alla proposta di referendum per l’estensione dello Statuto dei lavoratori alle aziende con meno di 15 dipendenti. L’iniziativa fu bloccata dalla Corte costituzionale con argomentazioni speciose, mentre il “partito operaio borghese” – PCI e CGIL – si rifiutò di appoggiarla contribuendo al suo insabbiamento.
36 K. Kautsky, op. cit., p. 378.
37 Ivi, p. 433.
38 V. I. Lenin, op. cit., p. 15.
39 Id., Lo sviluppo del capitalismo in Russia, in Opere complete, vol. III, Editori Riuniti, Roma 1956, p. 5.
40 Ivi, p. 7.
41 Ibidem, p. 5.
42 Ibidem, p. 165.
43 Ibidem, p. 175.

Comments

Search Reset
0
Eros Barone
Sunday, 13 June 2021 13:01
Cari Alfonso e Paolo, vi ringrazio per il qualificato apprezzamento espresso nei confronti di questo lavoro sulla questione agraria e approfitto dell’opportunità che mi offrite per fare un’aggiunta relativa al contesto storico e al ruolo giocato da Engels: aggiunta che spero sia utile per integrare il discorso che ho avviato nel mio elaborato. Il dibattito sulla questione agraria è connesso infatti alle prime avvisaglie della grande battaglia sul (e contro il) revisionismo, che dominerà la vita della socialdemocrazia tedesca a partire dalla fine del XIX secolo. Sollecitato da Kautsky, lo stesso Engels vi prenderà parte con un importante articolo sulla "Questione contadina in Francia e in Germania" (cfr. Marx-Engels, “Opere scelte”, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 1215-1237). L’aspetto più importante di tale articolo è il rilievo con cui nella parte conclusiva di tale articolo veniva affermata la necessità e l’urgenza per la socialdemocrazia tedesca di conquistare alla propria causa il proletariato agricolo delle regioni ad Est dell’Elba, così come avverrà anche nella celebre introduzione dello stesso Engels allo scritto marxiano sulle “Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850”, che è dell’anno successivo. “La semiservitù di fatto dei lavoratori agricoli ad Est dell’Elba è la base principale del dominio degli ‘Junker’ prussiani e di conseguenza dello specifico predominio prussiano in Germania. […] Gettate il seme della socialdemocrazia fra questi lavoratori – questo era l’appello di Engels -, date loro il coraggio e la fermezza di tener saldo ai loro diritti ed è finita con la signoria degli ‘Junker’. […] I ‘Kernregimente’ dell’esercito prussiano diventano socialdemocratici; si opera così un mutamento dei rapporti di forza, che porta in sé un rivolgimento totale… Qui, nella Prussia ad Est dell’Elba, sta il nostro campo di battaglia decisivo”. Ciò che allora è necessario soprattutto sottolineare è l’affermazione secondo la quale la conquista del proletariato agricolo ad Est dell’Elba era il compito principale per il movimento operaio tedesco, mentre minore importanza aveva la penetrazione tra le masse di piccoli proprietari dell’Ovest e del Sud sostenuta dai revisionisti bavaresi (e non solo) raccolti attorno a von Vollmar e agli ‘opportunisti’ francesi. Era, questo, un elemento nuovo e fecondo di ulteriori sviluppi che erano sfuggiti alle analisi di molti. Porre come compito più urgente la conquista alla causa del socialismo dei lavoratori ad Est dell’Elba significava pertanto, in primo luogo, cominciare a risolvere nella pratica della rivoluzione tedesca il divorzio persistente tra teoria e pratica nel campo della questione agraria; tra una teoria impregnata di fatalismo economicistico che non permetteva di incidere nella realtà e di allargare l’influenza socialdemocratica dalle città alle campagne e, per contro, una pratica che, nella sua angustia demagogica, implicava una rinuncia ad ogni soluzione rivoluzionaria; tra una Germania trasfigurata teoricamente attraverso le pagine di Marx sull’agricoltura inglese e sulle leggi generali di sviluppo del capitalismo, e una Germania ridotta alla realtà localistica e conservatrice dei suoi ‘Laender’; tra l’identificazione delle leggi di sviluppo dell’agricoltura con quelle dell’industria e un idoleggiamento del mondo contadino come un cosmo compiuto ed autonomo. Certo è che, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del XX, la discussione socialista e poi comunista sulla questione agraria rende palesi, in concomitanza con le discussioni sul revisionismo, le premesse e gli sviluppi che costituiscono il filo rosso da cui sarà caratterizzata la storia del movimento operaio e contadino nel corso della prima metà del Novecento non solo in Europa (basti pensare alla Cina).
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Paolo Selmi
Sunday, 13 June 2021 20:17
Caro Eros,

grazie a te, anche per questo richiamo a Engels che completa il quadro generale di quella che, ancora oggi, resta forse l'unica impostazione corretta del problema: corretta in funzione della costruzione rivoluzionaria di un modo di produzione che sia realmente non solo antagonistico a quello capitalistico, ma anche espressione di un grado di progresso non solo economico, ma anche e soprattutto sociale e culturale maggiore rispetto allo sfacelo attuale.

Anche qui, è indubbio che in un contesto capitalistico sia sempre possibile, ma non praticabile, una riflessione sulle attuali contraddizioni fra città e campagna e fra produzione industriale e agricola culminanti, India, Cina, Indonesia, Malesia cambia molto poco, in un'urbanizzazione selvaggia e conseguente creazione di megalopoli da decine di milioni di abitanti e movimenti epocali di centinaia di milioni di persone dalle campagne alle città, come evidenzia un lavoro collettivo di analisi comparativa dei fenomeni di urbanizzazione indiana e cinese a opera di ricercatori della MGU e della MPGU di Mosca (УРБАНИЗАЦИЯ В КИТАЕ И ИНДИИ: СРАВНИТЕЛЬНЫЙ АНАЛИЗ https://istina.fnkcrr.ru/download/102447163/1lsTlV:G9-3yzE52PEXkBKuup1xH2tNDio/).

Peraltro, in un'analoga ricerca sull'urbanizzazione indiana, proprio una sociologa russa introduce un dato molto interessante, che parla del proprio passato recente (https://cyberleninka.ru/article/n/urbanizatsiya-v-indii-sotsiologicheskiy-analiz/viewer). Dopo aver snocciolato dati sulle baraccopoli cinesi (194 milioni di abitanti, 37,8% della popolazione urbana) e indiane (158 milioni di abitanti, 55,5 sul totale, ma è uno studio del 2012 e quindi rispetto a oggi è preistoria, con afflussi di decine di milioni di persone all'anno dalle campagne alle megalopoli), ella afferma che anche in Russia e nei Paesi dell'ex blocco sovietico dopo la caduta del socialismo realizzato i tempi di crescita delle baraccopoli e degli agglomerati periferici alle megalopoli sono divenuti TRA I PIU' VELOCI AL MONDO.

Uno studio della KPMG, datato 2016, e citato da palazzinari russi, parlava dell'India come nuovo Eldorado per il mattone, il terzo al mondo. (https://www.stroysmi.ru/novosti/massovaya-urbanizatsiya-indii-k-2030-sdelaet-ee-tretim-vo-velichine-stroitelnym-rynkom-mira/) Dati impressionanti: 12 milioni di persone all'anno la velocità di urbanizzazione, 77 città entro il 2030 con oltre un milione di abitanti, e Delhi fra queste la più popolosa con 36 milioni.

Il mattone tira... e insieme a quello la speculazione immobiliare. E insieme a quella, contraddizioni che nemmeno ci immaginiamo. Contraddizioni che fanno esplodere situazioni anch'esse inimmaginabili.
Duecento milioni di lavoratori indiani in sciopero nel 2019 (https://www.peoplesworld.org/article/200-million-on-strike-in-india-communist-party-leaders-detained/) e, in piena pandemia,
OLTRE DUECENTOCINQUANTA MILIONI DI LAVORATORI IN SCIOPERO il 26 novembre scorso, sempre in India (https://peoplesdispatch.org/2020/11/27/250-million-people-participate-in-nationwide-strike-in-india/). Il più grande sciopero generale della storia dell'umanità!

Operai e contadini insieme, e anche quest'anno si sono già dati da fare. (https://www.gazeta.ru/social/2021/01/27/13457102.shtml)

Che fare, a parte guardare insieme solidali e ammirati cosa succede a decine di km di distanza da noi?

Non è semplice, ma cominciare a recuperare una consapevolezza, proprio a partire da noi, che non era poi così tutto sbagliato, che - come accennavo nel primo commento - tutto parte quell'immenso lavoro teorico che portò all'Ottobre prima e alla discussione collettiva poi di enormi problemi di sviluppo globale, complessivo, onnilaterale di tutte le sfere dell'economia, della società, della scienza, della cultura (e mettiamole nella sequenza che vogliamo, davvero, tanto sono tutte interdipendenti fra loro, se volete la prossima le mettiamo in ordine alfabetico così non facciamo torto a nessuno). E questo lavoro immenso i suoi frutti li aveva anche dati, per esempio sia nella gestione di un'urbanizzazione controllata, che nell'accesso per tutti a beni e servizi anche nelle zone più remote dell'Unione, senza strappare donne e uomini alle loro terre.

Frutti non esaustivi, e ci mancherebbe in mezzo secolo soltanto..., ma la scienza della pianificazione, quel "pianificabilità, pianificazione, piano" cui era giunto l'Autore di una monografia che prima o poi finirò di tradurre (mannaggia-a-me...), era frutto anch'essa di quella struttura economica che la consentiva, l'unica peraltro che la consentiva e l'abbia mai consentita nella storia di questo piccolo essere chiamato "uomo". Ecco allora che tutto si ricollega... iniziando proprio a ricollegare quelle lotte contadine, magari con piattaforme rivendicative che con la costruzione di questo modo di produzione c'entrano (ancora) poco o nulla. Entrare nel merito di queste piattaforme rivendicative, trasformarle in senso unitario a quelle operaie e, più in generale, di quelle di tutti i lavoratori lungo un canovaccio iniziale che ha l'insana ambizione di diventare trama, ordito di un disegno sempre più complesso e sempre più consapevole, è compito di chi ambisce a cambiarlo, questo stato di cose.

Grazie ancora e
un caro saluto a tutti!

Paolo Selmi
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Paolo Selmi
Saturday, 12 June 2021 11:59
Caro Eros,

complimenti per questo lavoro che è davvero ricco di spunti e stimoli a ulteriori riflessioni non solo sull'argomento trattato, ma anche su questioni più generali di teoria economica e politica marxista.

Non da ultimo, la questione della rendita differenziale estesa all'intera produzione di beni e applicata, in particolare, alla determinazione dei prezzi in un modo socialistico di produzione (che, giusto per non apparire esoterici nei nostri discorsi, colgo l'occasione per sottolineare che si fonda sempre su quel campo di esistenza dove oggi nessuno vuole scommettere un soldo... proprietà sociale dei mezzi di produzione e conduzione pianificata degli stessi... altrimenti anche la stessa questione della determinazione pianificata dei prezzi perde completamente di senso).

Preferisco tornare però a bomba su quello che, a mio avviso, è il merito principale di questo lavoro, e che non vorrei passasse in secondo piano. Scrivi nelle conclusioni: "Alle origini di quella politica dei bolscevichi che egli disapprovava, stavano anche la sua Agrarfrage e l’impulso che essa aveva dato allo studio della questione agraria nelle file della socialdemocrazia russa".

Kautsky non lo capiva, non lo capisce (o fa finta di non capire mentendo sapendo di mentire) gran parte della storiografia attuale e del revisionismo imperante, che riduce il Grande Ottobre a una serie di circostanze fortunate, e fortuite, che fecero sì che un pugno di opportunisti prendessero il potere... E invece questo tuo lavoro ha il merito di far tornare a galla l'IMMENSO LAVORO TEORICO alla base del Grande Ottobre. Un lavoro iniziato un secolo prima. Poi possiamo divertirci a fare la storia con i SE e a dimostrare che senza quelli i conti non sarebbero mai tornati e le mura del Cremlino non sarebbero a metà interrotte dal quel cubo contenente ancora oggi Vladimir Ilič. Ci mancherebbe... tuttavia non è andata così. E non è andata così non perché quel giorno lasciarono passare quel vagone piombato, ma perché DIETRO a quello ci fu un IMMENSO LAVORO RIVOLUZIONARIO, di cui probabilmente ancora oggi fatichiamo a cogliere la vastità.

Un lavoro che partiva DA Kautsky e che andava OLTRE Kautsky. Ma partiva DA Kautsky, ovvero MARX. E da quel punto di vista esaminava la questione contadina. Non era una semplice conta del "chi è con noi?" "chi contro di noi?" e magari qualche opportunistico arruffianamento del portare chi è contro quantomeno alla neutralità...

Né tantomeno un tentativo di ammantare la propria ricerca non marxista di terminologia marxista... il caso che ho studiato una decina di anni fa, Mao e la sua inchiesta, nel testo originale, senza le foglie di fico apposte per la pubblicazione nelle opere scelte, è praticamente un copiaincolla delle tesi di Peng Pai, comunista anch'egli, ma non marxista. Mi cito e chiedo scusa:
"Peng Pai lo scriveva già chiaramente nel 1923 sul “Manifesto fondativo dell’Associazione generale dei contadini di Haifeng” [海丰总农会成立宣言], dove i temi dominanti erano: da un lato, un’enfasi decisamente fisiocratica sul ruolo dei contadini, inedito ed eretico per quei “tempi moderni”, ma non come argomento di per sé nel
Paese di Mezzo, costituendo esso stesso uno dei cavalli di battaglia del millenario pensiero sociale confuciano; dall’altro, la completa legittimità della propria soggettività rivoluzionaria e la sua totale autonomia e indipendenza da qualsiasi discorso marxiano sul grado di sviluppo delle forze produttive."
https://www.academia.edu/3394081/Il_substrato_confuciano_e_tradizionale_del_marxismo_di_Mao_Zedong
p. 234

Ecco allora che tornare, anche a livello metodologico, a questo lavoro, è di ESTREMA attualità. Per tantissimi motivi.

Grazie ancora.
Paolo
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Saturday, 12 June 2021 13:31
Caro Paolo, grazie per 'tirarme un puente'. Musho toku, proprio. Essendosi che quel bel giorno arrivarono e ci dissero che anche noi valevamo qualcosa, che anche noi eravamo bolscevichi, che senza di noi niente rivoluzione, qualcuno ha ancora la testa montata e pensa che siamo decisivi e indispensabili, quindi siamo noi la vera chiave di volta e non quell'anello in cima ai trulli con il quale ci facevano crollare case e vita. Poi hanno tirato le donne fuori dalle tane, e i reietti, e gli immigrati, e noi ci siam detti "the more the merrier". Una sola condizione chiedevano. Prendere partito. Grazie
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Alfonso
Friday, 11 June 2021 22:41
Caro Eros, non posso evitare uno chapeau, davanti a questo saggio. Maledettamente importante, la rendita. Non mi trovo a mio agio ad affrontarla con i nostri (soliti) rimpalli a due. Per rispetto a chi la ha toccata con massima cautela, e chi ha pagato con la propria vita e quella della propria famiglia, per gli aspetti di 'indagine sul campo' inevitabilmente connessi con questa parte a latere della economia politica come scienza, e anche per rispetto a tutta la geografia radicale e la storia radicale ai cui rappresentanti tale tematica faceva, giustamente, tremare le vene ai polsi, sospendo le mie note. Spero Tonino, sempre tanto paziente, non me ne voglia, se gli chiedo di passarti la mia email. PS Vedrai che litighiamo su Reichenbach...Grazie
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit