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liberazione

Quando diventa "quasi" chiaro che è meglio stabilizzare il debito

di Riccardo Realfonzo

Considerazioni su un articolo di Luca Ricolfi su "La Stampa"

debito pubblicoTalvolta, nei momenti di massima fibrillazione politica, è necessario sollevare lo sguardo e osservare i fatti al di là delle volubili tattiche della giornata. In particolare, sembra utile chiedersi perché il governo in carica sia percepito così distante dalle masse che pure nell'aprile 2006 avevano convintamene sostenuto il suo programma. Molte risposte possono darsi a questo interrogativo. La più convincente, a mio avviso, è che il governo abbia molto deluso le aspettative, soprattutto sul terreno della politica economica e sociale. D'altronde bisogna ammettere che fino ad oggi nell'esecutivo ha prevalso l'impostazione rigorista e filo-confindustriale, che ha posto al centro dell'azione il cosiddetto "risanamento" delle finanze pubbliche, prosciugando le risorse necessarie a imprimere anche solo l'ombra di una svolta in direzione di equità e sviluppo. La linea favorevole alla stabilizzazione del debito - proposta con il ben noto appello promosso dagli economisti della Rive Gauche - non è riuscita a incidere sulla politica del governo. E questi sono gli esiti. Forse non vi erano le condizioni politiche e sociali perché la linea antirigorista e interventista potesse spuntarla, e forse non è stato fatto il lavoro politico che era necessario.

Eppure le nostre analisi si sono confermate robuste, e da esse occorre ripartire per definire le linee programmatiche di una sinistra unita. D'altra parte gli osservatori meno distratti si saranno accorti che, a dispetto di tutte le difficoltà in cui la sinistra si dibatte, qualche soddisfazione è capitato di togliercela. Capita ad esempio di registrare che anche gli studiosi e i commentatori più ortodossi e lontani da noi finiscano col riconoscere che avevamo visto giusto. È accaduto nelle settimane scorse, con autorevoli ammissioni circa l'assenza di una correlazione tra precarietà e occupazione. E capita anche ora, in maniera forse ancora più eclatante, sul delicatissimo tema delle finanze pubbliche. Accade infatti che dalla prima pagina de La Stampa il noto sociologo ed editorialista Luca Ricolfi finisca per riconoscere le ragioni degli "economisti vicini alla cosiddetta cosa rossa" in merito alla opportunità di stabilizzare, e non abbattere, il debito pubblico. Ma andiamo con ordine.

Nel suo editoriale del 22 ottobre scorso Ricolfi prende in esame la nostra tesi, secondo cui il rapporto tra debito e Pil andrebbe stabilizzato nell'orizzonte temporale di una legislatura. Il ragionamento degli economisti di sinistra, spiega Ricolfi, va preso molto «sul serio» anche perché esso contiene «molto realismo politico». Soprattutto, e questo è il punto maggiormente significativo, Ricolfi riconosce che questa posizione appare ben più solida rispetto alla «fragilità delle due ricette che gli vengono solitamente contrapposte» e che puntano all'abbattimento del debito e quindi al famoso «risanamento» dei conti.

La prima ricetta «fragile» esaminata da Ricolfi è quella "Veltroni-Tremonti", la quale punta ad abbattere il debito mediante operazioni di vendita del patrimonio pubblico. Al riguardo, Ricolfi sottolinea che questa strategia contiene due limiti evidenti: da un lato, la scarsità di dismissioni che possono essere considerate concretamente operabili; dall'altro, la difficoltà di elaborare operazioni effettivamente convenienti, tali cioè da «generare un risparmio in termini di interessi sul debito superiore ai redditi a cui si rinuncia». Insomma, la manovra che si sta facendo strada sia nel Pd sia in Forza Italia non è solo criticabile sul piano dell'impoverimento della ricchezza collettiva ma rivela anche il respiro corto sul piano attuativo, dal momento che essa potrebbe solo lievemente abbassare il rapporto tra debito e Pil. Insomma non si tratta, chiarisce Ricolfi, di una strategia in alcun modo risolutiva.

La seconda ricetta «fragile» è quella "tecnocratica", per intenderci alla Padoa-Schioppa, che punta su «tagli alla spesa corrente maggiori delle (eventuali) riduzioni delle tasse». Si tratta della linea descritta nel Dpef, e da noi tante volte criticata, finalizzata a mettere in fila una lunga serie di avanzi primari da brivido che dovrebbe portarci, alla scadenza "naturale" della legislatura, al pareggio del bilancio e ad abbattere il debito di dieci punti rispetto al Pil. Una politica, come abbiamo avuto modo di chiarire a più riprese, che perseguita ai ritmi attuali impiegherebbe non meno di venti anni per portarci a raggiungere la fatidica soglia del 60%. E che determinerebbe un vantaggio netto in termini di minori avanzi primari scontati rispetto alla situazione attuale verso la metà del secolo. Insomma, una strategia pluridecennale di lacrime e sangue che produrrebbe teoricamente effetti positivi solo per i nostri nipoti. Ma che di fatto produrrebbe solo danno, anche ai nostri nipoti, dal momento che priverebbe ulteriormente il Paese di beni pubblici, farebbe ancora arretrare lo stato sociale e avrebbe effetti nefasti sulla stessa competitività del Paese. Un punto, questo, che Ricolfi ammette senza mezzi termini. Questa strada, infatti, è a suo avviso impervia, dal momento che la spesa corrente italiana è inferiore alla media Europea e, data la scarsità generalizzata di beni pubblici, «è dura sostenere che debba essere tagliata».

Ricolfi mostra quindi di comprendere che la linea favorevole alla stabilizzazione del debito è politicamente avveduta e tecnicamente più praticabile rispetto alle strategie del "risanamento". Va da sé che La Stampa non si è trasformata a un tratto in un quotidiano antiliberista e di sinistra. E infatti Ricolfi, pur consapevole delle nostre buone ragioni, cerca comunque il modo di smarcarsi. E a dispetto di tutto quanto da lui stesso osservato, la strada indicata dagli economisti di sinistra sarebbe comunque da respingere, perché a suo avviso «irresponsabile, pericolosa, basata su un presupposto dubbio». E qui, sia detto per chiarezza, il buon Ricolfi si avventura in ragionamenti arditi, che lo portano inesorabilmente ad affermazioni prive di qualsiasi supporto scientifico.

La strada della stabilizzazione del debito sarebbe infatti «irresponsabile» perché trasferirebbe il debito alle generazioni future. Ma qui forse Ricolfi dovrebbe essere conseguente e chiedersi cosa trasferiremmo alle generazioni future in termini di dotazione di beni pubblici e capacità produttive se seguissimo le ricetta «Veltroni-Tremonti» o quella «tecnocratica».

Se vi è una politica delle finanze pubbliche irresponsabile è certamente quest'ultima. Ma la nostra proposta sarebbe anche «pericolosa», e questo perché non terrebbe conto degli effetti di possibili incrementi dei tassi di interesse. A riguardo, Ricolfi dovrebbe comprendere che le oscillazioni dei tassi impattano solo modestamente sul costo del debito, in considerazione della struttura stessa del debito (per tipologie di tasso e scadenze). D'altra parte, sappiamo ormai bene che nel contesto dell'UE anche eventuali downgrading dei nostri titoli del debito da parte delle famigerate agenzie di rating sono del tutto privi di effetti in termini di costo del debito. Ricordo a Ricolfi che in occasione dell'ultimo declassamento si è generato uno spread dei tassi di soli 3 punti base rientrato dopo appena una settimana. Né può convincere l'idea di Ricolfi secondo cui la stabilizzazione del debito si fondi sul «presupposto dubbio», secondo il quale l'Ue sarebbe disposta a tollerare i nostri livelli attuali del debito. E qui davvero non si comprende perché Ricolfi finga di non sapere che il Trattato di Maastricht preveda sanzioni esclusivamente in relazione al deficit, e mai per il debito. E perché mostri di dimenticare che anche le sanzioni previste per il deficit non sono state mai comminate ai Paesi che hanno infranto la soglia del 3% (tutt'altro discorso sarebbe se Ricolfi, invece di soffermarsi sul debito pubblico, partisse dal deficit nei conti esteri; ma a questa delicata questione, ampiamente discussa nel corso del convegno del 9 ottobre degli economisti della Rive Gauche, il sociologo non fa il minimo accenno).

Insomma, la strategia del "risanamento" comincia a mostrare le sue crepe anche in quelli che fino a ieri erano luoghi di "culto". Ed oltre a quello di Ricolfi si potrebbero anche aggiungere altri esempi, come la prima pagina dell'ultraliberista Libero mercato - l'inserto economico di Libero - nel quale recentemente pure è capitato di leggere, a firma dell'economista Michele Boldrin, che la «religione di Maastricht secondo cui qualsiasi rapporto debito/Pil superiore al 60% è un male risulta infondata», e che pertanto «non è una buona idea che si cerchi di ridurre lo stock del debito pubblico esistente in Italia». Eppure questo governo resta incamminato lungo la "via tecnocratica" all'obiettivo del "risanamento". In questo momento la fibrillazione è alta e bisogna fare attenzione ai passi falsi. Ma bisogna sempre tenere presente che è solo dalla critica a quella "via" e a quell'obiettivo che può prendere le mosse una credibile proposta di politica economica alternativa, che partendo dalla stabilizzazione del debito conduca ad una lotta alla precarietà e ad una nuova stagione di politiche industriali.

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