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Per un socialismo del XXI secolo

di Thomas Fazi

Note a margine del libro di Carlo Formenti “Il socialismo è morto, viva il socialismo!”

socialisti in movimento 620x330Ringrazio Carlo Formenti per aver scritto questo libro perché ritengo che sia un libro fondamentale per capire quello che sta succedendo: in Italia, in Europa e più in generale in Occidente (e non solo, visto che uno dei meriti dell’autore è quello di adottare una prospettiva globale). Partirei da una delle frasi che apre il testo. Formenti scrive:

«[È] mia convinzione che il socialismo sia realmente morto nelle forme storiche che ha conosciuto dalle origini ottocentesche all’esaurirsi delle spinte egualitarie novecentesche, prolungatesi per pochi decenni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Non si è trattato di un evento (la caduta del Muro e il crollo dell’URSS hanno svolto la funzione di mera registrazione notarile del decesso), bensì di un’agonia durata dagli anni Settanta alla grande crisi che ha inaugurato il nuovo millennio. Oggi l’agonia è terminata ed è iniziata l’attraversata del deserto».

Ciò che intende Formenti è che il socialismo in Occidente non è solo morto nella prassi – come può apparire ovvio – ma è morto nella prassi perché è morto innanzitutto nella teoria. Nel senso che il pensiero socialista è stato corrotto a tal punto dalla sinistra nel corso degli ultimi quarant’anni – tanto dalla sinistra “moderata” quanto da quella “radicale/antagonista”, tanto dalla sinistra della “terza via” clintoniana/blairiana quanto dalla sinistra delle varie degenerazioni post-Settanta: post-operaista, orizzontalista, post-femminista, ecc. – da essere ormai inservibile per qualunque prospettiva di emancipazione progressiva, essendo diventato, più o meno consapevolmente, subalterno all’ideologia neoliberale – dunque all’ideologia del capitale, cioè del suo presunto nemico – con cui ormai condivide quasi in toto l’orizzonte ideologico, caratterizzato da un approccio teleologico alla globalizzazione e ai processi di mercato, intesi come naturali ed inevitabili, dal globalismo/sovranazionalismo (l’abbattimento/frantumazione delle frontiere e delle sovranità statuali inteso come destino non solo inevitabile ma anzi auspicabile), da cui ovviamente discende l’europeismo di buona parte della sinistra, dall’antistatalismo, dalla fede nella natura liberatrice e intrinsecamente progressista della tecnologia, ecc.

Peggio ancora: è proprio la sinistra, in quanto guardiana del “politicamente corretto”, a rendere il sistema di dominazione capitalistico impermeabile a qualunque critica. Nota Formenti:

«[I]l potere performativo del linguaggio, se non crea né modifica le relazioni sociali, certamente ne influenza la percezione, ma soprattutto rende difficile la contestazione delle idee politicamente corrette, mettendo in atto un dispositivo che alcuni hanno definito spirale del silenzio: si esita a criticare i “regimi di verità” egemoni per paura di essere sanzionati socialmente e di essere categorizzati come fascisti, razzisti, sessisti, nazionalisti, populisti, conservatori ecc. … Chi si oppone al liberalismo, nella misura in cui tale ideologia si proclama contraria a qualsiasi limitazione della libertà individuale da parte di comunità sociali e istituzioni politiche, è per definizione reazionario. Lo stesso capita a chi rivendica la sovranità nazionale del proprio paese: le élite politiche ed economiche che governano la società capitalista globalizzata rivendicano la superiorità delle idee cosmopolite e multiculturaliste nei confronti del rozzo localismo delle classi subalterne. I proletari che votano per Trump, per la Brexit, per la Lega e il M5S, e in generale per le forze politiche “sovraniste”, non sono lavoratori ma feccia reazionaria, “sdentati” (Hollande), “popolo demente” (Bifo). Vengono presentati come classi pericolose pronte a sostenere forze politiche neofasciste. Attraverso la neolingua politicamente corretta imposta dal liberalismo cosmopolita e autoritario si intravede l’immagine d’un futuro “liberato” dalle identità nazionali come da quelle di classe, genere ed etnia, un futuro postnazionale e postdemocratico che Antonio Negri e Michael Hardt rappresentano ed esaltano in Impero».

«La verità – scrive Formenti – è che, mentre il capitalismo di ieri si serviva di forze politiche conservatrici – espressione di interessi e culture di classe residuali – per reprimere le lotte del proletariato, quello odierno affida la propria rappresentanza soprattutto a forze politiche progressiste».

Al punto che ormai possiamo dire che il pensiero socialista contemporaneo – o meglio, il pensiero socialista occidentale, come sottolinea Formenti, riprendendo una felice formula di Domenico Losurdo, che distingue appunto il marxismo occidentale (che si è andato progressivamente snaturando rispetto alle origini) dal marxismo orientale –, o ciò che ne rimane, in tutte le sue varianti, è diventato a tutti gli effetti un’ideologia reazionaria, cioè contraria agli interessi della stragrande maggioranza dei lavoratori, degli sfruttati, dei subalterni, tanto in Occidente quanto nei paesi non occidentali (basti pensare al sostegno delle sinistre alle varie “guerre umanitarie” dell’ultimo decennio).

Come altro dovremmo interpretare – giusto per fare l’esempio più recente – l’appello congiunto a favore dell’Unione europea sottoscritto giustappunto l’altro giorno dalle tre più grandi sigle sindacali del paese insieme a Confidustria. Prendiamoci un attimo per riflettere sul fatto: i sindacati che firmano insieme al loro nemico di classe un appello a favore del più diabolico dispositivo di sfruttamento e di disciplinamento dei lavoratori che sia visto in Occidente dal dopoguerra da oggi, cioè l’Unione europea e più specificatamente la moneta unica. È chiaro che siamo di fronte a un’aberrazione tale da permetterci di poter parlare di una vera e propria mutazione antropologica, genetica della sinistra. Qui non si tratta di mettere in discussione la buona fede di questo o di quel personaggio, ma di comprendere che in virtù proprio della succitata quarantennale degenerazione del pensiero socialista, questi si ritrovano ormai privi degli strumenti necessari per comprendere «[le] dinamiche della crisi e [il] processo di mutazione sociale, economica, politica e culturale che la crisi ha messo in atto». Sono come dei ciechi che cercano di orientarsi a tastoni, ripetendo qualche vago slogan trito e ritrito dei tempi andati: la patrimoniale, gli investimenti pubblici, ecc. A prescindere dalla buona fede dei singoli personaggi, non si può non concludere che quelle organizzazioni e quei partiti che discendono dalla tradizione operaia sono ormai diventati a tutti gli effetti dei nemici di classe, dei nemici dei lavoratori e delle classi popolari. E non è un caso che siano percepiti come tali dalla stragrande maggioranza della popolazione.

Questa è la situazione in cui ci troviamo: gli eredi formali della tradizione socialista hanno completamente introiettato l’ideologia del nemico. Dunque ha ragione Formenti a dire che il socialismo – come prassi e come teoria – in Occidente (e soprattutto in Europa) è morto. Bisogno dunque partire dalla premessa, dice Formenti, «che, con la sconfitta subita da parte della controrivoluzione liberal-liberista iniziata alla fine degli anni Settanta, il movimento operaio non ha perso solo una battaglia, bensì la guerra». E quel che è peggio è che proprio «le sinistre hanno svolto il ruolo di becchini dello sconfitto».

Questo non vuol dire che il socialismo non sia più attuale o praticabile – al contrario, è più necessario che mai, come sottolinea Formenti – ma vuol dire che affinché il socialismo possa rinascere il pensiero socialista va rifondato: un pensiero socialista che sia adeguato, che sia all’altezza di questa fase storica – un socialismo del XXI secolo, come scrive Formenti – ma non un socialismo astratto, buono per ogni luogo e ogni epoca, quanto piuttosto un socialismo che possa andare bene per noi che viviamo in Occidente, in Europa, in Italia, alla vigilia del terzo decennio del XXI secolo, nelle specifiche condizioni economiche, sociali, politiche, ecc. in cui ci troviamo. Si tratta dunque di un pensiero quello di Formenti che, come direbbe Chantal Mouffe, si situa «nella congiuntura invece di ragionare sulla congiuntura», sebbene Formenti faccia anche quello.

Come scrive l’autore:

«Se la crisi del vecchio perdura, il nuovo deve essere fatto nascere, e il nuovo è il socialismo: non quello d’antan, ormai morto e sepolto, bensì un socialismo del secolo XXI, da costruire a partire dalle concrete condizioni storiche: dalle trasformazioni subite dal modo di produrre, dall’autofagia del capitalismo globalizzato che divora se stesso, dalla ri-nazionalizzazione della politica, dal ritorno dello Stato, dalle trasformazioni della composizione sociale e dalle nuove forme della lotta di classe».

Questo non vuol dire che Formenti non dedichi spazio nel suo libro ad altri contesti geografici – anzi, vi è un’ottima analisi dedicata ai populismi latinoamericani, che Formenti conosce molto bene – ma il suo focus è innanzitutto sulla nostra di situazione, come è giusto che sia. In un certo senso, potremmo dire che Formenti si pone nientedimeno che il problema annoso, attualizzandolo, della rivoluzione in Occidente: rivoluzione – come vedremo – non intesa non come rottura, come passaggio immediato da un sistema all’altro, ma come transizione, come trasformazione graduale ma radicale della società in senso socialista. In questo senso, il libro di Formenti non è solo un libro di teoria – sebbene sia un ottimo libro di teoria: anzi, direi che rappresenta la migliore panoramica sul pensiero socialista contemporaneo, nelle sue declinazioni migliori e peggiori, attualmente disponibile sul mercato – ma è anche e soprattutto uno strumento di lotta, cioè il tentativo di fornire un impianto teorico che possa fungere da base per una nuova politica e una nuova stagione socialista, nella consapevolezza che questo libro non ha la pretesa di essere un punto d’arrivo ma è un’elaborazione in fieri, da cambiare e da aggiustare a seconda dell’evoluzione dello scenario.

Quali sono – o dovrebbero essere – dunque i punti cardine di un neosocialismo del XXI secolo, secondo Formenti? Innanzitutto bisogna fare tabula rasa delle varie degenerazioni che ha subìto il pensiero socialista negli ultimi quarant’anni. Questo però non vuol dire tornare sic et simpliciter al pensiero marxista e socialista delle origini. Come si diceva, è necessario attualizzare questo pensiero e anche affrontarlo con spirito critico, riconoscendone gli errori. In questo senso, ha ragione Formenti a dire che alcune delle degenerazioni dei decenni passati hanno estremizzato e iperbolizzato alcuni elementi che erano già presenti nel pensiero di Marx: un certo eurocentrismo, la sua posizione ambigua nei confronti del ruolo dello Stato, l’idea che la diffusione del capitalismo porti in sé i germi della rivoluzione, un certo atteggiamento positivista e deterministico nei confronti della storia, l’esaltazione del progresso tecnologico, l’idea che vi sia un soggetto privilegiato portatore di una genuina coscienza rivoluzionaria, ecc. Cioè tutti quegli elementi a cui la sinistra contemporanea continua a rifarsi; come scrive lapidario Formenti, «mentre si lascia marcire il cadavere del socialismo, si venerano le sue inutili reliquie». Bisogna dunque anche riconoscere gli errori – nel senso che sono stati palesemente smentiti dalla storia – di quell’impianto teorico originale.

Nel contesto attuale, dunque, per Formenti, gli elementi fondanti di un nuovo pensiero socialista sono i seguenti. Innanzitutto l’idea, già affrontata da Formenti nei suoi testi precedenti e mutuata (con qualche distinguo) da Laclau e dallo stesso Gramsci, secondo cui oggi stiamo attraverso a tutti gli effetti un “momento populista” – caratterizzato da una profonda crisi di autorità e di delegittimazione dei partiti e delle istituzioni tradizionali – e che dunque «il populismo è la forma che la lotta di classe tende ad assumere in una fase storica in cui le tradizionali identità sociali hanno perso consistenza e autoconsapevolezza». Questo significa che oggi in Occidente non esiste un soggetto o una classe specifica su cui poter fare affidamento per portare avanti una battaglia socialista ma che qualunque progetto trasformativo richiede la capacità di creare «un movimento politico capace di aggregare un blocco sociale che accorpi diverse rivendicazioni (anche se parzialmente in competizione reciproca), che risultino incompatibili con il sistema capitalista nelle sue forme attuali», cioè di «costruire un popolo … un’ampia alleanza di soggetti sociali che gli consenta di conquistare il governo e lanciare un programma di riforme radicali». Questa alleanza deve ovviamente includere i lavoratori ma anche le classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (per esempio, i piccoli-medi imprenditori); deve inoltre saper fare leva su tutte quelle faglie e quei conflitti che sono esterni al mondo della produzione: crisi ecologiche, crisi della riproduzione, conflitti generazionali, di genere, etnici, religiosi ecc.

Un “popolo”, dunque, inteso non come «un’entità “naturale”, preesistente all’insorgenza del loro discorso politico (a differenza del popolo evocato dal nazifascismo, che rinvia a radici comuni di tipo etnico, razziale, antropologico, storico-culturale ecc.)», ma come costruzione politica. Come si diceva, ampio spazio viene dedicato al pensiero di Ernesto Laclau e Antonio Gramsci, «due autori che aiutano a capire come popolo, nazione e stato non siano i prodotti “naturali” di presunte leggi storiche, ma le tappe di un processo di costruzione politica che può generare esiti diversi a seconda di chi esercita l’egemonia sul processo. Sta a noi concepire il popolo-nazione come un soggetto in marcia verso la democrazia, e lo stato come il prodotto del farsi Stato delle classi subalterne». Scrive Formenti:

«Il “momento populista” sorge quando una determinata formazione egemonica (come il sistema liberaldemocratico) non è più in grado di far fronte alla proliferazione di domande sociali che restano insoddisfatte. L’accumularsi di istanze cui il sistema non riesce più a rispondere in modo differenziale fa sì che, fra tutte queste richieste inascoltate, si stabilisca una relazione di equivalenza trasversale che tende ad accomunarle. È appunto questa relazione a generare le condizioni per l’emergenza di un popolo, che altro non è se non l’insieme dei soggetti associati da una relazione antagonista nei confronti dell’oligarchia che concentra nelle proprie mani il potere economico, politico e mediatico. … Il “colore” di tale progetto dipende da quale delle domande insoddisfatte riesce a imporsi come egemone, cioè ad assumere il ruolo di incarnare/rappresentare la totalità delle altre. Muta, per esempio, in relazione al prevalere della domanda di sicurezza (per esempio protezione dai flussi migratori) o della domanda di uguaglianza e giustizia sociali ed economiche (protezione dagli effetti del processo di globalizzazione). Il peso relativo che il programma di una formazione populista attribuisce a tali domande è uno dei fattori che consente di distinguere fra populismi di destra e di sinistra».

In breve, «costruire l’unità popolare significa organizzare il potere della plebe nel momento storico in cui i vecchi strumenti del movimento operaio non funzionano più».

Questo il primo punto. Il secondo punto è quello secondo cui «lo strumento della trasformazione, e il campo di battaglia su cui si giocherà l’egemonia, non può che essere lo Stato-nazione». Bisogno cioè liberarsi definitivamente del mito del cosmopolitismo, per cui il cambiamento o è regionale/globale o non è, e che in virtù della sovranazionalizzazione dei processi politici ed economici, il terreno in cui condurre la lotta debba necessariamente essere quello sovranazionale, arrivando addirittura a teorizzare che la dimensione sovranazionale rappresenti una sorta di internazionalismo in nuce, che – tanto per fare un esempio – basti cambiare l’indirizzo politico dell’Unione europea per trasformarla da strumento del capitale in strumento di emancipazione dei lavoratori. Al contrario, bisogna prendere atto del fatto, scrive Formenti, che oggi «[q]ualsiasi progetto di democratizzazione implica oggi ricostruire istituzioni capaci di sottomettere i mercati al controllo politico e sociale, un’impresa possibile solo in un contesto di riconquistata sovranità nazionale, a partire dalla sovranità monetaria».

Con una precisazione:

«[L]o Stato-nazione che ha senso difendere, scrive, non è tanto il vecchio Stato nato dalle rivoluzioni borghesi, quanto quel progetto dei cittadini di un territorio che cercano di ottenere il controllo sulle proprie condizioni di esistenza e riproduzione. Il cittadino del mondo di cui parla l’utopia cosmopolita è un’astrazione priva di consistenza reale: cittadini si è nella misura in cui si condivide un progetto comune in un determinato territorio, a prescindere dal fatto che vi si parli la stessa lingua o meno, cittadini si è se si appartiene a una comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza prodotta in quel territorio. Contro questa concezione è in atto l’offensiva delle élite globali che considerano le nazioni come meri contenitori di risorse (materie prime, capitali, forza lavoro, terreni ecc.) trovando sponda nelle caste politiche locali».

Questo significa anche «emanciparsi dal mito del comunismo come un mondo futuro pacificato e unificato significa emanciparsi dalla radice illuminista che permea il marxismo non meno del liberalismo, per cui la lotta di classe si rivela in ultima istanza lo strumento per realizzare il trionfo dell’individuo razionale universale»; e, di conseguenza, «riconoscere che l’internazionalismo dovrebbe fondarsi sulla relazione fra comunità diverse che si riconoscono reciprocamente quali portatrici di forme di vita legittime». La sovranità nazionale, in altre parole, non è essenziale solo in quanto rappresenta l’unico strumento capace di resistere all’illimitata estensione geografica del dominio capitalistico, ma perché permette ai vari popoli e alle varie comunità di resistere al dominio capitalistico secondo le proprie modalità e specificità. Non è un caso, come nota David Harvey, che i conflitti sociali siano spesso espressione della «tensione antagonista fra logica dell’accumulazione capitalistica e logica territoriale».

È per questo che innumerevoli lotte sociali e di classe si combattono attorno alla formazione dei luoghi, i quali «sono i paesaggi dove si svolge la vita quotidiana, si stabiliscono i rapporti affettivi e le solidarietà sociali e dove si costruiscono le soggettività politiche e i significati simbolici». In altre parole, per citare sempre Harvey, «il conflitto assume inevitabilmente la forma dello scontro fra flussi del capitale e luoghi dell’autoproduzione dei mondi vitali». È in questo contesto, scrive Formenti, che «la resistenza dei luoghi nei confronti delle potenze sconvolgenti scatenate dai processi di globalizzazione assume il significato di una lotta anticapitalista». Inoltre, rifacendosi all’analisi di autori come Hosea Jaffe e Samir Amin, Formenti nota come l’obiezione più ricorrente al “sovranismo di sinistra” – ossia quello secondo cui, nel contesto dell’attuale sistema capitalistico globalizzato, ogni velleità di sganciamento dal mercato mondiale sarebbe illusoria – sia del tutto infondata: non solo il «delinking dal mercato globale è una via percorribile; di più: è l’unica via percorribile per compiere qualsiasi passo verso il socialismo».

Da questo secondo punto discende il terzo punto: un rifiuto radicale e senza mezzi termini dell’Unione europea – e in particolare della moneta unica –, lo strumento cardine con cui si è svuotata la democrazia e si è portato avanti l’attacco ai lavoratori in Europa negli ultimi decenni. Come scrive Formenti, «distruggere questa Europa dovrebbe essere l’obiettivo strategico di qualsiasi forza politica anticapitalista». Su questo punto Formenti non si dilunga troppo, avendo già trattato approfonditamente l’argomento in altre sedi. È l’autore stesso a riassumere le proprie argomentazioni nella seguente maniera: «[C]omunque la si voglia definire, la UE agisce come un’entità sovrastatale che divora spazi di partecipazione democratica, spoliticizza il mercato e sterilizza il conflitto ridistributivo, e comunque la si voglia definire è una costruzione palesemente irriformabile, il che non dipende tanto dal fatto che per modificare i trattati occorre l’unanimità dei membri, quanto da quel “mercato delle riforme” che scandisce i passaggi fondamentali della sua esistenza», oltre che – e forse soprattutto – dal fatto che «[l]’Europa non è mai esistita come entità politica e culturale unitaria, e l’utopia di farne un unico Stato (utopia che tanto Marx quanto Lenin denunciarono come il sogno reazionario del capitalismo occidentale, il quale aspirava così a rafforzare il proprio dominio sul resto del mondo) si scontra con barriere sociali, linguistiche e culturali che nemmeno l’istituzione di un sistema fiscale, di un esercito e di una polizia comuni sarebbe in grado di superare».

Proprio per questo motivo, scrive Formenti, «il principio di delinking teorizzato da Samir Amin a proposito della relazione fra potenze imperiali e paesi ex coloniali può e deve essere fatto proprio anche dai paesi euromediterranei». D’altronde, fu lo stesso Amin a riconoscere che le relazioni fra nazioni imperialiste e nazioni periferiche non riguardano solo i rapporti fra ex imperi coloniali ed ex colonie, ma può riguardare anche quelli fra paesi industrializzati (per esempio, Amin considera la relazione fra la Germania e i paesi del sud e dell’est Europa come un rapporto centro-periferia). È in contesti come questo che «la lotta di classe assume anche l’aspetto di conflitto fra nazioni, così come chiama in causa il ruolo dello Stato-nazione quale unica cornice possibile di una lotta democratica e, in prospettiva, anticapitalista». In conclusione: «senza Stato-nazione e senza sovranità niente democrazia, e nessuna possibilità di compiere qualsiasi passo verso il socialismo», tanto nel nord quanto nel sud del mondo.

Il quarto punto: oggi la transizione verso il socialismo non può che passare per una fase intermedia basata sul recupero di strumenti che potremmo definire keynesiani o socialdemocratici, che non a caso sono quelli che definiscono i programmi dei populismi di sinistra (da Sanders a Corbyn, da Podemos a Mélenchon). Scrive Formenti: «[Questi programmi] sarebbero stati definiti riformisti e neosocialdemocratici fino a non troppi anni fa (ridistribuzioni egualitarie del reddito, reintegrazione del welfare, ri-pubblicizzazione di trasporti, sanità, educazione, nazionalizzazione di settori strategici e delle banche, ristabilimento del controllo politico sulla banca centrale, programmazione industriale ecc.). Vero, ma, nelle attuali condizioni create da decenni di ristrutturazione neoliberale, questi obiettivi “moderati” assumono un’obiettiva valenza “sovversiva”, e comunque sono passi indispensabili per creare le condizioni per un avanzamento verso obiettivi più ambiziosi allo stato non definibili». Questo è ancor più vero nella misura in cui «nelle attuali condizioni, è impensabile immaginare una transizione diretta al socialismo. Il processo dovrà assumere inizialmente il carattere di una rivoluzione nazional-popolare e democratica, di una rivoluzione “cittadina” – neogiacobina – che ricostruisca sia le condizioni di una reale partecipazione popolare e democratica al processo decisionale, sia la possibilità di una ridistribuzione egualitaria del reddito. L’eventuale passaggio a una successiva fase socialista sarà il risultato contingente dei rapporti di forza fra gli strati di classe che compongono il blocco sociale e della lotta egemonica fra le forze politiche che li rappresentano».

Infine il quinto punto: la dimensione geopolitica. A differenza di altri pensatori, Formenti dà – giustamente – una grande importanza alla dimensione geopolitica. Nel senso che oggi non è possibile ragionare di recupero della sovranità nazionale in Occidente senza tenere conto quello che si muove in altre zone del mondo: in particolare l’ascesa della Cina al rango di potenza regionale e mondiale. Ma a differenza della vulgata, secondo cui cui questo giustificherebbe la necessità di un’unificazione politica dell’Europa, Formenti sottolinea al contrario come l’emergere di un ordine multipolare può rappresentare anche un’occasione per quei paesi che vogliano conquistare una maggiore autonomia in campo economico e geopolitico proprio perché certifica la fine di quell’iper-impero mondiale che era in grado di imporre – con la forza o con altri mezzi – il proprio volere a tutto il pianeta. Oltre a certificare il fatto che gli Stati-nazione, lungi dall’essere morti o sulla via del declino, sono in ottima forma e anzi giocheranno un ruolo sempre più centrale in futuro.

In definitiva, Formenti mette in guardia dallo scrivere ricette per le osterie del futuro. Siamo in una situazione estremamente dinamica e il nostro pensiero deve essere altrettanto dinamico. Ma senz’altro con questo libro ci indica qual è la via maestra da seguire e qual è l’orizzonte verso cui muoverci: un socialismo del XXI secolo, un socialismo che è non solo necessario ma possibile.


Rielaborazione di un intervento tenuto alla Camera dei Deputati – Sala del Cenacolo il 10 aprile 2019.

Comments

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alberto ferrari
Tuesday, 30 April 2019 16:00
Non ho ancora avuto modo di leggere il libro. Ma dalla interessante analisi critica proposta, mi sembra di poter fare due considerazioni. La prima è che credo che l'idea di socialismo che si critica è quella sviluppatasi nei paesi latini . Mentre si quasi sottace che la sola svolta, direi rifondazione del "socialismo" è quella fatta in Germania nel 1959 al congresso di Bad Godesberg con la approvazione del Manifesto della nuova SPD, diffusosi poi nei paesi centro e nord europei e poco nei paesi latini. Non ha caso è da quel manifesto che dobbiamo quel processo politico culturale che ha dato una spinta determinante a realizzare in Europa quel modello di "Stato sociale" che ancora riesce, miracolosamente, a resistere di fronte alla riscossa del capitalismo di matrice anglo-americana ( Thatcher e Reagan). Il secondo punto è che ogni autore critico sulla crisi della sinistra europea tende a dimenticare la enorme forza finanziaria culturale e politica messa in campo dal neocapitalismo a partire dalla fine degli anno '70. Per farsene una idea basterebbe rileggersi "Capitalismo contro capitalismo" di Michel Albert scritto non oggi, ma nel 1991. In Italia poi il PCI e la sua evoluzione successiva è una delle cause principali della difficoltà di affermarsi del socialismo democratico.
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Davide Casartelli
Friday, 19 April 2019 17:56
Trovo singolare l’affermare che una morte del socialismo sia sancita (e registrata...) da un libro che, per “vie maestre e orizzonti”, non ci ripropone altro che gli idealistici Zombi che girano attorno ad un capitalismo agonizzante. Ma qui il cadavere – da scavalcare per «l’attraversata del deserto»… - sarebbe il “socialismo”, morto nella prassi e “inservibile nella teoria; si può essere d’accordo se il riferimento è alla paccottiglia di aberranti deformazioni degli ultimi decenni, a cominciare dallo stalinismo. Già, ma quale sarebbe allora il “pensiero socialista” vero, di un Marx e di un Lenin? Esso è o non è tutt’ora utilizzabile come potente arma di critica rivoluzionaria contro il capitalismo? Oppure, quest’ultimo è diventato “impermeabile a qualunque critica”? (Silenzio assoluto su quella critica all’economia politica che, nel Capitale, ha svelato il volto mostruoso del nemico che incatena ormai l’intera specie umana. Formenti sembra invece vicino a un Keynes e alle “idee” socialdemocratiche…)
Si parla di “mutazione antropologica, genetica” di quella che si spaccia oggi per sinistra; sono d’accordo, ma la degenerazione è rispetto a cosa? Quali sarebbero le “inutili reliquie” del vero socialismo? Qual è l’impianto teorico originale? Si dice che il pensiero socialista andrebbe rifondato, all’altezza del XXI° secolo (ma vale per il marxismo “occidentale”, mentre si tollera quello “orientale”…). Manca un impianto teorico che faccia da base per una nuova politica e stagione “socialista”: ma c’è una condizione, posta da un Formenti che qui si trova in buona compagnia: bisogna andare oltre il “pensiero marxista” e i suoi errori (come tali sarebbero le «ambiguità sul ruolo dello Stato, gli atteggiamenti positivisti e deterministici, ecc.». Un insieme che «va criticato»… Per ritornare a quale “concezione”?
Questo sarebbe – si dice - un momento storico favorevole al “populismo” quale «forma che tende ad assumere la lotta di classe», dopo la “morte” della classe operaia incapace di creare «un movimento politico aggregante un blocco sociale che accorpi diverse rivendicazioni». Lavoratori, classi medie, piccoli-medi imprenditori: assieme fanno «un discorso politico». Attorno ad un “interesse comune”? E, dulcis in fundo, gli esiti di una simile costruzione politica dipenderebbero da «chi esercita l’egemonia sul processo»…!. E se invece fosse proprio a seguito di tali tentativi che siamo al… cimitero?
Attenzione: le rivendicazioni potrebbero essere «parzialmente in competizione reciproca», ma ciò nonostante capaci di «costruire un popolo», da Formenti inteso come «un’ampia alleanza di soggetti sociali che conquistano il governo e lanciano un programma di riforme radicali». L’importante sarebbe mettersi in marcia, poi l’andare a destra o a sinistra (secondo Formenti si tratta di differenze di “colore”…) dipenderà dal prevalere di un progetto o l’altro nel programma che si darebbe la formazione populista…
Il nemico principale viene individuato a questo punto nell’europeismo, nel cosmopolitismo, nell’internazionalismo… Come scrive il Formenti, bisogna riconquistare (lo farebbe il “popolo”) la «sovranità nazionale (monetaria)», condizione per realizzare il «progetto di democratizzazione», cioè «istituzioni capaci di sottomettere i mercati al controllo politico e sociale». Profumo di incenso attorno allo “Stato-nazione”, creato dall’«autocontrollo dei cittadini», e alla sovranità nazionale, gli unici strumenti per resistere al dominio capitalistico... E qui si scoprono le tombe: nessun distacco dal mercato globale, ma da quello europeo (moneta unica compresa). sì, per poterlo «riempire politicamente» e democraticamente! Così si farebbe strategia anticapitalista, giacché – lo scrive Formenti - «la lotta di classe assume anche l’aspetto di conflitto fra nazioni, e chiama in causa il ruolo dello Stato-nazione quale unica cornice possibile di una lotta democratica e, in prospettiva, anticapitalista»…
Il programma più che “moderato” di riforme, altro che “sovversivo”, esclude ogni rivoluzione all’infuori di quella di tipo «nazional-popolare e democratica», una rivoluzione “cittadina” – neo-giacobina – che consenta il libero gioco dei «contrapposti rapporti di forza fra gli strati di classe che compongono il blocco sociale e della lotta egemonica fra le forze politiche che li rappresentano». Gramsci applaude!
Infine, altri applausi all’attuale emergere di un “ordine” (capitalistico?) multipopolare (con sguardi puntati sulla Cina, potenza mondiale capital-socialista…). Più blocchi imperialismi ci sono e più sarebbero le occasioni per far emergere l’autonomia (in campo economico!) di minori Stati-nazione… Ritenerli poi «in ottima forma e anzi giocheranno un ruolo sempre più centrale in futuro», questo è – scusate – il colmo di un certo “dinamico pensiero”.
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ernesto rossi
Friday, 19 April 2019 15:01
L'autore ha ragione quando scrive che il declino inizia negli anni 70, non specifica però se si tratta del 1670, il 1770, 1870... Personalmente sono convinto che la crisi inizi comunque durante la Rivoluzione Francese, quando finalmente il Popolo irrompe sulla scena della Storia. I liberali pretesero in tale occasione e giustamente la chiusura delle corporazioni, anche quelle dei lavoratori però; questo provocò la rottura dell'Unità dei rivoltosi e la sottrazione della vera forza che la sosteneva, fatto che porterà alla nota sconfitta, con un Napoleone che tenterà di reggere la situazione basandosi sulla piccola borghesia. A voler dare dunque una data questa è proprio quella del 1870, oggi voglio far contento Visalli, che si lamenta che non faccio mai citazioni, quindi mi renderò a Sua immagine e somiglianza e porterò addirittura un documento... "La polemica fra riformisti e rivoluzionari, pertanto fù sempre fondata sull'antitesi fra gradualismi e massimalismi, fra legalitari e rivoluzionari, fra transigenti e intransigenti, fra collaborazionisti e anticollaborazionisti; non fù mai urto fra deviazione oligarchica e indirizzo solidarista del Movimento Proletario"... (Gaetano Salvemini). Come si vede, la situazione era ben chiara sin dall'epoca, si è solo atteso per la dimenticanza, nell'avvicendarsi delle generazioni. L'Unità d'Italia si baserà sulla forza della Destra del Sud, della Destra del Nord e sulla Sinistra del Nord... Quest'ultimo aspetto chiarisce anche i motivi, per cui al Nord sono tutti razzisti, nessuno escluso, nei confronti dei terroni. Tutti gli aspetti economici di fondo pur essendo comprensibili, successivamente andavano rinnovati, mentre la perpetuazione di un certo atteggiamento oggi rende arduo il suggerire una politica di ripresa sovranista della nazione, semmai porterà ad una manciata di voti con relativi scranni che non tanto non saranno conclusivi, ma porteranno coservatoristicamente la questione ancora più in là nel tempo, lasciandola irrisolta. E' un classico sparare minacciosamente in alto, per vedere cosa ricade. Fino a non molto tempo fa, ci si trastullava su questioni tipo, la dittatura della maggioranza, mentre oggi si dorme tranquilli visto che abbiamo raggiunto la dittatura della minoranza... Credo che questa sia una sorta di arma a doppio taglio, infatti se ne sono giovati i "grilli", proprio perchè è più facile vincere le elezioni, che è il dato essenziale. Basta vincere le elezioni per essere "sovrani" e creare l'Europa che si è sempre voluta. Per vincere le elezioni ci vogliono proposte migliori di quelle del Governo... Sembra di stare all'asilo infantile, eppure è così no? Altro che citazioni... Bisognerà anche uscire dalla tenaglia del racconto catto-comunista riguardo al terzo Mondo, dove non è vero che lì si muore di fame ad opera degli occidentali, primo perchè certe situazioni sono determinate dal dato climatico, orografico, che porta ad una corrispondente capacità tecnologica, che a sua volta genera in suo corrispondente assetto sociale e giuridico. Quest'ultimo è di carattere spaventoso, ma va capito che altrimenti, in quelle situazioni questo si genera da solo, è il sistema più adatto per quanto truce possa apparire. Secondo se certe situazioni non sono cambiate, ovvero non si è operato per un cambiamento è stato dovuto all'opera dei conservatori e dirigenti di ambo le parti, dove il risultato è un odio tra i popoli che lascia indenne l'elite delle due zone. Svergoganre le destre e i cattolici, per quanto hanno fatto, con la loro politica di elemosina che è la medesima che ha reso il sud Italia sempre più povero, in una dinamica verso il basso che ha portato persino a riconoscimenti del proprio stigma di goffmaniana memoria. Chi legge Goffman e Cooper oggi? Chi per effetto degli opportunisti di Sinistra al potere ha mai letto R.K.Merton? C' è qualcuno che si è mai preoccupato di agire sulla sovranità piena, chiedendo un uso razionale dei mezzi di comunicazione? Non è che uno se ne esce con "Sovranismo" e vince le elezioni, quando in realtà, osserviamoci in questo momento, non ti sente nessuno? Vinceremo grazie a Sinistrainrete.info, che quando il Potere vuole ti toglie la spina? Esiste una proposta in un simile programma, per un fucile a tutti quanti? Sarebbe utile? In realtà la questione è proprio questa, quando nella storia, si è venuta a creare, grazie alle tecnologie, la possibilità di usare le armi da fuoco, ecco che si sono aperte delle possibilità per i popolani e vista la differenza di numero la vittoria da parte popolana la si riconosceva da ambo le parti come già attuata, neanche a tentarci... Cosa che portò i piccolo borghesi e i rancorosi aristocratici ad iscriversi al Partito Socialista. Il quale ne approfittò per sperare in un dopoguerra, la Prima, che avrebbe portato ad una unità dei cittadini, resi anche capaci di adoperare le armi, anche e proprio nel senso di essersi rinforzato il fegato e lo stomaco, grazie appunto all'abitudine all'uccedere acquisita così, dai popolani, che fino ad allora non avevano mai fatto parte della classe armigera, anzi ne era da sempre la vittima designata, Sarà infatti questo fattore che porterà alle atrocità fasciste e naziste... Certamente vi è stato un momento cruciale, simile a quello attuale, dove la Destra scippò questo lavoro e speranza, voluto dai socialisti con la loro partecipazione alla prima Guerra Mondiale; fù così che i guerrieri popolari, si tramutarono in utili idioti al servizio di Mussolini, i comunisti vollero fare altrettanto ma agirono troppo tardi; restava però che la volontà era quella di prendere il Potere da parte dei Dirigenti e sostituirsi semplicemente a quelli precedenti, non furono mossi da interessi filantropici... Furono i comunisti dunque a tradire il socialismo e mai si potrà intendere simile formazione come diversa addirittura negli intenti da quella socialista, semmai il contrario. Fù solo un racconto da parte dirigenziale per confondere i cittadini. Gramsci ne fece le spese e simile atteggiamento dilagò fino ai quadri minori, quando fino e questo sì, nel 70 del 900, si scatenò una guerra fratricida tra chi doveva occupare una poltrona anche minuta. Certamente nel dopoguerra il P.C.I. fece proprie le istanze salveminiane, con il controllo delle aziende private e strategiche da parte dello Stato, compreso la tanto agognata unità tra operai e braccianti... Però non agirono per l'autonomia economica del singolo lavoratore che resterà solo un raccomandato dalle forche caudine. Mancando questo, si è passati alla degenerazione totale del piano morale con effetti sulla sorveglianza popolare delle Istituzioni. Aggiungo inoltre la sconfitta sulla questione della Casa Popolare che ci porterà fino alla crisi attuale. Questa questione resta ancora aperta, visto che siccome fù un classico trucco che conserva, le abitazioni attuali, vedono i proprietari credersi padroni di un capitale, che invece non esiste, perchè si giocò sul sentimento legato alla casa, come un bene super durevole, ma quello era falsato perchè relativo alle costruzioni archivoltate antiche, mentre quelle in cemento armato andranno presto abbattute, lasciando i padroni e traditori di se stessi, con un pugno di mosche. Anche questo è elemento super rivoluzionario, se non proprio deflagrante, che può innescare una vera e propria rivolta.... Esistono dei Formenti capaci di dire questo? O si tratta di opportunismi ormai al limite del ridicolo, viste le misure?
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MD
Thursday, 18 April 2019 18:58
Il programma di CasaPound non l'ho mai trovato ne convincente ne auspicabile , anche se mescolato e apparentemente camuffato.
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