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cumpanis

L’inchiesta sociale militante

Il compito da rilanciare dei comunisti

di Raffaele Gorpìa

fr4Sono decenni che si è rinunciato alla capacità di analizzare seriamente la struttura del corpo sociale mentre ci si è persi invece dietro a tatticismi politici, a suggestivi “immaginari e a “nuove narrazioni”, quando al contrario si ha sempre più la necessità di sapere precisamente come sono fatte le classi subalterne e come sono fatti i nostri nemici che, invece, hanno convenienza a far sparire le classi sociali poiché senza di esse rimangono solo gli individui o tutt’al più i gruppi di interesse.

Se vi è un elemento sintomatico della crisi del movimento operaio e delle organizzazioni che un tempo ad esso facevano riferimento, certamente questo risiede nella scarsa presenza se non nella totale assenza di produzione di inchieste sociali sulla composizione di classe in epoca contemporanea. L’inchiesta non può essere solo concepita come lo strumento che l’organizzazione politica di sinistra deve utilizzare per non perdere il contatto con la realtà, quanto come un vero asse strategico attorno al quale costruire, appunto, la strategia politica; l’inchiesta diviene strumento fondamentale per cogliere da un lato la struttura di classe nelle sue diverse articolazioni e nella sua componente soggettiva e di coscienza, per un altro verso è il modo per raccogliere, secondo l’impostazione maoista, le “idee giuste” delle masse rielaborandole come linea politica.

Tale assenza dal campo politico rimanda sicuramente all’assenza dell’intellettuale organico prefigurato da Gramsci, una figura politica immaginata come interna alla classe e allo stesso tempo avanguardia della stessa capace di guardare al complesso della società senza perdere l’orientamento del punto di vista di classe e ispiratore del proletariato affinché lo stesso possa liberarsi dalle idee delle classi dominanti per sviluppare una propria coscienza di classe e così cambiare lo stato di cose presenti.

Il tema, ampio, certamente andrebbe a toccare la questione del sapere e quindi anche del ruolo delle università, la loro qualità e la loro funzione in relazione soprattutto a quelle che si definiscono scienze sociali. Le scienze sociali non sono state per nulla mobilitate e interpellate, ad esempio, nel lungo periodo di pandemia non ancora superato e nel quale, come è sempre successo, i saperi delle scienze umanistiche accumulati, sono stati praticamente ignorati, vissuti come sono sempre stati in quanto saperi complementari e secondari rispetto alle scienze naturali o alle cosiddette presunte scienze esatte come la matematica e in buona parte come la medicina stessa.

Per capire come è fatto il proletariato nell’Italia di oggi dobbiamo spiegare qual è la struttura produttiva italiana, quanto e come è cambiata nel tempo, che tipo di capitalismo è il nostro e dunque su cosa si fanno i profitti. Il tema dell’inchiesta sociale non praticata da chi auspicherebbe la formazione dell’intellettuale collettivo e quindi della nuova avanguardia di classe, è certamente l’effetto di un vento culturale di arretramento che inesorabilmente ha riguardato anche i comunisti. Basti solo ricordare il periodico di Rifondazione Comunista di quasi un ventennio fa denominato proprio “Bollettino di inchiesta” diretto da Vittorio Rieser e per nulla valorizzato e utilizzato; ma il tema della ricerca sociale sarebbe più ampio in quanto riguarderebbe la funzione delle scienze sociali oggi e infatti, solo per fare un esempio, solo chi non conosce mezzo secolo di studi comportamentali e sociali può far finta che sia indifferente un lockdown col coprifuoco da un lockdown che continua a trattare le persone come cittadini responsabili, piuttosto che sudditi. Se paesi come la Germania sono riusciti a governare la pandemia senza destabilizzare le dinamiche sociali normali, qualche domanda, a cui solo le scienze del comportamento sociale umano possono rispondere, dovremmo porcela. Ma, come detto, il tema vuole riguardare specificamente l’inchiesta sociale, intesa poi soprattutto come inchiesta militante senza intento accademico. Non è un caso che la scienza marxiana prese corpo, uscendo dalla sola dimensione filosofica, proprio traendo fondamentale ispirazione dalla celeberrima inchiesta di Friedrich Engels sulla situazione della classe operaia in Inghilterra*, nella quale Engels appunto fotografava gli orrori del primo capitalismo industriale: la schiavitù dettata dalle macchine, la disoccupazione tecnologica, la competizione per la sopravvivenza tra gli operai, il lavoro malsano, femminile e minorile, col loro seguito di malattie e mutilazioni tali per cui questo moderno proletariato appariva spesso simile «a un esercito che torna da qualche campagna militare».

Mao affermava, giustamente, che chi non aveva fatto l’inchiesta non aveva diritto di parola, oggi siamo praticamente nella dimensione opposta, si parla quasi esclusivamente senza conoscere a fondo le realtà che si analizzano; lo stesso Mao riteneva che la soggettività deve essere molto reale, che la stessa non è qualcosa di costruito dall’avanguardia, dal partito. Il Rapporto d’inchiesta sul movimento contadino nell’Hunan è il testo più famoso di Mao Zedong, ed è uno dei capolavori della saggistica politica del Novecento. Della prima parte intitolata “La rivoluzione nelle campagne”, il capitolo iniziale “Importanza della questione contadina” questo riporta: «Durante la mia recente inchiesta sul campo nei cinque distretti di Xiangtan, Xiangxiang, Hengshan, Liling e Changsha, nei trentadue giorni dal 4 gennaio al 5 febbraio ho convocato nei villaggi e nelle città di distretto contadini ricchi di esperienza e compagni del movimento contadino in riunioni d’indagine sui fatti; ho ascoltato con attenzione quanto riferivano e ho raccolto non poco materiale. Molti argomenti del movimento contadino erano esattamente l’opposto di quelli della classe terriera a Hankou e Changsha. Ho visto e udito molte cose straordinarie, che fino allora non avevo visto né udito: cose che credo siano le stesse in ogni provincia cinese. Perciò gli argomenti di ogni sorta contro il movimento contadino devono essere immediatamente corretti, tutte le misure errate prese dalle autorità rivoluzionarie contro il movimento contadino devono essere immediatamente cambiate. Solo così il futuro della rivoluzione ne trarrà beneficio. Perché l’insorgere oggi del movimento contadino è un evento grandioso. In brevissimo tempo centinaia di milioni di contadini si leveranno in tutte le province della Cina centrale, del sud e del nord come un vento impetuoso e una tempesta, rapida e violenta, che nessun potere, per quanto grande, riuscirà a domare. Essi faranno a pezzi tutte le pastoie che li legano, per precipitarsi sulla via della liberazione. E infine, da loro, tutti gli imperialisti, i signori della guerra, i burocrati corrotti, i prepotenti locali, i proprietari terrieri verranno sepolti nella tomba. Tutti i partiti rivoluzionari e i compagni rivoluzionari dovranno comparire davanti a loro per essere esaminati e giudicati. Mettersi alla loro testa e guidarli? O star loro dietro gesticolando e criticando? O mettersi di fronte a loro per opporsi? Ogni cinese è libero di scegliere fra le tre, però siete destinati a scegliere alla svelta». La soggettività nasce dalle contraddizioni di classe e, però, molto spesso è disorganica, contraddittoria ed esprime una spinta o rivoluzionaria o comunque di trasformazione: il compito del partito è di tradurla in progetto, cioè di sistematizzare gli elementi e di riproporla a livello di massa, come sullo stesso livello di massa si potevano risolvere le contraddizioni interne al Partito.

Si partiva, secondo me giustamente, dal presupposto che la coscienza del proletariato non si formava solo attraverso l’esperienza della propria condizione, ma anche attraverso le esperienze di lotta e su questi due livelli dovevano poi interagire le organizzazioni del proletariato; in assenza o nella debolezza di questa interazione (quindi senza un’organizzazione di avanguardia all’altezza), la stessa elaborazione frutto della sintesi tra condizione sociale e lotta era destinata a restare solo al livello di “senso comune”, ovvero di elaborazione spontanea e approssimativa e non invece, come dovrebbe essere, sistematica e politica. Con il supporto dell’inchiesta sociale militante la conoscenza pratica può produrre risultati scientifici mentre i risultati della conoscenza scientifica possono essere utilizzati per l’iniziativa politica; pensiamo, ad esempio, a tutto lo studio che ne derivò dagli anni ’60 sulla questione del controllo operaio come fattore inversamente proporzionale all’alienazione oppure sulle riflessioni in merito alle stratificazioni del lavoro in fabbrica con la cosiddetta “burocrazia di fabbrica” che registrava l’emergere di funzioni e figure non solo operaie che svolgevano compiti aventi ad oggetto non direttamente la produzione ma l’organizzazione, cioè si affermavano figure con un potere spesso rilevante e che si ponevano a metà tra l’operaio e il capitalista. Quindi, negli anni ’60, in Italia l’inchiesta era un utile strumento di lavoro politico tra soggetti sociali, di cui si voleva conoscere comportamenti, convinzioni, bisogni e modalità di conflitto per produrre insieme a loro rivendicazioni sindacali, politiche e sociali perché si riteneva che in quel modo fosse possibile evitare le semplificazioni e le astrattezze dei partiti e dei gruppi politici nuovi nati dalla protesta studentesca e operaia. Successivamente, nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, sicuramente di rilievo in questo senso fu il ruolo svolto dal Collettivo Lenin nella costruzione degli organismi di base come strumenti per realizzare una linea di massa volta alla costruzione del Partito e quindi volta al radicamento nella fabbrica e pensata per superare la divisione meccanica tra lotta economica e lotta politica e per affrontare il problema direzione-spontaneità.

Vi erano però, purtroppo, anche gruppetti che erano comunque dominati da intellettuali di sinistra, nei quali la logica della rottura era basata non tanto su uno schema teorico rigido e settario, quanto sull’amore per le proprie idee, quindi sul litigio e, in definitiva, sul proprio narcisismo piccolo-borghese. Il radicamento di classe che comunque era limitato, più la tendenza degli intellettuali a scontrarsi, portava a sacrificare l’organizzazione per difendere una propria idea, privi come si era di un senso di responsabilità verso la classe operaia, non avendo con essa un rapporto così forte da essere richiamati al fare un passo indietro. Dall’iniziale scetticismo della sinistra ufficiale riservato alla sociologia come “scienza borghese” il dibattito politico, però, si rinnovò proprio con la stagione della nuova sinistra; in particolare, l’esperienza dei «Quaderni Rossi» diretti da Raniero Panzieri, riproponeva un ritorno a Marx che al contempo era un richiamo ad un «uso socialista» dell’inchiesta che provasse ad aprire nuove vie di ricerca e azione per il movimento operaio italiano. Sempre legata ad un rinnovamento culturale della sinistra, l’inchiesta uscì invece dal perimetro della fabbrica con Danilo Montaldi, uno dei più originali interpreti della “conricerca”, pratica di ricerca militante che fece discutere trasversalmente il mondo intellettuale e quello delle organizzazioni politiche di sinistra.

Come Karl Marx al sorgere della modernità capitalistica del secondo Ottocento, così il dibattito avvenuto nell’epoca della ricostruzione italiana pareva evidenziare la necessità imprescindibile dell’utilizzo dell’inchiesta quale strumento che superasse gli steccati ideologici e l’autoreferenzialità delle teorie astratte; in tempi di grandi mutamenti sociali e politici l’inchiesta restava appunto sempre la via più diretta per ritornare alle cose stesse, per ricostruire i fondamenti di una scienza che divenisse anche coscienza della società, mostrandone il carattere non naturale ma critico, per comprendere e trasformare il mondo. L’inchiesta operaia di Marx nel suo contesto si delineò attraverso un questionario originalmente redatto su richiesta di un gruppo di militanti comunisti francesi che poi confluiranno nel Partito Operaio Francese, di cui lo stesso Marx scriverà il medesimo anno parte del programma, parliamo dell’Inchiesta Operaia che fu pubblicata solamente nell’aprile del 1880 sulla Revue Socialiste, diretta da Benoît Malot, uno dei protagonisti della Comune di Parigi. Come spesso accade nel mondo della scienza, l’idea di commissionare un’inchiesta “operaia” per l’appunto nasce da un’intuizione legata ad un evento particolarmente sorprendente. Marx rimane, infatti, colpito dagli inattesi effetti politici scaturiti proprio da un’inchiesta sulle condizioni dei 10 lavoratori d’industria commissionata dal governo inglese. Dalla stessa erano scaturite rivendicazioni operaie che avrebbero portato la riduzione della giornata lavorativa a 10 ore nonché importanti limitazioni allo sfruttamento minorile e femminile. È proprio a partire da quel caso critico che Marx allora intuisce l’importanza dell’inchiesta, strumento di conoscenza e di lotta, per proporne una analoga, autonomamente commissionata, da svolgere in Francia che, all’epoca, era il luogo di maggior fermento e radicamento del movimento operaio internazionale. L’inchiesta operaia per Marx non è dunque un’attività descrittiva episodica o d’appendice, da svolgere a margine del lavoro politico, o una mera raccolta di informazioni sulla realtà sociale. Essa s’innestava pienamente nel modo stesso con cui il filosofo di Treviri interpreta il compito del pensiero, ovvero come «scienza della contraddizione», attività univoca che lega l’impresa scientifica e l’emancipazione politica.

Essa è quindi lo strumento specifico con cui realizzare quel feuerbachiano ritornare “alle cose stesse” (Zur Sache Selbst) che fa del generale metodo materialistico marxiano una scienza sociale moderna. L’ipotesi e la necessità dell’inchiesta operaia è infatti evocata in una lettera inviata ai delegati dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori già nel 1867 – lo stesso anno della pubblicazione del Libro I de Il Capitale, che segna una svolta definitiva nel pensiero di Marx, superando la critica dell’ideologia nella critica dell’economia politica. Rivolgendosi a lavoratori e militanti socialisti dei principali Paesi capitalistici, l’inchiesta contemperava un intento scientifico comparativo con quello della presa di coscienza politica che, riconoscendo la dimensione globale delle condizioni, poneva le basi per un’azione politica comune, internazionalista (pensiamo solo a quando oggi più che mai sarebbe importante porsi la questione dell’unificazione delle lotte almeno su basi europee, un nodo che ai sindacati concertativi non è mai interessato sul serio). Elementi, questi, che appaiono di radicale modernità e che stupiscono se pensati in rapporto allo stato tanto delle scienze sociali quanto delle forme politiche della seconda metà dell’Ottocento. Un secolo dopo, in Italia, grazie appunto proprio all’esperienza dei Quaderni Rossi che ponevano la fondamentale questione dell’uso socialista dell’inchiesta operaia, si riprese un filone di ricerca e quindi anche di stile di militanza lungamente trascurato ma che in realtà sarebbe dovuto diventare elemento imprescindibile anche per una scuola quadri di partito non dottrinaria e dove si poneva con rigore il legame tra l’aggiornamento della teoria e la definizione della linea politica. Meriti dei Quaderni Rossi furono senz’altro l’aver tenuto vivo il concetto fondamentale della caratterizzazione del socialismo inteso come passaggio dall’utopia alla scienza, il sottolineare la non «neutralità» della scienza sociale in generale e il suo legarsi a progetti di egemonia, ma anche il tentativo di costruire una sociologia del lavoro e dell’industria che non sia al servizio dello sviluppo tecnologico ma delle lotte operaie.

Questo impegno intellettuale con pochi precedenti e con ancora minori epigoni mirava nella sostanza a ribadire la proposizione di Lenin secondo il quale il movimento politico operaio non era altro che l’incontro del socialismo con il movimento spontaneo della classe operaia. Cioè dentro il movimento spontaneo della classe operaia – diceva Lenin, con una immagine abbastanza bella – se non c’è l’incontro con il socialismo come fatto volontario, cosciente e scientifico, c’è l’ideologia dell’avversario di classe. Oltre a cercare di accertare il livello di coscienza di classe dei lavoratori italiani, l’inchiesta mirava anche ad elevarlo, attraverso non solo la formulazione e concatenazione delle domande del questionario, come in Marx, ma anche attraverso il contatto tra i ricercatori e lavoratori che si verificherebbe necessariamente durante l’analisi. L’inchiesta, quindi, era volta a garantire anche il legame tra teoria e pratica, fungendo da tramite tra scienza sociologica e azione politica. In definitiva, l’inchiesta operaia diveniva un approccio che combinava produzione di saperi e organizzazione politica con l’obiettivo di creare conoscenza sul lavoro, disvelamento dello sfruttamento, delle relazioni tra classi e della natura del capitalismo a partire dalla prospettiva dei lavoratori stessi. In questo senso si allargava il campo di ricerca anche fuori dalla fabbrica poiché per capire il capitalismo si riteneva anche necessario andare oltre la comprensione della relazione di classe, il lavoro è la sola relazione in cui i lavoratori producono plusvalore, ma non è la sola fonte di oppressione sociale ed è per questo che l’inchiesta voleva considerare tutti gli aspetti della vita dei lavoratori, affinché l’acquisizione della nozione di società complessa non fosse solo uno slogan dal sapore restauratore ma, al contrario, per ribadire che gli stessi lavoratori vengono costituiti in classe sociale già prima di essere impiegati dal capitalista cioè, prima ancora di dover vendere il loro tempo, essi vengono espropriati dai mezzi di produzione, per cui tutta una serie di lotte politiche al di là del salario sono legate a questa condizione, ed esse concernono il welfare, le migrazioni e le frontiere, l’abitare e l’affitto e anche lo stato di disoccupazione e, a questo proposito, un aspetto interessante a mio avviso diveniva anche quello legato all’attenzione che poneva la ricerca non solo ai mutamenti delle forme del lavoro, ma anche ai mutamenti e quindi agli aggiornamenti delle possibili forme di lotta; pertanto, ci si concentrava su quelli che potessero essere gli strumenti di organizzazione del movimento operaio per cui non ultima appariva anche la questione del rapporto tra memoria storica e coscienza di classe. È utile ribadire che per fare la storia degli operai e quindi ricercare le strade della possibile formazione della loro coscienza politica di classe, diviene necessario conoscere con precisione le forme del loro lavoro e, insieme, le subculture tradizionali e organizzative che caratterizzano la classe stessa.

Oggi sappiamo che alcuni limiti dell’operaismo risiedevano nell’essersi occupati principalmente dei lavoratori impiegati nella produzione di merci, la cui forza-lavoro è sfruttata per la creazione di plusvalore mentre un’analisi della composizione sociale più complessiva delle classi subalterne ci permetterebbe, oggi più che mai, di estendere la logica dell’analisi della composizione di classe a tutta la classe, includendo i disoccupati (il marxiano esercito industriale di riserva) e i lavoratori non direttamente impiegati nella produzione della forma-valore capitalista; per fare solo un esempio, basterebbe prendere a riferimento i lavoratori della logistica ultimamente protagonisti di lotte molto radicali oppure quelli dei call-center o gli stessi rider dove il problema dei ritmi lavorativi pone il problema del controllo sempre più pervasivo dell’azienda sul lavoratore. Il soggetto a cui ci si rivolge, oggi più che mai, non può essere un soggetto monolitico, bensì complesso e differenziato, un insieme composto di lavoratori stabili e precari, nativi e immigrati, operai e impiegati nell’industria come nei servizi, donne e uomini; l’inchiesta, quindi, serve in primo luogo a conoscere quella che viene chiamata la composizione di classe. Ma è chiaro che non ci si può rivolgere allo stesso modo all’operaio specializzato assunto stabilmente rispetto ad un precario di un centro commerciale o ad un tecnico informatico o ad un bracciante immigrato come ad un impiegato statale o ad una badante. Tra l’altro, la stessa tesi che le “idee giuste vadano ricercate tra le masse” non vuol significare una ingenua esaltazione di tutto ciò che le masse pensano ma intende affermare, invece, che la relazione con le masse deve creare una sintesi con la teoria tale da evitare qualsiasi forma di predicazione ex cathedra con le stesse. Ed ecco che così l’inchiesta diviene non solo un metodo per costruire una linea politica ma anche il metodo di costruzione di un’organizzazione partitica stessa. Il posto della ricerca sociale, da oramai un trentennio, è stato però piuttosto marginale se solo ricordiamo ad esempio che già nella seconda metà degli anni ’90 il programma di attività dell’Istituto di ricerca della CGIL denotava una crescente propensione a sviluppare programmi rispondenti più a requisiti formali richiesti dalla ricerca accademica che a metodi di indagine più vicini all’impostazione della “conricerca” sullo stile dei Quaderni Rossi, anzi, nel frattempo, la ricerca si orientava più alle opportunità del mercato con ad esempio la partecipazione a bandi pubblici di finanziamento delle ricerche piuttosto che riferirsi ad una domanda di base sindacale.

La Cgil indebolisce i suoi legami con il proprio istituto di ricerca, e quindi a venire meno è proprio la domanda di conoscenza della realtà e delle trasformazioni del luogo di lavoro come punto di partenza delle proprie elaborazioni. Ad aggravare tale situazione concorreva poi il venir meno delle risorse complessive destinate all’attività di ricerca, una situazione che spingeva a sua volta gli stessi istituti di ricerca a far ricorso al mercato per garantire la propria sopravvivenza. La totale marginalità del ruolo dell’inchiesta sociale ha contribuito senz’altro, a proposito dei problemi del movimento operaio, alla lettura speculare delle opposte tesi estremizzate ovvero quella che vede l’origine di tutti i mali nel “tradimento” dei gruppi dirigenti come causa di tutte le sconfitte per la capitolazione dei capi o del loro passaggio nel campo avversario, sia al livello politico (scioglimento del PCI) che sindacale (dall’EUR alla concertazione), una spiegazione superficiale e consolatoria che non dà una visione critica complessiva della realtà come in modo complementare non la danno neppure solo le “ipotesi strutturali” che affermano che i mutamenti oggettivi nella composizione della classe producano di per sé divisioni e debolezza. Anche quest’ultima, infatti, risulta essere una visione piuttosto meccanica e semplificata che collega i momenti alti della lotta alla concentrazione fordista e all’operaio massa e, al contrario, collegando il riflusso e il ripiegamento alla nuova organizzazione del lavoro frammentato e decentrato, quando in realtà si è assistito a lotte molto radicali anche prima della fase cosiddetta fordista dell’operaio massa. Certo, non priva di limiti fu anche la ricerca passata, un duplice esempio tipico dei limiti dell’operaismo è legato a quella che potremmo chiamare la cosiddetta “ricerca delle nuove centralità”, ovvero del nuovo strato sociale “centrale” o della “nuova rivendicazione centrale”.

La ricerca del nuovo ”strato sociale centrale” ha portato, di volta in volta, ad identificarlo con i lavoratori autonomi di seconda generazione o con i lavoratori cognitivi o con i precari; come in passato, però, queste ideologie dimenticano un elemento storico fondamentale, ovvero che i punti alti (e più politici) della lotta di classe nascono dall’incontro-alleanza tra settori diversi delle classi oppresse (il famoso blocco sociale gramsciano), quindi non solo, ad esempio, la rivoluzione russa con l’alleanza tra operai e contadini (ma anche soldati in buona parte essi stessi già contadini), ma anche il grande ciclo di lotte operaie italiane degli anni ’60-‘70 che non fu opera esclusiva dell’operaio massa ma dell’incontro unitario tra questo e gli operai di mestiere e parzialmente di settori di tecnici e impiegati. Quanto nel Novecento fosse centrale la questione dell’analisi di fase e quindi della conseguente strategia politica da adottare, lo dimostra il fatto che proprio nel PCI che teneva molto a curare il legame tra l’analisi e la linea politica, finanche lì la dominante lettura amendoliana sul capitalismo monopolistico arretrato italiano si scontrava con la lettura di fase di Bruno Trentin che invece poneva più l’accento sulle differenziazioni tra impiegati, tecnici, operai, e sull’avanzare di una terziarizzazione che aumentava il peso del ceto medio, ponendo così il problema del blocco sociale e del peso delle sue componenti e quindi della sua struttura. Ma il PCI stesso aveva, ad esempio, già posto il problema anche dell’appropriazione di classe del tema della scienza applicata al mondo del lavoro ed oggi più che mai un progetto politico rivoluzionario non può non misurarsi con quella che è una frammentazione e una continua articolazione della composizione sociale della forza lavoro stessa e, quindi, non può evitare di mettere insieme sperimentazione, innovazione e conservazione. Ma la necessità di ricerca e di elaborazione parte da un assunto politico fondamentale e cioè che ciò che chiamiamo popolo è sì una entità sociale e sociologica ma (al contrario di quanto afferma il populismo) diviene soggetto politico se si appropria di una cultura tale che gli consenta di avere una visione critica non di pancia rispetto all’esistente, e pertanto la politica deve contenere un fondamento pedagogico di critica collettiva dell’esistente. Oggi, il termine popolo nell’ondata populistica si presenta come entità data assunta come inamovibile e preservata nella sua primordiale spontaneità ed è proprio in questa primordialità che acquisirebbe il suo valore. Nel PCI, all’opposto, nella dimensione del partito comunità la politica in senso alto si presentava, oltre che come aggregatore di interessi, anche come ambito che incorporava ed educava l’istintività popolare; nel neo-populismo, all’opposto, è il sociale dato nella sua immediatezza che come tale dovrebbe incorporare il politico. Fuori da ogni nostalgia è giusto quindi sottolineare come il PCI si presentava come soggetto politico produttore di cultura e dove il processo di emancipazione del lavoro si concepiva quale precondizione del processo di emancipazione collettiva più complessiva. Oggi che registriamo soprattutto al Sud Italia quanto i livelli salariali, oramai da oltre un ventennio, siano al di sotto del livello di riproduzione della forza lavoro, pensiamo davvero che tale questione possa essere demandata alle sole forze sindacali?

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