Print Friendly, PDF & Email

sinistra

Come si vede il mondo1

di Eros Barone

Il rapporto fra astrazione e realtà in alcune correnti filosofico-scientifiche dell’età contemporanea

astrazione e realtà lopera inedita del maestro wang hongjian«...all’analisi delle forme economiche non possono servire – né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e gli altri debbono essere sostituiti dalla forza di astrazione.»
K. Marx, Prefazione al I libro del Capitale.

«Veritas est adaequatio rei et intellectus» 2
S. Tommaso d’Aquino, De veritate.

1. L’importanza dell’astrazionee il modo corretto di concepirla

Nella storia della cultura l’astrazione è stata spesso svalutata quale ‘nome’ o ‘fantasma’, come se coincidesse con l’astrattezza e come se astrarre significasse di per sé isolarsi dal mondo. In realtà, l’astrarre è, in quanto negazione delle determinazioni del particolare, un processo che genera la categoria: in quanto tale, è per Hegel «l’immane potenza del negativo; esso è l’energia del pensare». 3 Quindi, il concetto è, quale espressione dell’astratto, il frutto specifico del pensiero, che condensa nell’universale i tratti salienti di un enorme numero di concreti. Come suggerisce il riferimento a Hegel, nella storia della filosofia è necessario distinguere due fondamentali concezioni dell’astrazione: una come nome e l’altra come essenza. Sennonché, sia che si tratti della corrente filosofica del nominalismo sia che si tratti della corrente del realismo, sarebbe improprio un rinvio esclusivo alla medievale “disputa sugli universali”, poiché ciò che qui conta è il concepire l’astratto come fondativo, oppure no, della comprensione reale del concreto.

Di conseguenza, sul versante nominalista si situano gli indirizzi di pensiero che negano la conoscibilità reale del mondo, dei suoi processi e dei suoi eventi, svuotando le astrazioni, cioè i concetti, le categorie e le leggi, del loro effettivo contenuto, giacché questi indirizzi ritengono che vi sia una barriera gnoseologica invalicabile tra la conoscenza e la realtà, fra l’astrazione teorica e la concretezza empirica.

In questo senso, gli scettici dichiarati sono gli araldi di questa concezione dell’astrazione, 4 ma non certo gli unici esponenti. Ecco, ad esempio, una classica rappresentazione di questa barriera in un esponente del Circolo di Vienna: «È... privo di significato parlare del significato delle leggi, perché le leggi, non essendo proposizioni e non potendo quindi essere verificate, non possono ‘significare’ alcun fatto. Esse hanno un significato solo in quanto sono gli schemi da cui si possono costruire enunciati forniti di significato». 5

Come si sa, il fiorire del Circolo di Vienna era connesso con lo sviluppo delle scienze, ed infatti questo orientamento nominalista è stato molto diffuso tra gli scienziati novecenteschi. Conoscere, afferma ad esempio il fisico Bridgman, significa solo estrapolare (nell’àmbito delle osservazioni che si compiono nel laboratorio, cioè delle operazioni che si fanno con gli strumenti) «le linee... del nostro meccanismo mentale», 6 senza aver per questo un’effettiva aderenza alla realtà della natura. Il concetto, dunque, non riflette la realtà, ma riassume solo le nostre operazioni: «In generale, per concetto noi non intendiamo altro che un gruppo di operazioni... ». 7Proprio questo, che la conoscenza non attinga la realtà del mondo esterno quale esso è indipendentemente dalla nostra percezione, è il carattere comune a tutti gli indirizzi di questa forma di nominalismo.

«Una legge ricavata dall’osservazione fattuale non può abbracciare l’intero fenomeno nella sua infinita ricchezza, nella sua inesauribile complessità, e ne dà piuttosto uno schizzo, mettendo unilateralmente in evidenza l’aspetto importante per lo scopo tecnico (o scientifico) che si ha in vista. Quali aspetti vengano considerati dipende dunque da circostanze accidentali, anzi dall’arbitrio dell’osservatore», asserisce Mach. 8 In tal modo l’affermazione, in sé corretta, della storicità dei princìpi di una scienza viene riduttivamente rabbassata ad una serie di atti contingenti ed arbitrari, che non hanno un’intrinseca necessità: non la necessità derivante dal carattere più o meno esplicativo di una serie di fenomeni rispetto ad un’altra, cioè che vi sia una gerarchia nei livelli di astrazione scientifica, per cui una sezione più profonda della realtà può essere esplicativa di una sezione meno profonda; non la necessità derivante da un più ampio contesto storico; nemmeno la necessità per cui lo sviluppo di una teoria sia dettato anche da una logica interna, cioè da una continua rielaborazione diretta a renderla più ampia, più rigorosa, capace di ridurre aporie ed intere strutture formali e sperimentali a casi particolari di teorie sempre più generali.

Così, nella sua visione nominalista del carattere esclusivamente economico che sarebbe proprio delle teorie scientifiche, Mach ignora il problema, che pure, come si è visto, non gli era sfuggito, di una rielaborazione sempre più ampia di una teoria: problema dovuto anche al suo sviluppo interno rispetto alla tradizione scientifica, ma soprattutto imposto con forza sia dal progressivo adeguamento alla realtà sia da ineludibili istanze storiche generali. «Tutta la scienza ha lo scopo di sostituire, ossia di economizzare esperienze»; «non occorrono riflessioni molto profonde per rendersi conto che la funzione economica della scienza coincide con la sua stessa essenza». 9 E però Mach assolutizza un momento (la semplificazione) del processo di astrazione, obliterandone quello fondativo; lo riduce, cioè, esclusivamente alla progressiva eliminazione degli elementi perturbatori, talché l’enunciato di un teorema fisico viene ad essere semplicisticamente «ottenuto per idealizzazione ed astrazione dalle cause perturbatrici». 10 L’astrazione nominalista, operando soggettivamente ed “arbitrariamente”, sbocca in una schematizzazione unilaterale dell’esperienza Dall’ovvia constatazione che l’astratto non esaurisce la ricchezza del concreto viene dunque tratta una conseguenza di carattere agnostico sulla conoscibilità del reale. «Qui sono manifestamente confuse due questioni – osserva Lenin a proposito di un’analoga tesi sostenuta da Bogdanov - : 1) esiste una verità oggettiva, ossia possono le rappresentazioni mentali dell’uomo avere un contenuto indipendente dal soggetto, indipendente sia dall’uomo sia dal genere umano? 2) se sì, le rappresentazioni umane che esprimono una verità oggettiva possono esprimere senz’altro questa verità integralmente, incondizionatamente, assolutamente, o possono soltanto esprimerla in modo relativo, approssimativo?» 11

In sostanza, Mach passa dalla critica di una tradizione fisica ormai incapsulata in una interpretazione dogmatica del meccanicismo, al rifiuto di una concezione realista del sapere, talché della sua gnoseologia si può ben dire che essa è uno dei casi in cui «i tentativi reazionari nascono dal progresso stesso della scienza». 12 Egli abbraccia infatti un rigido nominalismo: «Non le cose (i corpi), ma piuttosto i colori, i suoni, le pressioni, gli spazi, le durate (ciò che di solito chiamiamo sensazioni) sono i veri elementi del mondo». 13 Dunque un fenomenismo radicale che è antitetico alla classica impostazione galileiana, secondo cui la ragione deve penetrare oltre la sensazione immediata per giungere alla realtà profonda: «Non posso trovar termine all’ammirazione mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragione tanta violenza la senso, che contra a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità». 14 Il nominalismo invece procede ad identificare ‘tout court’ il fatto che in ogni procedimento di astrazione vi è una scelta con un’interpretazione soggettivistica di essa. Al contrario, Galileo sceglieva, sì, ma ciò che oggettivamente si manifestava come essenziale per il procedimento scientifico. Accade pertanto che il nominalismo assolutizzi e fissi staticamente questo momento di scelta e lo trasformi in una barriera invalicabile contro la conoscibilità oggettiva del reale.

Per misurare le conseguenze gnoseologiche di questa ipostatizzazione di un momento dell’astrazione, è sufficiente paragonare il pensiero di Mach a quello di Galileo sul medesimo problema scientifico. Come è noto, Galileo rifiutò la concezione strumentalista/nominalista di Osiander e del cardinale Bellarmino, insistendo sulla verità della teoria eliocentrica, intesa quale effettiva corrispondenza alla realtà fisica. Le più importanti prove addotte da Galileo a sostegno della teoria copernicana sono infatti ricavate dalla sua concezione profondamente realista e in gran parte condizionate dalle osservazioni di processi e corpi reali. Mach invece, facendo leva sulla constatazione che la teoria geocentrica è suscettibile di una descrizione matematica, ancorché assai complicata, arriva a trarre questa conclusione: «La teoria tolemaica e quella copernicana sono soltanto interpretazioni, ed entrambe ugualmente valide» 15 e «ugualmente corrette, solo che la seconda è più semplice e più pratica dell’altra». 16

 

2. Un prezioso “compagno di strada” del materialismo: il realismo

I vantaggi di un dialogo fruttuoso tra realismo scientifico e materialismo dialettico, dialogo che può rappresentare un valido contributo per definire una visione marxista della scienza, sono stati sottolineati dal filosofo americano Roy Wood Sellars in un saggio relativo al materialismo dialettico scritto nel 1944, ove l’autore riconosce che il marxismo, nonostante le sue origini esterne al mondo accademico e la chiusura di tale mondo nei confronti di esso, ha rappresentato per diversi decenni l’unica forza intellettuale antagonista al nominalismo neopositivista. Alla luce della crescita delle tendenze realiste nel mondo della filosofia, Sellars sosteneva inoltre che le intuizioni presenti nei classici marxisti come il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo potevano essere corroborate grazie ai progressi tecnici della filosofia. Il frutto di questo programma di ricerca sarà negli anni successivi il volume di saggi intitolato Philosophy for the Future: The Quest ofModern Materialism, curato da Sellars insieme con V. J. McGill e Marvin Farber. 17 Il volume contiene, insieme con i saggi del curatore e del figlio, il più noto filosofo Wilfrid Sellars, anche quelli di una schiera di collaboratori marxisti tra cui J. D. Bernal, Maurice Cornforth, Benjamin Farrington, J. B. S. Haldane e Maurice Dobb.

Sennonché un altro motivo per cui è bene che i marxisti prestino attenzione alle indagini del realismo scientifico contemporaneo consiste nel fatto che, ormai da diversi anni, esistono tendenze culturali caratterizzate da una valutazione fortemente negativa della scienza. Pertanto, come dimostra il caso che si è ora ricordato, il realismo, sebbene sistematicamente emarginato dalla filosofia tradizionale, è un significativo argomento di studio come parte di un più ampio recupero della tradizione del pensiero materialista del ventesimo secolo, all’interno della quale il materialismo dialettico occupa un posto importante.

Occorre premettere che i contributi della cultura filosofica italiana in questo àmbito, prevalentemente tributari, come sono, dell’‘importazione’ di contenuti maturati in altri ambienti culturali e nazionali, sono stati talmente modesti che, con l’unica eccezione di Ludovico Geymonat e di alcuni esponenti della sua scuola, la disàmina del realismo scientifico qui proposta si baserà inizialmente sugli scritti di alcuni esponenti della ricerca filosofico-scientifica angloamericana, quali Roy Bhaskar, Christopher Norris e Richard Boyd.

La prima domanda da cui muovere è allora questa: che cos'è il realismo scientifico? Orbene, seguendo (e in parte parafrasando) il lavoro del filosofo realista Christopher Norris, si può descrivere il realismo scientifico in base alle seguenti caratteristiche. Il realismo scientifico, in linea di massima, accetta l’esistenza di una realtà oggettiva come premessa fondamentale. L’esistenza di questa realtà oggettiva è comprovata dai risultati acquisiti in precedenza e dall’acquisizione di nuovi dati. Pertanto, una caratteristica fondamentale del realismo scientifico è la separazione delle domande sull’esistenza o sull’essere – “che cosa esiste?”, “quali sono le proprietà di ciò che esiste?” - dalle domande sulla conoscenza di oggetti reali – “che cosa sappiamo o possiamo affermare riguardo a questi oggetti potenzialmente reali e alle loro proprietà?” -. Questa separazione tra le domande ontologiche e le domande epistemologiche è un aspetto fondamentale del realismo scientifico.

Prima di proseguire il discorso, è però importante distinguere tra materialismo e realismo. Orbene, a tale proposito va detto che il primo implica specificatamente, tra le altre cose, il primato della materia sulla mente, laddove la mente è considerata come un fenomeno emergente della materia. Di conseguenza, il materialismo ha un preciso carattere monista ed implica il rifiuto del dualismo di mente e di materia. Inoltre, segnatamente per i marxisti, implica che la sovrastruttura non dipende soltanto “in ultima analisi” dalla base materiale, ma ha anch’essa un carattere materiale. Da ciò si trae che il marxismo non è e non può essere neutrale rispetto alla questione del realismo scientifico, ma si basa su di esso assumendolo come un elemento costitutivo della sua visione del mondo, benché questo aspetto spesso non venga riconosciuto in molte esposizioni contemporanee del marxismo.

 

3. Il neopositivismo, i suoi oppositori e la “fallacia epistemica”

Un aspetto centrale dell’attacco mosso dal neopositivismo al realismo nei primi anni del XX secolo è stato il rifiuto di riconoscere come legittima la questione dell’esistenza della realtà oggettiva e la definizione di tale questione come puramente metafisica (ovviamente in senso negativo). Così i realisti e in particolare i materialisti dialettici, secondo il neopositivismo, ponevano una questione irrisolvibile in quanto “priva di senso” sul piano di un’indagine semanticamente significativa. In questo atteggiamento si esprimeva l’essenza del neopositivismo, per il quale non ha senso sostenere l’esistenza di cose che non si possono osservare. In questa esclusione di un mondo indipendente dalla mente o dall'osservatore, dove le cose considerate esistenti sono quelle percepite od osservate, va ricercata l’origine del nominalismo antirealista di atteggiamenti filosofici che formalmente possono ancora essere caratterizzati dal riconoscimento dell’esistenza di una realtà oggettiva. Sotto questo profilo, una critica gnoseologica cruciale avanzata dal realismo scientifico è stata la rilevazione della ubiquità dello scambio tra l’‘essere’ e il ‘conoscere’ (o, per usare il linguaggio della Scolastica, tra ‘id quod cognoscitur’ e ‘id quo cognoscitur’) in varie forme di antirealismo. Questa “fallacia epistemica” è caratteristica sia del neopositivismo, dal cui seno proviene, sia di quelle tendenze filosofiche che si presentano come l’avanguardia della reazione al neopositivismo. 18 Muovendosi in questa direzione, il saggio di Bhaskar su Feyerabend mostra il ruolo centrale della “fallacia epistemica” e illustra il potere demistificante di questo concetto nell’individuare il comune legame tra la visione falsificazionista di Popper e la visione anarchica di Feyerabend. 19 Bhaskar è molto netto nel sottolineare che la “fallacia epistemologica” determina l’impossibilità di qualsiasi teoria della conoscenza e, dunque, di qualsiasi criterio di razionalità per la sua produzione.

La risposta del realismo (in particolare, del realismo critico) allo scetticismo nominalista risiede nella separazione tra due dimensioni della filosofia della scienza, quella “intransitiva” e quella “transitiva”, laddove la prima si riferisce al mondo di enti reali immutabili che esistono indipendentemente dall’indagine scientifica, mentre il mondo del cambiamento degli oggetti cognitivi che vengono prodotti all’interno della scienza appartiene alla dimensione “transitiva”. Alla luce di questa distinzione, la ricerca scientifica, ivi compresa l’attività sperimentale, risulta appartenere alla dimensione transitiva, dove si producono eventi o invarianze empiriche che possono durare per diversi decenni, ma che non hanno rapporto con il mondo degli enti reali e con le sue leggi causali. In tal modo viene escluso il ricorso all’argomento induttivo la cui funzione era quella di generalizzare determinate regolarità degli eventi. Dal canto suo, la dimensione transitiva legittima le inferenze che si possono trarre dall’invarianza relativamente durevole dei risultatiempirici e rende possibile la costruzione di spiegazioni, sempre da provare empiricamente, identificando il meccanismo generativo all’opera, e così via. In sostanza, la dimensione transitiva caratterizza il lavoro della scienza, attraverso il quale la dimensione intransitiva è compresa. La “fallacia epistemica” si rivela, inoltre, concettualmente utile nella discussione, intrapresa da Norris, delle posizioni nominaliste ed antirealiste del filosofo britannico Michael Dummett. 20 Nel prosieguo del presente discorso prenderemo in considerazione i principali argomenti antirealisti che sono stati formulati all’interno della cosiddetta “tradizione analitica”, alla quale appartiene anche il neopositivismo, e le risposte realiste a tali argomenti.

 

4. L’antirealismo di Quine e la risposta di Boyd

Il lavoro di Willard Van Orman Quine ha rappresentato una svolta nella critica delle posizioni del neopositivismo. Uno dei contributi duraturi di Quine, associato ad osservazioni simili di Pierre Duhem 21 e perciò denominato come “Tesi Duhem-Quine”, è la dimostrazione che, contrariamente alla visione del neopositivismo, non esiste alcuna osservazione sperimentale che sia completamente scevra da presupposti teorici. Ponendosi su questo terreno, il celebre saggio di Quine, intitolato The Two Dogmas of Empiricism (1951), ha sviluppato una posizione antirealista i cui echi si sono fatti chiaramente sentire anche nel saggio di Thomas Kuhn sui mutamenti delle teorie scientifiche.

I due dogmi che Quine si è proposto di confutare sono i due presupposti fondamentali della versione neopositivista dell’empirismo: la dicotomia tra verità analitiche e verità sintetiche, e il riduzionismo, ossia la tesi secondo la quale ogni enunciato dotato di significato è equivalente a un complesso logico di termini osservativi o, quanto meno, è associabile a un insieme determinato di possibili conferme o smentite empiriche. All’epistemologia riduzionista del primo neopositivismo Quine, influenzato dall’olismo metodologico di Duhem, ha contrapposto un empirismo senza dogmi, secondo il quale (a) ogni ipotesi affronta il tribunale dell’esperienza insieme con tutti gli altri enunciati che compongono l’edificio della scienza; (b) è sempre possibile scegliere, con un certo margine di libertà, il punto del sistema scientifico sul quale far gravare il peso di ogni smentita empirica; (c) tutti gli enunciati scientifici – compresi i protocolli osservativi e le stesse verità analitiche – non sono in linea di principio immuni da correzioni empiriche (non esiste, pertanto, un confine preciso tra analitico e sintetico).

Per Quine, dunque, la scienza è solo una “rete di credenze” i cui confini sono segnati dai dati empirici e il cui tessuto è suscettibile di scomposizioni e ricomposizioni in funzione dei cambiamenti che possono intervenire in séguito all’acquisizione di nuovi dati empirici. Questo approccio conduce alla visione della sottodeterminazione delle teorie rispetto ai dati empirici, poiché la sfida rappresentata dalla modificazione dei dati può sempre essere superata cambiando le proposizioni di base che costituiscono i nodi della “rete di credenze”. Si tratta di un approccio che sfocia nel relativismo ontologico, per cui la sottodeterminazione rispetto ai dati empirici si riflette nel nostro parlare di entità. Da queste premesse Quine trae nel saggio citato una conclusione che ha ben poco da invidiare, se si esclude il procedimento logico, al nichilismo gorgiano: «Come empirista io continuo a considerare lo schema concettuale della scienza come un mezzo, in ultima analisi, per predire l’esperienza futura alla luce dell'esperienza passata. Gli oggetti fisici vengono contestualmente introdotti nella situazione come comodi intermediari – non definendoli in termini di esperienza, ma come semplici postulati non riducibili, paragonabili, da un punto di vista epistemologico, agli dèi di Omero. Io, che di fisica ho nozioni più che comuni, credo per parte mia negli oggetti fisici e non negli dèi di Omero; e considero un errore scientifico credere altrimenti. Ma in quanto a fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dèi differiscono solo per il grado e non per la loro natura. Sia l’uno che l’altro tipo di entità entrano nella concezione soltanto come postulati culturali. Da un punto di vista epistemologico il mito degli oggetti fisici è superiore agli altri nel fatto che si è dimostrato più efficace degli altri miti come mezzo per elevare una semplice costruzione nel flusso dell’esperienza». 22

Come indica il passo tratto da Due dogmi dell’empirismo e come è stato rilevato da vari studiosi, Quine non riesce a confutare il vero dogma dell’empirismo. Questo accade perché, quando si tratta di riconoscere in che cosa consista veramente la scienza nonostante la mancanza di uno ‘status ‘epistemologico speciale, Quine si riduce ad affermare che il compito di qualsiasi schema concettuale che scegliamo di chiamare scienza deve essere quello di organizzare “il flusso dell'esperienza”, confermando proprio un dogma centrale dell’empirismo: quello secondo cui l’“esperienza” viene elevata a realtà, talché, fermo restando che la nostra “lingua” è fondamentalmente basata sull’esperienza dei sensi, è da quest’ultima che deriva tutta la nostra conoscenza.

La risposta realista alla visione della sottodeterminazione della teoria scientifica per evidenza empirica è un argomento che Boyd considera essere centrale per la difesa del realismo scientifico. 23 Secondo Boyd, la tesi di sottodeterminazione dovrebbe essere integrata da altri ingredienti, includendo in essa la possibilità che vi siano due teorie simili distinte dall’uso di diverse ipotesi ausiliarie, giacché raramente le teorie corrispondono al mondo reale senza ipotesi ausiliarie. In secondo luogo, si basa sul presupposto secondo cui tutta la conoscenza deriva da fatti di esperienza e, cosa ancora più importante, che l’esperienza è l’unica base per giustificare le credenze in merito a un dato di fatto. Mentre la prima parte del presupposto non è più largamente condivisa, la seconda parte è un postulato anche per i realisti. In terzo luogo, gli obiettivi dell’impresa neopositivista in relazione alla scienza erano, per un verso, la ricostruzione delle teorie scientifiche senza alcun ricorso ad entità inosservabili e, per un altro verso, la riaffermazione della pratica scientifica come fonte di conoscenza. Boyd osserva, tuttavia, che la nozione di “osservabile” nella scienza contemporanea non può limitarsi ad indicare i sensi. In realtà, i sensi sono straordinariamente potenziati grazie ad una strumentazione di crescente complessità che riduce costantemente i confini dell’inosservabile. Naturalmente, ciò non può che avvenire a prezzo di un aumento della dipendenza della teoria e aprendo ulteriormente le porte ad un’ulteriore sottodeterminazione. Ma il punto centrale del ragionamento è l’affermazione secondo cui non esiste alcun modo per distinguere due teorie che sono indistinguibili sulla base dei dati empirici.

Il punto saliente della risposta realista a questa sfida è stato quello di insistere sul potere esplicativo delle teorie scientifiche come prova in loro favore, respingendo il tipico punto di vista del positivismo logico secondo cui la spiegazione equivale alla previsione. In questo quadro è fondamentale che non vi sia un numero elevato di ipotesi che aspettano di essere confermate simultaneamente in una nuova teoria. Vi è solo un insieme finito di nuove ipotesi, il cui contenuto è determinato in parte da una valutazione della loro plausibilità basata sulla precedente conoscenza scientifica e in parte sul riconoscimento della necessità di una certa continuità con quelle teorie precedenti che hanno dimostrato un potere esplicativo.

Quindi il procedimento che occorre seguire nel convalidare una nuova teoria ha inizio con la determinazione delle ipotesi teoricamente plausibili (basate sulla conoscenza scientifica precedente) e utilizzando osservazioni opportunamente progettate (basate ancora sulla precedente conoscenza scientifica) per confermare le previsioni e/o convalidare le spiegazioni. Le teorie alternative vengono poi confrontate con l’osservazione operando sulle stesse basi della proposta originaria sia nella predizione sia nella spiegazione. In tal modo è possibile acquisire i mezzi per scegliere tra teorie alternative e almeno in alcuni casi ottenere conoscenze non ricavabili per via inferenziale e relative ad entità inosservabili.

Questo procedimento, in sostanza una strategia generale di selezione della migliore spiegazione, è il nocciolo della risposta realista ai dilemmi posti da Quine e da altri. In tal senso, è da notare che il procedimento consistente nell’estendere le conoscenze scientifiche più vecchie con l’introduzione di un numero finito di ipotesi basate sulla salvaguardia del potere esplicativo e predittivo delle precedenti teorie scientifiche, implica chiaramente una nozione di verità approssimativa delle teorie scientifiche.

 

5. Rivoluzioni scientifiche, cambiamenti di paradigma e mutamenti della teoria

Una delle critiche più influenti alla visione realista della scienza è emersa dall’analisi dei processi di radicale mutamento delle teorie scientifiche. Le radici di tale critica risiedono nei lavori pionieristici di Norwood Russell Hanson e di Gaston Bachelard, che hanno preceduto l’analisi di Thomas Kuhn, l’autore più celebre su questo tema. La miscela di nominalismo, convenzionalismo e antirealismo che ha contraddistinto questa linea di ricerca esercita ancor oggi, a distanza di quasi sessant’anni dalla pubblicazione dell’opera più nota di Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, un forte influsso. 24 Così, il marcato antirealismo dei pionieri doveva trasformarsi nel radicale antirealismo di Kuhn, che ha continuato ad alimentare altri indirizzi antirealisti che emergono da tendenze come il postmodernismo o dal programma della sociologia della conoscenza scientifica.

Secondo lo storico e filosofo della scienza statunitense, le rivoluzioni scientifiche, che separano le diverse fasi della storia di una scienza, non devono essere pensate, alla maniera di Karl Popper, come confutazioni di singole ipotesi prima accreditate, ma come cambiamenti complessivi delle convenzioni teoriche di una comunità scientifica, compreso il linguaggio, i metodi di convalida, i problemi considerati pertinenti o importanti.

Nel libro menzionato questo insieme di convenzioni teoriche è chiamato “paradigma”: le rivoluzioni scientifiche sono cambiamenti di paradigma. La prevalenza di un certo paradigma caratterizza una fase di scienza normale, in cui gli scienziati si dedicano alla soluzione di ‘puzzle’, cioè di problemi che possono essere formulati in relazione ai concetti e agli strumenti propri del paradigma prevalente, e che hanno una soluzione al suo interno. Ma la ricerca scientifica guidata da un paradigma può imbattersi in anomalie, cioè in violazioni delle aspettative create dal paradigma. Il riconoscimento di un’anomalia non provoca di per sé una rivoluzione scientifica, ma produce una situazione di crisi, in cui la comunità cerca di negare o ridimensionare il fenomeno anomalo, o di adattare il vecchio paradigma in modo da renderne ragione. È caratteristico di una situazione di crisi il proliferare di varianti teoriche (spesso sempre più complicate) che cercano di salvare il precedente paradigma: esso viene abbandonato da una parte significativa dei ricercatori solo quando emerge un paradigma alternativo. L’adozione di un nuovo paradigma istituisce una nuova comunità scientifica, che non comunica con quella vecchia e i cui prodotti teorici sono incommensurabili coi precedenti, perché sono espressi in un linguaggio diverso, si sottomettono a criteri di convalida diversi, e in generale «parlano di un altro mondo» rispetto a quello riconosciuto dal precedente paradigma. Sennonché Kuhn non riesce a precisare quali siano le origini dei cambiamenti di paradigma ed entro quali limiti egli stesso sia orientato verso una visione realista. A causa di questa ambiguità egli ha spianato la strada alla nascita di un’intera serie di visioni antirealiste del cambiamento scientifico, che hanno influito anche su quei marxisti che da questa ambiguità hanno tratto lo spunto per agganciare il cambiamento scientifico alle trasformazioni sociali e, quindi, al carattere di classe della società.

A questo riguardo, è bene ricordare che Kuhn ha elaborato i suoi scritti in quanto storico della scienza, ricostruendo a partire dai documenti disponibili il processo che conduce alla scoperta scientifica. In tal senso, Kuhn si è proposto di fornire alla filosofia della scienza un resoconto storico attendibile su come la scienza si sia andata configurando nelle diverse fasi della “scienza normale” e della “crisi”, laddove quest’ultima, , attraverso salti discontinui, giunge a determinare l’abbandono di un paradigma e l’adozione di un nuovo paradigma. Per Kuhn, il nuovo paradigma situa lo scienziato in un nuovo mondo diverso dal precedente, ove lo scienziato vede gli oggetti familiari in connessione con quelli nuovi, e però in una luce completamente nuova. Kuhn, d’altronde, ha sostenuto che «c'è un senso in cui i paradigmi sono costitutivi della natura». Vi è stato chi ha interpretato questa qualificazione ontogenetica del paradigma come puramente metaforica e ha sostenuto che non vi sono differenze rilevanti tra la posizione del realista, per il quale le teorie scientifiche non svolgono alcuna funzione causale rispetto alla natura, e il significato reale dell’asserzione di Kuhn. Comunque, è chiaro che secondo Kuhn questa nozione di realtà si estende solo ai dati sensoriali e ad esperienze sia vecchie e consolidate sia nuove. Il paradigma è allora un nuovo modo di vedere cose vecchie, e forse anche una guida verso il nuovo, ma oltre di esso rimane imperscrutabile l’ignoto regno kantiano della “cosa in sé” su cui la scienza ha ben poco da dire. 25

Vale la pena di rammentare che i temi del cambiamento di paradigma e del mutamento della teoria, svolti da Kuhn, sono stati anticipati nei lavori di Ronwood Russell Hanson 26 e, indipendentemente da questo filosofo, nelle ricerche di Gaston Bachelard. L’argomentazione di Hanson ha non solo anticipato ma anche superato, per alcuni aspetti, quella di Kuhn, mentre Bachelard ha prestato attenzione soprattutto alla natura del passaggio dalla vecchia alla nuova teoria scientifica, formulando l’importante concetto di “rottura epistemologica”. 27 Dal canto suo, Hanson è convinto che esista un divario incolmabile tra il vecchio e il nuovo, come mostra in un celebre passaggio della sua opera, Patterns of Discovery, in cui immagina Tycho Brahe e Keplero insieme e intenti ad osservare il sorgere del Sole, con il primo che lo ‘vede’ in base alla concezione aristotelico-tolemaica e il secondo in base a quella eliocentrica. La domanda posta da Hanson è: «Vedono entrambi la stessa cosa?» Si tratta della stessa argomentazione sui “mondi diversi” esposta da Kuhn, di cui quella di Hanson è un precorrimento. La differenza, secondo Norris, è che Hanson ha elaborato una rappresentazione del mutamento di teoria meno schematica e meno rigida rispetto a quella che Kuhn fornirà in séguito. 28

La risposta realista alla “Tesi Hanson-Quine-Kuhn” ha assunto due forme. La prima si situa all’interno della tradizione analitica il cui fulcro è, per l’appunto, l’analisi della struttura proposizionale delle teorie scientifiche. Come rileva Boyd, Kuhn si affida implicitamente all’idea secondo la quale i termini delle teorie scientifiche acquisiscono il loro significato dalle definizioni di base in cui il termine viene usato (un punto di vista noto come “descrittivismo”). Come si è notato prima, in questa prospettiva il mutamento della teoria conferisce a tali termini, nuovi significati che sono incommensurabili (o non suscettibili di confronto) con i significati precedenti. Perciò una delle conseguenze della visione di Kuhn è stata quella di spingere a rivedere il “descrittivismo” e a sviluppare teorie alternative in questo campo.

Svolgendo il filo conduttore fornito dai lavori di Kripke e Putnam, 29, sono state messe a punto teorie causali in cui i termini scientifici acquisiscono il loro significato in virtù della loro associazione alle “essenze reali”. Alla luce di questa visione, i termini scientifici non risultano più incommensurabili nel passaggio tra la vecchia teoria e la nuova teoria. Con questo meccanismo la nozione di progresso scientifico, che è connessa, almeno in parte, con lo sviluppo di una serie di approssimazioni successive alla verità, trova applicazione anche nel caso delle rivoluzioni scientifiche. È qui evidente l’affinità della nozione di verità approssimativa con la nozione similare che caratterizza il testo di Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo.

Un’analisi approfondita, condotta da una diversa angolazione, del concetto di rivoluzione scientifica è offerta anche dalla prospettiva trascendentale del realismo critico. In questo approccio, il cambiamento scientifico, che chiaramente comprende la rivoluzione scientifica, si radica nella differenziazione e stratificazione del “reale”. Quindi la presenza della stratificazione della realtà oggettiva nella dimensione intransitiva giustifica, a livello della dimensione transitiva, i mutamenti radicali delle teorie scientifiche attraverso il processo attivo della scienza come “'lavoro”. Da questo punto di vista, ad esempio, nel dialogo immaginato da Hanson tra Tycho Brahe e Keplero è vero che il ‘medium commune’ della loro osservazione del sorgere del sole appartiene al regno dell’‘empirico’, ma grazie al suo realismo Keplero possiede uno sguardo più profondo del campo ontologico dovuto alla visione eliocentrica che corrisponde alla realtà dei fatti. Entrambi gli astronomi «vedono lo stesso problema con occhi differenti», nota Hamson, 30 ed entrambi si riferiscono allo stesso àmbito intransitivo, del quale però il secondo conosce più del primo nella dimensione transitiva.

Un altro esempio del mutamento di una teoria scientifica si può ricavare dal ruolo degli atomi nella chimica. All’inizio si ebbe l’ipotesi formulata da Dalton, il cui uso fu presto esteso per spiegare i vari risultati osservativi acquisiti nell’àmbito dei fenomeni chimici. Il successivo approfondimento con il passaggio da questo atomismo elementare alla comprensione della struttura atomica fu dovuto a Bohr, che spiegò le regolarità della tavola periodica degli elementi di Mendeleev (“prima rivoluzione quantistica”); infine, si ebbe un ulteriore approfondimento della teoria quantistica con Pauling, il quale giunse a definire la prima visione comprensiva dei legami chimici. Quindi, nella visione realista della struttura atomica si ha una discontinuità a livello delle teorie scientifiche concernenti tale struttura e l’origine dei legami chimici, ma questa discontinuità era giustificata dall’oggettività della stratificazione reale dell’atomo, che è stata scoperta dal lavoro della scienza nel corso del tempo. Così, la visione realista chiarifica il significato del progresso scientifico senza alcuna ricaduta in quel relativismo che, per verso, riduce la nuova teoria al prodotto di un semplice spostamento dello schema concettuale o del paradigma (come avviene con Kuhn) oppure, per un altro verso (come avviene con Quine), alla scomposizione e ricomposizione di una parte della “rete di credenze” mediante l’introduzione di nuovi “postulati culturali”. 31 Concludendo, si può affermare che la visione realista si basa sulla stratificazione e differenziazione dei livelli della realtà, mentre sostiene nel contempo la rivedibilità della conoscenza scientifica, la quale dipende dal fatto che questi livelli sono conosciuti nel corso del tempo attraverso il duro sforzo del lavoro sperimentale e teorico della scienza, che appartiene alla dimensione transitiva.

 

6. Realismo scientifico e meccanica quantistica

Anche se il nominalismo e le altre forme di antirealismo non scompariranno presto, vi è ragione di pensare che la loro capacità di attrazione abbia un raggio più limitato di quello che vediamo oggi. 32 Mentre tali forme rappresentano un fenomeno sociale che richiede un’analisi specifica, è interessante valutare se vi siano dei punti deboli nel modo di argomentare il realismo a livello teorico, che possono contribuire ad alimentare la riproduzione sociale dell’antirealismo. All’inizio del ventesimo secolo il realismo scientifico ricevette un considerevole appoggio da una serie di sviluppi scientifici che portarono alla caduta della versione machiana del positivismo, cioè di un punto di vista filosofico che alla fine del diciannovesimo secolo aveva un forte séguito, specialmente tra gli scienziati. Questa variante del positivismo sosteneva che entità come gli atomi o gli elettroni non potevano essere considerati reali ma, al massimo, erano utili costrutti teorici che giovavano all’ordinamento logico delle teorie scientifiche riguardanti questo genere di entità. L’isolamento sperimentale degli atomi e lo studio e la descrizione delle loro proprietà, che ebbero inizio con la scoperta della radioattività, posero fine ad un atteggiamento antirealista che espungeva dal campo dell’indagine scientifica la questione della conoscibilità della “cosa in sé” e respingeva la questione della sua esistenza come una domanda “metafisica”. Questa versione estrema di positivismo non ha mai più ottenuto lo stesso favore tra gli scienziati, specialmente tra i fisici dai quali era sostenuta nell’epoca preatomica, anche se è stata poi risuscitata nel campo della filosofia dove vi è sempre posto per i ‘revenant’.

Sennonché, dopo un breve interludio, il nominalismo antirealista ha rilanciato il suo attacco cavalcando l’onda della meccanica quantistica. Questa rivoluzione della fisica, che fu compiuta negli anni Trenta del secolo scorso, sembrò opporsi al realismo per via della radicale separazione dalla fisica classica, che era implicata nei nuovi sviluppi. Ciò era dovuto anche al fatto che i protagonisti di tali sviluppi erano scienziati come Niels Bohr e Werner Heisenberg, 33 i quali erano portatori di un’interpretazione, comunemente conosciuta come “scuola di Copenaghen”, di stampo fortemente antirealista. Il noto dibattito tra Bohr ed Einstein, in cui quest’ultimo si contrappose alla “scuola di Copenaghen” in nome di una prospettiva realista, si risolse nell’opinione prevalente a favore di Bohr. 34

In effetti, la meccanica quantistica ha posto una serie di problemi sul modo in cui i fisici vedono il mondo, confliggendo con diversi presupposti ontologici e ipotesi epistemologiche presenti nella filosofia della scienza. Con la fisica quantistica si giunge essenzialmente ad un superamento della tradizionale divisione fra la materia (concepita come un insieme di minuscole entità discrete individuabili nello spazio e nel tempo) e la radiazione (intesa come un fenomeno continuo e ondulatorio): sul piano operativo, le cosiddette particelle elementari sono passibili di descrizioni quali fenomeni sia ondulatori che discontinui; d’altra parte, i fenomeni di radiazione e di scambio di energia (emissione e assorbimento) possono essere progressivamente ricondotti all’ipotesi della discontinuità e della corpuscolarità.

Le notevoli implicazioni filosofiche ed epistemologiche di questi sviluppi della scienza fisica sono state elaborate dalla scuola di Copenaghen soprattutto in riferimento al famoso principio di indeterminazione formulato da Heisenberg nel 1927. Secondo tale principio, nella microfisica i fenomeni studiati non possono prescindere dagli effetti (o “azione di disturbo”) provocati dall’osservatore, che va pertanto assunto come parte integrante del fenomeno. Ne derivano sia l’impossibilità di una rigorosa separazione del mondo in soggetto e oggetto, sia l’impossibilità teorica (e non solo pratica, come accadeva per la fisica classica) di pervenire a una descrizione rigidamente deterministica dei fenomeni naturali. A causa della relazione di indeterminazione, infatti, risulta di principio esclusa la possibilità di quella conoscenza completa delle condizioni iniziali degli eventi spazio-temporali (o degli stati iniziali dei sistemi fisici) dalla quale ricavare, secondo il principio di causalità e il determinismo, tutti i successivi stati assoluti e obiettivi del mondo (come richiede il programma ideale del meccanicismo di Laplace, volto a comprendere in un’unica formula matematica i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e, insieme, quelli dell’atomo più leggero). Ciò, per la verità, non comporta un’adesione automatica dei fisici che si riconoscono nei postulati della scuola di Copenaghen all’idealismo o al fenomenismo, o comunque a indirizzi filosofici che neghino l’oggettività scientifica e l’esistenza del mondo fisico; ma è indubbio che le loro posizioni filosofiche (criticate da altri maestri della fisica quantistica come Planck e Schrödinger) appaiono inconciliabili con il modello realista di spiegazione generale difeso, come l’unico scientificamente corretto, da Einstein.

Alle obiezioni sollevate da più parti tanto in campo fisico quanto in sede filosofica, i teorici della scuola di Copenaghen hanno fatto fronte appoggiandosi anche a un altro famoso principio teorico già intravisto da Bohr nello stesso anno in cui Heisenberg formulava quello di indeterminazione: il principio di complementarità, secondo il quale i modelli ondulatorio e corpuscolare andrebbero considerati come due descrizioni parimenti legittime e necessarie dei fenomeni della microfisica. Definito da Scrödinger come il mascheramento di una sconfitta, tale principio è invece considerato da Bohr e dai suoi seguaci, non solo una soluzione del tradizionale dualismo ‘onda/corpuscolo’, ma anche un criterio estensibile alla ricerca biologica, per esempio allo scopo di abbracciare in una visione unitaria gli aspetti fisico-chimici e propriamente vitali presentati dai fenomeni biologici.

Oltre alla questione del significato ontologico del dualismo (ovvero della dualità) ‘onda/corpuscolo’, un’altra questione che si poneva era quella di stabilire se l’incapacità di determinare la traiettoria esatta delle particelle elementari, tenendo presente nel contempo il loro esatto impulso, sancisse semplicemente la resa del determinismo o il fallimento del realismo, qualunque cosa questo significasse. Se questi problemi furono aggirati mediante un nuovo approccio matematico, rimanevano tuttavia irrisolti i problemi di carattere squisitamente logico. Questa problematica non risolta (o risolta in modo poco persuasivo) ha sedimentato un residuo non trascurabile di contraddittorietà, in primo luogo a causa del fallimento della natura locale della causalità. In altre parole, esiste una contraddizione tra la meccanica quantistica e il “realismo locale”, che deriva dalla teoria della relatività speciale: contraddizione che permane, nonostante l’impostazione probabilistica della meccanica quantistica.

Sennonché l’avvento della meccanica quantistica ha generato un’altra ondata di positivismo nelle scienze fisiche. Seguendo Bohr, in definitiva un gran numero di fisici sembravano accettare una posizione filosofica parzialmente realista, il che significava anche accettare la realtà oggettiva delle entità che costituiscono la microstruttura fondamentale della materia. Quindi i fisici non hanno avuto difficoltà ad accettare l’esistenza dei quark (i costituenti fondamentali della materia che si combinano per formare particelle composte, e i più stabili dei quali sono i protoni e i neutroni, componenti a loro volta dei nuclei atomici), anche se nei termini della teoria correntemente accettata (che è stata sostanzialmente verificata) non esistono mai in uno stato isolato o individuale, ma solo in combinazione con altri quark.

In ultima analisi, per quanto concerne la struttura teorica della meccanica quantistica, la maggior parte dei fisici convive in modo relativamente tranquillo, grazie ad uno sperimentalismo epistemologicamente ingenuo, con le contraddizioni tra la “teoria standard” della fisica quantistica e la teoria della relatività speciale di Einstein. Un atteggiamento quietistico che alcuni scienziati hanno denunciato, sostenendo giustamente che ciò implica la rinuncia ad una visione realista del nesso ‘causa- effetto’, in genere sostituito con la più elastica nozione di ‘correlazione’.

La risposta realista alla scuola di Copenaghen si è articolata in più forme. Vi è stato, ad esempio, un tentativo importante dei fisici dell’ex Unione Sovietica, i quali si sono richiamati al marxismo per comprendere quali delle caratteristiche interpretative della meccanica quantistica possono essere compatibili con una visione realista che non respinga le acquisizioni positive registrate nello sviluppo di tale disciplina. In Occidente, il primo e il più noto di tentativi similari è stato quello di David Bohm, che, ispirato dalla opposizione di Einstein, Podolsky e Rosen alla scuola di Copenaghen, ha messo a punto un’interpretazione che è esplicitamente realista e che, allo stesso tempo, preserva il determinismo. 35 Questo tentativo ha spinto successivamente il fisico britannico John Bell a formulare alcuni criteri che possono aiutare a distinguere tra l’“interpretazione standard” della meccanica quantistica e le “variabili nascoste” dell’approccio di Bohm. Vale la pena di aggiungere che tali criteri si sono rivelati suscettibili di verifica sperimentale. Sta di fatto che la possibilità di risolvere i problemi della meccanica quantistica costruendo una teoria di carattere deterministico continua ad affascinare le migliori menti della fisica. Comunque sia, è certo che la questione di trovare una soluzione soddisfacente ai problemi della meccanica quantistica rimane una sfida aperta nel mondo della fisica contemporanea, come attesta il fatto che la visione della scuola di Copenaghen è stata riconosciuta altamente problematica da numerosi fisici tradizionali. Hanson, per esempio, parteggiava chiaramente per questa visione della meccanica quantistica e sosteneva l’incommensurabilità tra la meccanica quantistica e la fisica classica, il che ha avuto un peso notevole sulla sua visione dei cambiamenti teorici. Né sono mancati dei pensatori che si sono esplicitamente richiamati alla meccanica quantistica per sostenere un indirizzo antirealista (si pensi, per esempio, al fortunato saggio di Lyotard, La condizione postmoderna). 36

 

7. L’irrazionalismo contemporaneo: origini, significato e tendenze

L’irrazionalismo è una tradizione di pensiero che attraversa l’intera storia della filosofia, dalle concezioni relativistiche di Protagora e di Gorgia a quelle scettiche di Hume, per giungere sino alla polemica con la ragione illuministica condotta da filosofi come Hamann e Schelling. Un tratto comune a questi autori è il fatto che essi sono tutti egualmente critici verso il sapere e rivendicano il ruolo essenziale, irriducibile a un contesto razionalmente spiegabile, dell’intuizione, del sentimento, della fede.

Nel Novecento ancora all’intuizione come fonte di conoscenza superiore all’intelletto analitico, valorizzato dal positivismo, si appella Bergson, mentre il contemporaneo pragmatismo con James e Schiller preferisce affidarsi all’azione e ai risultati delle credenze pratiche come criterio ultimo di verità. Forme più moderate di irrazionalismo sono invece connesse con quegli atteggiamenti filosofici che, pur senza negare la funzione della ragione e il suo valore, riconoscono, accanto ad essa, altre istanze e altre funzioni non riducibili a contenuti concettuali. Di questa natura è, ad esempio in Croce, il riconoscimento della categoria del “vitale”.

Forme più radicali di irrazionalismo sono riscontrabili in quelle dottrine che insistono sul carattere assurdo, insensato, privo di ogni scopo, della realtà. Soprattutto negli ultimi due secoli questo tipo di irrazionalismo si è imposto al pensiero filosofico e si è insinuato anche nel pensiero scientifico, come manifestazione significativa di quella “crisi della ragione” legata all’egemonia borghese, e più in generale europea e americana, che è ancora di viva attualità. Come è noto, l’espressione più tipica di tale irrazionalismo è quella di Schopenhauer, per il quale la natura, l’uomo e la storia sono retti da una cieca volontà che tormenta tutte le creature e le scatena in un brutale, insensato, universale e perenne conflitto. Accanto a Schopenhauer si collocano Schelling e Kierkegaard, in quanto anche questi due autori combattono, in nome di istanze irrazionali, la ragione storico-dialettica hegeliana. Proseguendo in questa sintetica esposizione delle origini dell’irrazionalismo, occorre sottolineare sia il nesso inscindibile tra l’irrazionalismo della volontà e il nichilismo di Nietzsche, tuttora considerato tra le più acute manifestazioni della crisi dei valori della civiltà occidentale, sia infine quel fiorire di filosofie vitalistiche e della cosiddetta “intuizione del mondo” (‘Weltanschauung’) che ha caratterizzato il pensiero della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento con autori quali Dilthey, Simmel e altri. A Kierkegaard si ricollega piuttosto l’esistenzialismo che, tanto sul versante cosiddetto ateo (con Heidegger, Jaspers e Sartre) quanto su quello religioso (con Barth), mette in rilievo, attraverso i temi dell’angoscia, dello scacco dell’esistenza, dell’assurdo, dell’individuo “gettato” nel mondo e destinato alla morte, il fondo irrazionale dell’essere, irriducibile alle categorie metafisiche o scientifiche del razionalismo.

Proprio la fortuna dell’esistenzialismo ha conferito un ruolo centrale alla questione dell’irrazionale, resa particolarmente acuta dall’utilizzazione politico-ideologica di alcuni temi e autori irrazionalisti da parte del fascismo e del nazismo. Quest’ultimo si richiamava soprattutto al fortunato libro di Spengler, Il tramonto dell’Occidente (1918-1922), che applicava le tesi del vitalismo in sede di storia della civiltà e giustificava, sulla base di un esasperato pessimismo, gli sviluppi imperialistici del capitalismo europeo. Il fascismo si richiamava invece alla “filosofia della violenza” di Sorel, mentre lo stesso marxismo si trovava a fare i conti con le tesi irrazionalistiche dell’anarchismo bakuniano, ancora operanti negli anni della rivoluzione russa. Muovendo da questa situazione storica, Lukács, come si è notato in precedenza, ha teso a dimostrare nel suo libro La distruzione della ragione che l’irrazionalismo contemporaneo, da Schelling a Nietzsche e Hitler, altro non è che una manifestazione ideologica con la quale la borghesia ha cercato di reagire alla propria interna crisi mediante una giustificazione apologetica della propria volontà di potenza e della propria prassi imperialistica. Opponendosi alle tesi di Lukács, il “pensiero negativo” della scuola di Francoforte (con Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas, laddove va precisato che la produzione di quest’ultimo si colloca nel solco dell’ortodossia critica limitatamente agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso) ha ripreso le tematiche irrazionalistiche, in particolare di Nietzsche, nella sua critica della razionalità filosofica e scientifica. Nel contempo la stessa corrente del neopositivismo è venuta manifestando talune componenti irrazionalistiche, per esempio nello strumentalismo di Mach, nell’abbandono del principio di causalità da parte della fisica quantistica, nella tesi della indimostrabilità dei giudizi di valore sui quali si fonda il vivere morale e sociale dell’uomo, e nel riconoscimento della ineffabilità “mistica” del mondo, in quanto, come giunge ad affermare Wittgenstein al termine della prima fase del suo itinerario filosofico (quella culminata nel Tractatus logico-philosophicus), il mondo si sottrae a ogni “sintassi”, a ogni “semantica” e a ogni “gioco linguistico”.

 

8. L'uomo e la natura: la necessità del materialismo

Il quadro del realismo scientifico contemporaneo che si è cercato di tratteggiare non sarebbe tuttavia completo senza menzionare alcuni importanti contributi che sono particolarmente rilevanti dal punto di vista marxista. Si tratta, in primo luogo, del lavoro di John Bellamy Foster, Marx's Ecology, 37 che è da un lato un tentativo diretto a valorizzare, più di quanto in genere si faccia da parte di un buon numero di marxisti, la componente materialistica del materialismo dialettico e, dall’altro, una ricerca approfondita intorno all’analisi che Marx conduce sul rapporto tra il genere umano e la natura. 38 Il resoconto di Foster dà particolare risalto a tre figure centrali per qualsiasi recupero dell’istanza materialistica del marxismo. In primo luogo, Foster si occupa della figura di Epicuro, il filosofo dell'antica Grecia che è una figura chiave nella storia del materialismo, ove segna lo spartiacque teoretico tra questo e l’idealismo e crea le condizioni necessarie per affrontare le questioni dell’ordine politico e sociale dal punto di vista di un pensiero filosofico radicale. Non a caso l’accusa ricorrente nei confronti di ‘eretici’ del Rinascimento come Giordano Bruno e di figure come Spinoza era quella di epicureismo. Inoltre, l’analisi di Foster su Epicuro fa tesoro anche dei risultati delle ultime testimonianze archeologiche, che confermano la geniale interpretazione della filosofia di Epicuro che il giovane Marx, basandosi sui testi disponibili ai suoi tempi, sviluppò nella sua dissertazione di laurea. 39

La seconda figura importante nell’esposizione di Foster è Bucharin, alla concezione del quale viene dedicata una certa attenzione all’interno del quadro del materialismo dialettico. Come è noto, la posizione filosofica di Bucharin era oggetto di forti critiche ai suoi tempi. In particolare, la sua concezione del materialismo offrì a Gramsci l’occasione di esprimere le sue opinioni sulla scienza e sul materialismo, quindi anche sul materialismo dialettico. 40 Benché politicamente emarginato, Bucharin godeva ancora di un certo prestigio sul piano culturale e questo spiega perché abbia guidato la delegazione degli scienziati e dei ricercatori sovietici che parteciparono al Congresso di storia della scienza e della tecnologia, tenùtosi a Londra nel 1931, e perché abbia svolto in quella sede un ampio intervento. 41 Dal canto suo, Foster liquida il punto di vista di Gramsci affermando che è servito a rafforzare la tendenza antiscientifica e antirealista, prima, del marxismo occidentale e poi della teoria critica e del postmodernismo. Egli apprezza invece la stretta connessione tra il materialismo di Bucharin e l’influsso delle ricerche di uno scienziato dell’epoca sovietica, Vladimir Vernadskij, il quale fu il primo presidente dell’'Accademia sovietica delle scienze e va considerato come il pioniere di concetti che sono entrati a far parte della tradizione comune delle scienze ambientali odierne (in particolare le idee di biosfera e noosfera). 42 Nel capitolo su Bucharin Foster sottolinea l’importanza del punto di vista materialistico nella comprensione della biologia e, segnatamente, nello studio delle questioni ambientali ed ecologiche. Secondo il filosofo statunitense, senza un’ottica di questo tipo, vale a dire senza una prospettiva solidamente materialistica, non è possibile né iniziare a concettualizzare le questioni relative al rapporto tra il genere umano e la natura, né arrivare a comprendere che gli esseri umani non sono un’entità esterna alla natura ma sono parte della natura stessa. Per converso, Foster giudica il punto di vista di Gramsci eccessivamente hegeliano in senso deteriore, e fondamentalmente antropocentrico.

Infine, è doveroso rilevare da un punto di vista coerentemente materialistico che un limite della ricerca marxista, che ha contrassegnato la cultura occidentale, è consistito nel fatto che raramente il problema degli esseri umani come parte della natura è stato oggetto di analisi. Tanto più merita apprezzamento e costituisce una felice eccezione l’opera di Sebastiano Timpanaro, in cui questo tema ha un posto centrale. 43

 

9. Avversari ed alleati del materialismo dialettico nella lotta contro la filosofia borghese

L’esame di alcune correnti della filosofia borghese angloamericana, condotto nel corso di questo scritto, dovrebbe aver mostrato ‘per incidens’ quanti degli sviluppi chiave della scienza del ventesimo secolo abbiano fornito significative conferme della validità delle proposizioni di base del materialismo dialettico. E però a questo punto è doveroso formulare una domanda importante: il materialista dialettico deve o no imparare qualcosa da un punto di vista filosofico che non è esplicitamente marxista?

È indubitabile che i fondatori del materialismo dialettico hanno pienamente riconosciuto ciò che avevano acquisito dalle loro varie fonti intellettuali sia nei singoli particolari che in un senso molto più ampio. Questo debito intellettuale è stato riconosciuto da Lenin nel suo noto lavoro sulle Tre fonti e tre parti integranti del marxismo. 44 Naturalmente, l’ulteriore sviluppo del materialismo dialettico e storico ha comportato, a seconda dei casi, o il superamento o la negazione dei limiti ìnsiti in queste fonti intellettuali quali necessari prerequisiti affinché certe intuizioni potessero essere assorbite o utilizzate entro l’apparato teorico marxiano e marxista. Sennonché resta il fatto che i fondatori del marxismo hanno imparato dal lavoro di coloro che li avevano preceduti e si sono avvalsi delle loro acquisizioni conoscitive.

Orbene, lo studio delle fonti della filosofia marxista non si è concluso con il lavoro di Marx e di Engels, come ha dimostrato Lenin potenziando il materialismo dialettico con la sua critica al machismo e con la costante attenzione allo studio della filosofia greca, in particolare di Aristotele, così come con l’acuta riflessione sugli scritti di Hegel. Non vi è dubbio che ciò che era valido per Lenin dovrebbe essere ancora più appropriato per gli epigoni odierni. Nondimeno, vi è chi sostiene che questo apprendimento critico di altri punti di vista sia applicabile alle fasi iniziali dello sviluppo del marxismo ma non alle sue fasi successive, poiché lo sviluppo del materialismo dialettico nei paesi socialisti ha messo a disposizione un grande materiale di studio e di riflessione. È certamente vero che in questi paesi, specialmente in Unione Sovietica, vi è stato uno sviluppo indipendente del pensiero materialista in varie forme, e che i risultati di questo sviluppo costituiscono oggi, in tutta una serie di campi, una risorsa preziosa. Ma i filosofi dell’Unione Sovietica hanno anche lavorato su una serie di altre concezioni, ad esempio in tema di filosofia della scienza, diverse anche se non avverse rispetto al punto di vista del materialismo dialettico, commentandole criticamente e talora riconoscendo la loro validità nei confronti del materialismo dialettico. Nel presente scritto sono state sottolineate alcune carenze, illusioni o contraddizioni riscontrabili in queste altre posizioni filosofiche. Tuttavia, è stata anche individuata una concezione filosofica, quale il realismo scientifico, che merita di essere considerata come una posizione che, pur non rientrando nel campo del materialismo dialettico, presenta tuttavia alcune caratteristiche positive che le conferiscono uno ‘status’ diverso da altre concezioni nella sua visione della scienza. La domanda che allora va posta è la seguente: qual è la relazione di certe correnti di pensiero, come in particolare il realismo scientifico, con la visione del mondo che è propria del materialismo dialettico?

In conclusione, una volta ammesso che il carattere “totalitario” giustamente rivendicato dal marxismo non può essere confuso con un isolamento settario tanto autoreferenziale quanto sterile, ma richiede, oltre alla critica spietata delle correnti reazionarie della filosofia borghese, un costante e produttivo confronto con altre correnti ad esso affini in questo o in quell’aspetto, è innegabile che il realismo scientifico occupa un posto di speciale rilievo fra tali correnti. 45 Peraltro, a differenza del realismo di Karl Popper, il quale era solo parzialmente un realista (mentre era chiaramente organico al campo del neopositivismo per il suo rifiuto delle concezioni storiciste, per la sua visione della causalità e per la sua adesione al verificazionismo, anche se mediata dalla falsificabilità), il tipo del realismo scientifico che qui si è cercato di descrivere ha una posizione molto più coerente sulla causalità, sulla natura della verità e sul ruolo della pratica nel legittimare la pretesa, avanzata dalla scienza, di afferrare la natura della realtà oggettiva. Naturalmente, non mancano differenze tra le posizioni assunte dai realisti sulle diverse questioni, come accade con il primo Roy Bhaskar (che, comunque, è l’autore delle voci Filosofia marxista e Realismo scientifico per il Dizionario del pensiero marxista di Tom Bottomore) 46 o con Christopher Norris, le cui posizioni attingono al marxismo o sono in sintonia con esso.

Diceva Goethe che «la vita dello spirito non può essere fatta soltanto di aperture: essa è un susseguirsi di aperture e di chiusure parziali, spontanee e necessarie, così come l’atto di respirare, in cui è contenuta una duplice grazia: introdurre l’aria e liberarsene». 47 Una osservazione che è da considerare una regola d’oro per fondare su solide basi un fecondo rapporto critico tra il marxismo e la filosofia contemporanea e, nella fattispecie, tra il materialismo dialettico e la filosofia della scienza.


Note
1 Il predicato verbale di questa proposizione, “si vede”, può essere interpretato secondo tre differenti, ma interconnesse, accezioni ontologiche e/o gnoseologiche: a) in senso impersonale e/o intersoggettivo come nelle espressioni toscane “noi si va”, “noi si gioca” ecc.; b) nel senso di un ‘si’ passivante e quindi in un senso oggettivo corrispondente all’espressione “viene visto”; c) nel senso autoriflessivo equivalente all’espressione ‘il mondo vede se stesso’, riconducibile sia al punto di vista del materialismo sia a quello dell’idealismo oggettivo. Pregnanza filosofica e plasticità linguistica procedono, in questo caso, di pari passo.
2 ‘La verità è la corrispondenza tra la cosa e l’intelletto’. La teoria della verità come ‘corrispondenza’, enunciata nel solco di Aristotele da una delle menti più acute, dialettiche e nel contempo sistematiche, dell’intera storia della filosofia, è un esempio pertinente di realismo gnoseologico. Né va passato sotto silenzio il fatto che sia stato un tomista, il S. J. Gustavo A. Wetter, a fornire con il volume, Il materialismo dialettico sovietico, Einaudi, Torino 1948 (libro mai più ripubblicato, ma noto agli studiosi seri), un’esposizione chiara e rigorosa della filosofia marxista-leninista e dei dibattiti svoltisi nel suo àmbito.
3 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1970, p. 26.
4 Si pensi al capofila di questa corrente nell’antica Grecia, ossia a Gorgia (490 a. C. – 391 / 388 a. C.), e al suo trilemma: “Nulla esiste; se anche esistesse, non sarebbe pensabile; se anche fosse pensabile, non sarebbe comunicabile”. “Una tragedia del conoscere”, come ebbe giustamente a definirlo il grecista Mario Untersteiner. Eppure proprio questo è il tacito presupposto irrazionalistico e nichilistico della variegata sofistica contemporanea che imperversa nella società, nei ‘mass media’ e in larga parte delle istituzioni e del mondo della cultura, con l’unica variante per cui qualsiasi cosa è comunicabile, indipendentemente... dalla sua esistenza e dalla sua pensabilità.
5 J. R. Weinberg, Introduzione al positivismo logico, Einaudi, Torino 1976. Nel corso della presente disàmina si farà uso, prescindendo da distinzioni più fini e dalle scelte lessicali invalse nelle specifiche aree culturali e nazionali, dei termini di neopositivismo, empirismo logico o positivismo logico come di termini equivalenti; altrettanto si farà con i termini più generali di nominalismo, antirealismo, convenzionalismo, strumentalismo e fenomenismo. Quindi, come solevano dire gli antichi Romani, “rem tene, verba sequentur”.
6 P. W. Bridgman, La logica della fisica moderna, Einaudi, Torino 1952, p. 180.
7 Ivi, p. 25. La posizione filosofica di Bridgman è l’operazionismo, cioè una variante dello strumentalismo, che rientra nella numerosa famiglia del nominalismo.
8 E. Mach, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 102.
9 Ivi, p. 470.
10 Ivi, p. 63.
11 V. I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Editori Riuniti, Roma 1970, p. 119. Per un inquadramento generale e un approfondimento specifico dei fondamentali contributi leniniani allo sviluppo del materialismo dialettico mi permetto di segnalare, in questa stessa sede, i seguenti saggi:
< https://www.sinistrainrete.info/marxismo/16339-eros-barone-la-filosofia-come-kampfplatz-e-l-intervento-di-lenin-nella-crisi-delle-scienze.html > e
< https://www.sinistrainrete.info/marxismo/16525-eros-barone-buscar-el-levante-por-el-ponente.html >.
12 Ivi, p. 302.
13 E. Mach, op. cit., p. 471.
14 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Opere, Ricciardi, Milano-Napoli 1953, p. 692. Sul significato dell’idea di verità, sulla contrapposizione tra realismo e strumentalismo/nominalismo e sul correlativo “compromesso bellarminiano” è reperibile, sempre in questa sede, la seguente presentazione in powerpoint a cura dello scrivente: https://sinistrainrete.info/libri/15876-galileo-roberto-e-la-verita.html.
15 E. Mach, op. cit., p. 246.
16 Ivi, p. 249.
17 Il volume fu pubblicato nel 1949 dalla casa editrice The Macmillan Co. di New York.
18 Una delle fonti per un esame approfondito di questo problema è il lavoro di Roy Bhaskar, A Realist Theory of Science, Verso, Londra 1975. Si tratta di un’esposizione del realismo scientifico, che fornisce anche l’apparato filosofico necessario per comprendere il problema.
19 Cfr. R. Bhaskar, Reclaiming Reality: A Critical Introduction to Contemporary Philosophy, Verso, London 1989.Per quanto riguarda la parabola intellettuale di Paul Feyerabend, autore di un libro celebre, Against Method (1975), questi ha iniziato la sua attività filosofica come un logico neopositivista, sposando poi una visione realista e finendo con una visione anarchica e relativista della scienza.
20 Ch. Norris, Language, Logic and Epistemology: a Modal-Realist Approch, Palgrave – Macmillan, London 2004. I contributi di Michael A. E. Dummett riguardano soprattutto la filosofia del linguaggio e la filosofia della matematica e sono legati dal filo unitario dell’adesione ad una semantica verificazionista e ad una logica intuizionista che, contro la logica classica, rifiuta i princìpi di bivalenza e del terzo escluso, laddove è evidente la connessione con la struttura logica della fisica quantistica.
21 Pierre Duhem (1861 – 1916) è un fisico, epistemologo e storico della scienza francese. I suoi contributi riguardano soprattutto i campi, per lui strettamente connessi (invero non solo per lui, poiché è un’acquisizione comune a tutta la contemporanea filosofia della scienza), dell’epistemologia e della storia della scienza. L’opera maggiore è La teoria fisica, il suo oggetto, la sua struttura (1904-1906), con cui Duhem sviluppa in maniera originale l’epistemologia di Mach e si colloca con H. Poincaré e G. Milhaud tra i fondatori del convenzionalismo francese ai primi del Novecento.
22 W. V. O. Quine, I due dogmi dell’empirismo, trad. it. in Il problema del significato, a cura di E. Mistretta, Ubaldini, Roma 1966, p. 42.
23 Richard Boyd, Scientific Realism, Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2002, reperibile sullaRete al seguente indirizzo: http://plato.stanford.edu.
24 Th. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, Chicago 1962.
25 Cfr. Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1962, in particolare p. 131 e passim.
26 Ronwood Russell Hanson (1924 – 1963), filosofo della scienza, ‘marine’e aviatore. Singolare, poliedrica e geniale figura, tipica di un certo mondo statunitense. Morì prematuramente schiantandosi con il suo aeroplano personale, dopo aver accumulato oltre duemila ore di volo, molte delle quali durante la seconda guerra mondiale che lo vide combattere contro il Giappone sul fronte dell’Oceano Pacifico.
27 Gaston Bachelard (1884–1962) è un filosofo francese che ha elaborato una originale “epistemologia storica” e ha esercitato una larga influenza anche in campo marxista (basti pensare a Louis Althusser e al modo in cui questi ha applicato alla periodizzazione del pensiero di Marx la nozione di “rottura epistemologica”).
28 Cfr. Ch. Norris, Philosophy of Language and the Challenge to Scientific Realism, Routledge, New York 2004. La situazione immaginata da Hanson merita di essere accostata ad un apologo dello stesso tenore tratto dal libro Che cos’è l’ideologia di Terry Eagleton (il Saggiatore, 1993 Milano, pp. 123-124). Questo apologo attesta la genialità logico-filosofica, non priva di ‘sense of humour’, di uno dei massimi pensatori del ventesimo secolo, Ludwig Wittgenstein. Si racconta dunque che questi domandò a un collega perché la gente considerasse più naturale che il Sole ruotasse intorno alla Terra che non il contrario. Alla risposta che semplicemente sembrava così, domandò che cosa sarebbe sembrato se la Terra si fosse mossa intorno al Sole. Qual è il significato di questo dialogo erotematico? Si può ritenere che la nuova domanda, basata su un’ipotesi controintuitiva, con cui Wittgenstein replica alla tranquillizzante risposta del suo collega, (a) mostra che non è possibile derivare semplicemente un errore dalla natura delle apparenze, poiché in entrambi i casi le apparenze sono le stesse; (b) attraverso un paradosso apre la via ad un’indagine critica delle apparenze che può anche giungere a configurarsi come critica dell’ideologia fondata sulla spontaneità della coscienza e sulla immediatezza della percezione.
29 Entrambi sono importanti filosofi e matematici statunitensi. Saul Kripke (1940), la cui fama è dovuta ad un volume fondamentale come Naming and Necessity (1980), è un pensatore noto per i suoi innovativi studi di logica modale e Hilary Putnam (1926 - 2016) è conosciuto per i suoi interessi e le sue ricerche nell’àmbito della filosofia della mente e della cosiddetta “teoria del riferimento diretto”.
30 R. R. Hanson, op. cit., p. 96.
31 Cfr, la nota 22.
32 È qui d’obbligo il richiamo alla Distruzione della ragione (1954) di György Lukács, opera non comune per vastità di impianto e ricchezza di dottrina, che ricostruisce la grande storia dell’irrazionalismo moderno da Schelling a Hitler, enunciando e dimostrando tre tesi: 1) l’esistenza di un pensiero borghese reazionario; 2) l’irrazionalismo come tratto distintivo di esso; 3) la diversità di aspetti dell’irrazionalismo nei diversi paesi. È opinione dello scrivente che l’analisi condotta da questo eminente pensatore marxista, ad esempio intorno al machismo, al pragmatismo e al darwinismo sociale, e le conclusioni che egli ne trae, valgano sostanzialmente, con le opportune modulazioni e variazioni, anche nei confronti delle correnti antirealiste oggetto della presente disàmina.
33 Sulla scuola di Copenaghen si veda B. Van Fraassen, The Scientific Image, Clarendon Press, Oxford, 1980. Inoltre, nella Storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat, vol. VI, Garzanti, Milano 1972, è assai utile l’inquadramento storico-critico della fisica quantistica fornito nel cap. 14°, da integrare con il cap. 15° in cui viene delineata l’interpretazione della meccanica quantistica in URSS alla luce del materialismo dialettico.
34 Per una difesa rigorosa e agguerrita della concezione realista di Einstein, critica verso la scuola di Copenaghen e il principio d’indeterminazione di Heisenberg e decisamente favorevole al ripristino del principio di causalità, merita attenzione il libro di Walter E. R. Cassani, Albert aveva ragione: Dio non gioca a dadi!, Edizioni Demetra, Milano 2000.
35 D. Bohm, Causalità e caso. La fisica moderna, Cuen, Napoli 1997.
36 J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1981. L’edizione originale, uscita in Francia due anni prima, recava un titolo quanto mai enfatico: La condition postmoderne. Rapport sur le savoir.
37 J. Bellamy Foster, Marx’s Ecology. Materialism and Nature, Monthly Review Press, New York 2000.
38 Nei Manoscritti parigini del 1844 (cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 1968) non mancano spunti di carattere ecologico: l’unità uomo-natura (pp. 76-77), l’uomo come essere naturale caratterizzato da bisogni e facoltà (pp. 171-173), la nascita dell’umanità dalla natura come processo storico mediato dal lavoro (p. 121), l’unità tra scienza della natura e scienza dell’uomo (p. 122), l’alienazione dei bisogni nella società mercantile (p. 127), il degrado della condizione dei lavoratori nelle città industriali (p. 129).
39 K. Marx, Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, trad. di A. Sabetti, La Nuova Italia, Firenze 1962.
40 Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, Ed. critica a cura di V. Gerratana, vol. II, Quaderno II (XVIII), parr. 13 – 35 (1932–1933), Einaudi, Torino 1975, pp. 1396-1450.
41 N. Bucharin, Scienza al bivio. Interventi dei delegati sovietici al Congresso di storia della scienza e della tecnologia. Londra 1931, De Agostini, Novara 1977.
42 V. I. Vernadskij,Pensieri filosofici di un naturalista, Teknos, Roma 1994.
43 Sul marxismo-leopardismo di S. Timpanaro, il quale era uno studioso di filologia classica, sono da tenere presenti i saggi raccolti nel volume Sul materialismo, Unicopli, Milano 1997. A questo proposito, merita di essere citata per la sua pregnanza filosofica una lettera di Italo Calvino al filologo toscano, in cui lo scrittore afferma quanto segue: «L’uomo è la miglior occasione a noi nota che la materia ha avuto di dare a se stessa informazioni su se stessa» (lettera del 7 luglio 1970 a Sebastiano Timpanaro in I. Calvino, Lettere 1940-1985, I Meridiani Mondadori, Milano 2000).
44 Si veda sulla Rete al seguente indirizzo: https://www.marxists.org/italiano/lenin/1913/3/font-mar.htm.
45 Lenin, nella sua opera filosofica principale, Materialismo ed empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria, sottolinea con forza, in chiave antirevisionista, il carattere ‘totalitario’ del marxismo: «[Dalla] filosofia del marxismo, fusa in un sol blocco d’acciaio, non si può elidere neppure uno dei postulati fondamentali, neppure una delle parti essenziali, senza allontanarsi dalla verità obiettiva, senza cadere nelle braccia della menzogna borghese» (Opere complete, vol. XIV, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 321).
46 T. Bottomore, A Dictionary of Marxist Thought, Blackwell Reference, Oxford 1983.
47 Citato da Cesare Cases in Marxismo e neopositivismo, Einaudi, Torino 1958, p. 86. Ho condotto una disàmina critica della natura sociale e del significato filosofico dei tentativi di ‘importazione’ del neopositivismo nella cultura marxista italiana in un saggio qui pubblicato, al quale mi permetto di rinviare::https://www.sinistrainrete.info/teoria/15147-eros-barone-contro-le-ideologie-del-monopolio-e-contro-il-neopositivismo.html.

Comments

Search Reset
0
Alessandro Tosolini
Tuesday, 28 April 2020 02:03
Eccellente articolo prof. Barone. Spero non ti dispiace se rubo un po' delle informazioni trovate in questo articolo per la tesi magistrale che sto scrivendo sul Realismo in Ludovico Geymonat.

Ormai sono in pochi a capire l'importanza per il rinnovamento del marxismo e del materialismo dialettico di un confronto con le punte più alte del pensiero borghese contemporaneo. In particolare non si comprende l'importanza di un confronto produttivo con il realismo scientifico, che ha grande importanza in funzione della lotta di noi marxisti contro le derive postmoderne e idealiste. Inoltre persiste un dogmatico rifiuto di confrontarsi con la filosofia analitica, senza capire che la filosofia analitica è Wittgenstein ma anche Quine, è Rorty ma anche Sellars e Putnam. Insomma, orientamenti diversi e in contrasto tra di loro.

E' così che stanno prendendo piede quelle rozze ed ecclettiche semplificazioni ora gauchiste ora rossobrune, che vanno dal deleuzismo di Toni Negri fino all'attualismo idealistico di Fusaro. Per fortuna ci sono persone come te che comprendono come il marxismo-leninismo non possa fondarsi teoreticamente su una rozza ripetizione decontestualizzata del DIAMAT sovietico , ma deve porre il materialismo dialettico in confronto dialettico col pensiero contemporaneo (sempre dal punto di vista della gramsciana autonomia del marxismo).

Saluti
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Wednesday, 15 April 2020 18:59
@ Eros Barone

Chiarissimo. Mi trova perfettamente d'accordo, né ho mai dubitato che la filosofia marxista si ponesse sul versante del realismo "integrale" (cioè della realtà di tutte le determinazioni dell'essere, contro ogni forma di soggettivismo). Ritengo che oggi più di ieri ci sia bisogno di valorizzare quanto più possibile questo aspetto del materialismo marxista, per distinguerlo da quello di senso comune, o "volgare" che dir si voglia, che consiste invece in una forma di "riduzionismo" (es. quando si dà del "materialista" ad una persona si vuole indicare, appunto, la sua assenza di ideali, non il suo realismo). Si tratta di un problema pratico, più che strettamente teoretico.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Eros Barone
Tuesday, 14 April 2020 16:47
Riprendo le questioni sollevate da Fabio Rontini, che ringrazio per l’apprezzamento espresso e per gli spunti di approfondimento che suggerisce. Chi frequenta e studia i testi di Marx, di Engels e di Lenin non può non riconoscere che per essi, volendo adoperare il linguaggio della Scolastica e di S. Tommaso di cui Rontini sottolinea, forse non a torto, la pertinenza, gli ‘universali’ esistono ‘in re’, ‘ante rem’ e ‘post rem’, appartengono, cioè, allo stesso mondo che sta attorno e al di fuori di noi e, quindi, dentro di noi. Sennonché, fin dal periodo del medioevo con i ‘novatores’ e con Guglielmo di Occam, è invalso l’uso di ridurre gli universali al mondo dell’intelletto umano e, in generale, alla vita soggettiva degli uomini. Va subito detto perciò, a questo proposito, che il marxismo, essendosi sviluppato quale concezione del mondo attraverso la critica immanente della filosofia classica tedesca, non ha niente in comune con le teorie che negano la realtà del generale/universale. Insomma, l’universale non appartiene soltanto alla testa umana, ma ha un’esistenza oggettiva e poggia su una base oggettiva, così come accade, ad un altro livello, con il generale. In contrapposizione a questa tesi è stata formulata la tesi bogdanoviana, combattuta da Lenin in “Materialismo ed empiriocriticismo”, secondo cui l’universale esiste (non come coscienza della singola persona ma) come coscienza sociale, collettiva, di cui gli oggetti di lavoro e di cultura costituiscono la reificazione. Naturalmente, non si può negare che il carattere sociale della coscienza svolga un ruolo importante nella storia del genere umano, ma, dal punto di vista della questione filosofica fondamentale, è del tutto indifferente se si tratti della coscienza della singola persona o della coscienza sociale, collettiva. In un parola, se l’universale è davvero tale, esso è presente in tutto: esiste nell’essere materiale e nella coscienza, esiste nella natura e nella società, oppure non esiste in nessun luogo (ed è, come vogliono i nominalisti, un mero ‘flatus vocis’). Hegel ha definito la realtà come sintesi di universale, particolare e individuale, in altri termini ha definito l’universale come “il reale nella sua suprema verità”, più esattamente come “la realtà corrispondente al proprio concetto”. Certo, si tratta di una definizione squisitamente idealistica, ma si faccia come ha fatto Lenin: si legga questa categoria in modo materialistico e si avrà che “il mondo si vede” (è il titolo programmaticamente materialistico che ho dato al mio articolo) come una totalità che si ripete, si riproduce e gira su se stessa formando un ciclo autonomo: una totalità nella quale rientra, e della quale è prova, anche l’attuale pandemia (è questo uno degli insegnamenti materialistici che il “compagno Corona” ci sta fornendo a caro prezzo). Del resto, un elemento di identità con se stesso fa parte del concetto di sviluppo dialettico ed è quindi possibile dire, ad esempio, che con il comunismo la società trova la forma di esistenza adeguata ad essa (“la forma della comunità”, scrive Marx nei “Grundrisse”), diviene, cioè, società nel vero senso della parola, il che significa in modo corrispondente al proprio concetto. Lo stesso si può dire dell’uomo, fermo restando che, in ogni caso, dal punto di vista della dialettica ogni identità con sé stesso è, nel contempo, non identità. Marx ha dimostrato, dal canto suo, come la forma di valore si evolve, sulla base dell’autosviluppo, da forma di equivalente della semplice identità di due merci a forma generale e, successivamente, a forma monetaria, secondo il ritmo progressivo di un processo di deduzione logico-storica delle ‘forme’. Così l’universale, e l’astrazione che conduce ad esso, si configurano come condizione della verità, liquidando ogni nominalismo, empiriocriticismo, positivismo logico ecc. (tutte varianti di posizioni, quando più quando meno, antirealiste e antiveritative, fondate come sono sull'assioma hobbesiano secondo cui "veritas non in re, sed in dicto consistit"). In conclusione, il teorema del materialismo dialettico è giusto perché dimostra che il contenuto del pensiero non si trova nelle cellule cerebrali dell’uomo, anche se il pensiero è una proprietà della materia e non un puro epifenomeno. Spinoza ha giustamente osservato che “il concetto di cane non abbaia”; parimenti, se il pensiero non si trova “nella testa”, questo accade perché esso in generale non si trova in alcun luogo, e non si trova in alcun luogo perché non occupa spazio. Dunque, il pensiero poggia su una situazione oggettiva che si trova esternamente alla testa umana, e poggia su istanze reali che con tutta la loro materialità non significano solo se stesse ma molte altre cose, che né la determinazione del fattore neurologico né la determinazione del fattore sociologico, pur fondamentali a livello settoriale, possono esaurire (un grande psicologo come Lev Vygotskij aveva compreso l’importanza della categoria dialettica di interazione e ne aveva riassunto il significato metodologico in una memorabile sentenza: “Per trovare l’anima bisogna perderla”). Pertanto, se ci si propone di sviluppare il materialismo dialettico ponendosi all’altezza della congiuntura ideologica e culturale contemporanea, occorre riconoscere, come ho cercato di mostrare in questo mio articolo, che il realismo scientifico è un prezioso alleato nella lotta per la verità e per la scienza, ed è un prezioso alleato perché, richiamandosi in molti casi, esattamente come il materialismo, alla lezione di Platone, di Aristotele, di S. Tommaso, di Hegel, di Marx, di Engels e di Lenin, riconosce che il pensiero, l’universale, i concetti, l’astrazione esistono non soltanto nell’uomo, non soltanto nell’attività sociale, ma anche nella natura, nei processi sociali e nella vita delle persone.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Mario Galati
Tuesday, 14 April 2020 13:42
Mi associo a Fabio Rontini sull’apprezzamento del lavoro di Eros Barone.
Non concordo con la sua obiezione che “la disputa sugli universali” non andava trascurata perché avrebbe potuto condurre a questi esiti interessanti e importanti: che il materialismo sovietico dopo Lenin fosse niente altro che la rozza concezione pavloviana del riflesso condizionato e soggettivo agli stimoli materiali esterni, ossia, niente altro che la teoria dell’impressione sulla materia cerebrale degli stimoli materiali esterni: quindi, nient’altro che empirismo soggettivo che confina i pensieri a sensazioni materiali immediate che iniziano e finiscono con il soggetto che le percepisce; che, perciò, questo tipo di materialismo, pretendendo di essere oggettivista, paradossalmente finirebbe per essere ultra soggettivista, in quanto, con la morte del soggetto e con l’estinzione del genere umano ogni concetto e ogni pensiero si risolverebbe in un nulla (cosa contraddittoria, perché il tavolo e il concetto di tavolo, la categoria “tavolo”, in realtà sussisterebbero indipendentemente dall’uomo che le pensa. La categoria tavolo è una categoria universale eterna); che questa concezione non avrebbe considerato i concetti universali della sfera ideale, i soli in grado di farci uscire dalla contraddizione riferita; che ciò avrebbe impedito lo sviluppo di una “psicologia” all’altezza di quella occidentale.
A me sembra che questa obiezione e queste conclusioni riproducano il dualismo tra materia e pensiero e che non si fondino sul superamento del materialismo meccanicista e dell’idealismo, per un genuino materialismo dialettico, ma assumano interamente il punto di vista idealista.
Quanto ad Hegel, si assume solo la sua ottica idealistica, invece di rovesciarla in un’ottica materialistica conservandone la dialettica.
Cerco di spiegarmi.
Innanzitutto, non metto naso sugli sviluppi della scienza sovietica dopo Lenin, perché non li conosco. Mi fermo soltanto agli spunti generali che si possono ricavare dal commento di Rontini.
1-Il concetto “tavolo” inteso come pensiero di un soggetto pensante, inteso a sua volta come impressione di un oggetto nel soggetto naturale “uomo”, come processo biochimico della materia cerebrale rispetto ad un oggetto percepito, nella concezione materialistica non è atto creativo dell’oggetto pensato (e questo mi sembra dato per scontato). E’ concetto dell’oggetto. Concetto è participio passato di concepire: è ciò che è concepito da qualcuno, da un soggetto. E’ evidente, perciò, che un concetto non può esistere senza un soggetto. E questo, mi sembra, anche in Hegel, dove il concetto, una parte specifica e definita dell’idea universale, è dato dalla mediazione del pensiero soggettivo.
Il concetto è sempre in relazione ad un oggetto, a meno di concepirlo come reminiscenza di una categoria universale ideale e non come risultato di una interazione tra soggetto e oggetto. Ma in questo ultimo caso ci troviamo in pieno idealismo: l’autonomia del pensiero in quanto pertinente ad una sfera trascendentale autonoma e altra rispetto alla realtà materiale (quando essa stessa sia ammessa).
Che, poi, il pensiero non sia da concepire come mero rispecchiamento meccanico della realtà esterna, ma come prassi attiva, come rapporto, non scalfisce la premessa materialistica del pensiero.
2-Il concetto, espressione del pensiero-attività materiale, rapporto soggetto-oggetto, una volta concretatosi e manifestatosi nella realtà storica è necessariamente universale, senza bisogno di essere realtà ideale trascendente, poiché, hegelianamente, tutto ciò che è storico e transeunte è anche eterno (non so se anche le categorie eterne crociane siano da interpretare allo stesso modo).
Lo sviluppo del reale non cancella nulla. Il finito è sempre ricompreso e presente nell’infinito, il particolare nell’universale, lo storico e transeunte nell’eterno.
L’estinzione della specie umana che ha pensato la categoria “tavolo”, ma anche l’estinzione storica dell’oggetto materiale “tavolo”, con la morte del sole e del pianeta Terra (salvo scenari descritti dalla fantascienza), non cancellano né l’esistenza dell’oggetto “tavolo”, né il suo concetto, poiché ciò che è stato non si annulla. Nella concezione di Hegel il finito e lo storicamente determinato come tappa dello sviluppo dell’idea (del reale materiale, in un’ottica materialistica) non si annullano nell’infinito, ma ne fanno eternamente parte. Tutto ciò che viene superato viene conservato. (aufhebung).
Non ci saranno più tavoli né cervelli che ne ospitino il concetto, ma ciò non vuol dire cancellarne la realtà.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Monday, 13 April 2020 23:10
Eccellente articolo, molto chiaro e approfondito, e di grandissima utilità, come sempre.

Rimango dubbioso sul fatto che la "disputa sugli universali" non abbia, qui, una sua pertinenza.
Le possibilità sono due:
1) o i concetti universali sono costitutivi della realtà oggettiva ed esistono indipendentemente dalla percezione/cognizione soggettiva, ed in questo caso farebbero parte essi stessi della "materia" così come concepita da Lenin
2) oppure essi esistono (quando esistono) solo nella mente di alcuni (o di tutti) gli individui e smetterebbero di esistere qualora quegli stessi soggetti cessassero di pensarli.

Nel secondo caso i concetti sarebbero comunque "materia" (cerebrale), ma l'esito di questa seconda versione del materialismo sarebbe comunque il "nominalismo" dei concetti (o relativismo che dir si voglia). Quale verità oggettiva si potrebbe assegnare ad una semplice frase come "questo oggetto è un tavolo" se la classe "tavolo" si riduce ad essere un semplice fenomeno psicofisiologico soggettivo?

In questo secondo caso (nel caso in cui, cioè, per realtà/materia si intenda solo ciò che abbia una estensione finita spazio-temporale e si releghi tutto il resto, ciò che in termini hegeliani è il vero infinito cioè l'ideale, nell'ambito della mera soggettività) il materialismo diventa per l'appunto inconciliabile con il realismo scientifico.

Il mio sospetto è che, al di là delle intenzioni di Lenin, il materialismo che ha finito per prevalere in ambito marxista sia il secondo. Concezione che, escludendo la possibilità di uno studio scientifico dello spirito in sè che oltrepassi l'ambito della mera fisiologia (mi riferisco alla riflessologia pavloviana), ha precluso la possibilità dello sviluppo, in Unione Sovietica, di una psicologia scientifica all'altezza di quella occidentale, situazione denunciata dallo stesso Stalin nel suo scritto sui "problemi della linguistica".

Penso sia superfluo sottolineare quanto grande sia stato l'influsso di questo fattore sull'esito catastrofico della vicenda sovietica.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit