La relazione capitale-lavoro come rapporto di classe
di Sebastiano Isaia
È il capitale che impiega il lavoro. Già questo rapporto,
nella sua semplicità, è personificazione delle cose e
reificazione delle persone. In questo modo, il capitale
diventa un essere incredibilmente misterioso (K. Marx).
La relazione Capitale-Lavoro è in primo luogo e fondamentalmente un rapporto di classe, non un fatto meramente economico che si esaurisce sul mercato del lavoro o dentro il luogo di lavoro. Quella relazione, che caratterizza la società capitalistica, presuppone e pone sempre di nuovo l’esistenza del rapporto capitalistico di produzione, il quale si fonda sulla separazione dei produttori diretti (i lavoratori) dai mezzi di produzione e, quindi, dal prodotto del loro lavoro. I lavoratori posseggono solo la loro capacità lavorativa, che essi offrono sul mercato del lavoro al miglior offerente per riceverne in cambio un salario; i mezzi di produzione (macchine, edifici, materie prime, ecc.) e i mezzi di sussistenza comprati dai lavoratori con il salario ricevuto sono invece di esclusiva proprietà del Capitale – non importa in quale forma giuridica esso si presenti dinanzi al lavoratore: capitale privato, capitale pubblico, azionario, “misto” pubblico-privato, cooperativistico, e quant’altro.
Riprendendo ironicamente la celebre frase di Proudhon («La proprietà è un furto»), Marx definisce la proprietà specificamente capitalistica nei termini di un «furto di lavoro altrui». «La proprietà di capitale possiede la qualità di comandare sul lavoro altrui» (1).
Apro una piccola parentesi a proposito della fenomenologia giuridica del Capitale. Nel Manifesto del partito comunista del 1848, Marx ed Engels scrivono: «I comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata» (2).
Questa formula sintetica è stata equivocata da molti “marxisti” in chiave statalista. Come si evince dallo stesso Manifesto e soprattutto dagli scritti polemici successivi di Marx e soprattutto di Engels indirizzati contro il cosiddetto “socialismo di Stato” (Ferdinand Lassalle, in primis), per proprietà privata i due intendevano «la proprietà che sfrutta il lavoro salariato, […] la proprietà fondata sull’antagonismo fra capitale e lavoro salariato» 499. Anche se nel 1848 la forma giuridica più comune della proprietà capitalistica era quella privata, già allora Marx ed Engels chiarirono che «Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare nella produzione una posizione puramente personale, ma una posizione sociale. Il capitale è un prodotto comune e non può essere in moto se non dall’attività comune di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, soltanto dall’attività di tutti i membri della società. Il capitale, dunque, non è una potenza personale; esso è una potenza sociale» (p. 500). Per proprietà capitalistica occorre dunque intendere «la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di generare nuovo lavoro salariato per nuovamente sfruttarlo» (p. 499), cosa che si realizza puntualmente con tutte le forme giuridiche incarnate dal Capitale. Com’è noto, per Marx il capitalista compare nel processo produttivo in qualità di funzionario del Capitale, quale capitale personificato: «Il capitalista stesso è solo un detentore di potere in quanto personificazione del capitale» (3). Sul concetto di capitalismo di Stato rinvio allo scritto Dialettica del dominio capitalistico.
Giustamente Antonio Labriola diceva di preferire la formula socializzazione dei mezzi di produzione a quella di proprietà collettiva, perché quest’ultima, «oltre a contenere un certo errore teoretico in quanto scambia l’esponente giuridico col fatto reale economico, nella mente poi di molti si confonde con l’incremento dei monopoli, con la crescente statificazione dei servizi pubblici, e con tutte le fantasmagorie del sempre rinascente socialismo di stato, il cui segreto è di aumentare in mano alla classe degli oppressi i mezzi della oppressione. […] Fin dal primo momento in cui apparve, questa nuova dottrina del comunismo fu la critica implicita di ogni forma di socialismo di stato, da Louis Blanc a Lassalle» (4).
Riprendiamo il filo del precedente ragionamento. Abbiamo affermato che i cosiddetti fattori della produzione sono di esclusiva proprietà del Capitale (5). È questo rapporto di assoluta dipendenza del lavoratore nei confronti del Capitale che realizza la fondamentale differenza che passa tra la società capitalistica e le precedenti società classiste, alcune delle quali pure conoscevano il denaro, la merce, il salario, il mercato, ecc., ma non come forme economiche dominanti e, come nel caso della moderna società capitalistica, totalizzanti e totalitarie. «Solo la produzione capitalistica rende la merce la forma generale di ogni prodotto» (6).
Come ricorda Marx, «i proprietari fondiari russi, i quali, in conseguenza della cosiddetta emancipazione dei contadini, esercitano ora la loro economia agricola con operai salariati anziché con servi della gleba», si lamentavano, oltre che per la scarsezza di capitale monetario a loro disposizione, soprattutto perché «il lavoratore agricolo russo, data la proprietà comune della terra da parte della comunità del villaggio, non è ancora del tutto separata dai suoi mezzi di produzione, e perciò non è ancora un “libero salariato” nel senso pieno della parola» (7). Per diventare un “libero salariato” nel senso proprio, cioè capitalistico della parola il lavoratore deve presentarsi sul mercato del lavoro nudo di proprietà, per così dire, ovvero nella sua qualità di nullatenente, di senza riserve, in una sola parola: di proletariato. La sola proprietà di cui il lavoratore può disporre è la propria capacità lavorativa, che difatti egli aliena da sé come merce in cambio di un salario che gli permette di comprare quei mezzi necessari di sussistenza che lo riproducono in quanto salariato pronto all’uso. Questi mezzi naturalmente mutano in quantità e qualità con il tempo, con la congiuntura economica (fase espansiva, fase critica) e con il Paese di appartenenza: ciò che è strettamente necessario a un lavoratore statunitense o europeo può benissimo venir considerato superfluo o lussuoso a proposito di un lavoratore del Mozambico.
Scrive Marx: «L’operaio salariato vive solo della vendita della forza-lavoro» (8). Qui occorre fare una fondamentale considerazione, anche se di primo acchito essa potrebbe apparire fin troppo banale: non è possibile separare la prestazione lavorativa (il lavoro) dal lavoratore che, come si dice, la “eroga”. Detto altrimenti e brutalmente (e quindi con verità), ciò che il rapporto capitalistico di produzione trasforma in merce, in cosa che si vende e si acquista, non è solo il lavoro ma il lavoratore stesso, la sua intera esistenza. La condizione sociale del lavoratore appartiene cioè interamente alla dimensione della merce: egli si vende in guisa di merce, produce una merce e vive di merce – e più ne ha e meglio sta! Nel capitalismo pienamente sviluppato questa disumana (mercificata) condizione è il paradigma della “condizione umana” nella società capitalistica, ed è anche per questo che Marx individuò nel proletariato la classe generale par excellence; la classe che non può emancipare se stessa senza emancipare l’intera umanità. «Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce» (9). Sul fondamentale concetto marxiano di sussunzione reale del lavoro al capitale rinvio al post A sua immagine e somiglianza.
Il rapporto di classe è dunque presupposto e posto continuamente nella e dalla produzione di valore; attraverso il consumo produttivo della merce-viva acquistata sul mercato il Capitale riproduce sempre di nuovo l’atto fondativo del suo dominio sociale, ossia la violenta separazione del lavoro dai mezzi e dai prodotti del lavoro. «La produzione capitalistica, una volta stabilita, non solo riproduce nel suo sviluppo tale separazione, ma la estende ad un ambito sempre più ampio, fino a che essa non sia diventata la condizione sociale generalmente dominante» (10). Oggi il rapporto Capitale-Lavora domina ogni sfera dell’economia, ogni “comparto” produttivo di un “bene” o di un “servizio”, e la terminologia che un tempo veniva adoperata per descrivere la produzione industriale di merci “tangibili”, col tempo è stata estesa a ogni azienda capitalistica, a ogni attività sostenuta dal Capitale e orientata alla creazione di profitto. E difatti si parla, ad esempio, di industria culturale, industria del tempo libero, industria finanziaria e via di seguito; anche il prodotto sfornato da queste “industrie” viene descritto e percepito nei termini di una merce. Il fatto che, come abbiamo visto, la merce si presenti come «la forma generale di ogni prodotto» del lavoro umano non solo non turba né scandalizza la stragrande maggioranza delle persone, ma viene considerato dall’opinione generale come qualcosa di assolutamente normale, come un fatto perfettamente razionale che non merita di venir posto a più approfondite “speculazioni filosofiche”. Non si parla, forse, di “Capitale umano” e di “Capitale merce”? D’altra parte, questa mostruosità terminologica esprime adeguatamente la mostruosità (la disumanità) della cosa, della vigente società, e il problema per l’anticapitalista si pone come segue: perché questa realtà che ai suoi critici occhi appare di un’evidenza abbagliante, lungi dall’illuminare gli occhi della “massa umana” piuttosto li acceca? Un problema che naturalmente non affronterò qui.
Sussumere lavoratori e capitalisti sotto il rapporto generale di possessori di capitale è fare della miserabile quanto apologetica ideologia intesa a cancellare la natura sociale del Capitale, il quale si fonda sullo sfruttamento dei lavoratori – “manuali” o “intellettuali” che siano. Stesso discorso vale per il tipo di merce che vendono i lavoratori e i capitalisti: la differentia specifica, per dirla con il solito Marx, è che la capacità lavorativa vivente in quanto merce crea valore e – soprattutto – plusvalore, mentre la morta merce che vende il capitalista realizza valore, ma non lo crea. Anche qui, ciò che fa la differenza è la natura sociale del rapporto Capitale-Lavoro, che si sostanzia in un rapporto di classe: da un lato la classe che sfrutta, dall’altro la classe che subisce lo sfruttamento. Solo sotto determinate condizioni storico-sociali la capacità lavorativa, i mezzi di lavoro e i prodotti del lavoro si presentano come merci e come capitale. «Quando la produzione fondata sul lavoro sul lavoro salariato è generale, la produzione di merci deve essere la forma generale della produzione» (11). E questo la dice lunga, lunghissima, sulla natura capitalistica del lavoro che fonda, secondo la Costituzione Italiana, la nostra Repubblica: che confessione!
Come si vede, quando si riflette sul capitalismo non è proprio possibile separare il piano strettamente economico da quello sociale (“esistenziale”) e politico, e questo a ragione del rapporto di classe che fonda il vigente dominio sociale. La marxiana teoria del valore, lungi dall’essere un semplice, per quanto geniale sviluppo della teoria del valore elaborata dall’economia classica (dalla fisiocrazia francese a Smith e Ricardo), è soprattutto una teoria dello sfruttamento capitalistico del lavoro. Chi vede nel Capitale marxiano un’eccellente opera scientifica che purtroppo ha il difetto di scivolare, di tanto in tanto, in riflessioni filosofiche e politiche che nulla avrebbero a che fare con la materia economica, non solo non comprende il significato “scientifico” dell’opera marxiana, ma soprattutto non afferra il significato storico e sociale del processo sociale capitalistico, non ne comprende la genesi storica (con la creazione del rapporto di classe qui semplicemente abbozzato nelle sue linee generali) né la dinamica. Se di scienza si vuol proprio parlare nel caso in questione, occorre in primo luogo chiarire di quale tipo di “scienza” stiamo parlando, perché l’abisso scientista e positivista è sempre dietro l’angolo (12).
Già nel 1848 Marx ed Engels osservavano che «La società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio», e che questa esuberanza “materiale” e “spirituale” anziché spingere l’umanità verso la sua emancipazione da ogni forma di sudditanza (economica, intellettuale, culturale, politica, psicologica), precipitava regolarmente la società capitalistica in una condizione di crisi economico-sociale. Nel XXI secolo pensare l’emancipazione degli esseri umani nei termini di un’ulteriore sviluppo delle forze produttive è semplicemente ridicolo. Oggettivamente la Comunità Umana è possibile ormai da molto tempo, da troppo tempo: se essa fosse un frutto e non una splendida possibilità, sarebbe marcia già da moltissimo tempo! Ogni secondo in più trascorso in questa società è tempo rubato alla felicità degli esseri umani, tempo sottratto all’«associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti» (13).
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