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manifesto

Salari: la straordinaria capacità tutta italiana di non pagare

Fernando Vianello

auto10In un articolo comparso su il Sole-24Ore del 30 ottobre 2007 Innocenzo Cipolletta propone un semplice ragionamento, illustrato da un esempio numerico che proverò a riformulare per renderlo meno indigesto al lettore. Un'economia produce due sole merci, diciamo due tipi di automobili: un'utilitaria, venduta a 100, e una Ferrari, venduta a 2000. Si producono 10.000 utilitarie e 50 Ferrari. Se ora, restando costante l'occupazione complessiva, un certo numero di lavoratori viene spostato dalla produzione delle utilitarie (il cui numero, supponiamo, si dimezza) alla produzione delle Ferrari (il cui numero, supponiamo, raddoppia), è evidente che il numero complessivo di automobili diminuisce; e che diminuisce, a parità di tecniche impiegate, la produttività del lavoro, se quest'ultima è definita come il rapporto fra il numero delle automobili prodotte e il numero dei lavoratori. Altrettanto evidente è, tuttavia, che la produzione in valore e la produttività in valore risultano aumentate.

Il ragionamento di Cipolletta presenta un evidente punto di contatto con l'impostazione del problema che emerge da una serie di studi sulle esportazioni italiane promossi dalla Fondazione Manlio Masi e riuniti sotto il significativo titolo Eppur si muove (a cura di A. Lanza e B. Quintieri, Rubbettino editore, 2007).

La perdita di quote di mercato delle esportazioni italiane, così spesso indicata come la prova irrefutabile del «declino» industriale del paese, è molto forte quando le esportazioni siano calcolate in volume (il numero di automobili dell'esempio), ma risulta allineata agli standard europei quanto le esportazioni siano calcolate in valore, tenendo così conto dell'innalzamento dei valori unitari conseguente ai miglioramenti qualitativi dei beni esportati e al riposizionamento degli esportatori su segmenti più "alti" del mercato.

«Il nostro sistema», ha affermato il governatore della Banca d'Italia nella recente lezione tenuta alla Società italiana degli economisti, «ha sofferto una crisi di competitività internazionale». E' una storia ben nota, ripetuta ad nauseam dai teorici del "«declino» industriale. Ma le cose stanno davvero così?

Un banchiere che ho citato altre volte, e che gode di un invidiabile punto di osservazione, Pietro Modiano, ha affermato: «Dal 2001 si è imposta la retorica del declino, basata sul pregiudizio che il nostro paese avesse una struttura di specializzazione arretrata e una dimensione di impresa troppo esigua. La prova provata era che il Pil non cresceva. Peccato che questo indicatore non possa misurare gli effetti più profondi dell'internazionalizzazione del Quarto Capitalismo» (Il Corriere della sera, 16 novembre 2006).

Manca qui lo spazio per esaminare in dettaglio i due aspetti della tesi del «declino» indicati da Modiano. Ma per vedere quanto utili siano le grandi classificazioni sulla cui base si giudica del carattere arretrato o avanzato del modello di specializzazione di un paese, è sufficiente osservare che le utilitarie e le Ferrari dell'esempio cadono nella medesima categoria di beni «a tecnologia matura»: se dunque si passa dalle prime alle seconde, il modello di specializzazione non se ne accorge. (Invece i componenti di un iPod prodotti da un'oscura impresa sudcoreana, che si appropria di una quota risibile del valore aggiunto complessivo, finiscono dritti nella categoria hi-tech).Per quanto riguarda il secondo aspetto, quello relativo al «nanismo» delle imprese italiane, va purtroppo registrato il completo abbandono di una prospettiva di ricerca incentrata non sull'impresa isolata, ma sui sistemi di imprese. E cioè sulle complesse relazioni di collaborazione che legano fra loro imprese appartenenti alla stessa filiera, relazioni attraverso le quali il problema del coordinamento dell'attività produttiva viene risolto in modi non meno efficienti di quelli propri delle grande impresa.

Per sapere cosa succede nell'industria occorre (può parere una banalità) studiare l'industria, come hanno fatto i teorici dei distretti industriali e come fanno, per le medie imprese, gli autori dell'indagine Mediobanca-Unioncamere.

Chi segue questa strada si accorge facilmente che la struttura industriale italiana, pur dominata dalle piccole e medie imprese, mostra uno straordinario dinamismo e una forte capacità di innovare e di competere sui mercati internazionali.

Per questo ho sostenuto in un precedente articolo (il manifesto, 1° novembre 2007) che la spiegazione dei bassi salari italiani non va ricercata in menzognere statistiche della produttività. Negli anni '70 del secolo scorso si diceva che i bassi salari delle piccole imprese riflettevano la loro scarsa «capacità di pagare», dovuta a una bassa produttività. Quando le inchieste sul campo hanno mostrato che le piccole imprese subfornitrici impiegavano le stesse macchine che erano in uso nei corrispondenti reparti delle grandi imprese, si è compreso che non di limitata «capacità di pagare» si trattava, ma di una elevata «capacità di non pagare». Lo stesso si deve dire oggi delle imprese italiane, grandi medie e piccole, che pagano salari più bassi di loro concorrenti stranieri. Da dove nasce questa loro straordinaria «capacità di non pagare»? Provi, il lettore, a rispondere a questa domanda.

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