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Gli strange days di Trieste contro il green pass. Il racconto di una lotta sbalorditiva
Prima puntata
di Andrea Olivieri*
Da settimane Andrea Olivieri, ricercatore e scrittore, cammina o si sposta in moto da un luogo all’altro della sua città, di giorno e di sera, attraversa cortei e assemblee di piazza, ascolta le persone più diverse nelle situazioni più diverse, mobilita la propria memoria di ex-lavoratore del porto e di attivista, butta giù appunti su appunti, raccoglie storie. Sta interrogando un Evento, e prima ancora un sito.
Perché Trieste? Perché proprio lì è cresciuta in modo tumultuoso una piazza anti-green pass così diversa dalle altre? Energie si sono accumulate “di nascosto” finché la città dalla «scontrosa grazia» – città poco italiota e molto mitteleurobalcanica, misconosciuta al resto del Paese – non ha prodotto una rottura nell’apparire normato di una società piegata dall’emergenza Covid. Una mobilitazione di massa dai caratteri inediti che ha sorpreso l’Italia – paese regolarmente ignaro o dimentico della “faglia” al proprio confine orientale – e che ci parla dei conflitti futuri, delle lotte post-pandemiche.
È quest’ultimo aspetto a farne un Evento, per chi lo ha vissuto in tutta la sua contraddittorietà e per chi lo ha seguito e cerca di trarne lezioni. Come scrisse di un altro Evento – si parva licet – il filosofo Alain Badiou, «non è solo l’intensità eccezionale del suo sorgere che conta – il fatto che si tratti di un episodio violento e creatore d’apparire – ma il fatto che, nella durata, questo sorgere, benché dileguato, abbia disposto come gloriose e incerte le sue conseguenze. Gli inizi sono misurati dalla loro possibilità di ricominciare».
Questa è la prima puntata del reportage di Andrea. Ce ne saranno due ma forse tre. Diciamo «reportage» perché riporta e fa rapporto (in ogni accezione del termine), non per affibbiargli un genere. È un testo ibrido: cronachistico, saggistico, lirico, psicogeografico, sociologico, teso a quel difficile esercizio che è la storia del presente. Sconsigliamo di ingurgitarlo al volo: merita attenzione, tempo dedicato.
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La proiezione internazionale della Cina nello stallo degli imperialismi
di Paolo Beffa e Lorenzo Piccinini
In questo articolo presenteremo una breve ricostruzione della storia della proiezione internazionale della Repubblica Popolare, per poi ripercorrere come il recente protagonismo cinese stia venendo interpretato in occidente, in particolare riguardo alle teorizzazioni di un “imperialismo” cinese.
Infine abbiamo tradotto e pubblichiamo un articolo dello studioso zimbabwiano Sam Moyo su un aspetto specifico della proiezione internazionale cinese: Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.
1. Il contesto internazionale: lo stallo degli imperialismi
Ci troviamo ormai da decenni all’interno di una crisi sistemica del sistema sociale ed economico capitalista, che periodicamente si manifesta sotto forme diverse. Che sia come crisi finanziaria o, come stiamo vivendo in questi mesi, una crisi sanitaria globale che impatta in maniera più forte quei paesi che del libero mercato hanno fatto il proprio feticcio, la causa di fondo rimane la stessa: una disperata difficoltà a livello globale di valorizzazione degli investimenti, che spinge il capitale a cercare i profitti di cui disperatamente ha bisogno nella speculazione finanziaria, nella distruzione dell’ambiente naturale, nel saccheggio del patrimonio pubblico, nelle privatizzazioni barbariche e sregolate.
Con l’esaurirsi della spinta data dalla mondializzazione avviata dopo la caduta del muro di Berlino, questa sempre maggiore difficoltà alla valorizzazione sta portando sempre di più ad una competizione internazionale tra macro-blocchi che si fa sempre più accesa (vedi per un’analisi più approfondita http://lnx.retedeicomunisti.net/2020/01/21/dazi-monete-e-competizione-globale-lo-stallo-degli-imperialismi-3/).
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Le paure della buona coscienza
di Rolando Vitali
«ll modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.» K. Marx. Per la critica dell’economia politica
Sta accadendo, ancora una volta: stiamo attivamente costruendo la base di consenso della reazione e nemmeno ce ne accorgiamo. Stiamo già scivolando nella contrapposizione tra civiltà e barbarie, tra diritti umani e nazismo ecc. che vede la repubblica dei buoni e dei giusti da una parte, e l’abiezione dei disumani dall’altra. Ma come facciamo a non renderci conto che facendo nostra questa divisione non solo contribuiamo al consolidamento dell’egemonia salviniana, ma soprattutto contribuiamo anche ad impedire che una reale alternativa politica progressista possa costruirsi?
Ormai è sempre più chiaro come, ancora una volta, la maggior parte delle forze progressiste italiane si trovi del tutto disarmata nell’interpretare la fase attuale senza cadere in forme di subalternità esiziali per ogni capacità di costruire un’alternativa autonoma. Ancora una volta assistiamo alla totale incapacità di esprimere una posizione politica non subalterna. Ancora una volta siamo schiacciati tra due forme di reazione diverse: liberismo liberale da una parte e liberismo autoritario dall’altra. E stiamo più o meno tutti contribuendo gioiosamente a consolidare questa contrapposizione, ancora una volta…
Da una parte, coloro che scivolano progressivamente nella galassia reazionaria, attratti dalla forza gravitazionale della sua indubitabile effettualità: questi ultimi guardano tutto sommato con soddisfazione al cosiddetto “cambio di rotta” impresso da Salvini e dall’attuale governo, identificandosi supinamente non solo alla narrazione dell’avversario che vuole i migranti prima causa della contrazione dei salari, ma soprattutto alla dicotomia tra universalismo astratto e particolarismo reazionario.
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Riprendiamoci il lato oscuro della forza
di Fabio Ciabatti
Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, traduzione e cura di Laura Boella, Mimesis, 2015, pp. 482, € 32,00.
In un’epoca dominata rassegnazione e passioni tristi può essere di grande utilità recuperare il pensiero di Ernest Bloch, un autore che rivendica al marxismo la forza dell’utopia concreta, della speranza e della fantasia, anche nelle loro dimensioni apparentemente anacronistiche, oscure e irrazionali. Tra il serio e il faceto potremmo dire che Bloch, preso atto della potenza del lato oscuro della forza, ci esorta a sottrarre il suo potere al nemico, convinto che si possano diradare le tenebre solo percorrendo fino in fondo il sentiero oscuro senza rimanerne dominati e consumati, checché ne pensino il maestro Joda e tutti gli altri cavalieri Jedi.
Non può che fare piacere, dunque, la ripubblicazione di Eredità di questo tempo, libro dato alle stampe a Zurigo nel 1935, ora disponibile per il pubblico italiano con una nuova introduzione e una nuova traduzione a cura di Laura Boella, traduttrice e curatrice anche della prima edizione italiana del 1992 (uscita con il titolo Eredità del nostro tempo).
In questa recensione ci concentreremo soprattutto sul concetto di non contemporaneità che Bloch utilizza per analizzare il nazismo, ma che può essere utilmente impiegato per comprendere alcuni fenomeni contemporanei come il fondamentalismo e i movimenti sociali sudamericani. Non sorprenda il riferimento a due fenomeni dalle valenze politiche opposte: secondo Bloch, infatti, la capacità o meno di occupare il territorio della non contemporaneità può dare luogo a esiti politici completamente differenti.
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Non basta Keynes, ci vuole Marx
Alessandro Bartoloni intervista Domenico Moro
Una crisi pesantissima che covava da tempo, a cui l’Europa sta reagendo in ritardo e seguendo vecchie ricette che non aiuteranno né la ripresa economica né la classe lavoratrice. Per capire la crisi economica che sta dietro la crisi sanitaria abbiamo intervistato Domenico Moro, economista e ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Statistica.
Domanda. Ciao Domenico, innanzitutto grazie per questa intervista. Allora, come alcuni hanno sottolineato la pandemia da Coronavirus ha messo in luce le fragilità del sistema economico capitalistico e fatto scoppiare una crisi già pronta a esplodere. Per quanto sia difficile fare previsioni, come giudichi i mesi che verranno: siamo di fronte ad uno scenario a V, con una forte crisi e una rapida risalita, oppure dovremo fare i conti con una crisi lunga e difficile?
Risposta. Credo che sia da escludere una evoluzione economica a V, con una rapida discesa seguita immediatamente da una altrettanto rapida ripresa. È molto più probabile che ci troveremo davanti a una crisi lunga e soprattutto profonda. A livello mondiale, dopo la Seconda guerra mondiale, solo nel 2009 si registrò un decremento del PIL, pari al -1,28%, oggi si prevede un decremento per il 2020, secondo alcune banche internazionali tra il -2,3 e il -2,6%. In Italia sono ferme almeno il 60% delle attività produttive, il che significa perdere 10-15 miliardi di Pil a settimana. Il centro studi della Confindustria prevede un calo del Pil in Italia, sempre nel 2020, del -6%, ma solo a patto che la fase acuta dell’emergenza termini a maggio con la riapertura del 90% delle attività.
La crisi che si prospetta è molto grave, perché non riguarda solo la domanda ma anche l’offerta. Molte imprese staranno ferme, senza produrre, per mesi. Ciò vuol dire rimanere senza liquidità. Sarà, quindi, molto difficile per molte di queste imprese riprendere l’attività, saldando i debiti pregressi, e trovando gli investimenti per ripartire. Pensiamo solo al turismo, che riguarda il 13% del Pil e conta quasi un milione di addetti, e che è molto difficile possa riprendere a girare a pieno ritmo in pochi mesi.
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Quando la Socialdemocrazia tedesca tradì se stessa
Bad Godesberg e il ripudio della democrazia economica
di Alessandro Somma
Nel 2019 ricorrono due importanti anniversari tondi che i tedeschi stanno celebrando con una certa enfasi: cento anni fa veniva promulgata la Costituzione di Weimar, la prima in Europa a parlare di diritti sociali e di democrazia economica, mentre settant’anni fa vedeva la luce la Costituzione di Bonn, l’unica nata dalla sconfitta del fascismo a non menzionare i diritti sociali e la democrazia economica.
Un altro anniversario tondo è stato invece tenuto un poco in sordina. Sessant’anni or sono il Partito socialdemocratico tedesco (Spd) varava il Programma di Bad Godesberg che formalizzava l’accettazione dell’economia di mercato e con ciò il ripudio della democrazia economica come suo orizzonte programmatico.
Democrazia economica
La democrazia economica è stata a lungo un cavallo di battaglia dei Socialdemocratici tedeschi, che coniarono l’espressione ai tempi della Repubblica di Weimar nell’ambito del movimento sindacale[1], per indicare una forma di risocializzazione dell’economia non ridotta alla mera richiesta di un primato della politica. Quel primato era per molti aspetti una realtà: all’epoca i Paesi capitalisti avevano in massima parte riconosciuto la pianificazione come ineludibile[2], motivo per cui occorreva impegnarsi per renderla un’attività frutto di decisioni partecipate. Di qui il primo fondamento della democrazia economica: l’individuazione attraverso il circuito democratico delle scelte produttive complessive e di lungo periodo (Gesamtwirtschaftsplan)[3].
Non si trattava di superare il capitalismo. La pianificazione comportava il coinvolgimento del Parlamento nelle scelte complessive circa il «cosa produrre», per realizzare l’interazione tra meccanismo concorrenziale e meccanismo democratico. Il «come produrre» restava invece ancorato ai fondamenti che contraddistinguono il capitalismo: esso «può e deve essere affidato all’economia di mercato, che presumibilmente si muoverà in modo sensato e proficuo fondandosi sulla libera concorrenza»[4].
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Riconquistare il collettivo, riconquistare pezzi di Stato
di Lorenzo Giustolisi
Pubblichiamo uno dei saggi apparsi sull’ultimo numero di «Proteo», Che ne è stato dello Stato, volume che tra qualche mese sarà al centro di un ciclo di formazione Cestes e USB.
Alla luce dei tragici fatti di Genova, la nostra analisi e la nostra proposta politica di una ripresa della centralità dello Stato assumono ancora più senso e urgenza, e richiedono uno sforzo collettivo per ridare coscienza e strumenti alle classi lavoratrici di questo Paese e del loro gramsciano “farsi Stato”.
“Deve esserci stata prima questa vittoria nel senso comune, nelle idee della gente, del commerciante, del trasportatore, del taxista, della donna di casa. Non importano le idee delle élites, che sono sempre un mondo a parte. Quelle che importano sono le idee della gente in basso, i loro processi logici e morali, quelli con i quali la gente valuta il mondo, ci vive dentro. È lì che abbiamo vinto.“
(Álvaro Garcìa Linera, Prima bisogna vivere nel senso comune della gente)
1. Destini individuali, destini generali
Se trenta o anche solo venti anni fa ad un giovane lavoratore fosse stato prospettato ciò che si prospetta oggi ad un suo coetaneo, in termini di incertezza di vita, di lavoro, di reddito, di diritti, questi probabilmente non ci avrebbe creduto, ancora avvolto in una serie di tutele derivate da una storia in cui si combinavano in Europa le conquiste epocali del movimento dei lavoratori tradotte nelle forme della tradizione socialdemocratica e di quella cristiano-sociale, e una crisi non ancora esplosa nelle forme che conosciamo. Non solo non ci avrebbe creduto, ma avrebbe probabilmente anche reagito, individualmente e collettivamente.
Oggi del mondo di quel lavoratore, nei paesi a capitalismo maturo e a maggior ragione nel nostro, stiamo vedendo la fine. A parte alcuni sporadici casi non si vede reazione, ed anzi prevale – soprattutto nei settori di pubblico impiego – un ripiegamento su se stessi.
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Il lavoro è fatica
Una prima riflessione sul nesso fra scuola, lavoro, Carta Costituzionale
di Renata Puleo
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 1 comma 1).
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 comma 2).
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro promuovere le condizioni che rendano effettivo questo diritto (art.4 comma 1).
[…] I non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo cerebrale e muscolare-nervoso non sempre è uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale. […] non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens.
A. Gramsci, Quaderni 4 (XIII);12(XXIX).
[…] Con fatica ne trarrai nutrimento tutti giorni della tua vita […] con il sudore del tuo volto mangerai il pane […].
Genesi, 3-17/19.
Questo è un contributo sul nesso fra la Carta Costituzionale e i problemi attuali del sistema scolastico italiano, un commento sul concetto di lavoro che emerge dal testo di riforma della scuola, con l’applicazione del comma 33/passim della legge 13/07/15 n 107 cd. La Buona Scuola, e il relativo costituirsi dell’istituto Alternanza-Scuola-Lavoro (ASL).
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La Filosofia imperfetta di Costanzo Preve
di Salvatore Bravo
La Filosofia imperfetta è un’opera di Costanzo Preve del 1984, è un testo introvabile nelle librerie e online, la qualità è una categoria che il tempo del totalitarismo della merce non conosce.
È il libro della svolta, in cui Costanzo Preve liquida il materialismo dialettico per fondare la metafisica umanistica. La stesura della Filosofia imperfetta nel prologo di Una nuova storia alternativa della filosofia è definita dal filosofo “liberatoria1”, benché a correzione del titolo dell’opera del 1984 Costanzo Preve affermi e chiarisca che le filosofie sono imperfette, in quanto non esiste e, mai vi potrà essere, la fine della storia della filosofia per perfezione raggiunta.
La filosofia marxiana non ha fondazione filosofica forte, per cui il materialismo storico e la prospettiva comunista sono state irrigidite dalla camicia di forza, l’immagine è di Costanzo Preve, delle leggi scientifiche della storia del marxismo che ha, così, risolto le “contraddizioni filosofiche” presenti nella filosofia marxiana.
Karl Marx è filosofo del possibile, all’interno della sua opera vi sono fessure ed ipotesi che lasciano intravedere percorsi differenti per giungere al comunismo, sono presenti categorie interpretative che oscillano tra la necessità e la possibilità. Costanzo Preve osa deviare il percorso dalle certezze granitiche del marxismo ufficiale e per rifondarlo è opportuno ripercorrere il cammino dei marxisti eretici: Karl Kautsky, Ernst Bloch e Gyorgy Lukàcs. Nel saggio l’obiettivo è liberare il pensiero marxiano dalla trappola dell’economicismo e della dialettica unidirezionale.
Costanzo Preve riattiva le potenzialità non pensate di taluni plessi in Marx. Il testo La filosofia imperfetta con il suo sottotitolo Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo ripercorre gli eretici del marxismo per dimostrare e condividere le possibilità celate ed ostracizzate dal marxismo ufficiale.
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Miseria del complottismo
di Riccardo Paccosi
Il seguente intervento è parte di una coppia di articoli. Va dunque letto insieme al suo omologo Miseria dell’anticomplottismo
Una premessa per entrambi gli articoli
Complottismo e anticomplottismo, innanzitutto, non so no ideologie bensì costellazioni ideologiche che, da una parte, risultano estremamente eterogenee nella loro composizione interna e, dall’altra, stanno col pa ssare del tempo acquisendo tratti politici e valoriali sempre più definiti.
Entrambe le costellazioni ideologiche hanno altresì in comune tre aspetti:
a) sono figlie del Web 2.0 e, precisamente, delle modalità proprie e specifiche di trasmissione ed espressione che quest’ultimo ha sviluppato;
b) rappresentano la fenomenologia di nuove forme di polarizzazione ideologica, che stanno soppiantando quelle del secolo scorso; a differenza di quelle del Novecento, però, le nuove polarizzazioni non afferiscono ad alcun pensiero sistematico né ad alcuna filosofia politica strutturata;
c) come cercherò di argomentare nei due articoli, entrambe le polarità sono funzionali alla riproduzione dell’ideologia dominante.
Data simbolica d’inizio: 11 settembre 2001
Le teorie cospirative, ovviamente, esistono da sempre ma la loro configurazione attuale di forma mentis opposta all’ideologia dominante e all’informazione mainstream – nonché di costellazione ideologica di massa – è cosa molto recente e alla quale potremmo attribuire un inizio simbolico con gli eventi dell’11 settembre 2001.
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Grecia: bilancio (provvisorio) e prospettive di un riformismo onesto
di Michele Nobile
1. Lo scontro tra il governo di Tsipras e i creditori internazionali della Grecia si svolge sul terreno economico ma, in effetti, è tutto politico; e se oggetto dei negoziati è la politica economica e sociale della Grecia, in prospettiva ad essere in gioco è l'intero sistema delle politiche e delle istituzioni europee o, meglio, il limite a cui esse possono spingersi nel confronto col governo di uno Stato membro la cui prospettiva è diversa da quella sedicente liberista. Infatti, non esiste alcuna presunta legge o necessità economica per imporre alla Grecia la feroce austerità che ha dovuto sopportare e a cui pare destinata ancora per anni, stando alla volontà della troika dei creditori, ribattezzata «le istituzioni»; anzi, sono proprio l'austerità e la conseguente depressione dell'economia che impediscono di ridurre il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno. A fronte dell'iniquità della politica neoliberista della troika, la vittoria elettorale di Syriza e la formazione del governo Tsipras sono eventi di enorme importanza per la sinistra europea:
«Per la prima volta dalla formazione dell'area dell'euro, nel negoziato tra il governo Tsipras e la troika (Banca centrale europea, Commissione europea, Fondo monetario internazionale) si sono opposte in modo chiaro due linee realmente alternative, sul piano istituzionale e del confronto fra governi»1.
La mia personale valutazione è che il governo Tsipras abbia operato nel migliore dei modi, per quanto umanamente possibile e date le circostanze. Ha mostrato saldezza di nervi, dignità e determinazione, caratteristiche non frequenti, per essere gentili, nella politica europea, in particolar modo in Italia.
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La prima grande crisi epistemologica del marxismo
di Alessandro Barile
Luigi Vinci, 1895-1914 La prima grande crisi epistemologica del marxismo. La lezione mancata, Punto Rosso, 2018, pp. 457, € 20.00
Il socialismo è una necessità o una possibilità? Attorno al grande problema dell’oggettività, tanto della realtà quanto dei suoi processi sociali, si è istituito un confronto che ha attraversato tutto il marxismo. Oggi il problema è a prima vista inattuale: il campo del marxismo è residuale nella politica e profondamente venato di soggettivismo nelle sue proposizioni teoriche: il socialismo è pensato tutto all’interno di una prassi politica contingente. Ci ricorda però Luigi Vinci, in questo suo testo multiforme e pericolante, che così non fu per una lunga epoca del movimento operaio. Da Marx fino (almeno) allo scoppio della Grande guerra – e soprattutto lungo tutta l’esperienza della II Internazionale – la teoria politica della socialdemocrazia costruiva la propria forza organizzativa e narrativa pienamente dentro il campo del determinismo storico. Il famigerato “crollismo” altro non era che la fiducia in processi sociali teleologici: il capitalismo era destinato ad essere superato, a prescindere dall’azione del movimento operaio.
Il contesto storico appariva indubbio: la II Internazionale origina all’interno di una lunga depressione economica che confermava, addirittura accentuandole, le principali determinazioni marxiane. Tra il 1873 e il 1895 la crisi non rendeva solamente più manifeste le contraddizioni del capitalismo; moltiplicava nel numero e nella coscienza quel proletariato che avrebbe inevitabilmente sostituito la borghesia al potere. La società sembrava destinata a ridurre le proprie specificazioni sociali lasciando sul terreno le sole due classi in lotta: borghesia e proletariato. La prima in ritirata, la seconda in espansione. L’azione organizzata del movimento operaio procedeva abolendo le leggi antisocialiste, costruiva sindacati e, tramite questi, migliorava le condizioni di vita di milioni di lavoratori salariati; parimenti, i primi rappresentanti socialisti venivano eletti nei parlamenti nazionali, acquisivano forza di condizionamento. Lo Stato repressivo diveniva anche interlocutore politico. La storia sembrava per compiersi, era questione di anni.
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Con i piedi per terra
di Michele Castaldo
A proposito dell’appello unitario di Confindustria e sindacati per le elezioni europee
Con l’approssimarsi della scadenza elettorale del 26 maggio si ripresenta, per la sinistra, una nuova occasione per discutere della spinosa questione sindacale. Lo spunto viene offerto, questa volta, dall’appello unitario firmato da Confindustria e Cgil Cisl Uil, ovvero – ancora a tutt’oggi – i sindacati maggiormente rappresentativi. Come è possibile, perché due controparti firmano un appello unitario, cosa unisce padroni e operai, borghesi e proletari? Perché cadere così in basso, si chiedono addirittura certe formazioni di estrema sinistra? Evidentemente c’è qualcosa che non va, o tra i sindacati confederali oppure fra quanti non hanno chiara la natura del sindacato, la natura del capitalismo e innanzitutto il modo di vivere del proletariato nel capitalismo.
In verità la questione è ben più complicata di come la si vorrebbe rappresentare, perché investe il modo d’essere del capitalismo come movimento storico che in questa sede purtroppo non è possibile approfondire.
Va detto innanzitutto che il sindacato sorge come riflesso agente del modo di produzione capitalistico da parte dei lavoratori. Fin dalle prime formazioni di muto soccorso esso si caratterizza come necessità di difesa di una parte contro un’altra di un tutto, che erano e sono complementari. Detto in parole semplici: il sindacato nasce e si sviluppa perché nasce e si sviluppa il capitalismo. E nasce lì dove nasce la rivoluzione industriale per svilupparsi insieme all'estendersi a macchia d’olio di tale modo di produzione. E nasce – si badi bene – sempre a seguito di mobilitazioni improvvise e molto spesso violente dei lavoratori contro lo sfruttamento, contro i bassi salari e le invivibili condizioni negli ambienti di lavoro. Come racconta Jerey Brecher nel suo bel libro Sciopero! edito da Derive Approdi nel 1999. Solo dopo, quelle strutture sorte dalla spontaneità divengono istituzioni dei lavoratori in un cammino comune nel modo di produzione capitalistico in un rapporto altalenante con il capitale secondo il procedere dello sviluppo dell’accumulazione.
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Portogallo, Polonia (Atene è "pacificata"?): il trionfo dell'€uropa del fogno... O no?
di Quarantotto
Europe’s Many Economic Disasters
1. La situazione è seria. Ma non ancora grave (ma lo diventerà presto).
Analizzarla in tutta la sua complessità geo-politica è un compito praticamente impossibile: il condizionamento mediatico occidentale, che seleziona, riformula e manipola i fatti, in una narrazione ossessiva, che spinge sempre e soltanto verso la direzione paradossale di confondere la democrazia con le politiche deflattive (che preserverebbero i consumatori e quindi, si dice, i lavoratori), è troppo intenso per poter avere un quadro fattuale completo e compiere una valutazione attendibile.
2. Prendiamo la vicenda portoghese.
Qui prendiamo le mosse dall'articolo del "solito" A.E. Pritchard sul Telegraph, tradotto da Voci dall'estero.
Il "pezzo" è sufficientemente eloquente e condivisibile, riportando elementi di comprensione che abbiamo più volte sottolineato su questo blog.
In pratica, sappiamo che il Presidente della Repubblica, Anibal Cavaco Silva, preferisce, dopo le elezioni, attribuire l'incarico al primo ministro uscente, che ha perso la maggioranza (pur conservando la sua formazione politica la qualità di partito maggioramente votato), - e dunque non può, con ogni probabilità ottenere la fiducia del parlamento-, pur di non consentire l'insediamento di un governo di effettiva maggioranza (parlamentare), formato dalla coalizione tra socialisti di Costa e le due formazioni di sinistra contrarie all'euro e al fiscal compact (le due cose, comunque la pensi Tsipras, coincidono nei presupposti e negli effetti socio-economici).
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Il tempo sospeso
di Marino Badiale
Nel post di ieri abbiamo un po' scherzato sulle prossime elezioni. Per dire qualcosa di più serio, pubblico di seguito due lettere indirizzate al Manifesto (in particolare a R.Rossanda) e scritte nel '96, a ridosso delle elezioni che portarono al potere il centrosinistra. Da allora sono passati (quasi) diciassette anni, ed è ovvio che moltissime cose sono cambiate: all'epoca c'era un diverso sistema elettorale (il cosiddetto “Mattarellum”), Rifondazione era una componente importante dello schieramento di centrosinistra, si discuteva molto sul pericolo “fascista” rappresentato dalle destre, e così via. E' pure ovvio che sono cambiato anch'io, e molte cose oggi le scriverei diversamente. Nonostante tutto questo, ritengo oggi di poter riproporre queste lettere, perché sono convinto che la questione sostanziale che esse pongono, e cioè in sostanza la fine della “sinistra emancipativa”, sia ancora fondamentale. Su questo tema aggiungo qualche commento alla fine.
1. Prima lettera a R. Rossanda
Pisa, 5/4/1996
Cara signora Rossanda,
vorrei sottoporLe alcune riflessioni sul problema dell' “astensionismo di sinistra”.
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Bisogna difendere la rete
Il copione che si sta recitando in questi giorni in merito alla rete è qualcosa di già visto negli ultimi mesi, la cui stesura è stata meditata ed elaborata a lungo dopo diverse figuracce e fallimenti. Un copione gradito e recitato con uguale foga e passione da attori e comparse degli schieramenti di centro-destra e centro-sinistra.
La lente di ingrandimento mediatica che in un primo momento si era posata sulla possibilità di implementare non meglio precisati filtri nell'infrastruttura di rete italiana non focalizzava però il vero traguardo che si sta provando a tagliare in queste ore. È difficile dire se la morfologia dell'internet italiana si presti effettivamente ad una perimetrazione, ad una blindatura à la Teheran. Probobilmente per motivi tecnici ed interessi economici stranieri in ballo (come il fatto che Fastweb sia di proprietà di SwissComm), un'opzione di questo tipo risulterebbe non immediatamente praticabile. Ma soffermarsi esclusivamente su questo aspetto del problema vorrebbe dire imboccare una strada sbagliata.
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Leggere Lazzarato a Pechino
di Gabriele Battaglia
Guerra o rivoluzione di Maurizio Lazzarato (DeriveApprodi 2022) è un libro capace di suscitare vivaci discussioni attorno alle sue ipotesi. In questo articolo Gabriele Battaglia analizza il rapporto tra macchina Stato-capitale e guerra a partire dalla complessità dell’esperienza cinese. Andando oltre il dibattito su che cosa ci sia di socialista in Cina, l’autore si interroga proprio sul nesso deterministico tra crescita e guerra, connubio che è stato ed è decisivo nel modello di egemonia americano, come il conflitto in Ucraina dimostra.
* * * *
Lunedì 28 marzo 2023, le cronache riportano che il più noto imprenditore cinese è ricomparso dopo oltre due anni nella natia Hangzhou provocando un brivido di eccitazione nei media e sui mercati. Jack Ma è il fondatore di Alibaba, la più grande azienda di e-commerce al mondo dopo Amazon. Figura leggendaria per le giovani generazioni cinesi, l’ex insegnante di inglese è uno di quegli imprenditori ispirazionali che assumono lo status di guru e fanno tendenza: nel 2017, al meeting annuale della sua azienda, si mise a danzare sul palco travestito da Michael Jackson, copiandone tutte le mossette, per il delirio delle masse. Da sempre brillante, scaltro, attento a non pestare i piedi sbagliati, propenso alle enunciazioni profetiche e perciò astratte, Jack Ma è sempre stato perfettamente in simbiosi con il Partito comunista, tant’è che nel 2015 Xi Jinping se lo portò in delegazione negli Usa. Tuttavia, nell’ottobre del 2020, l’imprenditore-guru si montò forse un po’ troppo la testa e definì pubblicamente «banco dei pegni» il sistema finanziario cinese incentrato sulle grandi banche di Stato.
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L’amaro ricatto delle pensioni: flessibilità in cambio di tagli
di coniarerivolta
Il 27 gennaio si è tenuto un incontro istituzionale tra sindacati, governo e INPS, primo di una serie di appuntamenti – già calendarizzati a febbraio e marzo – finalizzati ad elaborare una nuova riforma delle pensioni. Ad oggi, al netto di casi particolari come “Opzione donna”, le pensioni di inabilità e la residuale pensione di anzianità (riservata a coloro che, al 31 dicembre 2011, potevano far valere determinati requisiti anagrafici e contributivi), sono previste tre modalità di pensionamento per la maggior parte dei lavoratori dipendenti: quota 100, la pensione di vecchiaia e la cosiddetta pensione anticipata.
♦ Con ‘Quota 100′, in via sperimentale fino alla fine del 2021, è possibile accedere al pensionamento con almeno 62 anni di età e 38 di contributi.
♦ Quanto alla pensione di vecchiaia, è necessario distinguere tra chi aveva già anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 e chi ha iniziato a versare i contributi dopo tale data. Quanto ai primi, essi possono accedere alla pensione di vecchiaia se hanno almeno 67 anni di età (da adeguare agli incrementi della speranza di vita) e 20 di contributi. Quanto ai secondi, essi, oltre ai requisiti che abbiamo appena elencato, devono aver maturato un montante contributivo tale da far sì che l’importo della prima rata di pensione sia non inferiore a circa 687 euro (pari all’assegno sociale moltiplicato per 1,5). Infine, sempre per quel che riguarda i lavoratori dipendenti che hanno iniziato a versare a decorrere dal 1° gennaio 1996, è possibile andare in pensione con 70 anni di età e con almeno 5 anni di contribuzione effettiva (al netto, cioè, dei contributi figurativi, quelli non derivanti da attività lavorativa).
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Cambiare o Perire: la dura Scelta del Bolivarismo venezuelano
di Amos Pozzi
Il tentato golpe raffazzonato di Juan Guaido degli ultimi giorni ha riportato sotto i riflettori mondiali il Venezuela. E con esso il solito insieme di cliché sulla sua situazione economica. I media non ci hanno risparmiato nulla: dal socialismo “che rende tutti poveri”, all’aneddoto dei cugini che “stavano benissimo” e ora “muoiono di fame”. Ma abbiamo anche sentito la campana di un certo riduzionismo culturale che attribuirebbe l’intera crisi al ruolo degli USA o degli speculatori interni. Ci è sembrato quindi il caso, per quanto assolutamente non facile, di provare a fare il punto della situazione economica dello stato sudamericano, dell’evoluzione della crisi e delle sfaccettature sociali della stessa.
Naturalmente trovare dati economici affidabili sul Venezuela dopo il 2014 è diventata un’impresa. Per quanto possibile ci siamo basati su dati della Banca Mondiale evitando dati governativi o think tank interni di area opposizione in modo da mantenere il più possibile “neutra” la raccolta dei dati di partenza.
Partiamo quindi dall’osservare l’evoluzione del PIL venezuelano dal 1990 fino al 2014, ultimo anno in cui abbiamo dati indiscutibili sullo stesso.
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Deutschland über alles
di Thomas Fazi
Il piano della Germania: creare un oligopolio bancario germano-centrico che disporrà del potere assoluto di decidere di quanto e a che condizioni finanziare il debito degli Stati
La settimana scorsa abbiamo parlato della duplice proposta tedesca che sta scatenando il panico nei corridoi di Palazzo Chigi e di Palazzo Koch (Banca d’Italia). La prima è quella che vorrebbe che ai titoli pubblici posseduti dalle banche dell’eurozona siano attribuiti coefficienti di rischiosità corrispondenti a quelli degli Stati (mentre ora sono considerati privi di rischio); che sia messo un tetto alla presenza di titoli di Stato del loro paese nel portafoglio delle banche; e, infine, che in caso di crisi del debito pubblico – e di contestuale richiesta di assistenza al Meccanismo europeo di stabilità (MES) da parte del governo interessato – sia applicato ai titoli pubblici lo stesso principio di bail-in introdotto per le banche con l’unione bancaria: allungamento delle scadenze e magari anche sospensione e riduzione degli interessi. In pratica un default obbligatorio i cui costi ricadrebbero sui possessori dei titoli pubblici, cioè in primo luogo sulle banche del paese interessato. La seconda proposta riguarda invece la creazione di un “superministro” dell’economia dell’eurozona – un «lord supremo del bilancio dell’eurozona», nella sapida definizione data da Yanis Varoufakis –, che assorbirebbe i residui di autonomia degli Stati nella gestione dei bilanci, senza prevedere come contropartita alcun bilancio federale.
È evidente che tali proposte, se passassero, rappresenterebbe un colpo letale per l’Italia e per gli altri paesi della periferia.
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La Sinistra di re Giorgio
Giso Amendola
Giorgio Napolitano, nei giorni convulsi delle fallimentari consultazioni di governo, li aveva già richiamati alle proprie responsabilità; e aveva evocato un anno chiave, il 1976. Così è stato subito chiaro in cosa consistesse la vera responsabilità da assumersi: attenersi rigorosamente alla strada maestra delle larghe intese. Questo Paese va tenuto unito rigettando ogni cosa che sappia di conflitto, e mantenuto sui binari della concertazione eterna tra le forze politiche principali: evocando, a norma fondamentale del governo, la perpetua emergenza.
Non si può dire che non abbiano ascoltato il Presidente. Fa nulla che, nel solito passaggio da tragedia a farsa, le grandi forze popolari delle grandi intese del 1976 si siano ridotte, nel frattempo, a correnti litigiose del PD, e che le intese ora si facciano con la destra berlusconiana: lo schema non si tocca. Ciò che non s’era riuscito (ancora) a fare per la formazione del governo, si farà nell’elezione del Presidente della Repubblica. Il richiamo di Napolitano al 1976 suona come la riproposizione obbligata di una cultura politica perenne e inaggirabile: larghe intese, unità nazionale, emergenza. Così: “deve essere un cattolico”.
E allora recuperiamo l’uomo della CISL, insieme cattolico ed eroe della concertazione: Marini. Poi, quando pure ci si è spinti a rompere l’intesa e ad arrivare a un nome votato dal solo centrosinistra, allora è stato Prodi: mai Rodotà.
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E se l'Italia ricominciasse da sé?
Rosita Donnini e Valerio Selan
Un apparato produttivo troppo dipendente dalle esportazioni è esposto non solo all'avversa congiuntura mondiale, ma anche ai ricatti protezionistici dei paesi acquirenti. Il rilancio potrebbe puntare su una politica di riequilibrio della domanda interna, affidando alla politica fiscale e alle liberalizzazioni il compito di sostegno, ma ciò richiederebbe un drastico mutamento del sistema tributario e altre razionalizzazioni
Una serie di circostanze e di eventi ci spingono a qualche approfondimento sul modello di sviluppo post-crisi dell'economia italiana, già accennato in alcuni nostri scritti. Li ricordiamo brevemente.
A) L' approvazione del condono tombale sui reati societari, che dovrebbe garantire, anche con il riciclo di capitali di dubbia provenienza, un gettito provvidenziale per riempire le caselle vuote di una finanziaria fantasma. Ennesimo miraggio del genio di Aladino: la finanziaria-pagherò. La prossima ci verrà presentata con un balletto sulle punte.
B) Le cupe prospettive occupazionali, accompagnate però da segnali di ripresa sui mercati esteri e di ritrovata fiducia di una parte delle imprese italiane.
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Sovrappopolazione e Capitale
di Giorgio Carlin*
Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo”.,Walter Benjamin, Nona tesi su concetto di storia
(su “Angelus Novus” di P.Klee)
Contributo alla discussione congressuale nazionale di Sinistra Anticapitalista
Mi ha colpito molto la drammaticità della crisi ambientale del pianeta descritta da Daniel Tanuro in “Di fronte all’urgenza ecologica..”.
Vorrei aggiungere alcune riflessione a proposito della sovrappopolazione “assoluta” e la strategia del Capitale. Chiarisco che si parla di sovrappopolazione assoluta per intendere una densità umana incompatibile comunque con qualunque progetto di convivenza degno di questo nome, mentre la s. relativa, di marxiana memoria, si riferiva al modo di produzione dominante, in cui dai semplici raccoglitori al più evoluto sistema industriale si potevano alimentare popolazioni umane crescenti. E’ evidente che l’eventuale “spinta progressiva” dello sviluppo demografico si stia capovolgendo.
Non è che l’uomo (ma anche altre specie animali) non sia riuscito a creare disastri ambientali anche con relativamente piccole comunità. Solo alcuni esempi eclatanti (citati da lettore curioso e non certo specialista):
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La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia
Wu Ming 1
1. “Quel bastardo è morto”
Elisei Marcello, di anni 19, muore alle tre di notte, solo come un cane alla catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla, suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.
Marcello Elisei stava scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via con la forza e legato al tavolaccio.
Il 15 dicembre si dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e processi scagioneranno tutti gli indagati.
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Capitale e natura
di Carla Filosa
Unità di natura e modo di produzione
In questo scritto ci si propone di considerare i cambiamenti climatici determinati dalle attività umane separati da quelli naturali. Ci si concentrerà su questi ultimi non da un punto di vista tecnico, demandato agli esperti del settore, ma da un punto di vista sociale e storico. Si assumerà il problema del riscaldamento climatico (Global Warming), e non solo, secondo le analisi effettuate sin dagli anni ’50 dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), quale massimo consesso mondiale di esperti sul clima.
Non si ritengono attendibili, al contrario, le tesi relative all’“allarmismo climatico” perché volte a negare o minimizzare le rilevazioni scientifiche che potrebbero compromettere la regolare continuità delle incidenze umane. Queste sono infatti considerate altamente probabili – la cui possibilità è data al 95-100% - su un riscaldamento dell’atmosfera terrestre e degli oceani, che comporterebbe disastri quali scioglimento di nevi e ghiacci con conseguente innalzamento dei mari, pericolo per gli insediamenti umani sulle coste delle terre emerse, concentrazione di gas serra tra cui soprattutto CO2, ecc. Siccome si riscontra una scarsa comprensione delle relazioni specifiche che intercorrono tra sistemi economico-sociali e la variabilità naturale del clima nel corso della storia, si cercherà di portarle all’attenzione come un fattore complesso e non subalterno all’ideologia della semplificazione ad ogni costo. Si è certi che senza l’analisi congiunta di entrambi gli aspetti, quello naturale modificato e continuamente modificabile da quello storico determinato, non può darsi consapevolezza concreta dei problemi e, con questa, la capacità – auspicabilmente efficace – di intervenire per la loro possibile risoluzione in positivo.
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Armi di distrazione di massa
Ipocrisie, decerebramenti, spopolamenti
di Fulvio Grimaldi
“La storia della nostra razza e ogni esperienza individuale sono cucite dalla prova che non è difficile uccidere una verità e che una bugia detta bene è immortale”. (Mark Twain)
https://vimeo.com/300013842 (link a una miaa intervista sulla Grecia realizzata da Patrick Mattarelli. Per aprire il link la password è Ful18vio)
Femminicidi. Non solo.
Metto le mani avanti, ricordando che ho dedicato gran parete di un mio documentario, visto da migliaia di persone, al femminicidio, massima espressione della violenza sulle donne. Se ora dico che al momento parrebbe che, schiacciati a terra e ridotti a pezzetti dall’uragano politico-mediatico sulla violenza sulle donne, noi uomini dobbiamo convincerci che, come tali, uccidiamo a gogò, ma non ci ammazza mai nessuno e che, in nessun caso, potremmo avanzare l’inaudita pretesa di essere, a volte, anche noi vittime. Non delle donne, di qualche donna. Sfido la crocefissione morale se dico che questa, come molte altre ondate di unanimismo di classe femminista, fin dagli anni della Grande Contestazione, potrebbe nutrire il sospetto di trattarsi, nell’intenzione dei noti amici del giaguaro, di grande operazione di distrazione di massa? Ho detto sospetto, non certezza. Vediamone gli spunti.
Fatta salva la sacrosanta protesta contro gli ottusi reazionari e facilitatori delle mammane che puntano a rimettere in discussione la 194 e mettere le zampe sull’autodeterminazione delle donne, abbiamo assistito a un tripudio di ipocrisia. Proprio come quella, del tutto analoga e inserita dalle note manone nella stessa strategia, che vede perorare l’accoglienza universale dei migranti e vituperare chi vi avanza qualche riserva. Come quella che nota lo svuotamento di un’Africa e di un Medioriente infestati da guerre innescate ad arte, o assegnati a multinazionali predatrici, e i relativi traffici di gente da spostare da più o meno nobili trafficanti. Svuotare l’Africa, far tracimare l’Europa mediterranea.
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La critica dell’economia politica è l’essenza del marxismo
di Alfonso Gianni
Duecento anni fa, il 5 maggio del 1818, nasceva Karl Marx. In questi due secoli la sua opera è stata studiata, amata, odiata, interpretata, travisata. Dopo Marx sono nati i marxisti e i marxismi. Non sempre coerenti con il pensatore di Treviri che diceva di sé di non essere marxista, non tanto per il piacere della battuta, quanto per sottolineare il suo approccio profondamente antidogmatico allo studio della realtà. Alla sua opera si sono ispirate molte delle rivoluzioni del ventesimo secolo. Con esiti non sempre, anzi quasi mai, soddisfacenti. A dimostrazione che pensare di applicare ciò che Marx ha detto e scritto è già un travisamento che può portare anche a conseguenze disastrose.
Eppure la diffusione su scala planetaria del suo pensiero, attraverso le opere scritte, molte delle quali assieme a Friedrich Engels, ha raggiunto livelli da record. La sua opera maggiore, cioè il Capitale ha avuto una diffusione straordinaria, anche se è stato meno letto di quanto sia stato distribuito o venduto, probabilmente per la lunghezza e la indubbia complessità che lo contraddistingue. Non è un caso che un libro di questi anni, anch’esso assai complesso e che ha avuto un sorprendente successo mondiale, richiami nel titolo e nel testo il tema dell’analisi del capitale contemporaneo. Mi riferisco ovviamente a Il capitale nel XXI secolo dell’economista francese Thomas Piketty. Se il primato dell’opera comunista più diffusa della storia appartiene indubbiamente al famoso “libretto rosso” delle citazioni di Mao Tse-tung (che contende il primato della diffusione al Corano e alla Bibbia ) il Manifesto del partito comunista, redatto da Karl Marx e Friedrich Engels esattamente 170 anni fa può vantare anch’esso record da best seller, niente affatto sminuiti dal passare del tempo.
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I confini del populismo
Su Laclau e le ambivalenze di un significante vuoto
Francesco Festa
1. Una cosa appare certa. Comunque si fissino i confini del populismo, sta di fatto che le sue manifestazioni si vanno particolarmente moltiplicando. Come quel mito che tagliata una testa ne appare un’altra, e un’altra ancora; oppure come tutti gli incubi della borghesia, quel fantasma che non si riesce ad acciuffare e si aggira terrorizzando la pace sociale. Metafore a parte, di populismo e di partiti populisti, in realtà, si è ricominciato a parlare all’incirca un trentennio fa, anche se è con il cronicizzarsi della crisi e con l’indebolimento dell’Unione Europea che si è imposto come termine più attentamente monitorato dai media e tema più aspramente dibattuto dagli studiosi di scienza politica. E la sua origine e la sua definizione restano tuttavia un rompicapo irrisolto: se non ricorrendo a spiegazioni che non ne sciolgono la questione dei confini. Tanto è vero che l’etichetta populista viene usata per il Front National di Le Pen, l’UK Independence Party di Farage e la Lega di Salvini; un po’ meno per il Movimento Cinque Stelle, mentre, in altro versante, viene utilizzata per i movimenti anti-austerity come Podemos o Syriza.
Quali sono, dunque, i confini del populismo? Che essi siano a geometria variabile, in base al posizionamento, si muovono comunque all’interno di un piano costituzionale.
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Al momento di marciare molti non sanno…
Militant
Ieri a Parigi, a guidare la marcia contro i “barbari tagliagole” c’erano altri barbari, quelli in giacca e cravatta.
Spiccava, per le mani sporche di sangue, il premier israeliano Benjamin Nethanyau, seguito a ruota dal presidente ucraino Poroshenko e dal turco Davotoglu. E c’erano quelli che l’estremismo islamico l’hanno creato, alimentato e finanziato.
E al loro fianco sfilavano quelli che in questi anni hanno votato le guerre umanitarie, lasciando sul campo, sotto le bombe dei B52 e dei droni, migliaia di vittime civili. Ma questo si sa, non è terrorismo, sono operazioni di polizia internazionale.
E poi c’erano quelli che, qui da noi, ogni giorno impongono politiche di lacrime e sangue a milioni di lavoratori.
Non c’era Obama, è vero, però, perchè non se ne sentisse la mancanza, c’era il segretario della Nato Jens Stoltembreg.
Tornano allora in mente, mai così attuali, i versi di Brecht: Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.
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Partire dal lavoro per rimettere in moto l’economia
Luigi Pandolfi
Crisi, crescita, occupazione. E’ il trinomio che va per la maggiore nell’analisi della “situazione reale” oggigiorno. C’è da chiedersi, però: qual è l’effettiva relazione tra i tre termini? Viene prima la crescita e poi, di conseguenza, l’occupazione oppure è la stessa occupazione che può innescare processi di crescita? Ancora: c’è sempre una correlazione funzionale tra crescita ed occupazione oppure si può avere crescita senza occupazione? Domande non retoriche, che rimandano alla speciale situazione che ha generato la grande crisi in cui ancora siamo immersi ed a questa nuova fase del capitalismo nei paesi cosiddetti avanzati.
Se ci riferiamo, nello specifico, ai paesi Ue o, per ragioni di ulteriore omogeneità fiscale, a quelli dell’Eurozona, non c’è dubbio che diverse politiche pubbliche, espansive, avrebbero potuto, già nel breve periodo, favorire un incremento apprezzabile della ricchezza nazionale, quindi anche dell’occupazione. Ipotesi non scontata, tuttavia, soprattutto se ci si riferisce al recupero dei posti di lavoro persi negli ultimi anni[1] (jobless recovery). Ci sono fattori, come l’innovazione tecnologica, l’aumento della produttività del lavoro, le delocalizzazioni produttive, cambiamenti nella struttura produttiva di un paese indotti dalla stessa crisi, disallineamenti tra domanda ed offerta di lavoro, che, da questo punto di vista, potrebbero agire da freno ad una ripresa occupazionale anche in presenza di una crescita dell’economia.
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