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liberazione

Sviluppo italiano, c'è una strada?

di Luigi Cavallaro

La specializzazione produttiva condanna l'Italia, un tempo alla svalutazione ora alla precarietà del lavoro e alla compressione salariale. E tutti plaudono

competDopo la recessione del biennio 2001-2002, l'economia mondiale e il commercio internazionale hanno ripreso a crescere. Lo scambio di prodotti manifatturieri ad alto contenuto tecnologico, in particolare, ha registrato ritmi di sviluppo mediamente superiori a quelli del commercio di manufatti a tecnologia medio-bassa e ha mostrato in forma accentuata quella redistribuzione delle esportazioni a svantaggio dei paesi più industrializzati già evidenziatasi nell'insieme degli scambi dei prodotti manifatturieri: gli Stati Uniti da soli hanno perso oltre il 25% delle esportazioni di prodotti high-tech, mentre il Giappone si è fermato a -14% e rotti.

Nondimeno, immutato è rimasto il distacco di specializzazione tecnologica dell'Unione europea rispetto al gigante d'oltreatlantico e all'impero del Sol Levante. A conquistare quote crescenti nel mercato d'esportazione sono state, infatti, la Cina e le economie del Sud-Est asiatico (Filippine, Indonesia, Malaysia e Thailandia), ancorché in conseguenza della forte crescita di investimenti diretti dall'estero: in Cina, ad esempio, nel 2003 e nel 2004 i flussi in entrata hanno superato per la prima volta quelli diretti verso gli Usa.

Dal canto suo, la posizione europea appare fortemente differenziata, ad onta dell'unificazione monetaria e a conferma dell'impasse in cui versa quella politica.

Dal punto di vista della specializzazione tecnologica, si possono distinguere almeno tre aree: un'Europa del Nord e scandinava, fortemente competitiva a causa di una dinamica sostenuta della spesa in ricerca e sviluppo, un'Europa centrale (coincidente essenzialmente con la Francia e la Germania), apprezzabilmente competitiva ma più equilibrata nella distribuzione delle specializzazioni tecnologiche, e un'Europa del Sud (Spagna, Portogallo, Italia, Grecia), caratterizzata da estrema debolezza tecnologica e crescenti deficit dei saldi commerciali.

 

La posizione dell'Italia, in questo quadro, è alquanto preoccupante. Nel biennio 2003-2004, in cui si è consolidata la ripresa mondiale timidamente avviatasi nel 2002, la perdita di competitività del nostro Paese nell'industria manifatturiera non ha accennato a ridursi, aggravando lo squilibrio fra la crescita delle esportazioni e quella, assai più sostenuta, delle importazioni. Persino in presenza di una dinamica alquanto modesta del Pil (+1,27% in media nel periodo 1998-2005), le sole perdite accumulate nei confronti dei nostri partner europei ammontavano nel 2004 a 800 milioni di euro. E non perdiamo solo nei settori high-tech, ma anche in quelli a medio-bassa tecnologia, a conferma che non ci può essere alcun recupero competitivo in questi ultimi fintanto che il sistema economico resta arretrato nei primi.

Nessuna meraviglia, dunque, se nel 2005 la variazione degli investimenti fissi lordi è stata in Italia non solo inferiore a quella europea, ma anche negativa: è piuttosto l'implicazione necessaria delle tendenze di fondo del nostro sistema produttivo, in cui l'effetto cumulato della minore spesa in ricerca e sviluppo ammonta, negli ultimi sei anni, a oltre cinque punti di Pil, l'80% dei quali attribuibili - è bene sottolinearlo - alla minor spesa delle imprese.

Non che il nostro sistema di ricerca sia meno "produttivo" di altri: rapportando il (minor) numero di brevetti alla (minor) spesa e al (minor) numero di addetti alla ricerca, la nostra produttività per addetto non è dissimile da quella degli altri paesi industrializzati. La differenza emerge piuttosto rispetto ai brevetti high-tech, ma i valori minori tradiscono in questo caso la minore dimensione media e la diversa specializzazione produttiva del nostro Paese. Siamo deboli nell'Information and communication technology (Ict), nelle telecomunicazioni, nell'elettronica da consumo, nelle macchine per ufficio, negli elettromedicali, nella meccanica di precisione e dei materiali, per non parlare della chimica e della farmaceutica. Fanno eccezione solo l'aerospaziale e l'automazione industriale, ma le esportazioni realizzate in questi comparti non sono tali da compensare l'aggravarsi del deficit del nostro commercio nei prodotti high-tech.

Il risultato è che gli stimoli provenienti dalla ripresa internazionale riescono al massimo a sollecitare il dinamismo delle imprese di più piccola dimensione (specie nel Nord-Est), dinamismo che però non è sufficiente a colmare il vuoto di competitività tecnologica lasciatoci in eredità dalla crisi della grande impresa del Nord-Ovest. E così s'aggrava il divario tecnologico (ed economico) del Mezzogiorno, mentre anche il Centro-Italia sperimenta crescenti situazioni di precarietà.

Queste e molte altre informazioni ci vengono dal Quinto Rapporto dell'Enea, "L'Italia nella competizione tecnologica internazionale", da poco edito da FrancoAngeli. Sono le cose serie di cui dovremmo occuparci. Come sottolineano gli estensori del Rapporto, un sistema produttivo come il nostro, costretto a ricorrere alle importazioni per soddisfare quella parte di domanda interna che - per livello di reddito e composizione tecnologica dei beni richiesti - vorrebbe collocarsi su livelli di sviluppo e consumo non dissimili da quelli dei paesi avanzati, è costretto a subire l'aggravamento della componente tecnologica del proprio deficit commerciale proprio in dipendenza della crescita degli investimenti fissi. E poiché l'entità di questo deficit ha ormai raggiunto circa l'1% del Pil, ci troviamo in presenza di un rilevante vincolo estero alla crescita, che - come dimostrano le pregresse esperienze dell'automazione industriale e delle Ict - non può essere rimosso semplicemente con l'adozione e diffusione delle tecnologie innovative: non basta, infatti, comprare la tecnologia altrui per entrare a far parte delle economie più dinamiche, almeno fintanto che la tecnologia altrui costa più del reddito che possiamo derivare dalla vendita all'estero dei nostri prodotti.

Queste, ripetiamo, sono le cose serie di cui dovremmo discutere. Sono essenziali per discriminare in modo appropriato tra forme possibili dell'intervento pubblico e usi alternativi della spesa statale. Sono decisive per giudicare in modo non ideologico se valga o meno la pena di restare al governo.

La ragione è semplice. Durante gli anni '80 e fino alla prima metà degli anni '90, le ripetute svalutazioni della lira hanno consentito alle imprese di azzerare lo svantaggio competitivo accumulato con l'estero. Ma dalla seconda metà degli anni Novanta in poi, con l'ingresso del nostro Paese prima nella banda ristretta e poi nella moneta unica, il giochetto è diventato impossibile e l'unico rimedio che si è trovato è stata la precarizzazione del lavoro, in modo da recuperare sul versante del suo costo d'uso i margini di profitto erosi dalla minore competitività dei nostri prodotti.

Si è innescata così una spirale perversa e potenzialmente senza fine: non c'è riduzione dei costi che possa reggere alla morsa dell'apprezzamento dell'euro, da un lato, e dei salari da fame dei paesi emergenti, dall'altro. E se non si aggredisce il perverso intreccio fra un sistema di imprese gestito su base familistica e votato alla nicchia o alle rendite da monopolio e una congerie di politiche pubbliche sostanzialmente accomodanti (a cominciare dai finanziamenti a pioggia), ci si ritroverà volenti o nolenti a stare al governo solamente per contrattare quanta e quale precarietà infliggere al lavoro salariato. Prova ne sia che, dopo essere state gratificate dieci anni fa dal pacchetto Treu, quattro anni fa dalla legge 30 e un anno fa dalla riduzione del cuneo fiscale, le nostre imprese, per bocca dei giornali di cui sono proprietarie, hanno plaudito all'ennesima "prova di responsabilità" del sindacato confederale, che - novello Pangloss - ha sottoscritto e perfino rivendicato un accordo che detassa gli straordinari e renderà possibile perpetuare ad libitum i contratti a termine. Il tutto mentre negli ultimi cinque anni le retribuzioni medie dei lavoratori sono scese di dieci punti percentuali, come emerso dalla ricerca dell'Ires-Cgil di cui dava notizia questo giornale il 20 novembre scorso.

Precarizzazione del lavoro e compressione salariale, conviene rimarcarlo, sono semplici equivalenti funzionali delle svalutazioni competitive, come tali destinate ad essere vanificate in tempi sempre più brevi per essere rimpiazzate da nuove e analoghe richieste. A sostegno delle quali, naturalmente, ci verranno spacciate per analisi incontrovertibili le stesse identiche chiacchiere che da un pezzo si leggono sui giornali e si odono nei salotti televisivi. Eminenti professori spiegheranno che la colpa della nostra specializzazione produttiva è della scarsa formazione dei nostri lavoratori (come se un ingegnere nucleare potesse trovare un posto di lavoro in una società dedita alla pastorizia). Illustri esperti pontificherano sulla necessità di privatizzare quel poco che è rimasto in mano pubblica e ridurre a tappe forzate il nostro debito (come se non si potesse puntare sulla stabilizzazione del debito pubblico in rapporto al Pil e destinare il sovrappiù di risorse così ottenuto ad interventi di politica industriale volti a modernizzare la nostra struttura produttiva). Autorevoli sindacalisti magnificheranno i vantaggi della riduzione delle tasse ai lavoratori (come se cento euro in più di busta paga potessero ripagarli dei servizi pubblici che bisognerà tagliare per finanziare lo sgravio fiscale). E illuminati editorialisti elogeranno tutto ciò come sinonimo di svecchiamento culturale e capacità di innovazione politica.

Chiacchiere, appunto. Ma non solo di buone intenzioni è lastricata la via dell'inferno.

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