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L'inquietante fiuto dei pazzi

di Commonware

Il complottismo è il sintomo della fine di un’epoca, della perdita di senso, della percezione che il domani non sarà migliore di oggi, che la promessa del progresso è andata a farsi fottere

jokerwar 0«È il lato cattivo a produrre il movimento che fa la storia, determinando la lotta».
K. Marx, Miseria della filosofia

«Conquistare può solo colui che conosce la sua preda meglio di quanto questa conosca se stessa».
C. Schmitt, Ex captivitate salus

«Sono bei tempi quelli in cui si distrugge».
M. Tronti, La politica al tramonto

Per amor di chiarezza, tagliamo il discorso con l’accetta. In questa fase vediamo due tipologie di mobilitazioni politiche che, su scala internazionale, stanno raccogliendo una composizione che travalica l’esausto ceto politico delle sinistre e delle destre, movimentiste o meno: da una parte le mobilitazioni che vengono rubricate – in modo spesso riduttivo e talora addirittura fuorviante – sotto l’etichetta della identity politics, ovvero antirazziste (esemplificate ma secondo noi niente affatto contenute dal logo Black Lives Matter), ecologiste (Fridays for future), femministe (Non una di meno), dall’altra quelle che, sintetizzando, sono state definite – con un’accezione perlopiù negativa – complottiste, ovvero mobilitazioni contro la cosiddetta «dittatura sanitaria», vaccini, tecnologia 5G e più in generale contro i sordidi progetti dell’«élite globalista», visibile o occulta che sia. Se le prime, a queste latitudini (e, precisiamo, con significative differenze ad altre latitudini), sono le mobilitazioni che attraggono l’attenzione di una sinistra che si vuole illuminata, le seconde sono espressione di quella che si può chiamare deep society. Entrambe le tipologie, crediamo, sono in buona misura sintomo e manifestazione, per quanto superficiale e in modo tutt’altro che univoco, oltre che nei loro non infrequenti intrecci o scontri, di un processo ben più profondo e strutturale: la crisi dei ceti medi. Dentro questo fenomeno, ormai ben più di una semplice tendenza, occorre porsi strategicamente.

«Illuminati» e «complottisti», termini generici che esamineremo più dettagliatamente in un prossimo editoriale, o volendo dar loro un’etichetta più autoctona, «sardine» e «forconi» (riducendo in prima approssimazione a queste generiche categorie cose molto diverse tra loro), fanno parte di una dialettica che, in misura consistente, emerge o comunque si è rafforzata nel processo di krisis – economica, politica, sociale, oseremmo dire perfino antropologica – dei ceti medi, che interessa tanto le loro stratificazioni riflessive e cognitive quanto quelle produttive e tradizionali. Le soggettività sottostanti a entrambe le tipologie di mobilitazione, qui la nostra tesi, non possono essere lette secondo i canoni tradizionali, perché non più adeguati. Occorre cambiare lenti.

 

Crisi di civiltà

La crisi in cui siamo immersi è una crisi di civiltà. Più precisamente, della civiltà capitalistica occidentale. Democrazia liberale, ceto medio, globalizzazione neoliberale sono i pilastri su cui si è retto l’Occidente dopo la fine del ciclo di lotte del «lungo Sessantotto». Oggi, queste fondamenta appaiono in crisi irrevocabile tra difficoltà a risolvere dialetticamente in avanti le contraddizioni strutturali di questo ciclo di sviluppo, esaurimento interno dei meccanismi di riproduzione di patti sociali stabili ed élite competenti e infine il raggiungimento di una «grande convergenza» da parte dell’Oriente, il cui motore è la Cina, principale fautrice dell’ipotesi di ordinamento multipolare contrapposto all’egemonia unipolare a guida statunitense.

Dentro questo quadro, l’impossibilità di rispettarne le aspettative e di conservarne lo stile di vita, lo sfaldamento dell’orizzonte di senso e delle cornici interpretative della realtà, insieme a processi materiali di impoverimento e declassamento, tendono a sprigionare, per frizione sotterranea, come nella tettonica a placche, sempre più energie esplosive dei ceti medi, come il movimento dei gilet gialli ‒ ma anche, in tutt’altre forme e contesti, quello degli ombrelli di Hong Kong o delle milizie negli Stati Uniti, ad esempio ‒ sembra aver preannunciato, portandosi inevitabilmente dietro pezzi non indifferenti di proletariato e più o meno ex classe operaia. Crisi dei ceti medi, infatti, significa asciugamento dello spazio di mediazione tra le classi, ovvero polarizzazione sociale e acutizzazione dello scontro. Nel secondo tempo di questa crisi, che possiamo dire iniziato a partire dagli effetti globali della pandemia di Covid-19, dobbiamo prepararci a un terremoto. Solo chi avrà costruito le proprie fondamenta solidamente, nel panorama mutato, riuscirà a restare in piedi e soprattutto a muoversi tra le macerie.

Paranoia, angoscia e depressione sembrano le vibrazioni che caratterizzano grandi segmenti sociali. Sofferenza psichica diffusa, una sensazione di catastrofe imminente (soprattutto tra i più giovani) si mischia spesso a una perdita di senso del reale (soprattutto tra i più vecchi), una cinica ironia esasperata si confonde con la percezione della weirdness (un mondo dove le cose sono fuori posto) dando forma a fenomeni di radicalizzazione che sfociano spesso nel nichilismo distruttivo e autodistruttivo: dal suicidio all’epidemia di abuso di oppiacei (eroina o fentanyl) e cocaina, alle stragi di «lupi solitari» che ricalcano il linguaggio memetico e la cultura gamer. La risata disperata del Joker rappresenta bene questo «impazzimento sociale» tutto interno alla crisi di civiltà di un mondo. Nell’aria, i pazzi lo sentono per primi, c’è odore di polvere da sparo.

Il termine complottismo, abbastanza generico, non indica più semplicemente una serie di teorie strampalate sul governo del mondo, ma traduce in termini politici e in un certo senso conflittuali, mistificandole, una serie di istanze materiali (salute, sovranità, autonomia, protezione) e di autopercezione diffusa che segnano la nostra fase politica nel medio periodo e che, in taluni contesti, assumono rilevanza di massa. Il complottismo è il sintomo della fine di un’epoca, della perdita di senso, della percezione che il domani non sarà migliore di oggi, che la promessa del progresso è andata a farsi fottere. È il sintomo di un sentire catastrofico, il prodotto impazzito dell’impazzimento della civiltà. Non a caso uno dei fronti aperti dal complottismo è quello della scienza. Negli ultimi due decenni la scienza o per meglio dire la classe dei competenti ha avuto un ruolo preminentemente politico. Da un lato i cosiddetti tecnici sono stati chiamati a ruoli di governo per conferire legittimità,in virtù dell’oggettiva neutralità della loro competenza, alle politiche di impoverimento. Dall’altro la competenza - insieme al suo corollario: la meritocrazia - è stata usata da ampi strati di ceto medio, quelli che più hanno investito nell’ istruzione, come vettore di polemica politica contro la classe dirigente per contrastare il proprio declassamento: esemplare da questo punto di vista è stato il percorso dei 5 stelle. Oggi l’incedere della crisi e l’esaurimento delle promesse materiali del progresso capitalistico si manifestano quindi anche come crisi della fiducia nel sapere scientifico: non senza una qualche ragione a giudicare dalla capacità di contrasto al virus che la tecnoscienza ha mostrato. Dallo scorso inverno, poi, basta guardare un qualsiasi canale televisivo per rendersi conto di come la scienza sia un’industria, in cui il profitto è un elemento costitutivo della sua organizzazione produttiva, e i cui manager agiscono e parlano a seconda della relazione che intrattengono con il potere costituito.

Sappiamo bene, e dovrebbe essere ridondante ripeterlo, che nello scontro tra classi le cose vive sono caotiche e sporche. Sono campi di mobilitazione che possono andare in qualsiasi direzione. Che direzione prenderanno, allora, queste folli energie sprigionate? Sarà una direzione predeterminata o è possibile scorgere delle ambivalenze la cui forza può essere utilizzata antagonisticamente ai nostri fini di parte, rovesciandole contro di esse? Non ci basta ripetere il metodo. Non ci basta invitare in modo generico a «sporcarsi le mani», o criticare coloro che non capiscono, ovvero che non hanno mai capito e non capiranno mai – per dirla in una sola parola: la sinistra. Si tratta di tentare dei passi in avanti. Sappiamo bene che qualsiasi ipotesi di intervento politico nel ribollire delle contraddizioni di questo magma sociale; che la possibilità di cambiare segno a istanze ambiguamente mistificate hanno una durata temporalmente limitata. Crediamo che finito questo tempo – che scade non con l’esattezza di un orologio ma con l’esaurimento di un processo – non troveremo l’incarnarsi dello spettro fascista, bensì una nuova stabilizzazione attraverso la democrazia come tecnica della politica. Sempre che il capitale sia in grado di offrire una nuova stabilità, ovvero di rinnovare lo scambio tra consenso e benessere.

 

Non sono filogovernativo, ma…

Ordine del discorso «illuminato» e della deep society, dicevamo all’inizio. Lasciamo per ora stare l’approfondimento di queste categorie, sulla cui complessità ed eterogeneità ci proponiamo di ritornare. Non per analizzarle dal punto di vista meramente teorico, ma innanzitutto politico. Ciò che invece non ci interessa analizzare, né qui né altrove, è la veridicità delle tesi di epidemiologi e virologi. Per noi il punto non è la discussione sul virus, sulla sua esagerata o sottovalutata pericolosità, bensì l’uso politico del virus. Ora, procedendo per schematizzazioni e approssimazioni, se distribuiamo il grado di consenso e dissenso nei confronti della scienza lungo l’asse destra/sinistra troviamo che tra i soggetti sociali che all’oggi si collocano a destra si posizionano la maggior parte delle istanze antiscientifiche e quindi anti-establishment, mentre a sinistra – nonostante le biblioteche di studi filosofici critici sulla non neutralità della conoscenza e il foucaultismo diffuso sul nesso potere-sapere – le istanze scientiste e quindi pro-establishment.

Di fronte a questa presa d’atto, conosciamo già la reazione stizzita: «non sono filogovernativo, ma…». Laddove, esattamente come per il razzismo, quella congiunzione avversativa è una giustificazione non richiesta che nega materialmente la prima parte della frase. In questo momento, bisogna mettere da parte le critiche o ridurle al minimo per salvaguardare l’interesse generale – che, come sappiamo, è sempre quello di chi ha in mano le redini del dominio. Sulla sponda opposta dei positivi asintomatici filo-governativi, vi sono coloro che ci tengono a distinguersi dai «negazionisti», eppure non possono nascondere dubbi e perplessità, perfino profonde o fantasiose. Tra costoro troviamo una buona parte di coloro che hanno subito la crisi nell’ultima dozzina di anni: chi ha perso quello che aveva e non si spiega il motivo, più facilmente sarà portato a credere a qualche trama oscura. È mistificazione? Certo che sì, in termini classici. E tuttavia, le mistificazioni hanno sempre un nocciolo materiale, che i positivi asintomatici filogovernativi ignorano o deridono, mostrando qualcosa che esprime o rasenta un disprezzo di classe.

Il punto politico, allora, è che non si può leggere la situazione attuale attraverso le lenti della dialettica tra responsabili e negazionisti. Ridurre qualsiasi critica alla gestione del virus alle italiche piazze «no mask», più mediatiche che reali, è come liquidare il discorso scientifico prendendo in giro Burioni: un’inutile scorciatoia tesa semplicemente a insultare senza comprendere, che rende ancora più oscura la notte in cui tutte le vacche sono nere. Del resto, le stesse piazze «no mask» – sommatoria di gruppi e gruppetti, oltre che di mediocri figure in cerca di visibilità, tanto tra chi vi partecipa quanto tra chi le contesta – sono ben poco riuscite a intercettare quel magma sociale disponibile ai discorsi complottisti.

Il problema politico è come intervenire dentro l’ostilità alla gestione governativa del virus e a quella contro l’infantilizzazione della popolazione; come intervenire sulle forme ambigue e mistificate di interpretazione del mondo che spesso servono per contrastare la sovrapproduzione di informazione più funzionale ad impedire ai molti di capire per concentrare la decisione tra pochi. Il problema è come intervenire dentro queste ambigue forme di ostilità contro l’intensificazione dello sfruttamento e l’ulteriore mercificazione degli spazi di vita; contro la tutela esclusiva degli interessi dei potenti e l’imposizione a tutti gli altri dell’obbligo della responsabilità attraverso la produzione del senso di colpa e l’incentivo all’adesione ad una nietzscheana morale dello schiavo (accompagnato da multe e appelli alla delazione). Questi problemi di ordine politico non sono in alternativa alla rivendicazione di welfare e sanità, al contrario ne costituiscono la base. Come piegare queste forme di ostilità non verso l’individuazione di poteri oscuri, ma verso la lotta contro poteri fin troppo conclamati? La neutralizzazione della critica e del conflitto nel nome di un interesse superiore, oggettivo, universale e indiscutibile; l’adeguamento subalterno alla tecnicizzazione della vita e della politica sono i possibili effetti cercati dalla controparte capitalista attraverso l’uso politico del virus.

Oggi la paura per un secondo lockdown, dalle enormi conseguenze economiche, sembra essere maggioritaria in larghe fasce di composizione sociale, spingendo queste ultime a chiedere protezione ai governi. Questi però non sono altro che gli amministratori fallimentari delle imprese nazionali, i liquidatori che hanno come creditori privilegiati i grandi gruppi di interesse capitalistici, il cui profitto va tutelato come variabile indipendente. Con la temuta «seconda ondata» e la sua gestione da parte dei ceti dirigenti probabilmente si giocherà la partita della fiducia nelle istituzioni che quest’ultime hanno saputo temporaneamente riconquistare attraverso la paura per il virus. È una fiducia fragile, così come fragile è la possibilità che l’establishment esistente, al pari dell’anti-establishment che vorrebbe prenderne il posto o l’ha già fatto parzialmente, possa trasformarla in un consolidamento di lungo periodo. Non possiamo tuttavia sederci sulla riva del fiume pandemico aspettando che la fiducia torni a esaurirsi: o la partita la giochiamo adesso, o sarà troppo tardi.

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