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Contro il liberoscambismo

Marco Veronese Passarella*

5054585246 cc434b1b041. Introduzione

Il quesito sollevato dal titolo del seminario, Welfare o barbarie, evoca la drammatica alternativa posta da Rosa Luxemburg, sulla scorta di Friedrich Engels, esattamente un secolo fa: «la società Borghese si trova di fronte ad un dilemma, o transizione al socialismo o regressione nella barbarie» (Luxemburg 1915). Si noti che quell’«o» assumeva, per Luxemburg, un valore di disgiunzione esclusiva. Esprimeva, cioè, un’opposizione netta: socialismo oppure barbarie. Come è noto, di lì a poco una parte del mondo scelse il primo, con «l’assalto al cielo» delle classi lavoratrici russe – e sia pure tra le mille contraddizioni denunciate proprio da Luxemburg nel suo intenso scambio epistolare con Lenin e gli altri dirigenti socialisti dell’epoca. L’altra parte del mondo «civilizzato» piombò, invece, nella barbarie dei conflitti coloniali e dei campi di concentramento, delle deportazioni di massa e, infine, dello sterminio nucleare. Una barbarie che – troppo spesso viene dimenticato – fu preceduta da un periodo di straordinaria apertura dei mercati, ossia di intensificazione negli scambi di merci e nei flussi di capitale transnazionali. Il che stride con la tesi liberal-positivista allora in gran voga, e tuttora dominante, dei commerci quale veicolo di pace internazionale e di prosperità economica1. In effetti, la stagione di grande apertura dei mercati che precedette la prima guerra mondiale non avrebbe conosciuto eguali fino alla seconda ondata di globalizzazione capitalistica sperimentata dalle maggiori economie mondiali in seguito all’implosione del blocco socialista – a partire, cioè, dai primi anni novanta. Sennonché, a dispetto delle asserite proprietà salvifiche delle forze della concorrenza e delle leggi naturali del mercato, la crescente integrazione delle economie mondiali è sembrata dischiudere, ancora una volta, gravi rischi per le conquiste economiche e sociali strappate, nel corso del secondo dopoguerra, dal movimento operaio e dalle sue organizzazioni rappresentative nei paesi di prima industrializzazione. D’altra parte, l’ascesa economica recente dei giganti asiatici e sudamericani non appare in grado, almeno al momento, di legarsi stabilmente alla prospettiva di un avanzamento generalizzato nei rapporti sociali a favore dei salariati e delle classi lavoratrici in genere, di surrogare, cioè, il katéchon sovietico2.

Sono già qui enunciate in nuce due tesi fondamentali, che costituiranno il leitmotiv di questo breve saggio. La prima tesi è che è che la contrapposizione welfare oppure barbarie sia storicamente legata a doppio filo al grado di mondializzazione del capitale, ossia ai processi di apertura dei mercati regionali e nazionali ai flussi internazionali di capitali e di merci. La seconda tesi – che è poi un corollario – è che non sia tanto, o soltanto, la soluzione di quella contrapposizione a favore del secondo termine (la barbarie connessa al possibile azzeramento di ogni forma di prestazione sociale) a far problema. È una posizione, questa, che pure sembrerebbe emergere dall’osservazione di quanto accaduto nelle economie avanzate nell’ultimo trentennio, dove il sistema statuale di previdenza sociale è stato progressivamente smantellato (ancorché in modo asimmetrico e parziale) a colpi di privatizzazioni prima, e di misure di austerità poi. Piuttosto, la sensazione è che si stia assistendo al progressivo tramutarsi della congiunzione «o» in una copulativa positiva, «e»: welfare e barbarie. Non azzeramento delle prestazioni di welfare, insomma, ma loro profonda ridefinizione in termini, ad un tempo, «universalistici» e «minimalisti», sulla base dei rapporti sociali emersi dalla crisi di valorizzazione degli anni settanta e dai conseguenti processi di ristrutturazione produttiva degli anni ottanta e novanta. Il welfare come sussidio residuale atto a colmare la differenza tra redditi da lavoro salariato precario e soglia minima di sussistenza: questa sembra essere, per le classi lavoratrici italiane (ed europee), la fosca prospettiva che si para all’orizzonte. Si tratta di una prospettiva, per la verità, non nuova, dato che rimanda agli albori del processo di industrializzazione. Di fronte a questo scenario, si ritiene necessario, anzitutto, avanzare una critica radicale all’accettazione incondizionata, a tratti apologetica, delle dinamiche di mondializzazione capitalistica e dell’agenda neoliberista e liberoscambista che ne costituisce la sovrastruttura ideologica3.Tale atteggiamento ha curiosamente caratterizzato, in Italia, gli intellettuali e le organizzazioni eredi del movimento operaio novecentesco ancor più delle forze conservatrici. Si tratta, in secondo luogo, di prospettare una diversa forma di organizzazione economica e sociale che recuperi ed aggiorni lo strumento della pianificazione economica quale alternativa alle dinamiche caotiche del mercato e, al contempo, quale prefigurazione di una società altra.

A tal fine, il resto dell’articolo è strutturato come segue. Nel paragrafo 2 si mostra che la liberalizzazione dei movimenti di capitale, cominciata alla fine degli anni settanta e portata a compimento nel corso dei due decenni successivi, deve essere considerata il fattore-chiave dei cambiamenti intervenuti nella struttura economico-sociale italiana ed europea nell’ultimo trentennio. Il paragrafo 3 è incentrato sui processi di «riforma» del sistema di welfare state e più in generale del ruolo dello Stato in economia. Tali processi sembrano seguire due direttrici principali: la ri-regolamentazione de- politicizzante delle istituzioni preposte al governo dell’economia, e l’uso pressoché esclusivo della politica monetaria quale strumento di intervento pubblico. Tale mutamento è, peraltro, in linea con il paradigma di teoria economica oggi dominante nel mondo accademico, il cosiddetto «Nuovo Consenso», il cui assunto di base è che, nel lungo periodo, i livelli di reddito, di occupazione e di produzione tendano a stabilizzarsi in corrispondenza di un livello naturale, esogenamente dato. Si tratta di un paradigma teorico che assume una valenza particolare nel caso dell’Area Euro, il cui modello di sviluppo export-led, implica un’enfasi particolare sul controllo delle dinamiche dei prezzi. Come si cercherà di argomentare nel corso del paragrafo 4, sul piano del welfare ciò si traduce in una sostituzione del «vecchio» stato sociale con forme di copertura universalistiche, introdotte come contropartita alla flessibilizzazione del mercato del lavoro. Benché tale sirena tenti anche le formazioni della sinistra radicale, mentre è pressoché unanimemente accettata dalle forze di governo, l’introduzione di forme di reddito garantito presenta aspetti problematici, sia sul piano della sostenibilità finanziaria, che su quello della «progressività» sociale. Nel paragrafo 5 si tenterà, perciò, di tratteggiare un’alternativa possibile alla logica della flexecurity, comunque declinata. Tale alternativa non può che passare per un profondo ripensamento del ruolo dello Stato in economia e della dimensione della sfera pubblica. Seguiranno alcune brevi considerazioni finali.

 

2. Critica del paradigma liberoscambista

Le turbolenze finanziarie e la recessione (divenuta vera a propria depressione) economica che hanno investito il nostro paese nell’ultimo quinquennio hanno radici molto antiche. Queste ultime sono sia di natura interna4,che di ordine esterno. Concentrandosi sulle cause esterne, e in particolare sulle ragioni della crisi che ha colpito l’Area Euro nell’ultimo quinquennio, se ne possono isolare tre: cause finanziarie, cause politico-istituzionali e cause economico-strutturali. Le prime hanno certamente agito da detonatore, o causa ultima, della crisi. La fuga di capitali verso lidi sicuri innescata nel settembre 2008 dal collasso finanziario Lehman Brothers si è, infatti, immediatamente riverberata sui titoli di Stato dei paesi finanziariamente più fragili dell’Area Euro. D’altra parte, la caduta del valore di mercato di quei titoli, e la conseguente crescita dei rendimenti sul debito dei paesi emittenti, è stata resa possibile dalla malcelata reticenza – e, comunque, dal ritardo – con cui la Banca Centrale Europea è intervenuta per bloccare le dinamiche speculative in atto5.Civettando con Aristotele, si potrebbe, dunque, guardare al contesto istituzionale europeo, e in particolare alla Banca Centrale Europea, come al motore immobile della crisi, almeno nella sua fase iniziale. In assenza di barriere monetarie, un’ondata di speculazione ribassista si è così abbattuta sui paesi che più si erano indebitati verso l’estero a causa della minore competitività delle loro produzioni nazionali, tradottasi nel tempo in esposizione crescente dei lori sistemi bancari. Ma se la speculazione finanziaria ha agito da innesco, in un contesto di vuoto istituzionale, sono stati gli squilibri di parte corrente delle bilance dei pagamenti (i disavanzi commerciali, ma anche le altre voci di conto corrente) degli Stati-Membri dell’Area Euro a fungere da combustibile o causa prima della crisi. Non pare, infatti, un caso che i paesi interessati dalla fuga di capitali avessero in comune non tanto un elevato livello di debito (né di deficit) pubblico, quanto un’esposizione debitoria crescente verso l’estero6.Quest’ultima non è che la risultante del differenziale permanente di competitività tra le produzioni dei paesi «periferici» e quelle dei paesi «centrali», in un contesto di rigido ancoraggio valutario, di politiche deflattive adottate dai paesi del centro e di piena libertà di movimento dei capitali all’interno dei confini europei7.

Proprio la liberalizzazione dei movimenti di capitale – ad avviso di chi scrive – deve essere considerata il fattore chiave, il prius, dei cambiamenti intervenuti nella struttura economico-sociale italiana ed europea nell’ultimo trentennio. È stata, infatti, la crescente minaccia di delocalizzazione delle produzioni uno dei principali fattori di erosione delle basi del potere contrattuale delle classi lavoratrici e delle loro organizzazioni rappresentative in Europa. Così come, d’altra parte, il dumping fiscale è (stato) certamente uno degli elementi di pressione per una riduzione/ridefinizione delle prestazioni di welfare fornite dal settore pubblico (per via della riduzione del gettito associata, ceteris paribus, al taglio delle aliquote sui redditi da capitale e d’impresa). Ancora, la guerra tra capitali a differente base nazionale acuitasi dopo lo scoppio della crisi europea è sembrata trovare un possibile terreno di ricomposizione, ancorché temporanea e parziale, proprio nelle politiche di compressione del salario diretto, indiretto e differito adottate tanto nei paesi del centro quanto in quelli della periferia europea. Eppure, non soltanto la rimozione dei vincoli legali alla circolazione dei capitali non ha incontrato la resistenza dei partiti e delle organizzazioni sindacali eredi del movimento operaio novecentesco, ma è piuttosto vero il contrario8.Con rare eccezioni, proprio quei soggetti hanno accolto la rimozione delle barriere nazionali ai movimenti di capitale con particolare benevolenza, quasi che tale dismissione materializzasse d’incanto le vecchie aspirazioni illuministiche di fratellanza universale. Tale fraintendimento (frutto di un internazionalismo malinteso e paradossale) vanta, peraltro, radici nobili, anzi nobilissime. Queste affondano nel Discorso sul libero scambio dato alle stampe da Karl Marx nel gennaio del 1848. Com’è noto, in quel pamphlet Marx si schierava a favore dell’abolizione (avvenuta del giugno 1846) dei dazi sul grano introdotti dalle Corn Laws inglesi al termine delle guerre napoleoniche. La ragione di tale presa di posizione (provocatoria e antitetica a quella prevalente nei partiti socialisti dell’epoca) è che la libera circolazione dei capitali e delle merci, proprio per il suo carattere distruttivo, avrebbe consentito il pieno disvelarsi della contraddizione capitale-lavoro, ponendo così le condizioni per la rivoluzione delle classi salariate. Naturalmente, di qui ad accettare acriticamente, o addirittura a sostenere attivamente, i processi di smantellamento dei controlli sui movimenti di capitale, e le connesse dinamiche di finanziarizzazione dell’economia, il passo avrebbe dovuto essere tutt’altro che breve. Il giovane Marx si schierava a favore delle politiche liberoscambiste per il loro carico di «distruzione creatrice» – per dirla con Joseph Schumpeter – non certo perché fosse persuaso dall’equazione liberale «libera concorrenza uguale progresso sociale».9 Eppure, nei fatti, è quest’ultima interpretazione quella che ha finito per prevalere tra gli eredi del movimento operaio, convertitisi frettolosamente al credo liberoscambista in seguito dell’implosione del blocco socialista. È così accaduto che la libera circolazione delle merci, della forza-lavoro e persino dei capitali siano assurti al rango di veri e propri dogmi delle formazioni della sinistra post-socialista, sia pure con rilevanti differenze nazionali.

Si noti che la ragione di tale favore per il libero scambio andrebbe ricercata nella pace sociale, nella prosperità economica e nell’estensione della sfera dei diritti civili e politici che esso sarebbe in grado di assicurare. Vi sarebbe, in altri termini, una stretta correlazione tra apertura dei mercati e democrazia politica, e tra questa e benessere economico, misurato in termini di più equa distribuzione della ricchezza e di maggiori opportunità individuali e dunque sociali. Eppure gli studi più recenti condotti sull’evidenza empirica disponibile smentiscono platealmente tale correlazione e i nessi causali da essa sottesi10.Nei fatti, l’apertura indiscriminata dei mercati nazionali alla penetrazione di capitali esteri si è accompagnata, tanto nei paesi cosiddetti «in via di sviluppo» quanto in quelli di prima industrializzazione, ad un aumento vertiginoso delle disparità sociali, ad una compressione delle garanzie democratiche, e – ciò che qui più interessa – ad una riduzione del sistema di protezione dei lavoratori salariati e ad una profonda ridefinizione del sistema di assistenza sociale. Non pare, peraltro, che ciò sia stato compensato da un aumento del potenziale produttivo, stanti gli esangui tassi di crescita registrati dalle principali economie europee (e in particolare da quella italiana) sin dalla rimozione delle barriere nazionali sulle attività finanziarie (avvenuta con il Single Market Act dell’Unione Europea, approvato nel 1986 ed entrato in vigore sei anni dopo)11.Né un diverso effetto hanno sortito le «riforme» imposte, tra la metà degli anni settanta e la fine dei novanta, dal governo statunitense e dal Fondo Monetario Internazionale alle economie in difficoltà, dietro il ricatto del taglio dei finanziamenti accordati dal Fondo. Al punto che gli stessi colossi asiatici e sudamericani emergenti sono riusciti ad imporsi nell’ultimo quindicennio soltanto nella misura in cui hanno rigettato le politiche liberoscambiste dettate dall’agenda del cosiddetto Washington Consensus12.

 

3. Teoria macroeconomica dominante e stato sociale

Nei paragrafi precedenti si è parlato di «ridefinizione», e non di «azzeramento», del sistema di welfare. Non è un caso. Ciò che i processi di globalizzazione capitalistica e che le politiche economiche messe in campo per governare tali processi prefigurano – in particolare nella loro declinazione social-liberista – è non la fine Stato in economia, ma una rivoluzione copernicana nelle forme del suo intervento. Tale ridefinizione ha finora seguito due direttrici principali: anzitutto, la deregolamentazione dei mercati, soprattutto dei mercati finanziari, ma ancor più la ri-regolamentazione de-politicizzante delle istituzioni preposte al governo dell’economia13;in secondo luogo, quale complemento della prima, lo spostamento netto del baricentro dell’intervento dello Stato in economia dalla politica fiscale alla politica monetaria. Se nei paesi anglosassoni, Stati Uniti in testa, ciò si è tradotto nel paradossale «keynesismo finanziario» che ha dominato la scena degli anni novanta e della prima metà dei duemila14,nello stesso periodo le economie emergenti e l’Europa continentale sono cresciute al traino della domanda di merci proveniente dai primi, grazie al canale delle esportazioni. Il modello «neo- mercantilista» di sviluppo seguito dalle principali economie dell’Area Euro – e dalla Germania su tutti – sembra, peraltro, il più in linea con il paradigma di teoria economica oggi dominante nel mondo accademico. Tale paradigma è stato messo a punto tra la fine degli anni ottanta e lo scadere del decennio successivo e, benché variamente denominato15,è stato ben presto ribattezzato – per la sua natura di sintesi tra la modellistica monetarista dei primi anni ottanta e il «keynesismo bastardo» dominante fino alla metà degli anni settanta, ma anche per la sua pervasività – come Nuovo Consenso in macroeconomia (d’ora in poi, NCM). L’assioma di base del NCM è che, nel lungo periodo, il flusso di ricchezza prodotto all’interno di un dato sistema economico tenda a stabilizzarsi in un intorno del proprio livello naturale16.Quest’ultimo sarebbe definito unicamente dalla tecnologia disponibile, dalla scarsità di risorse (e cioè dalla disponibilità di capitale e forza-lavoro), e dal sistema di preferenze dei consumatori. Nel breve periodo sono possibili scostamenti delle grandezze reali (prodotto nazionale, reddito, occupazione) dai loro livelli naturali a causa di shock stocastici (ossia di eventi inattesi), come, ad esempio, un provvedimento di politica economica non sistematico (e dunque non previsto dagli operatori privati), ma nel lungo periodo esse torneranno ad assestarsi al loro valore naturale.

Più in dettaglio, il modello dominante è composto da tre equazioni che legano tra loro le tre variabili macroeconomiche fondamentali, ossia il prodotto nazionale, il tasso di inflazione e il saggio di interesse. Nell’ordine: (i) il prodotto nazionale (o, meglio, lo scostamento del suo livello corrente da quello naturale) dipende negativamente dal saggio di interesse reale (al netto, cioè, dell’inflazione)17;(ii) il tasso di inflazione è funzione positiva del prodotto nazionale (o, meglio, del suo scostamento dal livello naturale)18.Dalla (i) e dalla (ii) segue, come sillogismo, che l’inflazione dipende dal saggio di interesse reale. In particolare, se ci si fermasse a queste sole due equazioni, si avrebbe inflazione crescente ogniqualvolta il volume corrente del prodotto nazionale fosse superiore al suo volume naturale, e cioè ogniqualvolta il saggio di interesse reale fosse inferiore ad una certa percentuale, detta “tasso di interesse naturale”19.Compito delle autorità di politica monetaria è, dunque, quello di fissare scientificamente il saggio di interesse di riferimento in corrispondenza di quella percentuale. Quest’ultima dipenderà positivamente dal tasso di inflazione corrente e atteso20,nonché dallo scostamento del prodotto nazionale dal suo livello naturale21.In tale contesto, la politica monetaria – l’equazione (iii) del sistema – diviene lo strumento di intervento privilegiato delle autorità pubbliche. Infatti, se il volume naturale del prodotto nazionale e dunque il livello naturale di occupazione sono dati, alla politica fiscale spetta appena il ruolo ancillare di stabilizzazione del ciclo economico, e soltanto nei limiti imposti dal rispetto del pareggio di bilancio. Ne consegue, ancora, che la politica monetaria deve essere isolata dai governi e delegata ad istituzioni indipendenti, dato che i primi potrebbero essere tentati di utilizzarla per scopi elettorali. Infatti, nel breve periodo una politica monetaria «lassista» o una politica fiscale espansiva finanziata mediante creazione di base monetaria potrebbero spingere temporaneamente il prodotto nazionale (e dunque il livello di occupazione) al di sopra del suo livello naturale, favorendo il rinnovo del consenso accordato dagli elettori alle forze di governo. L’unico effetto di lungo periodo sarebbe, però, una destabilizzazione delle aspettative inflazionistiche, accompagnata da maggiori tassi di interesse e – è questa una sorta di «equazione nascosta» del modello del NCM – da un minor benessere sociale22.

Come anticipato, tale modello teorico assume una valenza particolare nel caso dell’Area Euro. Quest’ultima è stata costruita ad immagine e somiglianza dell’economia dominante, quella tedesca, la cui crescita è da sempre affidata al traino delle esportazioni nette. A partire dal secondo dopoguerra, queste hanno infatti rimpiazzato la spesa militare come fonte di domanda autonoma per l’industria tedesca. Non è, in effetti, un caso che il punto di forza dell’export tedesco sia rappresentato dal settore dei beni di investimento, frutto della riconversione della vecchia industria bellica. D’altra parte, i mercati dei paesi del Sud Europa hanno sostituito le steppe russe o l’Appennino tosco-emiliano quale terreno di scontro e di estensione della propria area d’influenza23.Sennonché, il maggior nemico di tale modello è la crescita dei prezzi o, meglio, un divario inflazionistico positivo con i principali concorrenti. Maggiore inflazione (sia essa dovuta alla dinamica dei salari unitari, ovvero a quella della produttività del lavoro) si traduce, infatti, in una minore competitività delle produzioni nazionali rispetto a quelle dei rivali esteri24.Ecco perché da sempre le autorità tedesche avversano ogni tipo di provvedimento che possa determinare un allentamento delle politiche di controllo dei prezzi25.È questa, nei fatti, l’equazione nascosta che si aggiunge al modello (i)-(ii)-(iii) applicato all’Area Euro a guida tedesca26.

Sul piano del welfare, ciò si traduce non nella scomparsa tout court del modello europeo-continentale di stato sociale, ma in un rovesciamento delle sue finalità e della sua natura, in funzione dell’attuale fase di ridefinizione della catena transazionale del valore. Ancora una volta il modello di riferimento è quello tedesco delle cosiddette riforme Hartz (o Agenda 2010), ossia dei quattro pacchetti di riforme del mercato del lavoro volute dal governo socialdemocratico di Gerhard Schröder ed entrate in vigore tra il 2003 e il 2005. In estrema sintesi, si tratta di una copertura di welfare universalista introdotta come contropartita ad una massiccia deregolamentazione-flessibilizzazione dei contratti di lavoro salariato. Ne è derivata, in Germania, una crescita nulla dei salari nominali e addirittura una sensibile contrazione del salario reale percepito da vaste fasce di lavoratori nell’ultimo decennio. Nei fatti, ciò ha consentito alle imprese tedesche di scaricare il costo della manodopera sullo Stato (al quale la riforma costa circa trenta miliardi di euro l’anno), nonché di espungere definitivamente la forza-lavoro dal governo delle decisioni di produzione (con l’eccezione di una piccola «aristocrazia» sindacale attiva, per lo più, all’interno di pochi colossi industriali). In effetti, mini-job, midi-job ed altre forme contrattuali flessibili (per lo più non coperte dai contratti collettivi ed esenti dalle imposte), accoppiate ad una miriade di sussidi (reddito minimo, contribuito per l’affitto, assegni familiari, ecc.), hanno trasformato la Germania nel paese con il maggior numero di lavoratori a basso salario: una percentuale del 22%, contro i pochi punti percentuali di Francia e paesi scandinavi, e una media dell’Area Euro di 14-15% (fonte: Eurostat 2013; cfr. anche Gallino 2012). De te fabula narratur, dunque? Le recenti proposte di modifica in chiave universalista del (ben più asfittico) sistema di welfare italiano sembrerebbero confermare tale ipotesi, se non fosse che la situazione italiana (come quella degli altri paesi periferici dell’Area Euro) si presenta assai più drammatica sul piano delle possibilità di copertura, vista la dimensione del servizio annuale sul debito pubblico.

 

4. Reddito o lavoro?

Nell’ultimo decennio il dibattito italiano sulle necessità di revisione del sistema di previdenza sociale è ruotato attorno alla proposta di introduzione di un reddito minimo garantito ovvero di un reddito di base incondizionato27.A destra dello schieramento politico, tale proposta è stata declinata prevalentemente in termini di sostituzione della molteplicità di sussidi elargiti dallo Stato (in forma di sussidi di disoccupazione, cassa integrazione guadagni, e così via) con un unico sussidio universale che consenta di superare le disparità di trattamento legate alla miriade di forme contrattuali introdotte a seguito dei provvedimenti di flessibilizzazione del mercato della forza-lavoro. Intesa come contropartita alla riduzione del grado di protezione contrattuale dei lavoratori, la proposta di reddito minimo incontra oggi – almeno sulla carta – un consenso piuttosto ampio, anche (e forse soprattutto) negli ambienti della sinistra di governo. Essa costituisce il principale pilastro della cosiddetta flexicurity. Tale idea riecheggia, del resto, una vecchia suggestione di Milton Friedman, la celebre negative income tax (imposta negativa sul reddito o NIT), ossia un sussidio pari all’eventuale differenza tra una soglia minima di reddito imponibile stabilita per legge e il reddito effettivamente percepito in un certo nucleo familiare28.A sinistra, soprattutto negli ambienti della sinistra radicale, la proposta di introduzione di un reddito di base incondizionato è, per contro, solitamente legata alla sua presunta natura di «salario sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta», quella dell’«intellettualità diffusa e [de] la dimensione cognitiva del lavoro» (Fumagalli e Vercellone 2013; cfr. anche Fumagalli 2013). Essa muoverebbe, insomma, dalla presa d’atto che il regime di regolazione post-fordista è caratterizzato da una quota crescente di «tempo di lavoro necessario» – per utilizzare una categoria cara al pensiero marxista – che non viene contrattualmente sanzionata. Tale flusso di «lavoro» cognitivo sarebbe erogato al di fuori dei luoghi tradizionalmente deputati alla produzione di merci, nell’ambito, cioè, di forme molteplici di interazione sociale che si vorrebbero immediatamente produttive di valore e di plusvalore. L’erogazione di un reddito di base incondizionato varrebbe, perciò, a ristabilire una corrispondenza tra contributo produttivo dei fattori della produzione e quota di prodotto sociale loro spettante29.

Lasciando da parte le ragioni che lo motivano, e concentrandosi sui suoi effetti potenziali, l’introduzione di un reddito di base incondizionato in un contesto di elevata flessibilità del mercato della forza-lavoro, di estrema debolezza delle organizzazioni dei lavoratori e di fragilità finanziaria degli Stati, solleva tre ordini di perplessità: due di natura economico-politica, e una di natura filosofico-sociale. Il primo ordine di perplessità concerne le possibilità di copertura finanziaria di tale provvedimento, dati anche i vincoli derivanti dall’adozione della valuta unica e dai trattati internazionali sottoscritti dallo Stato italiano. Da un calcolo preliminare dei costi ad esso associati sembrerebbe di poter concludere che l’estensione di un reddito di base incondizionato, ove tale reddito fosse rilevante, sarebbe incompatibile con un livello di pressione fiscale socialmente accettabile30.In tal senso, più che fungere da elemento di ricomposizione della forza-lavoro, tale misura rischierebbe di produrre un’ulteriore frattura tra lavoratori stabili (e per questo contribuenti netti), da un lato, e lavoratori precari, inattivi ed altri sussidiati (ossia i beneficiari netti del provvedimento), dall’altro. Si potrebbe, forse, argomentare che la sostenibilità finanziaria (e sociale) del reddito di base potrebbe, almeno in linea teorica, essere sempre conseguita all’interno di un paese dotato di piena sovranità valutaria, mediante politiche di monetizzazione della spesa pubblica contratta a tal fine. Tuttavia, la prospettiva di un’uscita dall’Euro non viene mai evocata dai promotori di tale provvedimento.

Un secondo ordine di perplessità rimanda al cosiddetto «effetto Speenhamland»31.

Come segnalato da numerosi studiosi, sulla scorta del contributo di Karl Polanyi (1944), il rischio è che si crei una «dinamica per cui l’erogazione benintenzionata di un ‘sussidio’ che consente alle imprese di pagare retribuzioni più basse, nel tempo si trascina dietro al ribasso l’intera struttura dei salari, e finisce così col ritrasformare i lavoratori in mendicanti – tanto più quanto più la crisi morde» (Bellofiore 2012b). Lungi dal fungere da elemento di sostegno del potere contrattuale dei lavoratori, il reddito garantito o di base consentirebbe alle imprese di appropriarsi di quote crescenti di prodotto sociale netto, grazie ad una forza-lavoro atomizzata (per via dell’intermittenza lavorativa) e scarsamente incentivata alla rivendicazione salariale (per via della certezza di un minimo vitale). Proprio il caso tedesco é emblematico in tal senso.

Vi è, infine, una terza ragione di perplessità di ordine filosofico, peraltro gravida di conseguenze sociali. Lo scambio intermittenza lavorativa versus certezza dei flussi di reddito non fa i conti con la natura duale del lavoro salariato, che è sì «lavoro astratto», ossia attività produttrice di «valore (di scambio)» – e in quanto tale veicolo di alienazione e di sfruttamento – ma anche, al contempo, «lavoro concreto», ossia attività produttrice di «valori d’uso» – e in quanto tale elemento di definizione della propria identità individuale e sociale. Nel tempo, il combinato disposto di reddito garantito e precarietà lavorativa cristallizza i rapporti di produzione dati, elimina ogni residuo di «potere operaio» nella produzione, e dunque rafforza la divisione in classi della società capitalistica32.In altre parole, in assenza di un salario minimo e, ancor più, di un piano per la piena occupazione, la semplice erogazione di un sussidio monetario rischia di tradursi in degrado ed emarginazione sociale. Dai ghetti dei nativi australiani alle periferie berlinesi, gli esempi di come politiche di elargizioni monetarie possano produrre effetti socialmente regressivi non mancano. Di certo, tali politiche non paiono in grado, da sole, di prefigurare alcun rovesciamento nei rapporti sociali scaturiti dai processi di finanziarizzazione e globalizzazione che hanno investito le principali economie capitalistiche nell’ultimo trentennio, rischiando anzi di fungere da foglia di fico (o addirittura da amplificatori) di tali processi.

 

5. Per una ripresa della pianificazione pubblica

Esiste un’alternativa? La domanda è meno retorica di quanto possa sembrare. Gli attuali assetti politici internazionali, ed ancor più la condizione di estrema debolezza (sul piano ideologico, o dell’immaginario, non meno che su quello dei rapporti di forza) delle classi salariate, non sembrano lasciare troppi spazi a scenari di cambiamento radicale dell’esistente. Proprio l’acuirsi della crisi in cui l’Italia e la maggior parte dei paesi europei sono sprofondati nell’ultimo quinquennio potrebbe, però, dischiudere alcune possibilità di trasformazione. Al riguardo, comincia, sia pure lentamente, a farsi largo la consapevolezza che – accantonata la retorica facile (benché non priva di fondamento) sul malaffare e la corruzione della classe politica quali problemi endemici della vita pubblica italiana e sud-europea in genere – non via sia, in realtà, «spreco» maggiore che milioni di (giovani e meno giovani) lavoratori disoccupati o sotto-occupati. Che, cioè, non sia un generico eccesso di spesa pubblica «improduttiva» a far problema, ma, al contrario, la carenza di domanda (autonoma) aggregata legata a doppio filo alle politiche di aggancio valutario in vista dell’adozione della valuta unica prima, ed alle misure di austerità poi. Se i paesi forti dell’Area Euro (essenzialmente, Germania e «satelliti») hanno potuto contare sul canale delle esportazioni nette per dare fiato alla domanda, l’Italia ha pagato doppiamente la politica di alti tassi di interesse perseguita a partire dai primi anni ottanta, anche in seguito al «divorzio» tra Banca Centrale e Tesoro33.Adottata al fine di sostenere il rapporto di cambio con il Marco e le altre valute forti, tale politica non soltanto ha inciso negativamente sulla competitività delle merci italiane (e dunque sulle esportazioni nette), ma ha disincentivato l’investimento privato proprio mentre rendeva quello pubblico assai più gravoso, per via della crescita del servizio sul debito. Le privatizzazioni degli anni novanta, ufficialmente adottate allo scopo di abbattere il debito pubblico ed entrare nell’area della valuta unica, hanno ulteriormente indebolito la struttura produttiva italiana. D’altra parte, gli effetti depressivi delle politiche di austerità adottate nell’ultimo quinquennio nell’Area Euro sono ormai ampiamente documentati34.In questo contesto, il breve periodo di stabilità economica e di relativa solidità finanziaria registrato all’indomani del lancio della valuta unica deve essere riguardato più come un’eccezione che come la regola. Incidentalmente, esso è altresì la controprova del fatto che l’andamento del debito pubblico (in rapporto a PIL) è determinato dall’andamento del tasso reale di interesse sui titoli (nonché dal tasso di crescita del PIL), e non viceversa35.Ecco perché commentatori assai autorevoli da tempo invocano, per i paesi-membri dell’Area Euro, la cessazione delle politiche di austerità, in favore di politiche di stimolo fiscale opportunamente «supportate» dalla banca centrale attraverso misure di stabilizzazione dei rendimenti sui titoli di Stato36.In caso contrario, il rischio è quello della desertificazione produttiva di intere aree del Sud Europa, Italia compresa, ovvero di una deflagrazione incontrollata dell’unione valutaria.

Il riconoscimento del ruolo della spesa pubblica quale surrogato necessario della spesa privata carente e del ruolo della politica monetaria quale fattore chiave nella determinazione degli spazi di agibilità finanziaria rappresentano, di certo, due passi avanti rispetto all’improbabile dottrina dell’«austerità espansiva»37.Deve però essere chiaro che l’adozione di politiche fiscali attive e di politiche monetarie accomodanti, benché necessaria, non sarebbe sufficiente a fronteggiare la grave crisi in cui versa l’economia italiana, nel contesto più ampio della crisi delle economie avanzate. A certe condizioni, essa potrebbe, anzi, rivelarsi un boomerang. Anzitutto, in assenza di una piena sovranità valutaria e di barriere alla circolazione dei capitali, si materializzerebbe immediatamente il rischio di un peggioramento repentino del conto corrente della bilancia dei pagamenti che alimenterebbe l’attività di speculazione contro i titoli del debito pubblico italiano. Ciò spingerebbe inesorabilmente il paese verso un’uscita «forzata» dall’area della valuta unica, inverando e premiando le scommesse ribassiste degli investitori. In questo scenario, le classi dirigenti sarebbero portate a spingere ulteriormente sul pedale dell’austerità e della riduzione delle garanzie contrattuali dei lavoratori salariati, al fine di contenere gli effetti inflazionistici e sostenere la bilancia commerciale (magari in cambio di promesse circa un sistema di copertura universalista da adottarsi a tempesta passata)38.La caduta dei valori di mercato delle attività nazionali legata all’iniziale probabile sovra-deprezzamento della valuta rispetto alle valute delle economie forti aprirebbe poi la strada ad un processo ancor più accentuato di acquisizioni estere di imprese italiane, con un ulteriore pregiudizio per i livelli (e le condizioni) occupazionali. L’introduzione di vincoli stringenti alla circolazione dei capitali deve dunque essere riguardata come la precondizione di ogni forma di intervento attivo dello Stato italiano. Senza l’introduzione di tali vincoli, nessuna strada alternativa alle politiche di «rigore» di bilancio sarebbe sostenibile a lungo. Sennonché, tale posizione si scontra frontalmente con il testo dei Trattati europei che escludono sia la possibilità di finanziamento dei disavanzi del settore pubblico tramite la Banca Centrale Europea, sia l’adozione (a livello nazionale o europeo) di controlli sui movimenti di capitali. Ancora una volta, in assenza di un mutamento radicale negli assetti istituzionali europei, quella di un’uscita – sia pure stavolta «pilotata» e non subita – dalla valuta unica si rivela ben più che una mera ipotesi di scuola39.

Ma uscire per fare che? Dato il ritardo tecnologico accumulato dal nostro paese nei confronti delle altre economie avanzate, un semplice intervento di sostegno alla domanda non sarebbe comunque sufficiente a riportare stabilmente l’economia italiana su un sentiero di crescita sostenuta e duratura. Decenni di stagnazione economica hanno, infatti, reso il settore industriale italiano cronicamente dipendente dai mercati esteri non soltanto per gli approvvigionamenti energetici, ma anche per l’importazione di tecnologia (cfr. Lucarelli et al. 2013). In tale contesto, l’affidamento esclusivo della ripresa economica alle forze del mercato non farebbe che accentuare gli squilibri esteri, favorendo l’acquisizione di ciò che rimane del sistema produttivo e bancario italiano40.

L’allontanamento dei centri decisionali dal paese andrebbe di pari passo con l’allontanamento delle possibilità di cambiamento radicale dei rapporti sociali esistenti. La via di uscita dalla crisi non può, dunque, che passare per una più vasta area di intervento del settore pubblico. Questo dovrebbe intervenire non solo e non tanto come acquirente-finanziatore di ultima istanza del settore privato, ossia con interventi dal lato della domanda, ma anche e soprattutto come produttore e occupatore di prima istanza, vale a dire con interventi dal lato dell’offerta. Lo Stato italiano dovrebbe, cioè, impegnarsi direttamente nella produzione di quei beni di base in cui maggiori sono i «fallimenti del mercato» e che devono, anche in un contesto capitalistico, essere sottratti alla logica dell’accumulazione privata41.Dall’infrastrutturazione (a basso impatto ambientale) del territorio all’edilizia pubblica, dallo sfruttamento di nuove fonti energetiche alla ricerca di base e applicata, fino al controllo diretto di alcune industrie strategiche (inclusi i settori bancario e assicurativo) gli esempi sono innumerevoli.

Si tratta, in altri termini, di riprendere, ripensare ed ampliare, quell’insieme di strumenti di programmazione e di pianificazione economica che consentirono al paese di imboccare la strada del cosiddetto «miracolo economico», lasciandosi alle spalle le macerie del secondo conflitto mondiale. Sono gli stessi strumenti che, in anni più recenti, hanno consentito ad alcune economie emergenti di affrancarsi dalle necessità di ricorso ai prestiti elargiti dal Fondo Monetario e dalla conseguente agenda di riforme. L’obiettivo immediato dovrebbe essere quello della «piena e buona occupazione», ossia dell’azzeramento tendenziale del tasso di disoccupazione involontaria, favorito anche tramite politiche di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Nel medio periodo, ciò dovrebbe poi tradursi in una crescente «socializzazione dell’investimento» che riservi alle istituzioni democratiche il controllo sul volume e soprattutto sulla composizione della produzione annuale. Si noti che l’aumento del prodotto netto (corrente, ma anche potenziale, per via della riduzione dell’isteresi negativa legata alla disoccupazione) dell’economia che deriverebbe dalla messa all’opera dei lavoratori e degli altri fattori inoccupati, fornirebbe ex post (parte de) le risorse necessarie alla propria copertura finanziaria42.Quanto al settore delle imprese, esse potrebbero contare su un flusso di domanda (dipendente e autonoma) elevata e stabile, nonché su un accesso più agevole al credito bancario, il che varrebbe a compensarle (almeno parzialmente) per l’inevitabile riduzione degli spazi di iniziativa privata e della quota reale di reddito nazionale da esse appropriato.

L’idea di un «piano per il lavoro» come perno di un nuovo sistema di welfare e di relazioni sociali é, del resto, una proposta che va oltre le necessità nazionali contingenti. Giova ricordare che la funzione storica «capitalistica» dello stato sociale, nell’ambito delle economie di mercato, é stata anzitutto quella di contribuire a smussare le asperità del ciclo economico. Assieme al sistema di produzione fordista, all’organizzazione di lavoro taylorista, al sistema di «repressione finanziaria» (separazione bancaria più controlli sui movimenti di capitali) e soprattutto al «keynesismo reale» del secondo dopoguerra, esso ha fornito per oltre mezzo secolo il complesso di vincoli istituzionali (e organizzativi) entro cui le autorità di governo (e le imprese manifatturiere) hanno costretto la dinamica capitalistica. In assenza di tali ceilings and floors («soffitti e pavimenti», come venivano definiti da economisti critici come Hyman Minsky e Michał Kalecki) l’andamento delle principali variabili economiche manifesterebbe prima o poi dinamiche esplosive, ovvero potrebbe stabilizzarsi in corrispondenza di equilibri socialmente sub-ottimali. L’instabilità scaturita dalla rimozione parziale di quei vincoli in alcuni dei paesi avanzati negli ultimi due decenni – con l’ormai noto corredo di bolle finanziarie, boom immobiliari e crescita trainata dai consumi (propri o altrui), seguiti da squilibri esteri, crisi borsistiche, fallimenti bancari e deflazioni da debiti – sembra confermare alla lettera tale interpretazione. Ecco perché, se ripensamento delle forme del welfare state deve esserci, questo deve avvenire nell’ambito di un più generale ripensamento delle forme dell’intervento dello Stato in economia e del perimetro della sfera pubblica. Un ripensamento che, giova ricordarlo, non può limitarsi alla mera riproposizione delle ricette keynesiane degli anni sessanta (almeno ove queste ultime vengano intese unicamente come politiche di sostegno alla domanda mediante la spesa pubblica), né può essere affidato soltanto a provvedimenti di ridistribuzione monetaria. Esso deve, invece, investire direttamente il tema dello Stato (ossia della collettività associata) come perno del sistema economico e come garante della piena occupazione, nonché del rispetto dei vincoli di tenuta sociale e di sostenibilità ambientale. Il fine è ambizioso: quello di costruire un’alternativa nel sistema economico dato come prefigurazione possibile di un’alternativa di sistema.

Sennonché, anche a voler ignorare i problemi di antropologia politica che una tale proposta-suggestione presenta, esistono due vincoli con cui essa si dovrebbe misurare concretamente: uno, più generale, di ordine «interno»; ed un secondo fattore, specificamente nazionale, di ordine «esterno». Anzitutto, esiste una incompatibilità «politica» tra il potere esercitato sul mercato dal sistema delle imprese (intese come strumento di appropriazione di quote di prodotto sociale netto da parte della classe economicamente e socialmente egemone) e il pieno impiego della forza-lavoro. Come spiegato da Michał Kalecki (1943), in un articolo in cui vengono lucidamente prefigurate le ragioni reali del naufragio delle politiche keynesiane del dopoguerra, «in un regime di continuo pieno impiego il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. […] si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. È vero – aggiunge subito dopo – che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laissez faire. […] Ma la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale». L’adozione e soprattutto il mantenimento di misure di pieno impiego sono, dunque, legati a doppio filo ad uno spostamento duraturo nei rapporti di forza tra classi sociali a favore dei salariati.

In secondo luogo, come è stato già menzionato, dati gli attuali scenari internazionali, nonché i testi dei Trattati Europei, l’estensione della sfera di intervento pubblico appena tratteggiata comporta una messa in discussione della permanenza italiana all’interno dell’unione valutaria e dello stesso mercato comune. Va da sé che una politica coordinata di intervento pubblico guidata dai paesi forti dell’Area Euro sarebbe, in linea teorica, la soluzione più auspicabile (o di first best, per usare un linguaggio caro all’economia del benessere) per i lavoratori ed anche per la maggior parte delle imprese dell’Area43.Essa garantirebbe, ad un tempo, il riassorbimento graduale degli squilibri nelle bilance dei pagamenti dei paesi-membri ed un rilancio della domanda interna europea, uniti ad un processo di democratizzazione delle decisioni di produzione e di scambio. Una politica volta al pieno impiego avrebbe, inoltre, il vantaggio di disinnescare il conflitto potenziale tra lavoratori nativi e lavoratori provenienti dagli altri paesi-membri (ovvero da altre aeree del pianeta), rafforzando il senso di appartenenza ad un comune «modello europeo». Se una tale consapevolezza condivisa tardasse, però, a farsi strada, la via dell’uscita dalla valuta unica potrebbe divenire obbligata. Come accennato, essa implicherebbe una rimessa in discussione dello stesso mercato comune, benché naturalmente le sue possibilità di successo sarebbero tanto più elevate in quanto fosse accompagnata da un nuovo accordo con gli altri paesi della periferia europea e con la stessa Francia44.L’impatto concreto dello sganciamento valutario sulle condizioni materiali delle classi lavoratrici italiane (ed anche sulla tenuta del sistema delle imprese) dipenderebbe, in modo inverso, dalla loro capacità di imporre nell’agenda politica una rimessa in discussione dei dogmi liberoscambisti.

 

6. Conclusioni

L’obiettivo principale di questo contributo era, anzitutto, quello di muovere una critica radicale all’accettazione passiva, a tratti apologetica, dei processi di finanziarizzazione e di globalizzazione capitalistica dell’ultimo trentennio, nonché della dottrina liberoscambista che ne costituisce la sovrastruttura ideologica. A tal fine, si è mostrato che la liberalizzazione dei movimenti di capitale, realizzata progressivamente a partire dalla fine degli anni settanta, deve essere considerata il fattore-chiave dei cambiamenti intervenuti nella struttura economico-sociale italiana ed europea nell’ultimo trentennio. Si è quindi argomentato che i processi di «riforma» del settore pubblico hanno seguito due direttrici principali: da un lato, la ri-regolamentazione de-politicizzante delle istituzioni preposte al governo dell’economia; e, dall’altro, l’uso esclusivo della politica monetaria quale strumento di intervento pubblico. Al riguardo, si è, inoltre, mostrato come tale mutamento goda del sostengo teorico del paradigma economico dominante, il cosiddetto «Nuovo Consenso». Sul piano del welfare, ciò sembra tradursi in una sostituzione del vecchio stato sociale con forme di copertura universalistiche, intese quali contropartita alla integrale flessibilizzazione del mercato del lavoro. Muovendo da un diverso paradigma teorico, espressione di un punto di vista di classe antitetico a quello dominante, si è cercato, infine, di tratteggiare un’alternativa possibile alla logica della flexecurity, comunque declinata. Tale alternativa non può che passare per un profondo ripensamento del ruolo dello Stato in economia e della dimensione della sfera pubblica, sulla scorta di una sintesi possibile tra la tradizione di pensiero radicale- marxista e quella riformista-Keynesiana. Ancora una volta, ci troviamo di fronte all’alternativa tra socialismo, inteso come pianificazione democratica delle relazioni economiche e liberazione del tempo sociale, oppure barbarie, intesa come ulteriore intensificazione dei processi di sfruttamento capitalistico del lavoro vivo. Oggi, come un secolo fa, ciò richiede di rimettere a tema il rimosso: la presa del potere, il rapporto con lo Stato, e persino la spinosa questione della sovranità nazionale. La Storia potrebbe ricominciare proprio laddove era stata interrotta.


Online at https://mpra.ub.uni-muenchen.de/60350/
MPRA Paper No. 60350, posted 3. December 2014 22:41 UTC

* Lecturer in economics presso la Business School dell’Università di Leeds, Regno Unito. Email:
This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.. Web: www.marcopassarella.it
Una versione preliminare di questo scritto é stata presentata al seminario “Welfare o barbarie”, organizzato dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara, sede di Rovigo, 22 giugno 2013. La versione definitiva é stata pubblicata dalla rivista Ragion Pratica, 2014, Vol. 42, No. 1, con il titolo di “Welfare, mercato e piano: critica del paradigma liberoscambista”. Sono grato ad Hervé Baron, Marco Boffo e Stefano Lucarelli per i suggerimenti e le osservazioni critiche. Voglio, inoltre, ringraziare Marica Grego per i suoi commenti preziosi. Ovviamente, nessuno degli studiosi citati è responsabile per eventuali errori o imprecisioni presenti nello scritto, né per le tesi da me sostenute.

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Note
1Come è stato osservato, sembrava, per contro, che tutte le profezie marxiane si stessero inverando: dall’immiserimento relativo delle classi lavoratrici, al conflitto crescente tra salariati e classi proprietarie; dalla caduta generalizzata del saggio di profitto all’aumento dell’instabilità economica e finanziaria; dalla centralizzazione e concentrazione dei capitali, alle tensioni crescenti tra Stati-Nazione per l’estensione delle rispettive aree di influenza politica ed economica (cfr. Screpanti e Zamagni 2000).
2Come dovrebbe essere chiaro, l’articolo muove da una visione pre-analitica o, meglio, da un punto di vista di classe, ben definito: quello del lavoro salariato. Viene con ciò rigettata la pretesa, avanzata e condivisa dalla maggior parte della comunità accademica degli economisti, di considerare l’economics una scienza astorica, priva di una dimensione valoriale e di connotazioni socio-politiche (o wertfrei, per usare un’espressione cara alla tradizione di pensiero «austriaca»). L’economia dominante viene qui, anzi, riguardata come la forma privilegiata di auto-rappresentazione della classe sociale egemone, i cui interessi particolari (i.e. l’estensione-intensificazione massima dei rapporti capitalistici di produzione e di scambio) vengono assunti e rappresentati come interesse generale. Specularmente, il pensiero economico «critico» (nelle sue numerose declinazioni: marxiano, sraffiano, post-keynesiano e kaleckiano, per citare solo le correnti più note) viene recuperato e reinterpretato come tentativo di disvelamento della natura apologetica delle categorie dell’economico (ossia come «critica dell’economia politica») e, al contempo, come analisi critica del reale. Si tratta di un approccio che rovescia le premesse teoriche da cui muove il pensiero dominante, a partire dalla visione di un mondo privo di conflitto sociale, popolato da individui identici e sovrani, assimilati a consumatori perfettamente razionali ed infinitamente preveggenti. Un mondo in cui la moneta è appena un «velo» posto sulle grandezze reali e l’attività di produzione e di scambio è vincolata soltanto dalla tecnologia e dal fondo di risorse disponibili. Si noti, al riguardo, che è possibile ricondurre, almeno in prima approssimazione, l’insieme dei filoni critici al cosiddetto «paradigma della riproduzione», contrapposto al «paradigma della scarsità» che sottende il pensiero economico dominante e le politiche liberoscambiste (su questo punto, si rinvia a Brancaccio 2012, nonché a Brancaccio e Passarella 2012).
3L’utilizzo delle etichette «liberista» o «neoliberista» per denominare l’intero arco di posizioni che hanno dominato la politica economica dell’ultimo ventennio nei paesi avanzati è, a rigor di termini, improprio. Anzitutto, nessun governo ha mai applicato ricette liberiste tout court. La sinistra si è, infatti, caratterizzata per una posizione che è stata efficacemente ribattezzata «social-liberismo» (cfr. Bellofiore e Halevi, 2010). In estrema sintesi: liberalizzazioni dei mercati dei beni e dei servizi accoppiate a regolamentazioni, al fine di smussare le imperfezioni della concorrenza, più riduzione dei disavanzi pubblici, al fine di «liberare» risorse da destinare a crescita e redistribuzione dei redditi. D’altro canto, i governi conservatori si sono caratterizzati per una posizione ancor meno «liberista». In effetti, la deregolamentazione del mercato del lavoro e i tagli al welfare sono spesso stati associati con la tutela dei monopoli e un uso pragmatico, talvolta spregiudicato, delle finanze pubbliche (soprattutto attraverso la riduzione della pressione fiscale sui redditi più elevati e sui grandi patrimoni). È questa seconda posizione che dovrebbe essere definita propriamente «neo-liberista». Tuttavia, per ragioni di comodità espositiva, nel resto dell’articolo mi atterrò alla pratica, prevalente in letteratura, di denotare con l’espressione di «politiche neoliberiste» entrambe le opzioni.
4L’economia italiana rallenta già a partire dalla metà degli anni sessanta, con un’ulteriore flessione a seguito delle turbolenze valutario-finanziarie legate alla fine di Bretton Woods, delle due crisi petrolifere degli anni settanta, e soprattutto degli «impegni» presi in vista dell’entrata nello SME prima e dell’adozione della valuta unica poi (cfr. Graziani 1975, 1989).
5 Il recente cambio di rotta impresso da Mario Draghi e dal board della BCE (cfr. S24O 2013; si veda anche Passarella Veronese 2014a) se, da un lato, ha temporaneamente stabilizzato i mercati dei titoli di Stato dei paesi periferici, dall’altro, non prefigura ancora per l’istituto di Francoforte quel ruolo di «prestatore di ultima istanza» del settore pubblico che varrebbe a rompere il ricatto dei mercati finanziari. Piuttosto, proprio l’uso condizionale delle operazioni di acquisto dei titoli di Stato dei paesi «periferici» è valso a rimarcare il ruolo politico della BCE quale arbitro del conflitto tra capitali europei a differente base nazionale. Su questo punto, si rinvia a Brancaccio e Fontana (2013).
6Si pensi a Spagna e all’Irlanda che, alle soglie della crisi del 2007, potevano vantare debiti pubblici risibili (pari al 38% e al 25% del PIL, rispettivamente). Anche l’Italia, che pure aveva accumulato un debito pubblico assai elevato, ne aveva visto ridurre il peso proprio negli anni precedenti la crisi (dal 121.8% del 1994 al 103.6% del 2007). Si noti che sempre l’Italia è, tra i paesi dell’Area Euro, quello in cui il debito è cresciuto meno dallo scoppio della crisi: +27% dal 2007 al 2012, contro il +34% registrato dalla virtuosa Germania nello stesso periodo (fonti: Eurostat 2013; FMI 2013). Per contro, il disavanzo delle partite correnti di Irlanda, Portogallo, Spagna e Grecia (e, in misura diversa, Italia) verso i paesi del centro è cresciuto costantemente fino allo scoppio della crisi.
7Per una ricostruzione puntuale delle ragioni della crisi delle economie «periferiche» dell’Area Euro, a partire dalle specificità italiane, si rinvia a Brancaccio e Passarella 2012.
8Si noti che tali vincoli (introdotti soprattutto in seguito agli accodi di Bretton Woods) avevano garantito la stabilità finanziaria del dopoguerra.
9Si vedano, al riguardo, Burgio e Cavallaro (2002).
10Si rinvia, tra gli altri, a Galbraith (2012), Rodrik (2011), Krugman (2008) e CE (2007).
11Si noti che, in base alla teoria economica dominante, le politiche liberoscambiste consentirebbero una più efficiente allocazione delle risorse. In particolare, esse permetterebbero ai capitali di affluire dalle regioni economicamente più avanzate (in cui i risparmi sono più abbondanti) verso le regioni meno avanzate (in cui i capitali sono più scarsi e dunque il loro rendimento è più elevato), producendo, attraverso la crescita degli investimenti produttivi, una tendenziale convergenza dei livelli di competitività delle seconde a quelli delle prime. È su questa base Blanchard e Giavazzi (2002), tra gli altri, hanno argomentato che gli squilibri esteri interni all’Area Euro andavano interpretati come un segno di integrazione crescente delle economie dell’area. La crisi cosiddetta «dei debiti sovrani», in cui i flussi di capitale dal centro alla periferia hanno agito da elemento di amplificazione delle divergenze reali tra paesi-membri, è soltanto l’ultima delle clamorose smentite ricevute da tale teoria. Sui problemi connessi ai processi di integrazione finanziaria, si rinvia a Passarella Veronese 2014b,c.
12Il termine Washington Consensus viene solitamente associato alla deregolamentazione dei mercati finanziari (ossia alla riduzione dei controlli sulle attività bancarie e sui movimenti internazionali di capitali) e alle politiche di apertura dei mercati di beni e servizi prescritte da Williamson (1990). Benché tale interpretazione sia contestata dal suo autore, il «decalogo» di Williamson ha costituito la base teorica delle ricette liberoscambiste richieste dal Fondo Monetario Internazionale e dal governo statunitense ai governi delle economie in via di sviluppo nel corso degli anni novanta.
13Non dovrebbe, a questo punto, sfuggire il rapporto di gemellanza siamese intercorrente tra apertura dei mercati (intesa soprattutto come rimozione dei controlli sui movimenti dei capitali) e finanziarizzazione dell’economia, essendo quest’ultima legata a doppio filo all’accelerazione nel processo di concentrazione di capitale resa possibile dalla prima. In merito all’interpretazione del paradigma dominante in termini di ri-regolamentazione de-politicizzante, si rinvia a Major (2012).
14Un «keynesismo privatizzato», come è stato icasticamente definito da Bellofiore (2012a), in cui la crescita economica era trainata dalla domanda privata per consumi a debito. Questi ultimi, a loro volta, erano drogati dal boom dei mercati delle attività finanziarie e immobiliari, il cui valore di mercato veniva sapientemente pilotato dalla banca centrale attraverso la fissazione del tasso di interesse di riferimento e tramite strumenti monetari non-convenzionali.
15I suoi promotori vengono talvolta definiti come Nuovo-Keynesiani (per via del ruolo assegnato alla rigidità di prezzi e salari, anche se tale rigidità è un tratto distintivo più degli interpreti neoclassici di Keynes che di Keynes stesso), talaltra come Neo-Wickselliani (per il ruolo assegnato allo scostamento del tasso di interesse effettivo dal suo livello «naturale» quale causa del ciclo economico).
16Il lungo periodo, detto talvolta anche «medio periodo», è quella dimensione logico-temporale in cui le aspettative inflazionistiche di tutti gli agenti economici sono pienamente realizzate. Si, tratta a ben vedere, appena di un caso di scuola o, meglio, di un’ipotesi teorica, che non trova mai riscontro nel «mondo reale». Sulle implicazioni di tale ipotesi nell’ambito del modello economico dominante, nonché per una critica di tale modello, si rinvia a Fontana e Passarella Veronese (2014).
17Intuitivamente, la ragione è che maggiore è il costo reale del denaro, minore saranno gli investimenti, i consumi a credito e le esportazioni nette (per via dell’apprezzamento della valuta determinato dal maggior tasso di interesse). In realtà, da un punto di vista formale, tale relazione viene derivata tramite un processo di massimizzazione vincolata della funzione di utilità che sottende le scelte intertemporali di consumo/risparmio di un agente-consumatore rappresentativo.
18Si tratta di una particolare declinazione della cosiddetta curva di Phillips, una regolarità empirica che metteva originariamente in relazione il tasso di variazione dei salari monetari (o dei prezzi) con il tasso di disoccupazione. Nella versione del NCM, le due variabili considerate sono la variazione del tasso di inflazione e l’output gap, ossia lo scostamento della produzione corrente dal suo livello naturale. Intuitivamente, quanto maggiore è tale scostamento, tanto maggiori saranno (in via temporanea) l’occupazione e il potere contrattuale dei lavoratori e dunque (in via permanente) la crescita dei salari nominali e dei prezzi.
19Naturalmente, nel caso contrario si assisterebbe ad una spirale deflazionistica.
20O, meglio, dal suo scostamento rispetto all’obiettivo inflazionistico della banca centrale. Si noti, al riguardo, che nell’ambito dell’Area Euro il tasso di inflazione obiettivo è il 2%. Più precisamente, la Banca Centrale Europea si impegna a garantire un tasso di inflazione – definito come l’incremento annuale nell’indice dei prezzi al consumo, HICP – «inferiore ma vicino al 2%» (cfr. ECB 2011).
21È questa la cosiddetta regola di Taylor, ossia la regola che le banche centrali devono seguire per la fissazione del tasso di interesse di riferimento sul mercato monetario unsecured (ossia senza garanzie collaterali). Si noti che la (i) e la (iii), prese congiuntamente, forniscono una relazione negativa tra quantità prodotta e variazione dei prezzi che può essere interpretata come la curva di domanda aggregata del sistema. L’equazione (ii) può, invece, essere interpretata come la curva di offerta aggregata dell’economia. Per un’introduzione al modello del Nuovo Consenso, si rinvia a Fontana e Passarella Veronese (2014). Per una rilettura critica della regola del banchiere centrale si rinvia, invece, a Brancaccio e Fontana (2013).
22Di equazione nascosta ha parlato esplicitamente Lavoie (2006).
23Pochi dati valgono a chiarire questo punto. Il peso delle esportazioni tedesche é superiore al 50% del PIL del paese. Dal 2007 la Germania registra un avanzo delle partite correnti gigantesco, nell’ordine del 6% del PIL. Nel 2012, il surplus nominale delle partite correnti tedesche ha superato quello della Cina. Col che dovrebbe risultare chiaro che quello tedesco è un modello intrinsecamente «non-cooperativo». Esso non può prestarsi, per sua stessa natura, a fungere da traino di una più ampia area commerciale e valutaria, essendo specificamente progettato per drenare risorse monetarie dalle altre economie. Per un approfondimento di questo aspetto, si rinvia al bel saggio divulgativo di De Cecco e Maronta (2013).
24Si noti, al riguardo, che ciò che conta (in termini di competitività relativa) sono non già i livelli assoluti di produttività del lavoro e dei salari nominali, ma la loro variazione nel tempo.
25Per contro, merita appena di essere richiamato il clamoroso falso storico dell’iper-inflazione tedesca degli anni Venti quale elemento precursore del nazismo. L’inflazione tornò, infatti, sotto controllo già nel 1924, mentre l’ascesa di Hitler fu favorita dalla disoccupazione generata dai pesanti provvedimenti deflazionistici adottati dal governo tedesco nei primi anni Trenta.
26Si noti che, a dispetto delle sue riconosciute falle previsionali, quel modello costituisce la base per le previsioni di lungo periodo effettuate dai ricercatori della Banca Centrale Europea. Le previsioni di breve termine sono, invece, affidate a più tradizionali modelli econometrici.
27Non é questa la sede per una disamina approdondita circa i diversi significati attribuiti a ciascuna definizione dai rispetti promotori. Sinteticamente, la principale differenza tra il reddito di base incondizionato (o di cittadinanza o basic income) e il reddito minimo garantito é che il primo, a differenza del secondo, é universale e illimitato nel tempo. Per contro, il reddito minimo garantito si configura come una forma di sostegno per chi é temporaneamente disoccupato, é vincolato all’accettazione da parte del beneficiario di eventuali proposte di lavoro, e puó essere erogato anche a chi percepisca un reddito da lavoro inferiore ad una soglia minima.
28Cfr. Friedman 1962. Tale proposta è stata successivamente rielaborata da Lampman 1969, e da Tobin et al. 1967.
29 Così come il salario remunera il fattore «forza-lavoro» e l’interesse (o profitto) remunera il fattore «capitale», il reddito di base remunererebbe il fattore «cooperazione sociale» (incluso il «lavoro cognitivo»). Un corollario nascosto è che viene con ciò implicitamente accantonata l’idea classico- marxiana che il lavoro sia l’unica fonte del (valore del) prodotto sociale netto, e dunque del sovrappiù, giacché diversamente la richiesta di un salario sociale tornerebbe ad assumere unicamente la valenza di intervento redistributivo, cosa che viene esplicitamente negata dai suoi promotori. Si noti, in secondo luogo, che l’idea di fissare l’entità del reddito di base come quota di qualche altra variabile distributiva oggettivamente misurabile (si vedano, ad esempio, Fumagalli e Vercellone 2013, che parlano di 60% del reddito minimo), di nuovo sembrerebbe ricondurre le ragioni della sua rivendicazione nell’alveo dei provvedimenti di welfare tradizionalmente intesi. Analoghe considerazioni valgono nel caso in cui tale misura sia ricardianamente invocata in risposta alla «disoccupazione tecnologica» generata dalla modificazione della struttura produttiva delle economie avanzate (cfr. Gattei 2013).
30Un tentativo di quantificazione è stato fatto, tra gli altri, da uno dei maggiori promotori del reddito di base, Fumagalli (2012). In particolare, il costo complessivo per lo Stato italiano andrebbe dai 20 miliardi di euro necessari per garantire un reddito annuale di 7.200 euro (pari ai 600 euro mensili che definiscono la cosiddetta «soglia di povertà») ai circa 45 miliardi per un reddito annuale di 10.000 euro (in forma di sussidi e integrazione al reddito per circa il 21% della popolazione). Il costo al netto dei sussidi di disoccupazione e della cassa integrazione si aggirerebbe, invece, attorno a 5 miliardi e 26 miliardi di euro, rispettivamente. Si tratta di cifre ragguardevoli, ma teoricamente sostenibili mediante un programma di spesa in deficit. Sennonché, nell’ambito dei vincoli sul disavanzo pubblico imposti dai Trattati europei, il finanziamento di tale misura finirebbe per pesare sulla fiscalità generale fino a tre punti percentuali di PIL in termini lordi (o, comunque, oltre un punto e mezzo al netto delle voci di spesa eventualmente ridefinite in termini di reddito di base). Dato l’elevato livello di pressione fiscale italiana sui redditi da lavoro e d’impresa, non appare una strada facilmente percorribile.
31Dal nome del distretto inglese in cui, il 6 maggio 1795, venne adottato un sistema di sussidi a favore dei lavoratori poveri delle campagne. Tali sussidi comportavano l’integrazione del salario fino al raggiungimento di un livello prefissato, dipendente dal nucleo familiare e dal prezzo del pane.
32Una critica non dissimile al reddito di base è stata avanzata da Lunghini (1995), nonché, più di recente, da Bellanca e Baron (2013). La riduzione del lavoro a «disutilità» è, del resto, uno dei pilastri del pensiero economico dominante. Per una critica di tale prospettiva, si veda, tra gli altri, Spencer (2013).
33In estrema sintesi, a partire dal 1981 la Banca d’Italia si svincolava dall’obbligo, vigente dal 1975, di acquistare (mediante emissione di base monetaria) i titoli di Stato non collocati dal Tesoro italiano presso il settore privato. Il tasso di interesse pagato dallo Stato italiano sui titoli cessava, dunque, di essere politicamente fissato per essere determinato dalle dinamiche di mercato.
34Dall’inizio della crisi ad oggi l’Italia ha perso quasi nove punti di PIL (calcolato a prezzi costanti), a fronte di una crescita di oltre quattro punti percentuali della Germania. Non è andata molto meglio alle altre due maggiori economie dell’Area Euro. Se la Francia ha fatto registrare una crescita media nulla a partire dal 2007, la Spagna ha perso sei punti di PIL. Nello stesso periodo, la Grecia ha registrato una caduta di quasi ventitré punti (fonte: Eurostat 2013). L’entità degli effetti depressivi delle politiche di austerità è, del resto, confermata dalle nuove stime sui cosiddetti «moltiplicatori» del reddito fornite dal Fondo Monetario Internazionale (cfr. FMI 2012). Proprio la sottovalutazione di tali effetti ha condotto, di recente, alla clamorosa autocritica del capo economista del Fondo, Olivier Blanchard (contenuta in Blanchard e Leigh 2013).
35Il rapporto debito/PIL italiano si è, infatti, ridotto pressoché costantemente dal 1995 al 2008. Su questo punto, si rinvia nuovamente alla nota 6.
36Dalle dure prese di posizione dei premi Nobel per l’economia Paul Krugman e Joseph Stiglitz, agli allarmi lanciati da firme prestigiose del giornalismo economico internazionale, come Wolfgang Muchau e Martin Wolf, fino al «monito degli economisti» pubblicato sul Financial Times il 23 settembre 2013, gli appelli (inascoltati) per la cessazione delle politiche di austerità in Europa non sono mancati.
37La tesi dell’austerità espansiva è stata originariamente proposta da Giavazzi e Pagano (1990). Si noti, peraltro, che, in ambienti governativi, il vero fine delle misure di austerità non è mai stato quello di rilanciare la crescita, ma, al contrario, quello di abbattere i redditi e dunque le importazioni di merci, sostenendo al contempo le esportazioni (grazie al contenimento della domanda di lavoro delle imprese e dunque delle rivendicazioni salariali) e quindi il saldo delle partite correnti.
38La discussione circa l’entità dei possibili effetti inflazionistici di uno sganciamento valutario dall’Euro rimanda inevitabilmente al 1992, quando l’Italia fu costretta ad abbandonare il Sistema Monetario Europeo. Al riguardo, occorre sfatare due miti speculari e simmetrici, ma egualmente perniciosi. Da un lato, negli anni successivi all’uscita non si registrò alcuna fiammata inflazionistica. Al contrario, il tasso di inflazione si ridusse nel 1993. Dall’altro, i casi recenti di sganciamento valutario, incluso quello italiano, sono sempre stati accompagnati da una riduzione del salario reale e soprattutto della quota salari sul PIL. Ciò significa che «l’effetto di un’eventuale deflagrazione della moneta unica europea sui rapporti tra le classi sociali non è univocamente determinabile. […] l’uscita da un regime di cambio fisso può avere un impatto negativo o meno sul potere d’acquisto dei lavoratori e sulla distribuzione del reddito nazionale a seconda che esistano meccanismi istituzionali […] in grado di agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività» (Brancaccio 2013). D’altra parte, la possibilità di evitare fire sales (ossia un’ondata di acquisizioni estere a buon mercato) sulle attività del paese, favorite dalla fase iniziale di instabilità valutaria, si lega necessariamente ad una messa in discussione, almeno parziale, delle regole del mercato unico europeo.
39Naturalmente, un piano d’uscita dalla valuta unica dovrebbe includere, tra le altre misure, un sistema di controllo sui prezzi di beni e servizi essenziali, meccanismi di indicizzazione dei redditi da lavoro, un piano di salvataggio/nazionalizzazione del settore bancario e assicurativo, e un piano energetico per ridurre la dipendenza delle produzioni nazionali dagli idrocarburi. D’altra parte, in assenza di una fonte di domanda esterna, i benefici prodotti dall’uscita dall’Euro sarebbero legati più al recupero, almeno parziale, della sovranità monetaria e fiscale, che all’effetto dell’eventuale svalutazione della nuova moneta nazionale (rispetto alle valute forti) sulle esportazioni nette.
40Si noti che le insolvenze delle imprese italiane sono cresciute del 47% dall’inizio della crisi del 2007, a fronte di una riduzione del 13% delle imprese tedesche (fonte: Credit Reform 2013).
41A chi obiettasse che l’intervento dello Stato si lega inesorabilmente a fenomeni di malagestione e di clientelismo, occorre far notare che: i. tali fenomeni sono certamente possibili in presenza di politiche di sostegno alla domanda, ma risultano fortemente ridimensionati proprio nel caso di politiche di produzione diretta di beni e servizi (si pensi, a titolo di esempio, all’annosa questione dell’assegnazione degli appalti); ii. proprio guardando al caso italiano, emerge una correlazione positiva (e non negativa) tra tali fenomeni e le politiche di austerità. D’altra parte, come ben evidenziato da Mazzucato (2011), l’esperienza storica dimostra che le economie di successo sono quelle in cui lo Stato gioca un ruolo attivo nell’investimemento e nello sviluppo di nuove tecnologie, laddove cioè assume la veste di «imprenditore collettivo».
42È questo uno degli aspetti che rende un piano per il pieno impiego uno strumento più razionale e socialmente avanzato di un sussidio universale. Il primo agisce direttamente su volume e composizione del prodotto sociale netto e dunque anche sulla quota-salari reale, nonché sul livello (e la composizione) del gettito fiscale. Il secondo si limita, invece, a ridistribuire parte della quota-salari (data) dai lavoratori stabili ai precari-disoccupati-sussidiati, con un effetto solo indiretto (tramite il moltiplicatore del reddito) sul prodotto sociale netto e solo sul suo volume.
43 In linea teorica, essa potrebbe, inoltre, essere affiancata dall’adozione di una valuta comune, in sostituzione dell’attuale valuta unica. Si tratta, in sintesi, di una valuta utilizzata esclusivamente nei regolamenti tra banche centrali dei paesi-membri nell’ambito di un sistema di cambi fissi, ma aggiustabili. Il peso del riequilibrio dei conti esteri potrebbe, in tal caso, essere fatto gravare sia sui paesi che accumulano deficit nelle partite correnti che su quelli che accumulano surplus, sulla scia del cosiddetto Bancor proposto da Keynes alla conferenza di Bretton Woods nel 1944. Si noti che a tale posizione si è ispirato di recente il governatore della banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan (2009), per formulare la propria proposta di riforma del sistema monetario internazionale.
44Il caso francese è di difficile decifrazione. Da un lato, la Francia presenta squilibri delle partite correnti, e più in generale problemi economico-strutturali, molto simili a quelli italiani e delle altre economie periferiche. Dall’altro, la Francia aspira tutt’ora a ricoprire un ruolo egemonico in Europa. Ciò si traduce in una politica aggressiva di acquisizioni estere, che assimila la posizione della Francia a quella degli altri paesi «core» dell’Area Euro.

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