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Nancy Fraser, “La fine della cura”

di Alessandro Visalli

la fine della curaIn questo piccolo testo è contenuto un intervento del 2016, edito da Mimesis nel 2017[1], nel quale la militante femminista americana Nancy Fraser si esercita in una denuncia della difficoltà del capitalismo, nella fase dell’accumulazione flessibile e della finanziarizzazione, a riprodurre la società e gli individui. In fondo l’idea è molto semplice, ed anche molto tradizionale: il capitalismo è, in ogni sua fase storica, interessato essenzialmente all’accumulazione del capitale ed annega nel gelido mare del calcolo utilitarista ogni altra considerazione. Una società improntata al capitalismo non è dunque orientata alla sua propria riproduzione, e dei suoi membri, ma all’estensione dello sfruttamento ai fini dell’accumulazione ed alla concentrazione. La riproduzione ne deriva, semmai, some effetto secondario eventuale. Questa tesi è pienamente marxiana.

La cosiddetta “crisi della cura”, deriva come somma di numerosi squilibri che producono nel loro insieme la compressione di capacità sociali non compiutamente mercatizzabili (come quella di generare e crescere figli, prendersi cura degli amici e dei familiari, mantenere le famiglie e le comunità più ampie e sostenere i legami sociali). Secondo l’ingenerosa posizione della Fraser tutte queste cose sono state “storicamente assegnate alle donne” (anche se, successivamente, lamenta che “mantenere le famiglie” sarebbe ingiustamente una prerogativa maschile). Tutto questo vasto ed eterogeneo insieme (cose importanti, ma vaghe come “sostenere i legami sociali”, palesemente svolte da entrambi i sessi) è, secondo il punto difeso, indispensabile, ma spesso non è in quanto tale remunerato.

La tendenza a scrivere in modo impreciso e allusivo, ed a forzare i termini, emerge già in questa notazione (se pure indicativa), secondo la quale sarebbe svolto senza remunerazione mantenere la famiglia. Quando è, nel suo significato ordinario, esattamente un effetto necessario della remunerazione. In altre parole, qui non si sta dicendo che le attività che mantengono (sul piano materiale come su quello psicologico) unita la famiglia, ed i suoi membri dipendenti in specie, non sono remunerate, perché altrimenti non avrebbero luogo, ma che questa avviene attraverso i membri economicamente attivi. In una famiglia, che è un gruppo di reciproco sostegno (struttura caratteristica della specie che è sociale e di branco), alcuni membri nelle condizioni contemporanee prestano forza-lavoro in cambio di remunerazione (indipendentemente lo facciano dentro o fuori della casa), ed altri ricevono da questi le risorse per sopravvivere. Questo è il fenomeno descritto, e questo è il significato per il quale la definizione come “femminile” del secondo ruolo, restando ai membri adulti, costituisce problema. Ma c’è un altro senso nel quale la “crisi della cura” scaturirebbe dal capitalismo finanziarizzato ed altamente ineguale contemporaneo: il sistematico definanziamento delle strutture sociali e delle relative istituzioni volte alla cura. Ospedali, case sociali, scuole, etc… Ed un terzo significato, l’indebolimento progressivo della remunerazione della forza-lavoro per cui risulta sempre più difficile riprodurre la vita al livello dignitoso desiderato.

Nel testo questi tre significati si intersecano in modo non sempre chiaro.

Come sia, è palese che senza figli, senza legami sociali, senza cura di amici e familiari non c’è l’umanità. Dunque non c’è neppure economia. In questo senso la crisi della riproduzione sociale (ed i suoi sintomi, il declino demografico, la disgregazione sociale, l’individualismo e l’anomia) è alla base di ogni altra crisi, o, per meglio dire, è intrecciata con ogni altra. Tuttavia lo è come effetto dei tre significati indicati, e non solo per il confinamento tradizionale della donna nelle mura di casa (confinamento, peraltro, da tempo residuale).

Abbastanza banalmente ciò significa che quel che si nomina come “crisi della cura” è espressione di contraddizioni (Marx direbbe tra il valore d’uso e valore di scambio, per cui si produce per il secondo quando ciò che conta è il primo) socio-riproduttive del capitalismo. Secondo le parole dell’autrice: “da una parte, la riproduzione sociale è una condizione capitalistica duratura; dall’altra, la vocazione del capitalismo a un’accumulazione illimitata tende a destabilizzare lo stesso processo di riproduzione sociale su cui esso poggia”[2]. Questa è la prima delle contraddizioni strutturali del capitalismo (ma non ha una connotazione sessista, dato che il secondo e terzo senso prevalgono). Questa contraddizione si manifesta in generale, in quanto ogni attività economica presuppone l’esistenza in vita delle persone, e queste richiedono, ed hanno richiesto prima di diventare produttive (o dopo esserlo) assistenza e cura. In questo senso ogni attività, sia essa capitalistica o meno, dipende dalla cura. Quindi anche il lavoro salariato, quello per il quale viene pagato e misurato, ha quale presupposto l’attività socio-riproduttiva prestata prima, durante e dopo l’erogazione. Senza non si avrebbe accumulazione e neppure capitalismo (per la buona ragione che non ci sarebbe del tutto l’umanità). È proprio perché il capitalismo tende a non pagare per quel che non produce immediatamente merci dalle quali realizzare il capitale (vendendole), e tende a pagare il meno possibile anche questo, che i tre significati della crisi della cura si producono. In ordine di pertinenza si ha: la riduzione del salario al livello di sussistenza o sotto questo (per periodi dati); il contenimento al minimo dei costi di riproduzione socialmente necessari e trattenuti collettivamente (delle tasse per alimentare gli investimenti in capitale fisso sociale e i costi variabili per servizi collettivi come ospedali, strade, infrastrutture, scuole, etc.); la mancata remunerazione diretta, e soprattutto indiretta (tramite sussidi, servizi pubblici, etc.) del lavoro di assistenza svolto entro il nucleo familiare e l’ambito sociale parentale.

Questa ovvietà nelle mani dell’autrice diventa una denuncia della separazione, intervenuta ad un certo stadio dello sviluppo delle forze produttive (non nella prima fase di industrializzazione, come la nostra sembra credere, ma nella seconda) estraendo dalle famiglie il lavoro prestato in comune, secondo i ruoli, e specializzando gli uomini nella produzione mentre alle donne, ai vecchi ed ai giovani sarebbe rimasta la “riproduzione”. La produzione, a questo punto, sarebbe stata monetizzata, in quanto “lavoro astratto” e misurabile, produttore di merci e quindi di valori di scambio riscattabili nella circolazione, la riproduzione sarebbe rimasta ad affetti e virtù. Il punto è che la “moneta” degli affetti implica al contempo subordinazione, e il legame della virtù ha un rovescio autoritario. Come se l’inserimento nella produzione, quale erogatore di forza-lavoro non comportasse il medesimo, e peggiore, legame di subordinazione. Questa percezione è tipica della cultura antiautoriaria da campus nella quale la nostra si è formata[3].

Quindi la contraddizione, fondamentalmente, consiste nella dipendenza a doppio legame, da una parte si rendono dipendenti i soggetti incaricati della riproduzione da coloro che partecipano alla produzione di valore dall’altra l’intera macchina dell’accumulazione, che estrae plusvalore da questi ultimi, in ultima istanza dipende da loro. Questa contraddizione (se umilio ed ostacolo, sottraendo rispetto e risorse anche economiche alla riproduzione creo deperimento demografico, invecchiamento, disgregazione) genera tendenza alla crisi. Ma questa tendenza non sarebbe posta nell’economico, ovvero nel secondo e terzo senso, bensì al confine tra produzione e riproduzione, nel primo. Marx non se ne sarebbe accorto[4].

Ma, giustamente, il capitalismo esiste solo in forme storiche. E, per la Fraser, in queste a volte sono quelle che chiama “lotte di confine” a ridefinirlo. Ovvero lotte tra i confini tra economia e società, produzione e riproduzione, lavoro e famiglia. Lotte altrettanto importanti di quelle di classe.

L’autrice procede a descrivere grandi quadri storici semplificati. In base alla sua ricostruzione in primo luogo il capitalismo del XIX secolo (e qui pensa evidentemente al regime vittoriano) relegava le donne entro la famiglia, attribuendovi la prerogativa esclusiva della riproduzione. Ciò in effetti accadeva, ma solo alle famiglie borghesi; quelle operaie (ovvero la grandissima maggioranza) anche in questa fase devono sottoporsi al lavoro nella loro interezza. Peraltro alla metà del secolo in alcune fabbriche (es. tessile), come Marx denuncia, fino al 50% della forza lavoro era costituita da bambini, e un’altra quota femminile. Addirittura gli uomini erano in minoranza. Bambini e uomini erano impegnati nelle miniere (e anche alcune donne). In generale durante la seconda rivoluzione industriale un buon terzo dell’intera forza lavoro inglese delle fabbriche è femminile.

Il secondo regime descritto è il ‘capitalismo organizzato’ dei XX secolo, ovvero quello seguito al New Deal, che è, a ben vedere, il bersaglio polemico ed anche biografico. La Fraser è infatti nata nel 1947, a Baltimora, laureata nel 1969 in filosofia in un college femminile di tradizione quacchera, e dottorata 11 anni dopo a New York, risente del clima dei primi anni settanta se pure, come noto, nel suo lavoro più recente prende le distanze dalla “politica dell’identità” per la sua potenzialità di distogliere l’attenzione dalla distribuzione. Si può dire che essenzialmente il suo lavoro tenta di tenere insieme le due tendenze (il socialismo pre-beat generation con le scoperte antiautoritarie di questa). Il ‘capitalismo organizzato’ dallo Stato, interconnesso intimamente con il modo di produzione fordista, e con il consumismo promosse una crescita progressiva del salario, portandolo a livello “familiare” (ovvero idoneo a sostenere adeguatamente una famiglia). Ma nel farlo ricondusse, man mano che le classi medie si espandevano, le donne entro le mura domestiche.

Il terzo regime schematizzato è il ‘capitalismo finanziarizzato globalizzato’, che, al contrario, produce un’erosione crescente delle classi medie e recluta le donne (in effetti, semplicemente, revocando il “salario familiare” e tornando verso le condizioni precedenti). Con ciò, grazie alla contemporanea distruzione del welfare, scarica i compiti di cura nel privato familiare mentre sottrae le forze che lo svolgevano, costrette a lavorare. Questo è l’effetto, molto semplice ma potente, che ostacola la riproduzione.

In sostanza l’attuale sistema unirebbe i difetti di entrambi. I tre significati della “crisi di cura” si sommerebbero caricando le donne di pesi aggiuntivi (in quanto un residuo tradizionalista identifica i lavori in casa come ‘femminili’, senza più fornire il contesto materiale nel quale questo era possibile per effetto del terzo significato della crisi, erosione dei salari) insopportabili.

Dato che l’occhio della nostra è fermo sulla borghesia, la descrizione è dalle “sfere separate” (Vittoriane), al “salario familiare” (welfarista) al “doppio reddito familiare”. Ogni volta si sono generate diverse “lotte di confine”. Si potrebbe anche descrivere la cosa, guardandola dal lato della classe lavoratrice non borghese, come il passaggio da “sfruttamento selvaggio di tutti”, a “salario di dignità” (e modello borghese) a “sfruttamento di tutti”. Nel testo il fatto che le “sfere separate” siano, nelle condizioni materiali delle periferie urbane ed industriali del XIX secolo inglese, poco più di un ideale borghese irraggiungibile è descritto chiaramente. Mentre nelle classi medie, dove è possibile, l’ideale produce frizioni e tensioni emancipative nel quadro tardoilluminista del secolo (come ben testimoniato dalla letteratura e dai nascenti movimenti femministi di prima generazione, essenzialmente borghesi).

Il secondo modello storico, quello dei trenta gloriosi, è invece criticato in quanto “biopolitico”. Ovvero in quanto l’aumento della protezione e del salario medio, con conseguente innalzamento dei consumi, porta con sé anche un consolidamento della condizione di dipendenza femminile. Si attiverebbe, in altre parole, una catena delle dipendenze. Il lavoratore dipende dal sistema produttivo, al quale contribuisce, e l’adulto addetto alla ‘cura’ nel contesto familiare dipende dal salario di questi. Si tratta di un fatto ben fondato, che ha carattere ambivalente per la Fraser. È vero che la parte femminile è svantaggiata, ma questa trasformazione (il ‘capitalismo organizzato’) stabilizzò la riproduzione sociale. La visione di questa epoca è ambigua, da un lato si tratta oggettivamente di un avanzamento democratico e di benessere, dall’altra questo risultato si ottenne anche dall’incrudimento dell’imperialismo nelle periferie[5]. Più in dettaglio si può dire che nei paesi del centro il capitalismo organizzato dallo Stato “valorizzò un modello eteronormativo, tipico della famiglia gerarchizzata in base al genere, del maschio che porta a casa il pane e della donna casalinga”[6]. È presumibilmente il modello da piccolo cottage americano anni cinquanta che la piccola Fraser ha vissuto nel Maryland e che ha trovato contestato nel Bryn Mawr College, un “Women’s liberal arts college” di tradizioni liberali.

La profonda ambiguità di questo modello consiste in sostanza nel fatto che nel promuovere un’alleanza tra protezione sociale e mercatizzazione da una parte mitiga la contraddizione sociale del capitalismo, dall’altra consolida una concezione androgenetica della famiglia e del lavoro, naturalizzando forme di etero-normatività e gerarchia di genere. La “nuova sinistra globale”, alla quale appartiene biograficamente sfida a questo punto, in nome di nuove forme di emancipazione, tutte le esclusioni. Quindi quelle imperialiste, di genere e razziali, ma anche il “paternalismo burocratico”. Questo movimento, sostiene la Fraser, però nel fare questo, e senza volerlo, di fatto unisce le sue forze critiche con gli sforzi dei “neoliberali” e finiscono per sacrificare la protezione sociale. La fuga dal lavoro di cura nel primo senso produce un anello autorafforzante, prodotto dalla meccanica strutturale del capitalismo, che indebolisce il potere contrattuale della ‘forza-lavoro’ e quindi il suo salario, rendendo ancora via via più necessario passare dal lavoro di uno a quello di due. Ma questo indebolimento, insieme allo smantellamento delle infrastrutture di cura nel secondo senso (sociali e pubbliche), spinge ad un sovraccarico delle funzioni familiari (che restano non remunerate direttamente e sempre meno indirettamente) che finisce per fare emergere la “crisi della cura” in tutto il suo tripartito significato.

Da una contraddizione si cade quindi in un’altra. L’ordine statal-capitalistico si dissolve nel corso di una crisi prolungata. Tagli ai servizi, flessibilizzazione della forza lavoro e reclutamento femminile camminano di pari passo. La nuova organizzazione è dualistica, chi può permetterselo affida i servizi di cura al mercato (comprando forza lavoro dedicata, spesso immigrata), chi non può è costretto a comprimere la riproduzione. Ormai, e nuovamente, lavorano tutti (non ancora i bambini). Sorge l’economia del debito e quella dei “lavoretti”, ben al di sotto del livello di sussistenza e riproduzione.

Di fatto perversamente “l’emancipazione si allea con la mercatizzazione per indebolire la protezione sociale”[7]. Di fatto questo avviene perché i movimenti antiautoritari di emancipazione si sono trovati ad andare nella stessa direzione della storia, mossa da coloro che volevano farla finita con le protezioni e liberalizzare e globalizzare l’economia. Si è creato un paradossale “neoliberalismo progressista”[8] che celebra “diversità”, “meritocrazia” ed “emancipazione”, per chi ha i mezzi ovviamente, mentre smantella di fatto e scientemente le protezioni sociali ed esternalizza la riproduzione sociale (a questo punto “a servizio” e razzializzata). L’emancipazione è reinterpretata in senso mercatista.

Come dice duramente e giustamente la Fraser:

“I movimenti di emancipazione hanno preso parte a questo processo. Tutti, incluso l’anti-razzismo, il multiculturalismo, il movimento di liberazione LGBT e l’ecologismo, hanno dato vita a correnti neoliberali favorevoli al mercato. La traiettoria femminista si dimostrò tuttavia decisiva più di altre in tale processo, dato il consueto intreccio di questioni di genere e di riproduzione sociale nel capitalismo.”

Il punto è che l’immaginario dominante è “liberal-individualista” ed egualitario, ma tende ad estirpare la riproduzione come un ostacolo lungo la strada della liberazione. Ne sono espressione, ad esempio, il congelamento degli ovuli per donne in carriera, la riduzione dei figli a uno al massimo, la parossistica importazione di donne immigrate, per riempire i ranghi delle funzioni di cura.

In conclusione, per la Fraser sarebbe necessario che al confine tra produzione e riproduzione un nuovo “femminismo socialista” trovi la forza per interrompere l’infatuazione per la mercatizzazione “dell’uguaglianza”, e riesca nuovamente a congiungere protezione ed emancipazione. Qualcosa che sostituisca il “doppio reddito familiare” (ovvero due mezzi stipendi al prezzo di due lavori interi).

Per ottenerlo bisogna superare l’avida sottomissione da parte del capitalismo finanziario della riproduzione alla produzione.

E forse lo stesso capitalismo (per il quale, però, più che un “femminismo socialista”, serve direttamente un “nuovo socialismo”, senza altre etichette che dividano più che unire).

In che senso proverà a dirlo in un altro intervento[9] che leggeremo.


Note
[1] - Nancy Fraser, “La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo”, Mimesis 2017.
[2] - Idem, p. 13
[3] - Nancy Fraser, 72 anni, si è laureata nel 1969 in un famoso college femminile e dottorata nel 1980, attraversa biograficamente tutta la parte ascendente del movimento libertario americano. Si specializza nel corso degli anni novanta nell’articolazione del concetto di “giustizia”. Insegna scienze politiche e sociali e filosofia alla New School di New York, è Presidente della divisione est dell’American Philosophical Association, è stata a lungo condirettore di Constellations.
[4] - E’ abbastanza evidente che alla nostra manca la lettura di buona parte del corpus marxiano, basta leggere il Capitale, anche solo il primo libro, per rintracciare decine o centinaia di passaggi nei quali il deperimento sociale, della forza lavoro, delle famiglie e delle persone è denunciato come effetto di una crisi di riproduzione causata esattamente dalla tendenza del capitalismo a sottrarre risorse. Sono citate, ad esempio, molte inchieste inglesi preoccupate per il deperimento dei lavoratori, anche a fini militari, e lo stato di abbruttimento e degrado delle famiglie costrette a lavorare (spesso tutti) e sopravvivere con salari minimi.
[5] - E di tutte, incluse quelle interne e quelle disperse nel privato.
[6] - p. 37
[7] - p.41
[8] - Si veda anche , “Nancy Fraser, ‘Come il femminismo divenne ancella del capitalismo’”, e “Nancy Fraser, ‘Contro il neoliberismo progressista, un nuovo populismo progressista’”, Nancy Fraser, ‘Il vecchio muore ed il nuovo non può nascere”.
[9] - Nancy Fraser, “Cosa significa socialismo nel XXI secolo”, Castelvecchi 2020.

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