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machina

Una riflessione su Panzieri e Tronti

di Marco Cerotto

Su Panzieri e Tronti si è scritto molto, così come su quella straordinaria esperienza rivoluzionaria che prende il nome di operaismo e che ha avuto in «Quaderni rossi» una decisiva fase di incubazione. Tuttavia, è importante – non solo dal punto di vista storiografico, ma anche per il presente – ripercorrere ancora una volta i passaggi teorici e le scelte strategico-politiche che hanno definito quella stagione seminale, che ha coniugato una radicale rilettura di Marx con dei nuovi cicli di lotta. È il complesso compito che si assume in questo saggio per «Machina» Marco Cerotto, studioso in particolare della biografia teorico-politica di Raniero Panzieri.

filekj9p878ewsdfy«Le affinità incominciano a diventare interessanti nel momento in cui producono delle separazioni»

(J. W. Goethe, Le affinità elettive)

L’incontro di due anime diverse per un nuovo corso teorico-politico

Bisogna riconoscere che oramai su Panzieri e Tronti si è scritto in abbondanza, soprattutto sulle assonanze teoriche che li hanno condotti alla fondazione della prima rivista del neomarxismo italiano, i «Quaderni rossi» (1961), ed è stata quindi enfatizzata l’attenzione sui contributi teorici che hanno indagato l’evoluzione del neocapitalismo italiano, della nuova classe operaia e delle prospettive che sollecitavano a intraprendere delle importanti scelte politiche. Si è scritto tanto anche sulle dissonanze teorico-politiche tra i due, quando, dopo la rivolta di piazza Statuto nel 1962, Tronti e il suo gruppetto, quello dei «filosofi», in sintonia con quello «interventista», furono protagonisti della rottura della redazione dei «Quaderni rossi» per fondare «Classe operaia» (1964).

Eppure, risulta di straordinaria importanza ripercorrere ancora una volta i passaggi teorici e le scelte strategico-politiche che hanno definito quella florida stagione del neomarxismo italiano, la cui eredità teorica è rintracciabile in quell’immensa produzione critica e in quelle precise indicazioni politiche che hanno concorso a influire e a influenzare le successive pratiche di lotta sperimentate dalla galassia della sinistra italiana durante gli anni Sessanta e Settanta.

Nonostante la complessità del dibattito storiografico, si può constatare l’urgenza di approfondire la discussione, e quindi la necessità di delineare uno schema interpretativo convincente su uno dei capitoli più interessanti della storia del cosiddetto Italian Thought. Chiaramente, il presente contributo non pretende di assolvere siffatta funzione, piuttosto di inserirsi nella discussione sulla tematica, tuttora oggetto di analisi, contribuendo allo sviluppo di un dialogo proficuo, costruttivo e innovativo.

Introducendo la figura di Raniero Panzieri, precisiamo immediatamente che si inscrive al Partito socialista di unità proletaria (Psiup) nel 1944, data la sua vicinanza all’ambiente socialista di sinistra dell’università romana, per poi laurearsi nel 1946 all’Università di Urbino, sostenendo una tesi su L’utopia rivoluzionaria nel Settecento, e quindi approdando successivamente al marxismo. Se la scelta panzieriana di aderire al Partito socialista nel momento di «maggior comunistizzazione»[1], come ci ricorda Macaluso, potrebbe risultare piuttosto ambigua, vale la pena considerare che la tradizione culturale socialista si presentava più distensiva rispetto all’alleato comunista. Panzieri è allievo di Rodolfo Morandi e mutuerà dal segretario socialista uscente la predilezione verso le istanze consiliariste e, strettamente connesso, la convinzione dell’idoneità del partito-strumento, che appariva in netto contrasto con la visione del partito-guida di origine terzinternazionalista, e comunista. Queste particolarità di carattere culturali e politiche ci aiutano a sciogliere la presunta ambiguità della scelta socialista di Panzieri, dal momento che in questo determinato periodo storico un giovane intellettuale marxista avrebbe privilegiato la prospettiva comunista, elaborata saldamente nell’immediato dopoguerra.

Se è vero, come sostengono le fonti e come ci ricorda lo stesso Morandi, che Panzieri si forma prettamente nell’ambiente culturale del Partito socialista, è altrettanto vero che inizia a occupare anche dei ruoli dirigenziali di primo piano, come dimostrerà la straordinaria esperienza siciliana. Panzieri giunge in Sicilia nel 1948 per assumere la cattedra di Filosofia del diritto all’Università di Messina, su richiesta del suo collega e amico Galvano Della Volpe, interrompendo, però, molto presto la carriera accademica a causa dei numerosi dissidi creatisi con il rettore, e barone liberale, Gaetano Martino. Dopo la sconfitta delle sinistre nel 1948, Morandi solleciterà Panzieri ad assumere un’importante carica dirigenziale per la federazione socialista messinese, ruolo che ricoprì – nonostante le sue iniziali diffidenze – sino al 1953. In questo quadriennio siciliano, che si può definire il «primo Punto di Archimede», Panzieri seguirà direttamente le occupazioni delle terre da parte dei contadini poveri, apportando il proprio originale contributo nei momenti assembleari e di lotta di questo movimento. Infatti, Panzieri criticherà sia quelle posizioni che giudicavano «spontaneista» il movimento dei contadini, perché mosso meramente da interessi economici, sia quelle che intendevano condizionare le prospettive dei braccianti in lotta attraverso l’esposizione di strategie confacenti alla linea dei partiti di classe. Dopo l’esperienza siciliana, Panzieri assumerà la carica di responsabile della Sezione Centrale Stampa e Propaganda del Partito socialista, avviando una battaglia politico-culturale nei confronti della deformante dialettica che sussisteva tra il mondo della politica e quello della cultura, ma anche nei confronti del rapporto tra l’organizzazione e la classe. A tal proposito, sono noti i convegni che organizza in questo periodo, tra il 1954 e il 1955, ma ancor più significativi risulteranno i numerosi scritti apparsi sugli strumenti teorici del suo partito, l’ «Avanti!» e «Mondo Operaio». Proprio di quest’ultimo venne nominato co-direttore nel 1955, proponendo all’attenzione dell’ambiente marxista italiano la necessità di approfondire lo studio sulle trasformazioni industriali, le quali stavano rivoluzionando le basi economiche, politiche e sociali del nostro paese.

A questo punto, è utile introdurre anche la figura di Mario Tronti per comprendere più dettagliatamente come gli eventi storici di questo periodo e l’urgenza di una rilettura della scienza marxiana risultano dei fattori fondamentali che concorsero all’elaborazione di un nuovo corso teorico e politico. Tronti, è importante precisarlo, nasce nel 1931, quindi ha dieci anni in meno a Panzieri, e si era formato prevalentemente nell’ambiente universitario comunista romano, instaurando un legame molto stretto con con Ugo Spirito e Lucio Colletti, i quali seguivano attentamente le novità teoriche provenienti dalla Sicilia elaborate da Galvano Della Volpe. Nel 1956 è segretario della cellula comunista universitaria mista, composta cioè sia da docenti che da studenti, ma con il ciclone proveniente dall’Unione Sovietica si afferma anche in Tronti la necessità di intraprendere nuove vie, si trattava ovvero di tentare di affrontare risolutamente la crisi - teorica e politica - che paralizzava in questi anni il movimento operaio italiano.

Prima ancora del 1956, però, è necessario segnalare un altro anno indimenticabile, il nostro 1955 alla Fiat, quando il più grande sindacato metalmeccanico di classe, la Fiom, perse per la prima volta la maggioranza alle elezioni per il rinnovo delle Commissioni interne. La sconfitta nel più grande stabilimento industriale italiano era il risultato di un duplice processo, da una parte si registrava un grave ritardo teorico nel sindacato della Cgil, incapace di interpretare la fase nuova dello sviluppo capitalistico, di coinvolgere la nuova classe operaia e infine di svincolarsi dall’opprimente ruolo di «cinghia di trasmissione» con il Partito comunista; da un’altra parte, invece, si affermava l’idoneità della sistematica repressione messa in atto dalla dirigenza aziendale sin dal 1953, che per consolidare il regime della nuova organizzazione produttiva costituì degli autentici «tribunali di fabbrica», come ci ricorda Aurelio Lepre, i cui compiti principali erano quelli di sorvegliare, denunciare e infine allontanare gli operai più impegnati politicamente con lo scopo di arginare i «sindacati rossi»[2]. Riassumendo, quindi, sottolineiamo come il biennio 1955-56 abbia imposto a tutti quegli intellettuali critici del marxismo italiano l’urgenza di effettuare delle scelte diverse, in particolare ci proponiamo di analizzare le riflessioni di questo periodo di Panzieri e Tronti, le quali risultano condizionate da questi anni di transizione.

Se Panzieri, dirigente di partito, tenta di far convergere ancora l’unità di intenti tra socialisti e comunisti, ovvero afferma la necessità di rinnovare la strategia politica dei due partiti di classe, perseguendo ancora la «via italiana e democratica del socialismo»[3], Tronti, invece, seguendo la sua testimonianza, apparirebbe già compiutamente distaccato dalla tradizione teorica e politica del movimento operaio, poiché questa crisi storica rifletteva incondizionatamente la caducità dello «storicismo idealistico gramsciano»: esisteva un «nesso» tra i due termini, seppur «difficile da trovare»[4]. Eppure, anche in Panzieri prevaleva l’urgenza di esprimere un «netto rifiuto» verso ogni «atteggiamento pseudo-storicistico, hegeliano», per evitare di far scadere la scienza marxiana in una «dialettica mistificata», dal momento che essa «concepisce la storia come come dialettica effettiva, come serie effettiva di contrasti e rotture»[5]. Il primo dato che si può rilevare nei due intellettuali marxisti negli anni che seguirono la crisi del ’56 è il rifiuto, anzitutto teorico, della tradizione storicista, la quale inficerebbe inevitabilmente la stessa strategia politica. In effetti, abbiamo solo minimamente accennato a Della Volpe, in occasione dell’incarico universitario di Panzieri nel 1948 e delle influenze sull’ambiente universitario romano. Invece, è importante ricordare come la rielaborazione marxiana del filosofo romagnolo dell’immediato dopoguerra si poneva in netto contrasto con la filosofia marxista del Partito comunista. Faccio particolare riferimento all’opera La libertà comunista[6] del 1946, in quanto la riflessione marxiana di Della Volpe si presentava come una particolarità teorica che irrompeva nella oramai egemonica cultura filosofica storicista. Il metodo dellavolpiano si inseriva in una crisi che coinvolgeva contemporaneamente la teoricità e la politicità del movimento operaio, dal momento che sussisteva, sul piano teorico, ancora una «infecondità dogmatica»[7] derivata dal materialismo dialettico terzinternazionalista, mentre sul piano politico si riflettevano i problemi sofferti dallo Stato sovietico che, esplosi apertamente nel ’56, si ripresenteranno nuovamente negli anni successivi. Eppure, prevale un momento sia in Panzieri che in Tronti che supera positivamente il pensiero filosofico dellavolpiano, rappresentando in effetti un’autentica novità per l’intero filone neomarxista, vale a dire il «momento della soggettività»[8], che incarnerà, tra l’altro, un punto di riflessione importante sia durante gli anni che precedettero la fondazione dei «Quaderni rossi», come dimostrerà il carteggio tra i due dopo i fatti di Genova 1960, sia nel periodo successivo, quando si pose come principale dissonanza tra due tradizione politiche e filosofiche, come confermeranno i fatti di piazza Statuto.

Prima di parlare dell’incontro tra Panzieri e Tronti e della fondazione della rivista neomarxista torinese, è utile fare riferimento agli scritti degli anni successivi alla crisi dello stalinismo e comparsi su quella «fucina di idee» che era diventata «Mondo Operaio» a guida Panzieri, poiché ospitava le più disparate discussioni sui temi più innovativi di questo periodo, ovvero il «neocapitalismo». È del maggio 1957 l’editoriale di Vittorio Foa pubblicato sulla rivista socialista diretta da Panzieri, dal titolo Il neocapitalismo è una realtà[9], che sollecitava il movimento operaio a indagare sulle trasformazioni scientifiche e tecniche che avevano rimodellato la grande fabbrica industriale, affermando che oltre al capitalismo «straccione», sul quale si concentrava prettamente il marxismo «ortodosso», sussisteva un’altra forma di sviluppo che sperimentava in quegli anni nuove e più sofisticate tecniche di disgregazione della classe operaia. Un anno più tardi, sulle orme di questo dibattito aperto ufficialmente da Foa, ma che già persisteva, vennero pubblicate le «Sette tesi sulla questione del controllo operaio», ancora su «Mondo Operaio», scritte da Raniero Panzieri e Lucio Libertini. Se Dario Lanzardo scrive che il movimento operaio italiano «già da tempo aveva rinunciato all’uso del marxismo come strumento di comprensione e previsione delle contraddizioni sociali, come teoria rivoluzionaria per la lotta di classe»[10] e Sandro Mancini aggiunge che la risposta riformista dei partiti di sinistra risulterà la «vera vincitrice della crisi del ’56»[11], allora risulterà più logica e coerente la ricerca panzieriana di elaborare una «risposta di sinistra» in questo periodo di transizione: la risposta di sinistra di Panzieri può essere individuata infatti nella pubblicazione nel 1958 delle «Sette tesi». Le «Tesi» svolgono, in sintonia con gli scritti precedenti, un’analisi meticolosa del capitalismo italiano di questi anni nuovi e pongono in evidenza i caratteri innovativi del recente sviluppo industriale, e rivolgono contemporaneamente una feroce critica alla visione strategica dei partiti di sinistra, come la «via italiana e democratica» al socialismo che perseguiva esclusivamente la battaglia parlamentare e costituzionale. La necessità per i due intellettuali socialisti, invece, è quella di instaurare dei momenti di democrazia diretta all’interno delle strutture produttive, dove hanno origine i «rapporti reali e ha sede la reale fonte del potere», come viene dichiarato nella «Tesi» n. 2 La via democratica al socialismo è la via della democrazia operaia[12]. Il tema del potere della classe operaia si pone in questa fase storica come un tentativo da parte di Panzieri, ma anche di altri marxisti critici, di escogitare un’uscita a sinistra dalla crisi dello stalinismo, contrapposta tanto al riformismo parlamentare quanto al dogmatismo intellettuale.

Durante il quadriennio 1953-57, Panzieri, nel ruolo di dirigente culturale del Partito socialista, ebbe sicuramente il merito di avvicinare tanti intellettuali, soprattutto giovani, i quali avvertivano la necessità di un rinnovamento teorico funzionale allo sviluppo di una prospettiva politica diversa. Le riflessioni panzieriane, in effetti, mostravano insieme il carattere di rottura, nei confronti delle strategie politiche delle organizzazioni storiche del movimento operaio, e il carattere innovativo di una tradizione consiliare rivitalizzata e che offriva i primi tentativi costruttivi dopo la crisi del 1956. Dopo la pubblicazione delle «Tesi» si intensifica il carteggio con numerosi intellettuali, come Lucio Colletti, Alberto Asor Rosa e lo stesso Mario Tronti[13], dopo che il ’56 li fece svegliare «dal sonno dogmatico», come ebbe modo di confessare lo stesso Tronti, il quale riconosce a Panzieri il «merito di aprirci su questa frontiera»[14].

Gli esiti congressuali del Partito socialista, Venezia 1957 e Napoli 1959, e l’allontanamento di Panzieri dai ruoli di organizzatore culturale, convinsero l’intellettuale socialista a intraprendere un percorso completamente diverso e lontano dagli incarichi centrali di partito. Nel 1959 si trasferisce a Torino per collaborare con la casa editrice Einaudi e, nonostante il clima austero della capitale del neocapitalismo italiano, caratterizzato da «freddo, smog e monopolio», Panzieri comincerà molto presto a impegnarsi in nuovi ed entusiasmanti lavori di ricerca, grazie all’incontro di nuovi soggetti, come gli operai dei grandi stabilimenti, i quali parevano indulgerlo al più presto a un diverso lavoro di analisi, e un gruppo di giovani, perlopiù socialisti, avvicinatisi all’attività panzieriana negli anni precedenti, ovvero durante l’incessante lavoro culturale svolto su «Mondo Operaio» e sulle pagine dell’«Avanti!». I mesi torinesi che vanno dalla primavera ’59 all’inverno ’60 sono caratterizzati da riunioni, scambi di lettere, discussioni e progetti in cui Panzieri, nel ruolo di mediatore, stava progressivamente costruendo il suo progetto di una rivista che finalmente indagasse le nuove contraddizioni del neocapitalismo. È esemplare una lettera del ’59 inviata a Giovanni Pirelli, poiché lo aggiorna sul lavoro alla Fiat portato avanti con questi «giovani di qui [che] hanno le migliori qualità torinesi», ovvero un odio profondo verso questa «città e le sue istituzioni»[15]. I giovani torinesi erano Giovanni Mottura, Vittorio Rieser, Dario e Liliana Lanzardo e altri, i quali andranno a costituire il cosiddetto gruppo «torinese» durante l’esperienza dei «Quaderni rossi». Contemporaneamente, si intensificava anche il rapporto con il gruppo «romano», formato da Asor Rosa, Mario Tronti e Ester Fano. Asor Rosa risulta l’interlocutore privilegiato di Panzieri, poiché agisce da mediatore tra il gruppo «torinese» e quello «romano», ma dopo Genova 1960 si intensifica il carteggio anche tra Panzieri e Tronti, come dimostra una lettera del 12 dicembre di quello stesso anno, nella quale Panzieri confessa al giovane filosofo romano la necessità di indagare il carattere del nuovo proletariato industriale che trascina nelle piazze un «elemento politico», e cioè una «richiesta di potere»[16] che i partiti di classe non riescono a soddisfare. Tronti, rispondendogli poco dopo, ammette un certo entusiasmo sulla possibilità di lavorare con lui realizzando «l’idea dei Quaderni», funzionali ad affrontare gli studi sul neocapitalismo e sulla nuova classe operaia, tematiche che per Tronti risultavano essere il «centro di tutto»[17].

Prima di concludere questo paragrafo, mi preme sottolineare l’attenzione che Panzieri rivolge in questi anni nei confronti del rinnovamento del sindacato della Cgil, poiché oltre agli ultimi esiti congressuali, in particolare quello di Roma del ’56 e di Milano del ’60, laddove venne riconfermata la linea del «ritorno alla fabbrica», pareva che si stesse affermando una prospettiva di ricerca teorico-politica decisamente innovativa, come dimostrava anche il lavoro della Camera del lavoro torinese. I giovani militanti torinesi, Garavini, Pugno, Muraro, Alasia e altri, erano interessati a ripartire veramente dalla fabbrica, intensificando i rapporti con i lavoratori nei luoghi della produzione per «percepire e analizzare i segni e i significati del nuovo clima che sembrava crescere nelle fabbriche e richiedere l’elaborazione di nuove linee»[18]. Questi segnali positivi giustificano, da una parte, l’attenzione di Panzieri nei confronti del sindacato, convinto della possibilità che potesse seriamente svilupparsi, come si evince nella già citata lettera con Tronti, una situazione diversa rispetto ai partiti di sinistra, soprattutto per quel che concerneva il lavoro torinese, che si mostrava «relativamente aperto ai temi e alle cose nuove»[19], e da un’altra giustificano la convinzione dell’idoneità del ruolo da assegnare ai «Quaderni rossi»: uno strumento teorico capace di riempire quello spazio politico non mediato tra l’organizzazione e la classe.

 

La fondazione dei «Quaderni rossi»: affinità sul capitale e divergenze sulla classe

I «Quaderni rossi» vengono fondati a Torino nel 1961 dopo un intenso periodo caratterizzato da scambi epistolari, in cui emergono indicazioni per nuove prospettive di ricerca. La redazione risulta essere composta da tre gruppi di diversa tradizione culturale e politica: il gruppo «torinese», il gruppo «romano» e infine quello «interventista». Il primo gruppo si era formato abbastanza rapidamente intorno a Panzieri col suo trasferimento a Torino nel ’59, ed erano giovani militanti socialisti occupati a rivitalizzare la Camera del lavoro indirizzandola verso la lotta in fabbrica. Tra questi, come Rieser, Mottura, De Palma e Beccalli, prevaleva una propensione alle novità sociologiche provenienti d’oltreoceano, ancora bollate di «americanismo» dall’area del marxismo ortodosso; il secondo era di tradizione comunista, arricchito dalla presenza di Rita di Leo e dalla sofisticata preparazione teorica di Tronti per la scienza marxiana, tanto che Panzieri lo presentò come il «Marx italiano»[20]; infine il terzo gruppo, composto da Alquati, Gasparotto, Gobbi, risulta attivo tra Milano e Torino e appare già pienamente avverso ai partiti della classe operaia, perciò Negri lo definisce «bordighista» e collocabile quindi alla frangia sinistra dell’area comunista e confinante quasi nell’anarchismo. La descrizione di questo melting-pot politico-culturale, che animava la rivista dei «Quaderni rossi», ritornerà utile per chiarire successivamente la rottura della redazione, che si rese inevitabile dopo i fatti di piazza Statuto nel 1962[21]. Prima di dedicare l’attenzione dell’analisi ai primi scritti dei «Quaderni rossi», risulta necessario concentrare brevemente il discorso sulla rivolta di Genova del luglio 1960, poiché essa parve confermare le tesi degli intellettuali neomarxisti sull’inaudita combattività operaia e soprattutto sulla compiuta affermazione di questa nuova classe operaia negli sviluppi neocapitalistici. Nel pieno della crisi del governo monocolore democristiano a guida Tambroni, il Movimento sociale tentò di sfruttare il suo recente appoggio al governo organizzando un congresso a Genova, città medaglie d’oro per la resistenza: la piazza antifascista scatenò una feroce rivolta e impedì lo svolgimento della manifestazione neofascista. La rivolta di Genova rappresentò definitivamente la transizione sociale che la società civile aveva conosciuto con la recente affermazione neocapitalistica, poiché essa si distaccava profondamente dalle «regole del vecchio gioco», come sentenziava «Passato e Presente». La stessa lettura panzieriana individuava una determinata combattività delle masse, le quali si scagliavano solo apparentemente contro la manifestazione neofascista, ma che in realtà tendevano a colpire la dinamicità del neocapitalismo e richiamavano l’attenzione del sindacato «alla realtà dei rapporti di classe». L’analisi di Panzieri non era condizionata dalla strategia del controllo operaio elaborata in quegli anni di transizione, bensì essa coglieva lucidamente l’evoluzione sociale che stava plasmando gradualmente i conflitti di classe dei primi anni Sessanta, i quali dimostravano espressamente quegli elementi di cesura della nuova classe operaia formatasi con gli sviluppi recenti del neocapitalismo. Infatti, accanto alle tradizionali leve operaie che animarono «una rivolta della città vecchia del proletariato»[22], i protagonisti indiscussi di quel luglio caldo furono certamente le nuove generazioni dotate di «une force entiérement nouvelle»[23], provocando un’«esplosione popolare [che] non rientrava negli schemi» e anzi «assumeva il significato di una rivelazione»[24], commentava ancora «Passato e Presente». Le stesse riviste del disgelo, dunque, sottolinearono l’enorme risonanza politico-sociale della rivolta genovese, affermando che i caratteri di quell’antifascismo popolare puntavano a smascherare la reale pericolosità dei loro tempi, come la «tracotanza padronale nella fabbrica», piuttosto che scagliarsi contro «l’immagine buffonesca e macabra del ventennio»[25]. Pertanto, si comprende come l’articolo di Panzieri, uscito sulla rivista della federazione socialista torinese «La città», rilanciasse stricto sensu una prospettiva politica, esortando il sindacato di classe a «concentrarsi nella rivendicazione di un mutamento profondo nelle strutture economiche e sociali, nella individuazione dei processi totalitari di potere, che dalla grande fabbrica si estendono a tutti i livelli nel Paese», dal momento che quivi veniva individuata la radice del «potere del padronato»[26] che condizionava inevitabilmente gli sviluppi politici e sociali dell’intera società civile.

Giungendo invece alla fondazione dei «Quaderni rossi», chiariamo subito che i contributi più significativi dei primi due numeri risultano essere il saggio di Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, e quello di Tronti, La fabbrica e la società. È possibile analizzare dialogicamente i rispettivi saggi, in quanto il primo puntava a demistificare le cosiddette ideologie «oggettivistiche» del marxismo ortodosso attraverso un’analisi neomarxiana della fabbrica tecnologica, ovvero confutava le elaborazioni sostenute dagli intellettuali del marxismo teorico sulla neutralità della scienza e della tecnica, scorgendovi piuttosto una sofisticata organizzazione produttiva tendente a fagocitare il lavoro vivo nella complessità dei mezzi di produzione automatizzatisi; mentre il secondo si spingeva ad affrontare quel preciso momento in cui la produzione capitalistica raggiungeva un determinato livello di sviluppo, per cui risultava complicato individuare i diversi momenti che intercorrevano tra la sfera produttiva e quella distributiva.

La lettura innovativa, scriviamo pure neomarxiana, fornita da Panzieri e Tronti sui primi due numeri dei «Quaderni rossi», aveva il merito di esporre all’attenzione del dibattito marxista italiano la complessità della nuova organizzazione produttiva, allontanandosi nettamente dalle interpretazioni teoriche del movimento operaio ruotanti attorno alla staticità italiana del modo di produzione capitalistico. L’esposizione teorica dei due intellettuali neomarxisti, oltre a distaccarsi dalle concezioni arretrate del movimento operaio sul sistema capitalistico, si poneva criticamente anche con la recente elaborazione avanzata dagli stessi teorici del marxismo ortodosso, i quali avevano cominciato faticosamente ad affrontare la tematica dello sviluppo tecnologico, come dimostrava il convegno all’Istituto Gramsci del 1962 sulle Tendenze del capitalismo italiano[27]. Infatti, se risultava vero, per una parte, come asserivano i marxisti teorici delle organizzazioni operaie, che con la nuova tecnologia di fabbrica gli operai traevano benefici prima d’ora sconosciuti, risultava altrettanto vero che con i nuovi metodi lavorativi la macchina semplificava notevolmente il lavoro dell’operaio rendendolo un semplice ingranaggio del processo produttivo, in quanto - citando direttamente Marx - «non è l’operaio ad adoperare la condizione del lavoro ma, viceversa, la condizione del lavoro ad adoperare l’operaio», fenomeno ritenuto intrinseco a tutta la produzione industriale capitalistica, ma che assumeva «una realtà tecnicamente evidente»[28] solamente con la fabbrica automatizzata. Anche il saggio di Tronti aveva il merito di analizzare marxianamente lo sviluppo della nuova organizzazione produttiva e gli stravolgimenti che ne derivavano all’interno della società. Se Panzieri focalizza la sua analisi nella sfera chiusa della fabbrica, Tronti si spinge ad affrontare quel preciso momento in cui la produzione capitalistica raggiunge un determinato livello di sviluppo, per cui risulta complicato individuare i diversi momenti che intercorrono tra la sfera produttiva e le altre sfere sociali, come quella distributiva, perché lo stesso sviluppo del capitale comporta la mistificazione di quel processo che coinvolge la dialetticità della «produzione capitalistica e la società borghese». Infatti, quando il rapporto specifico della produzione capitalistica pervade l’intero sistema sociale tende a verificarsi una situazione nuova, in cui la radice del processo di produzione sembra nascondersi nei movimenti reali della sfera sociale, configurandosi come «suo particolare marginale», scriveva Tronti. Più precisamente, quando il processo capitalistico raggiungeva un elevato grado di sviluppo, ossia quando si sviluppava la grande fabbrica e pertanto diveniva lecito parlare di organizzazione scientifica del capitale, la «società intera diventa un’articolazione della produzione», poiché con gli sviluppi del neocapitalismo la fabbrica estendeva capillarmente il suo controllo su tutta la società. Il neocapitalismo, stravolgendo il rapporto fabbrica-società, recava intrinsecamente una certa abilità mistificatoria pertinente alla funzione reale che ricopriva la produzione: dal momento in cui il processo industriale si impadroniva dell’intera società, le particolarità inerenti all’organizzazione della grande fabbrica svanivano confusamente nella sfera sociale. Era ciò che Tronti definiva «il massimo svolgimento ideologico della metamorfosi borghese»[29]. Infine, Tronti, nel tentativo di delineare una linea di lotta per la classe operaia nel neocapitalismo, assegnava alla forza-lavoro il compito rivoluzionario di capovolgere i rapporti di produzione capitalistici per affermarvi una reale socializzazione del processo produttivo, poiché solo la forza-lavoro, dentro il processo produttivo, è capace di mettere in crisi i rapporti di produzione su cui si fonda l’intera società neocapitalistica. Sappiamo bene che l’analisi marxiana sulla classe operaia venne approfondita da Tronti soprattutto durante le lotte operaie del 1962-63, il quale approdando a conclusioni diverse da Panzieri, abbandonava la prima esperienza del neomarxismo italiano per fondare «Classe operaia». Mentre Panzieri, nelle conclusioni al suo saggio, rivolgeva la sua critica alla strategia salariale del movimento operaio, e del sindacato nella fattispecie. Riattualizzando la lezione marxiana di Lavoro salariato e capitale, Panzieri asseriva che l’aumento salariale era un fenomeno già previsto, in quanto lo sviluppo della tecnica e della scienza nel modo di produzione capitalistico avrebbe generato un aumento del salario nominale e di quello reale. Il fondatore dei «Quaderni rossi» riportava Marx nel pieno del «miracolo economico» italiano e nel riformismo programmatico del centro-sinistra, laddove col verificarsi dell’accumulazione e concentrazione del capitale corrispondeva un effettivo miglioramento generale della classe operaia, che però equivaleva a un aumento della sua dipendenza dal capitale, poiché nonostante migliori la «situazione materiale dell’operaio, peggiora la sua situazione sociale», ovvero si approfondisce sensibilmente «l’abisso sociale che lo separa dal capitalista»[30]. La proposta politica panzieriana, quindi, si fondava sulle istanze di potere e di gestione della classe operaia all’interno dei luoghi della produzione, nello sviluppo di autentici momenti di democrazia diretta per un controllo razionale sulla produzione.

 

La rottura tra Panzieri e Tronti: una riflessione aperta

Il primo numero dei «Quaderni rossi» aveva puntato ad accelerare la cosiddetta «svolta» della Cgil, come dimostrano anche le collaborazioni dei diversi sindacalisti, a partire dall’editoriale di Vittorio Foa Lotte operaie nello sviluppo capitalistico che apriva il primo numero. La prospettiva di Panzieri di coinvolgere il sindacato nuovamente su posizioni di classe, ovvero sviluppando una strategia realmente anticapitalistica, non era così lontana dalle trasformazioni in seno alla Cgil susseguitesi in questo periodo. Infatti, la Cgil aveva realmente intrapreso un percorso diverso dopo gli importanti esiti congressuali del ’56 e del ’60, seppur ereditando ancora diversi limiti politici scaturiti dai difficili anni della crisi dello stalinismo e dell’offensiva neocapitalista, secondo la lettura di diversi dirigenti sindacali. Sicuramente, uno dei problemi principali risiedeva nella visione contraddittoria del «ritorno alla fabbrica», poiché si basava sulla strategia salariale e contrattuale che puntava a migliorare la condizione della classe operaia all’interno del modo di produzione capitalistico, finendo per assolvere una funzione stabilizzatrice per l’affermazione della fase nuova del sistema economico. Tuttavia, il coinvolgimento dei sindacalisti nel progetto teorico-politico dei «Quaderni rossi» durò molto poco, come dimostreranno i contrasti emersi dopo l’azione spontanea intrapresa dalla redazione all’interno della Fiat Ferriere, ovvero quando gli intellettuali della rivista produssero e diffusero autonomamente dei volantini nello stabilimento industriale senza la firma e l’avallo del sindacato. Questo episodio viene tuttavia collocato nel clima di generale tensione che accompagnò l’uscita del primo numero, che provocò «ripetuti attacchi di vertice a Garavini e alla linea della Cdl torinese»[31], conducendo questi, insieme a Vittorio Foa ed Emilio Pugno, a dissociarsi dalla rivista e a interrompere la collaborazione col gruppo redazionale.

Eppure, anche all’interno della stessa redazione dei «Quaderni rossi» cominciavano a serpeggiare orientamenti e prospettive divergenti, come dimostra il convegno a Santa Severa. Se è vero, infatti, che gli scontri di piazza Statuto sancirono definitivamente la difficoltà di proseguire ulteriormente il lavoro teorico, è ancor più vero che l’origine di questo dissidio può essere individuato già nei mesi precedenti, come dimostra l’accesa discussione a Santa Severa nell’aprile 1962. L’incontro avrebbe dovuto focalizzare l’attenzione sullo studio del Capitale, ma si trasformò in un dibattito sui problemi politici e sociali del momento, sulla nuova conflittualità operaia e, infine, sulla necessità di forzare il ruolo dei «Quaderni rossi», assumendo direttamente la responsabilità di organizzazione politica. La discussione a Santa Severa incespicò su una questione di fondo, che rendeva per la prima volta espliciti i contrasti tra i «romani» e i «torinesi», in quanto questi ultimi insistevano sulla necessità di approfondire ulteriormente l’analisi del modo di produzione neocapitalistico per evitare di scivolare nel grossolano errore dell’immediatismo, e continuando a sostenere una linea di collateralismo con il sindacato per un «tempo prevedibilmente lungo»[32]. È ormai risaputo che per fronteggiare questa prima crisi teorica, la redazione decise di formulare le cosiddette «Tesi Panzieri-Tronti» per cercare di garantire al gruppo un codice teorico-politico più solido e duraturo. Ma l’estate era alle porte, e con essa la rivolta di piazza Statuto che infiammò la capitale del neocapitalismo italiano nelle giornate dal 7 al 9 luglio 1962. Nei giorni seguenti la rivolta, come risaputo, le organizzazioni sindacali scagliarono contro il gruppo dei «Quaderni rossi» un durissimo attacco, accusandoli di aver provocato gli scontri e di aver contribuito alla disgregazione sindacale, e quindi operaia. Nonostante la redazione parve ritrovare una timida unità nel tentativo di essere riabilitati dalle organizzazioni operaie, in realtà l’attacco ai «Quaderni rossi» scompaginò le file del gruppo, già diviso ormai sulla possibilità di intervenire politicamente nelle lotte operaie, e ancor più frazionati sull’urgenza di una rappacificazione con le organizzazioni storiche del movimento operaio. Il dissenso si approfondisce nei mesi successivi, come dimostrano le perplessità di Panzieri nei confronti dell’editoriale di Tronti, Il piano del capitale, che avrebbe dovuto aprire il terzo numero dei «Quaderni». Panzieri e i «sociologi», cioè il gruppo «torinese», esprimono le proprie diffidenze nei confronti del ragionamento trontiano, esposto con più linearità durante una riunione del gruppo «romano», durante la quale Tronti definì le basi della sua «rivoluzione copernicana», sancendo – di fatto – un vero e proprio «manifesto in nuce dell’operaismo teorico»[33] appartenente al gruppo che darà vita a «Classe operaia». Tronti operava il rovesciamento della teoria marxiana secondo la quale il capitale spiega tutto quello che c’è dietro, giungendo a teorizzare il primato della classe sul capitale, dichiarando che «il punto più alto dello sviluppo non è affatto il livello del capitale» ma è appunto la classe operaia[34]. L’articolo di Tronti subisce l’ostracizzazione da parte di Panzieri, che viene spostato a editoriale interno, mentre il terzo numero si apre con il saggio Piano capitalistico e classe operaia che riporta la firma collettiva dei «Quaderni rossi». Dopo l’uscita del terzo numero, durante una riunione della redazione «Quaderni rossi – Cronache operaie» del 31 agosto, Panzieri annuncia la fine dei lavori, constatando che prevalgono contraddizioni irrisolte da tempo, approfonditesi in particolare dopo lo sciopero Fiat e per le diverse interpretazioni fornite di quell’evento. Per Panzieri e altri compagni la valutazione della condizione del livello maturato dai nuovi cicli di lotta operaia palesava «una spinta di classe» senza precedenti, che ricalcava elementi nuovi sviluppatisi radicalmente con l’affermazione del neocapitalismo, ma contemporaneamente si accentuava l’inesistenza di un’organizzazione politica e la difficoltà di «costruirla a breve scadenza»[35]. La scelta emersa nella redazione sulla possibilità di intervenire direttamente e autonomamente nei nuovi cicli di lotta operaia dei primi anni Sessanta, che sembrava fondarsi prettamente su una decisione pratico-politica, rimandò inesorabilmente a una dissonanza teorica. Prima di analizzare criticamente e dialetticamente le fonti sulla storica rottura tra i due intellettuali del neomarxismo italiano, osserviamo attentamente le ulteriori elaborazioni teoriche appartenenti all’ultimo Panzieri e al Tronti dell’esordio di «Classe operaia», le quali assurgono a chiavi di lettura, divergenti ovviamente, dello sviluppo neocapitalistico, della pianificazione produttiva e distributiva e della nuova classe operaia.

Dunque, i saggi dei precedenti numeri dei «Quaderni rossi» avevano analizzato l’evoluzione del nuovo modo di produzione, focalizzando l’attenzione sugli aspetti più significativi del neocapitalismo, come l’uso capitalistico delle macchine e il dispotismo padronale insito in esso, la dialettica fabbrica-società che derivava dalla nuova organizzazione del processo produttivo e infine la peculiarità del «piano», che dalla sfera produttiva a quella circolativa perfezionava il perpetuum mobile dei rapporti di produzione neocapitalistici. Eppure, il quarto numero della rivista si proponeva di indagare nuovamente le specifiche leggi economiche che caratterizzavano il neocapitalismo degli anni Sessanta, enfatizzando con ciò la recente rottura del gruppo incarnata dall’uscita di Tronti e dei «romani» per fondare «Classe operaia». Nell’estate del 1963 esce il quarto numero dei «Quaderni rossi», dal titolo Produzione, consumi e lotta di classe, all’interno del quale l’editoriale di Panzieri, Plusvalore e pianificazione, assume un’importanza fondamentale soprattutto per cogliere le dissonanze rispetto alla lettura trontiana sull’evoluzione capitalistica. Nel saggio che si proponeva essere «Appunti di lettura del Capitale», ossia Plusvalore e pianificazione, Panzieri coglieva le peculiarità dell’organizzazione del processo produttivo neocapitalistico, le quali dimostravano il superamento della precedente fase concorrenziale e sancivano lo sviluppo di un sistema modernamente efficiente nella dialettica produzione-consumo. La pianificazione risultava essere la forma fondamentale insita nel processo capitalistico, che tuttavia assumeva una particolare rilevanza soltanto con il perfezionamento tecnico e scientifico della grande fabbrica, riuscendo ad affrontare adeguatamente le conseguenze della cieca concorrenza e del «caotico movimento» della circolazione[36]. Panzieri coglieva le trasformazioni qualitative del neocapitalismo che tendevano a perfezionare il processo produttivo e, ancor più importante, quello distributivo, in quanto individuava nella pianificazione il fenomeno caratterizzante lo sviluppo del sistema capitalistico che, lungi dall’entrare nella sua ultima fase, sperimentava una nuova organizzazione del lavoro, attuando un’autentica mistificazione dei rapporti privati di produzione.

Nel frattempo, nel gennaio 1964 era stata fondata «Classe operaia» con un obiettivo politico molto preciso, ossia ricercare la via strategica per la costruzione di un’organizzazione operaia e rivoluzionaria. Abbiamo già accennato che, dopo gli eventi di piazza Statuto, Tronti considerasse la soggettività operaia come la rappresentazione del massimo grado dello sviluppo capitalistico, dal momento in cui si verificava un curioso ribaltamento di azione e reazione tra capitale-classe operaia nel modo in cui Marx aveva osservato i processi sociali innescati dallo sviluppo capitalistico, realizzandosi piuttosto il primato della classe sul capitale, come sentenziava la sua «rivoluzione copernicana». La questione dell’organizzazione, dunque, assumeva una priorità assoluta per il gruppo dirigente di «Classe operaia», che aveva coinvolto gli intellettuali-militanti dell’ala oltranzista dei «Quaderni rossi», unitasi ai «romani» e al gruppo collocato tra Padova e Venezia, che vantava una ramificazione di solide basi operaie nelle grandi fabbriche venete. Se lo «sviluppo capitalistico è subordinato alle lotte operaie»[37], si comprende come la necessità di incanalare siffatte lotte in una strategia generale di un’organizzazione operaia dominasse la discussione iniziale di «Classe operaia», come dimostrava il saggio di Tronti Lenin in Inghilterra: la necessità risultava quella di convogliare queste nuove lotte operaie in una nuova organizzazione di classe. Eppure, non passa troppo tempo quando anche in Tronti comincia gradualmente a prevalere la convinzione dell’assenza di un’organizzazione rivoluzionaria e viene rilanciata quindi la necessità di una «crisi positiva» funzionale alla ristrutturazione delle «vecchie organizzazioni»[38], come emerge dall’articolo 1905 in Italia uscito nel settembre ’64. Infatti, il primo anno di «Classe operaia» si chiudeva a dicembre con lo scritto Classe e partito, nel quale emergeva con più chiarezza la prospettiva che stava imboccando la seconda esperienza del neomarxismo italiano, in quanto si affermava la necessità di «impedire il processo di esplicita socialdemocratizzazione del partito comunista», nonostante i rischi che ne sarebbero derivati, cioè i «sacrifici personali», gli «arretramenti teorici» e persino i «compromessi pratici»[39].

L’evoluzione dell’analisi teorica trontiana si può cogliere nella considerazione sulla recente dinamica politico-sociale del neocapitalismo italiano, la cui prima fase di relativo benessere aveva condotto alla concessione delle diverse rivendicazioni salariali agli operai, riflettendo in tal modo il disegno progressista della parte «più lungimirante del capitale italiano», che puntava ad allineare quella più retrograda per realizzare quella modernizzazione del sistema capitalistico che il mondo occidentale aveva prospettato. Nella fase attuale, osservava Tronti, si verificava una situazione diversa, poiché la congiuntura economica del ’64 obbligava il capitalista collettivo a modificare la recente strategia elaborata negli anni del boom e lo spingeva a rifiutare nettamente le ulteriori richieste operaie sul salario, in quanto soltanto attuando un congelamento salariale si sarebbe verificata la stabilizzazione del sistema economico, che superando la crisi in atto avrebbe potuto avviare nuovamente la pianificazione del processo capitalistico. La visione trontiana era condizionata fortemente dalla staticità delle lotte operaie di questo periodo, che si differenziavano dal rapido susseguirsi dei cicli di lotta degli anni precedenti, i quali avevano convinto gli intellettuali di «Classe operaia» dell’urgenza di costruire un’organizzazione di classe in grado di indirizzare la strategia anticapitalistica nelle grandi fabbriche; adesso invece emergeva la prospettiva di orientarsi verso il Pci che si preparava all’XI Congresso elaborando nuove formule, come «partito unico» e «partito in fabbrica», le quali lasciavano auspicare al gruppo militante-redazionale la possibilità, come si espresse Aris Accornerno, di «spostarlo a spaccarlo»[40].

Analizziamo adesso l’ultimo contributo di Raniero Panzieri, pubblicato postumo sul quinto «Quaderno» nell’aprile 1965, perché esso incarna la sua riflessione matura e rappresenta uno spunto innovativo di ricerca per la conoscenza oggettiva della nuova classe operaia, e che appare in netto contrasto con la visione trontiana. All’interno del quinto numero dei «Quaderni rossi» venne pubblicato l’intervento pronunciato da Panzieri al seminario di Torino, svoltosi tra il 12 e il 14 settembre 1964, un mese prima della sua prematura scomparsa, dal titolo Uso socialista dell’inchiesta operaia. Dopo un’attenta critica indirizzata al marxismo dogmatico, il quale tacciava ancora la sociologia di essere una mera scienza borghese, Panzieri precisava che la scienza marxiana invece si conformava essenzialmente come una «sociologia concepita come scienza politica». Panzieri riteneva necessario avviare lo studio sulla classe operaia applicando una metodologia analitica specifica, in quanto per una comprensione realmente esaustiva di questa era indispensabile «un’osservazione scientifica assolutamente a parte»[41]. L’inchiesta diventava il metodo scientifico qualitativamente funzionale per indagare su quei processi agenti sulla nuova forza-lavoro formatasi con gli sviluppi neocapitalistici; in particolare, l’inchiesta a caldo avrebbe permesso di studiare la dialettica conflitto-antagonismo e cioè comprendere scientificamente le esigenze espresse dalla classe operaia sia nel momento di maggior conflitto dualistico sia, e specialmente, nei periodi più statici, per analizzare infine il grado di maturità e di solidarietà della classe nell’opporre un coscienzioso rifiuto al sistema capitalistico, evitando formulazioni avalutative, ovvero ideologicamente condizionate dalla forte combattività operaia espressa in quegli anni e che avevano contribuito a fuorviare le conclusioni teoriche dello studio trontiano. In questi anni di transizione diviene prioritario, secondo Panzieri, riuscire a cogliere sociologicamente il grado di consapevolezza operaia e verificare empiricamente il suo livello di maturità, per constatare la presenza di una lucida coscienza di costituire una reale opposizione al sistema capitalistico, di rappresentarsi elemento in grado di «rivendicare di fronte alla società diseguale una società di eguali»[42].

Avviandomi alle conclusioni, è utile concentrare il discorso sulla discussione critica delle fonti che hanno dedicato l’attenzione alla storica rottura tra Panzieri e Tronti, chiarendo un presupposto che si rivela essere determinante per la lettura delle divergenze in seno alla prima esperienza teorico-politica del neomarxismo italiano. L’assunto fondamentale della divergenza tra i due ruota attorno all’idea che l’uscita del gruppo «romano» e di quello «interventista» è determinata da una scelta strettamente pratico-politica, ma che rinvia, in realtà, a una dissonanza teorica. Secondo l’interpretazione di Dario Lanzardo, la principale dissonanza tra i due emerge soprattutto con la «distinzione che Panzieri opera fra inchiesta a caldo», cioè quando la combattività operaia è espressa maggiormente, e il momento del «riflusso della lotta»[43], vale a dire quando l’inchiesta si propone di analizzare il grado di coscienza della classe nel periodo più statico della contrapposizione tra capitale e lavoro salariato. Nonostante questa lettura fornita da Lanzardo abbia il merito di cogliere l’importanza della metodologia conricercante, sviluppata sin dagli esordi dei «Quaderni rossi» e proseguita da altri intellettuali neomarxisti nei decenni successivi[44], il limite di questa interpretazione consiste nel prendere in considerazione esclusivamente la distinzione panzieriana sul ruolo dell’inchiesta, trascurando invece la principale contrapposizione teorica che emerge dopo i fatti di piazza Statuto. Infatti, come scriveva Sandro Mancini, bisogna indagare la diversa interpretazione di Panzieri e Tronti sul rapporto che intercorre tra il piano della teoria e quello della prassi, ossia analizzare la «differente interpretazione del rapporto tra capitale e classe operaia»[45]. Se Panzieri individua nel modo di produzione capitalistico una contraddizione in essere, laddove il «capitale e la classe operaia costituiscono i termini antagonistici»[46], Tronti approda a una lettura innovativa del ruolo della classe operaia, concependola come il «motore mobile del capitale». Il filosofo romano afferma che è lo sviluppo della classe operaia a determinare quello del capitale, compiendo una sorta di «parricidio di Marx»[47], secondo la definizione di Cristina Corradi, perché individuando la «strategia nella classe operaia» e la «tattica nel partito» Tronti si distacca nettamente dalla distinzione marxiana – e lukacsiana – tra «classe in sé e classe per sé»[48]. La principale critica che viene rivolta a Tronti, sulle tracce di quella elaborata da Panzieri, si basa sulla cosiddetta idealizzazione del livello di sviluppo oggettivo della classe operaia, che lo conduce a «scambiare sconfitte per vittorie», mentre quella rivolta a Panzieri parrebbe fondarsi sulla sua presunta ambiguità. Infatti, la convergente critica manciniana e negriana riconosce questa contraddittorietà nell’ultimo Panzieri, il quale nonostante sviluppi notevolmente l’analisi sull’evoluzione del modo di produzione neocapitalistico, non riesce tuttavia ad assegnare una funzione specifica alla classe operaia «nelle categorie della critica dell’economia politica»[49], la quale viene concepita essenzialmente come capitale variabile «sia sul piano del processo di valorizzazione complessiva che si svolge all’interno dell’intera società, sia sul piano di una connessione complessiva sociale del lavoro produttivo»[50], tralasciando con ciò la portata rivoluzionaria del soggettivismo di classe nella fase storicamente determinata del «miracolo economico» italiano. Roberta Tomassini afferma, invece, che questa sua «ambiguità» rifletterebbe la «ricchezza critica e problematica con cui soltanto Panzieri, agli inizi degli anni Sessanta, è in grado di articolare il problema dell’organizzazione senza rifugiarsi nei modelli tradizionali»[51]. La lettura di Tomassini rispetto alle riflessioni dell’ultimo Panzieri si basa sulla considerazione che il «piano del capitale» si impone come una «fenomenologia dell’integrazione dei bisogni operai nei bisogni dello sviluppo delle forze produttive». Pertanto, dal rifiuto soggettivo al lavoro oggettivato non può discernere direttamente la strategia autonoma della classe operaia, dedotta meramente dalla sua non disponibilità alla produzione, bensì la «ricomposizione politica della classe operaia» si costituisce sulla «qualità socialista delle proprie rivendicazioni», la quale deve rispecchiare una «tattica adeguata contro l’ideologizzazione dei bisogni operai nella programmazione capitalistica»[52].

Eppure, la divergenza che coinvolge il piano della teoria, ossia il rapporto tra il capitale e la classe, è strettamente connessa con le diverse prospettive strategico-politiche affermatesi nella contrapposizione dei «Quaderni rossi». Panzieri è convinto della necessità di sviluppare delle rivendicazioni di carattere socialista nei luoghi della produzione, vale a dire avviare una contro-pianificazione operaia con una prospettiva di potere gestionale, evitando in questo modo di far sussumere il capitale variabile nel capitale costante, anche durante i cicli di lotta più dinamici. La rivoluzione copernicana di Tronti, invece, offriva certamente un’ossatura ideologica più solida per il proseguimento del lavoro operaista, soprattutto col sopraggiungere dell’ingabbiamento contrattuale, del consolidamento del centro-sinistra e del riflusso delle lotte operaie. Panzieri rifiutava sia l’impostazione teorica trontiana e sia, fortemente connesso, la possibilità di rompere con le organizzazioni tradizionali, con il rischio di frazionare ulteriormente la situazione del movimento operaio. È dunque vero che Panzieri non propone un’alternativa politica concreta, ma solamente perché non sussistevano vie d’uscita all’impasse del 1962-63, probabilmente per una determinata immaturità dei tempi: non era possibile né coinvolgere il sindacato di classe in una strategia anticapitalistica, né era possibile rompere con le organizzazioni storiche del proletariato italiano.

Abbiamo già detto che la principale affinità che riunisce Panzieri e Tronti nell’atto della fondazione dei «Quaderni rossi» era la consapevolezza di aver scoperto uno spazio politico non mediato tra il capitale e la nuova classe operaia nei primi anni Sessanta. Soprattutto, questa era la constatazione di Panzieri a partire dagli anni che immediatamente successero alla crisi dello stalinismo. Le organizzazioni storiche del movimento operaio avevano dunque lasciato uno spazio politico scoperto nella dialettica capitale-classe, quindi la principale necessità risultava essere una rielaborazione teorica funzionale alla comprensione delle nuove contraddizioni del neocapitalismo e una strategia politica confacente agli sviluppi della società industriale di questi anni. In effetti, i «Quaderni rossi» hanno assunto tale compito, avendo realmente fornito una lettura neomarxiana dell’introduzione della tecnica e della scienza nel processo produttivo, della fagocitazione del lavoro vivo nella complessità dei mezzi di produzione automatizzatisi e della connessione complessiva tra il piano della produzione diretta e quello della circolazione. Tuttavia, dopo piazza Statuto le divergenze teoriche e politiche determinarono la rottura della redazione. Certamente, non poteva spettare a un gruppo minoritario di intellettuali e militanti l’iniziativa di avviare una strategia diversa, bensì toccava all’organizzazione proletaria, al sindacato della Cgil applicare diversamente le parole d’ordine degli ultimi esiti congressuali, ruotanti attorno al «ritorno alla fabbrica»; spettava sempre al sindacato svincolarsi dall’opprimente ruolo col partito di «cinghia di trasmissione», coinvolgendo piuttosto questo in una prospettiva politica non riformista, dal momento che il sindacato non poteva assolvere la duplice funzione di opposizione in fabbrica e di costruzione politico-strategica. Tutto questo non si concretizzò e Panzieri morì improvvisamente nell’ottobre 1964, all’età di soli quarantatré anni, lasciando in sospeso l’ultima riflessione teorica sulla pianificazione capitalistica e sullo studio dei comportamenti operai, ma lasciando altresì un vuoto concernente la prospettiva politica. Tronti, Asor Rosa, Cacciari, Negri, Alquati, Gasparotto, Gobbi e altri proseguirono il lavoro teorico e politico con la fondazione di «Classe operaia», focalizzando principalmente il discorso sulla questione dell’organizzazione e fornendo un’importante produzione critica, che si pone, contemporaneamente, in termini di continuità e rottura con il lavoro precedente dei «Quaderni rossi».

È difficile collocare in un ambito specifico Panzieri, soprattutto per la sua prematura scomparsa, ma è altrettanto complesso definire il ruolo teorico e politico di Tronti, nonostante è nota la sua manovra all’entrismo nel Partito comunista nel periodo in cui venne annunciata la fine dei lavori di «Classe operaia». Sicuramente entrambi hanno contribuito allo sviluppo della teoria marxiana negli anni nuovi del capitalismo occidentale, fornendo una lettura della fabbrica scientifica e della società opulenta che andava affermandosi scevra dal dogmatismo in auge nel marxismo italiano, conformandosi come le coordinate del cosiddetto Italian Thought. Se è vero che «le affinità incominciano a essere interessanti nel momento in cui producono delle separazioni», concludiamo questo contributo riportando la dedica che «Classe operaia» rivolse a Panzieri, poiché da essa traspare la sincera disponibilità a trasformare lo stato di cose dell’Italia del boom, necessità che aveva riunito due intellettuali piuttosto diversi negli anni precedenti, i quali rincorsero «a passi successivi, per prova ed errore, l’orizzonte della libertà comunista»[53].

i limiti dell’uomo ci sembrano ora meno gravi di fronte a questa constatazione: tra i mille dirigenti “riusciti” del movimento organizzato, uno solo seppe scientemente scegliere la strada della sua sconfitta, perché questa portava verso la classe operaia[54].


Note
[1] E. Macaluso, Da cosa nasce cosa, Rizzoli, Milano 1977, in G. Artero, Il punto di Archimede. Biografia politica di Raniero Panzieri da Rodolfo Morandi ai «Quaderni rossi», Giovane Talpa, Cernusco sul Naviglio 2007, p. 13.
[2] A. Lepre, Storia della Prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Il Mulino, Bologna 2004 (I ed. 1993), p. 157.
[3] R. Panzieri, Riesame del leninismo, in L’alternativa socialista. Scritti scelti 1944-1956, a cura di S. Merli, Einaudi, Torino 1982, p. 176.
[4] M. Tronti, Il demone della politica, in Introduzione, a cura di M. Cavalleri – M. Filippini – J.M. Mascat, Il Mulino, Bologna 2018, pp. 12-13.
[5] R. Panzieri, L’alternativa socialista, cit., p. 177.
[6] G. Della Volpe, La libertà comunista. Con l’aggiunta dello scritto del 1962. SULLA DIALETTICA, Samonà e Savelli, Roma 1969.
[7] G. Prestipino, La scuola di Della Volpe: filosofia e concezione dello Stato, «Critica marxista», n. 4, 1971, p. 49.
[8] S. Merli, Introduzione, in S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero Panzieri, Dedalo Libri, Bari 1977, p. 11.
[9] M. Scotti, Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Ediesse, Roma 2011, pp. 313-314.
[10] D. Lanzardo, Introduzione, in R. Panzieri, La ripresa del marxismo-leninismo in Italia, Sapere edizioni, Milano 1972, p. 26.
[11] S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta, cit., p. 33.
[12] R. Panzieri, La crisi del movimento operaio. Scritti interventi lettere, 1956-1960, a cura di, D. Lanzardo e G. Pirelli, Lampugnani Nigri Editore, Milano 1973, p. 109.
[13] Cfr. R. Panzieri, Lettere (1940-1964), a cura di S. Merli – L. Dotti, Marsilio Editore, Venezia 1987.
[14] M. Tronti, Testimonianze, in Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, a cura di, P. Ferrero, Edizioni Punto Rosso, Milano 2005, p. 253.
[15] Lettera a Giovanni Pirelli, 10 marzo 1959, in Raniero Panzieri, Lettere, cit., p. 191.
[16] Lettera a Mario Tronti, 12 dicembre 1960, in R. Panzieri, Lettere, cit., p. 301.
[17] Tronti a Panzieri, Roma, 28 dicembre 1960, in R. Panzieri, Lettere, cit., p. 304.
[18] G. Mottura, Testimonianze, in Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, cit., p. 204.
[19] Lettera a Mario Tronti, 12 dicembre 1960, cit., p. 304.
[20]Intervista a Rita di Leo, a cura di, G. Trotta, primi incontri (18.02/1998).
[21] Per un approfondimento più dettagliato Cfr. M. Cerotto, Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi». Alle origini del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma 2021.
[22] M. Calegari, Genova: il popolo dei vicoli: portuali e ragazzi magri come il vento, in «il manifesto», 5 luglio 1990, in E. Santarelli, Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Feltrinelli, Milano 1996, p. 117.
[23] Così scrisse Danilo Montaldi commentando i fatti di Genova sulla rivista francese «Socialisme ou Barbarie» in quello stesso luglio 1960.
[24]Luglio, novembre e dopo, in «Passato e Presente», 16-17 luglio-ottobre 1960, in G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli Editore, Roma 2005 (I ed. 1996), p. 180.
[25] Ivi, p. 181.
[26] R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei «Quaderni rossi» 1959-1964, a cura di S. Merli, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 1994, pp. 19-21.
[27] Cfr. Istituto Gramsci, Tendenze del capitalismo italiano, Atti del Convegno di Roma 23-25 marzo 1962, parte prima, Le relazioni e il dibattito, Editori Riuniti, Roma 1962.
[28] R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, «Quaderni rossi» n. 1, Milano 1971, p. 55.
[29] M. Tronti, La fabbrica e la società, «Quaderni rossi» n. 2, Milano 1971, pp. 12-16.
[30] R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, cit., p. 64.
[31] G. Trotta – F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», DeriveApprodi, Roma, 2008, p. 128.
[32] Ivi, pp. 131-132.
[33] Ivi, p. 300.
[34] Ivi, p. 290.
[35] Ivi, p. 312.
[36] R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, «Quaderni rossi», n. 4, Milano 1971, p. 253.
[37] M. Tronti, Lenin in Inghilterra, in Operai e capitale, DeriveApprodi, Roma 2013 (I ed. 2006), p. 87.
[38] M. Tronti, 1905 in Italia, in Operai e capitale, cit., p. 106.
[39] M. Tronti, Classe e partito, in Operai e capitale, cit., p. 117.
[40]VII. «Il Partito in fabbrica!» (settembre 1964 – gennaio 1966), in L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 430.
[41] R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia (dal seminario tenutosi a Torino, 12-14 settembre 1964), in «Quaderni rossi» n. 5, Milano, 1970, p. 70.
[42] Ivi, p. 76.
[43] D. Lanzardo, Appunti per una riconsiderazione del rapporto teoria-politica in Panzieri, «aut aut», n. 149-150, 1975, p. 48.
[44] Si pensi a Romano Alquati, il quale ha continuato a condurre inchieste e studi conricercanti anche nei decenni successivi.
[45] S. Mancini, Due puntualizzazioni sull’interpretazione di Panzieri, «aut aut», n. 149/150, 1975, p. 206
[46] Ivi, p. 208
[47] C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, manifestolibri, Roma 2011, p. 164.
[48] S. Mancini, Due puntualizzazioni sull’interpretazione di Panzieri, cit., p. 212.
[49] Ivi, p. 207.
[50] A. Negri, Ambiguità di Panzieri?, «aut aut», n. 149/150, 1975, p. 146.
[51] R. Tomassini, La ricomposizione di classe come nuovo partito operaio in Raniero Panzieri, «aut aut», n. 149-150, 1975, p. 54.
[52] Ivi, p. 64.
[53] M. Tronti, Noi operaisti, Introduzione in L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 12.
[54] G. Trotta – F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 431. 

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