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Non c'è tempo da perdere

Come industria 4.0 cambierà il modo di produrre

di Matteo Gaddi e Nadia Garbellini

società 4.0 1068x611Delocalizzazioni e Industria 4.0 sono due fenomeni molto dibattuti, ma raramente presi in considerazione congiuntamente. Eppure, come vedremo, entrambi concorrono all’evoluzione della geografia del Capitale, alimentandosi a vicenda.

Le imprese delocalizzano, ci viene detto, perché in Italia non trovano un clima favorevole al business. Le ragioni sono le più disparate: instabilità politica, eccessiva rigidità del mercato del lavoro, carenze infrastrutturali, quadro normativo eccessivamente articolato, tassazione troppo elevata, e così via.

La realtà, non è difficile capirlo, si presenta ben diversa: l’UE è una grande area di libero scambio, all’interno della quale si sono aboliti i confini alla circolazione di merci e capitali – e persone, limitatamente ai cittadini dell’area – in presenza di enormi disparità per quanto riguarda normative, standard sociali e ambientali, salari, regimi fiscali.

Ciò genera enormi possibilità di arbitraggio per le grandi imprese, che possono decidere di collocare sede fiscale, casa madre, impianti produttivi e uffici amministrativi in paesi diversi, a seconda della convenienza. Quindi, la strategia ottimale per ciascun paese è quella di specializzarsi in una determinata funzione, offrendo al Capitale tutte le condizioni ottimali per una allocazione geografica efficiente delle fasi produttive.

Naturalmente, gestire queste catene produttive lunghe è molto complesso, poiché implica il coordinamento di una lunga serie di fasi differenti, collocate in aree geografiche distinte – e soggette a normative diverse. L’attività di ricerca è stata pienamente organica a questa strategia, ed è stata indirizzata verso lo sviluppo di nuove tecnologie in grado di facilitare il processo di centralizzazione senza concentrazione.

“Lo sviluppo della tecnologia avviene interamente all’interno [del] processo capitalistico. [...] Lo sviluppo capitalistico della tecnologia comporta, attraverso le diverse fasi della razionalizzazione e di forme sempre più raffinate di integrazione, un aumento crescente del controllo capitalistico.” (Panzieri, 1961)

Il Capitale cerca da sempre il modo di razionalizzare al massimo i processi produttivi, coordinandone strettamente le diverse fasi, monitorando costantemente gli indicatori di produzione in modo da estrarne informazioni conoscitive e previsive.

Una conoscenza approfondita e granulare dei dati di produzione consente di individuare tutte le operazioni che possono essere snellite o eliminate, riducendo i costi e aumentando i margini di profitto. Inoltre, permettono di codificare procedure da seguire per ridurre al minimo la possibilità di errore e il tempo“perso” a pensare o a svolgere attività che, nella logica di impresa, non sono direttamente funzionali alla produzione di valore aggiunto.

Angelo Dina, già nel 1982, utilizzò l’espressione “fase tecnologica” per indicare l’uso della tecnologia non solo per incrementare i profitti e modificare gli equilibri di potere, ma per sostituire l’attività umana nell’elaborazione di una crescente quantità di informazioni.

Descrivendo il processo di introduzione, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, dell’Information and Communications Technology (ICT), Dina rileva una differenza significativa rispetto all’automazione di tipo Detroit. A quei tempi, le macchine a controllo numerico erano dotate di una memoria meccanica inalterabile, che integrava le informazioni definite in fase di progettazione. Nessun tipo di riprogrammazione in tempo reale era possibile, e non esisteva quindi spazio per la cosiddetta organizzazione informale.

Negli anni ’70, invece, si introdusse la cosiddetta ‘automazione flessibile’: macchinari in grado di processare più di un tipo di prodotti, cambiare il mix produttivo, introdurre nuovi modelli,ecc., senza dover sostituire le linee produttive, ma semplicemente riprogrammandole. Aumentava così anche il grado di adattabilità ai mercati di destinazione e la capacità del sistema produttivo di resistere agli elementi di disturbo.

L’elaborazione in tempo reale delle informazioni avrebbe consentito di introdurre flessibilità, automazione e aumento della produttività – o, meglio, redditività.

Gli investimenti in ICT degli anni ’80 riguardarono quindi il flusso delle informazioni sui processi produttivi. Lo scopo era quello di raggiungere il maggior grado di flessibilità possibile, mantenendo allo stesso tempo un controllo in tempo reale sul processo produttivo.

La fase tecnologica degli anni ’80 servì ai capitalisti per aumentare la flessibilità e riottenere il controllo sul lavoro, esattamente come oggi. La differenza, significativa, è che oggi esistono le tecnologie che il Capitale sognava negli anni ’80. Ed esistono proprio perché, in questi decenni, il Capitale si è prodigato per svilupparle.

Si è andati, in realtà, ben oltre ciò che il Capitale auspicava ai tempi degli scritti di Dina: mentre lo scopo degli investimenti degli anni ’80 era una sempre maggiore integrazione con i sistemi ICT all’interno del processo produttivo, al di là delle singole macchine, quello di Industria 4.0 è di spingere oltre tale integrazione, all’intera catena produttiva.

Gli sviluppi della tecnologia dagli anni ’80 a oggi si sono accompagnati a quelli della scienza dell’organizzazione, che ha parallelamente elaborato, implementato e affinato nuovi modelli dibusiness, adatti alle grandi imprese multinazionali impegnate nella massima razionalizzazione delle risorse.

È il caso della Lean Production, che persegue l’obiettivo di eliminare, o quantomeno ridurre, una serie di ‘sprechi’: sovrapproduzione; tempi di attesa; operazioni di trasporto tra postazioni, reparti, e magazzino; processi che comportano l’utilizzo di risorse costose e/o funzioni aggiuntive; scorte di materie prime o semilavorati in giacenza; movimentazioni inutili; pezzi difettosi.

Le tecnologie 4.0 consentono proprio di fare tutto questo. Le tecnologie digitali sono determinanti nel comprimere i tempi delle prestazioni lavorative e quindi ridurre le cosiddette attese – cosa che si traduce in una pesante intensificazione dei ritmi di lavoro.

Allo stesso modo, applicate a macchinari e impianti, le tecnologie 4.0 permettono di ridurre i tempi di resettaggio aumentando la produttività – al costo, anche in questo caso, di una pesante intensificazione dei ritmi di lavoro.

Uno dei pilastri della Lean production è il just in time: grazie alla disponibilità dei dati e alla velocità con cui questi possono essere utilizzati ovunque lungo l’intera catena del valore, per attivare la relativa fase produttiva, non esiste ragione per produrre a monte ciò che non sia richiesto a valle.

Per ottenere ciò, serve una rigida sincronizzazione delle diverse fasi e una continua visibilità dell’intero processo; anche in remoto, attraverso PC, tablet, e qualsiasi altro dispositivo connesso. È l’Internet of Things, l’Internet delle cose, che connette tra loro dispositivi, macchine, esseri umani, con un’unica rete che raccoglie, elabora, interpreta i dati e impartisce direttive.

Il controllo deve essere esteso anche e soprattutto ai fornitori, che devono rispettare al millesimo i tempi di consegna. Se le grandi multinazionali hanno gioco facile nello sfruttare i rapporti di forza per imporre i propri tempi alla maggior parte dei fornitori diretti – per lo più situati nel territorio, almeno nel caso del nostro paese – le tecnologie 4.0 consentono la diramazione degli ordini di produzione e il controllo dell’aderenza alla programmazione, con cadenza quotidiana.

Ecco perché molte aziende che introducono tecnologie 4.0 implementano già la lean production: le innovazioni tecnologiche vanno di pari passo con quelle organizzative.

Anche smart working, telelavoro e affini – sebbene introdotti con la retorica della concessione al lavoratore di maggiori margini di flessibilità, owork-life balance, come si dice oggi – sono in realtà strumento con cui le grandi imprese riducono i costi: le postazioni possono ruotare, gli uffici possono quindi essere più piccoli e meno costosi da mantenere. Il lavoratore non timbra, ma lavora per obiettivi, quindi di fatto si estende la giornata lavorativa senza riconoscere una retribuzione aggiuntiva. E via dicendo.

Ovviamente, ciò rende possibile spingere le delocalizzazioni come mai si era fatto prima, e ristrutturare le catene produttive secondo criteri, anche geografici, più funzionali alla produzione just in time. È così che per esempio, per produrre un’auto tedesca oggi si producono e si assemblano un certo numero di moduli in Paesi diversi da quello in cui avviene l'assemblaggio finale dell'auto. Quelli più sofisticati, come i quadri di bordo, arrivano da paesi come l’Italia – e da aziende come la Magneti Marelli, con un know-how decennale. Altri moduli, meno avanzati tecnologicamente, vengono prodotti nell’Europa dell’est – in Ungheria, Romania, Polonia, ecc. Anche i Paesi produttori di moduli inglobati con l’allargamento ad est della UE hanno però una periferia, dalla quale importano componenti meno specializzate. È il caso della Turchia, che le produce avvalendosi di materie prime acquistate in Asia, in India per esempio.

Così, le catene del valore si organizzano in cerchi concentrici, sfruttando il rapporto centro-periferia che si instaura tra ciascuno di essi e quello immediatamente esterno.

È evidente che, data questa configurazione, due elementi aggiuntivi diventano fondamentali: la logistica e le reti fisiche (pensiamo al 5G), cinghie di trasmissione materiali di questi ingranaggi, che fanno da contraltare a quella ‘immateriale’ rappresentata dalle tecnologie 4.0.

Veniamo alle conseguenze sul lavoro.

Nonostante la retorica di Industria 4.0 circa la riqualificazione dei lavoratori, questi sono sempre più esclusi dal processo di innovazione. Se è evidente che la programmazione richiede competenze informatiche, i lavoratori potrebbero comunque essere coinvolti nelle discussioni relative agli obiettivi che i software devono raggiungere (performance delle macchine, modalità di funzionamento, tempi, ecc.).

Inoltre, il controllo sui lavoratori è sempre più pervasivo: badge, lettori ottici, smartwatch, tablet e tutti i dispositivi utilizzati nell’arco della giornata lavorativa registrano la presenza del lavoratore monitorandone l’attività in tempo reale.

Infine, come già detto in precedenza, tutte queste tecnologie consentono di aumentare l’estrazione di plusvalore, sia relativo che assoluto, anche sfruttando la minaccia di delocalizzazioni.

Appare quindi evidente la necessità, per la classe lavoratrice, di organizzarsi a livello transnazionale per poter fronteggiare questi fenomeni. La strada da percorrere è lunga e tortuosa, ma l’unica percorribile.


Per un approfondimento degli aspetti tecnici dei temi trattati rimandiamo alla pubblicazione Industry 4.0 and its consequences for work and labour, a cura di Matteo Gaddi, Nadia Garbellini e Francesco Garibaldo, scaricabile all’indirizzo: http://www.fondazionesabattini.it/ricerche-1/ricerca-europea-industria-4-0, dal link Final Report Industry 4.0 (EN) [PDF]

Comments

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clau
Friday, 26 July 2019 19:12
A parte il fatto, del tutto secondario, che è stata la società nel suo complesso, ed in primo luogo la scienza al servizio del capitale (il che tra l’altro dimostra che la scienza non è neutra) e non il capitale stesso, a sviluppare le tecnologie che questo sognava fino dagli anni ’80. Premesso ciò, mi pare un po’ poco concludere sulla necessità che le classe operaia si debba organizzare a livello internazionale per poter fronteggiare i fenomeni che voi avete giustamente descritto. Essa, infatti, non può illudersi di poter fronteggiare tali fenomeni limitandosi a creare una organizzazione di tipo difensivo, cioè grosso modo di tipo sindacale, ma deve organizzarsi politicamente, per poter progettare e realizzare una diversa organizzazione della società, che preveda l’abolizione del lavoro salariato e lo sfruttamento, e di conseguenza il profitto. Se non si organizzerà politicamente e lotterà per superare l’attuale organizzazione della società, non ci si limiterà a constatare che i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e precari in una maniera fin’ora inconcepibile, ma assisteremo, o assisteranno coloro che ancora vivranno, ad un vero e proprio cannibalismo, di cui già oggi, nella politica di Salvini e compagnia, si intravvedono i primi drammatici contorni.
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