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nuvole

Buone pratiche scolastiche e prospettive sociali e politiche dell'educazione

di Federico Repetto

La sinistra pedagogica oggi lavora alle buone pratiche per cambiare la scuola, per quanto si può. Ma questo rimanda ad un nuovo patto tra gli adulti per l’educazione dei ragazzi e ad una contestazione dell’egemonia dell’individualismo neoliberale

Telemaco Signorini Bambina che scrive1. Le buone pratiche. La scuola oggi non ha bisogno di un’altra riforma globale, per cui la sinistra docente (in collaborazione con enti locali, con associazioni e movimenti educativi, con i dirigenti scolastici e –a Dio piacendo- col ministero) deve puntare a sperimentare e diffondere buone pratiche d’insegnamento. Ed è quello che già fa da decenni, in particolare a partire dagli anni settanta, ma che oggi deve fare con maggiore intensità, data la situazione disperata in cui versa la scuola (vedi l’articolo di Domenico Chiesa sul documento del CIDI di Torino Cambiamo la scuola)

Del resto la sparuta sinistra politica non può aspirare a responsabilità di governo, almeno in ambito nazionale, e, nelle condizioni attuali, se lo facesse sarebbe probabilmente sconfessata da moltissimi dei suoi elettori.

 

2. Che senso ha oggi dire che la scuola dell’obbligo non può bocciare? In attesa di tempi migliori, e per cercare di accelerarne l’avvento, dovremmo provare ad affrontare di nuovo alcune vecchie questioni, che si ripresentano in forma nuova.

La prima è: è proprio vero che la scuola dell’obbligo non può bocciare? Don Milani parlava delle bocciature di bambini e ragazzi di un’Italia contadina, in cui andare a scuola era comunque più piacevole che lavorare nei campi o in officina. Certo era meglio per loro arrivare alla terza media senza bocciature e acquisire comunque un’idea d’insieme dei programmi, piuttosto che ripetere tre volte la grammatica di prima media e la storia romana.

Ma oggi è proprio così? In realtà oggi -o meglio, negli ultimi decenni– i ragazzi delle grandi periferie urbane hanno cose molto più interessanti da fare che andare a scuola e sono ben lungi dall’essere gratificati dai programmi scolastici. La strada (genitori permettendo), la tv, i campi da gioco, oggi gli smartphone e i videogiochi, hanno molte più attrattive della scuola, e, per molti versi, insegnano di più sulla realtà. Le famiglie inoltre, almeno dagli anni settanta-ottanta, hanno sostanzialmente abdicato al compito di formare il super-io dei figli e di dare loro una rigorosa disciplina di comportamento sociale, mentre gli insegnanti spesso sono stati denigrati dai media. E in seguito la scuola ha perso la sua funzione di ascensore sociale, mantenendo magari quella di educazione alla cittadinanza – certo poco apprezzata dai media commerciali e dal senso comune televisivo.

Non fare attenzione all’insegnamento, perdere interesse per la lettura, non studiare, essere spesso assenti (magari giustificati) sono diventati atteggiamenti sempre più frequenti tra i ragazzi. Questo non significa che la bocciatura ne sia la “punizione” adeguata. La vera risposta è (sarebbe) quella di ridare senso all’insegnamento, e richiederebbe l’elaborazione di un nuovo linguaggio scolastico all’altezza dei nuovi media (e il ripristino dell’ascensore sociale). Tuttavia nel frattempo la promozione di fatto sicura deresponsabilizza il ragazzo sia nei confronti della scuola e della società, sia nei confronti del proprio processo di crescita. E inoltre crea una sensazione di ingiustizia in quelli che fanno uno sforzo significativo per apprendere e per adeguarsi alle richieste della scuola.

 

3. L’insegnamento agevolato per i portatori di bes (bisogni educativi speciali) è sentito dai non-agevolati come discriminazione? In questo numero di “Nuvole”, Ivana Paganotto, nell’articolo Non fare dei BES un’occasione di esclusione, pone appunto questo interrogativo. Ma esso è collegato in vari modi con quello precedente. Intanto, escludendo quelli per gli handicap fisici e linguistici, molti BES, riguardanti la lettura, la scrittura e il calcolo possono essere legati sia all’abuso dei media elettronici, sia alle carenze dell’educazione familiare (collegate talvolta proprio alla permissività riguardo a tali media, o addirittura al loro massiccio impiego come babysitter). Il ricorso alla certificazione dei BES rientra in un atteggiamento per cui il proprio bambino è –nel bene e nel male- speciale, diverso da tutti gli altri. Tale atteggiamento fa parte di una vecchia abitudine italiana di scaricare sullo Stato le difficoltà individuali, ma si colloca anche nel quadro dell’individualismo neoliberale, e in quello del narcisismo contemporaneo, che vive l’educazione del figlio come una sorta di opera d’arte, fine a se stessa, e staccata dagli obblighi sociali. Altre volte sono gli insegnanti a insistere per la certificazione di questi BES, ignorati dalla famiglia (assenteista, disgregata o in condizioni di grave disagio). Ma Paganotto nota giustamente che essi, in determinate scuole o ambienti, non sono bisogni di natura individuale, ma bisogni comuni alla gran parte della classe. Anche la loro diffusione più intensa in quartieri e ceti meno favoriti è indice della povertà culturale dell’ambiente che li produce (anche se i genitori benestanti possono richiedere la certificazione per un eccesso di protettività).

 

4. Educazione alla responsabilità vs meritocrazia competitiva. Un dirigente scolastico che ha scritto in questi giorni a “Orizzonte scuola” lamenta l’”elementarizzazione” della scuola media, cioè la strisciante tendenza a rendere quasi impossibile la bocciatura, per cui, “con i criteri che stanno approvando i vari collegi dei docenti” accadrà che troppi studenti, “una volta capito di essere diventati intoccabili”, non si sforzeranno neppure di portare in classe penna e quaderno”[1]. E si domanda se “fra la scuola spietata, classista, elitaria, che precedeva il Sessantotto e, all’estremo opposto, la scuola della promozione assicurata di oggi possa esserci un “giusto mezzo”.

La metterei in termini un po’ diversi. Il fine della scuola dell’obbligo è quello della crescita educativa di ogni ragazzo. La “scuola spietata” aveva invece come fine la selezione, e la promozione garantita di oggi ha come fine (dietro le dichiarazioni buoniste) soprattutto la pacificazione dei genitori, ed è una resa di fronte alla richiesta non di educazione, ma di diplomi.

Quello che i buonisti dimenticano è che l’educazione del buon cittadino comprende l’educazione alla responsabilità. Ci deve essere qualche forma di sanzione per chi trascura di svolgere i propri compiti (in senso scolastico e in senso civico). Non è detto che la bocciatura sia l’unica sanzione possibile, né la più adatta ed efficace. Se ne possono escogitare altre, dalla pulizia delle aule all’obbligo a partecipare a gite in cui si piantano degli alberi, all’aiutare bambini più piccoli a imparare. Uno splendido modello, su un piano diverso, è l’iniziativa torinese del tribunale dei minori, della polizia municipale e di diverse associazioni educative (tra cui l’Asai[2]), per cui i minori rei di piccoli reati possono scontare la pena con lavori di pubblica utilità: il successo di questo esperimento nasce proprio dalla proposta fatta al minore in crescita di assumersi la responsabilità di un compito sociale.

In tutti i casi rinunciare a qualunque tipo di sanzione vuol dire rinunciare a rendere il ragazzo responsabile della sua stessa educazione e cosciente della sua appartenenza alla società che gliela offre. Vuol dire anche demotivare quanti svolgono il proprio compito.

Come si vede, l’educazione alla responsabilità è ben diversa dalla meritocrazia competitiva. Essa si colloca all’interno di un patto con gli adulti per raggiungere obiettivi di crescita, in un rapporto collaborativo con adulti e altri ragazzi; la meritocrazia competitiva è invece una gara per guadagnare qualcosa o per vincere, in un gioco a somma zero con gli altri ragazzi.

 

5. Il patto tra gli adulti per l’educazione dei nuovi cittadini. Un ostacolo importante all’educazione alla responsabilità è la crisi generalizzata del ruolo paterno. Anche se una parte di questo ruolo è stata recuperata dalle donne, il deficit resta, così come la forte demoralizzazione dei maschi (che forse si traduce in un aumento del loro ricorso alla violenza). Lo psicologo milanese Pietropolli Charmet anni fa ha proposto un patto tra adulti per l’educazione (famiglie – scuola – servizi sul territorio). Ma questo patto presupporrebbe una cittadinanza solidale, mentre la cultura individualista neoliberista produce soprattutto concorrenza individuale, distruggendo i legami sociali. E rendendo possibili la guerra tra generazioni e la guerra tra poveri. La solidarietà è ridotta alla sua caricatura: ad opporsi all’individualismo c’è soprattutto ormai il razzismo patriottico contro gli immigrati.

 

6. L’egemonia neoliberale passa attraverso l’”educazione” mediatica. Oggi i media elettronici privati sono la principale agenzia educativa, più influente non solo della scuola, ma anche della Chiesa e per certi versi della stessa famiglia (che ha da tempo ceduto le armi di fronte al messaggio tv sia per un atteggiamento culturalmente remissivo di fronte ad esso, sia per problemi oggettivi: mancanza di tempo, comodità del baby sitting televisivo, senso di impotenza di fronte al potere del mezzo)

Ma oggi è particolarmente forte la coeducazione tra pari, anche grazie ai social. I social (una volta facebook, ma ormai vari altri, come whatsapp, inaccessibile ai genitori) mettono in relazione continua e autonoma quegli stessi ragazzi che sono accompagnati dagli adulti a varie attività “amministrate” (dallo sport alle festicciole organizzate) in una città che viene considerata (anche grazie alla tv) tremendamente ostile e pericolosa.

La discussione tra pari dei ragazzi però non parte dal nulla, ma da contenuti che sono loro proposti: i media privati (tv e produttori di contenuti mediali di qualunque tipo) sono in vantaggio sulle altre agenzie educative sia per i loro “potenti mezzi”, sia perché non hanno alcun impegno educativo esplicito e possono presentarsi come puro entertainment, che non richiede troppa fatica e dà gratificazioni immediate (la scuola le rimanda ad un inverificabile futuro). La tv, dominata dagli inserzionisti pubblicitari, è disponibile a diffondere qualunque messaggio che faccia audience, ma, a parità di audience, ha dei sistemi di selezione dei contenuti basati sui loro interessi economici di fondo e sui loro valori.

Ma anche i social sono immersi nella cultura egemone. Pur non selezionando i contenuti, hanno particolari regole di accesso: p.es. il formato di Facebook è quello di un diario in pubblico con esibizione competitiva delle proprie fotografie e dei propri post, una specie di reality autogestito. Vince chi ha più amici. Il formato incoraggia la competizione individuale e l’esibizionismo proprio della società dello spettacolo.

 

7. Dobbiamo partire dai ragazzi così come sono, e dai loro media. Internet e i social per i ragazzi sono una dimensione educativa e coeducativa primaria da cui ricavano socialità, gratificazioni, autostima e informazioni. La scuola pubblica democratica non ha il potere di rifiutarla e di metterla da parte. Quindi deve poterne fare uso, deve coordinarla con la sua azione educativa, proprio per rendere efficace il proprio messaggio (cooperazione, cittadinanza, universalismo umanistico, sapere rigoroso e critico, ecc.).

In lingua inglese esiste da tempo una produzione massiccia sia di software didattici che di contenuti scolastici da fruire on line. Sonia Livingstone ha lamentato l’insufficienza dell’investimento da parte delle istituzioni: i software per la scuola (p.es. i videogiochi educativi) dovrebbero essere attraenti e ben fatti, come e più degli altri. Una rivendicazione della sinistra deve essere proprio quella di un investimento significativo in questo settore. Ma la produzione non può essere semplicemente devoluta al settore privato: è necessaria l’interazione con le associazioni dei cittadini e con la scuola, e l’iniziativa retribuita di gruppi di lavoro formati da insegnanti pubblici di vari livelli, adeguatamente preparati (e pagati), e in diretto rapporto con le classi.

 

8. Rovesciamo la classe? Gira per le scuole italiane l’idea (americana) della flipped classroom, della classe rovesciata (lezione a casa – compiti a scuola)[3]: i ragazzi vedono il video della lezione a casa sul loro smartphone (o pc) e poi a scuola la discutono, la applicano e la sviluppano con l’insegnante. Pare che il sistema funzioni abbastanza bene nelle materie scientifico-matematiche e linguistiche. La situazione delle materie storico- letterarie invece è comprensibilmente diversa, ma forse la sperimentazione potrebbe permettere di superare l’impasse.

La sperimentazione flipped classroom di fatto in qualche scuola è già in atto, da parte di insegnanti giovani, e così anche l’uso di software didattici e video a scuola. Ma magari ciò nasce dalla disperazione (difficoltà di gestire classi particolari, o di reggere nelle ultime ore), o dalla passione non retribuita di “angeli del pc”. Invece dovrebbe essere rivendicata apertamente. Tuttavia senza una diminuzione del numero di studenti per classe, senza un’assistenza tecnica e un miglioramento retributivo agli insegnanti sperimentatori, senza una fruizione egualitaria da parte degli studenti (c’è chi non ha un buon smartphone), ecc., la scuola si limiterebbe a inseguire i media privati e ad adeguarsi alla cultura studentesca ai livelli più bassi. Queste rivendicazioni hanno senso solo nell’ambito di un reale rifinanziamento del sistema scolastico, di un ringiovanimento del personale docente e di una completa eliminazione della condizione di precariato permanente.

 

9. Educazione ed egemonia. Ma qual è il senso ultimo delle buone pratiche sperimentate dai buoni docenti? A me pare, in primo luogo, che sia quello di formare dei cittadini consapevoli e solidali, e in grado di affrontare la continua richiesta di aggiornamento del lavoratore richiesta dalla globalizzazione. Per questo la scuola non può rincorrere l’aggiornamento continuo dei contenuti, né hanno senso forme di apprendistato improvvisate e appiattite sull’empiria come quelle dell’alternanza scuola-lavoro (si veda in questo numero il contributo di Palumbo), ma deve formare lo studente in modo il più possibile generale ed aperto, e insegnargli ad auto-formarsi in continuazione. Per questo sono indispensabili la riflessione teorica e l’abitudine all’astrazione, la conoscenza della nostra cultura e della nostra storia, la conoscenza della geografia mondiale e l’apertura sulle culture altre, del resto già presenti in mezzo a noi. E l’integrazione culturale dei ragazzi non di origine italiana è una risorsa per tale apertura.

In secondo luogo, dovrebbero collocarsi nella prospettiva della lotta contro l’egemonia culturale neoliberale. Ma, sul lungo periodo, questa lotta non è possibile senza una cultura  autonoma e un modello culturale e sociale alternativi al neoliberalismo.  Le buone pratiche hanno senso nella scommessa che sia possibile un soggetto politico capace di proporli e sostenerli nel tempo. È su di esso che dovrebbe reggersi quel patto educativo tra gli adulti di cui abbiamo parlato.


Note
[1] https://www.orizzontescuola.it/alunni-bravi-perche-si-abbassano-standard-verso-lelementarizzazione-della-scuola-secondaria-primo-grado-lettera/#.WnB2Qf2yI0o.facebook
[2] http://www.asai.it/cosa-facciamo/giustizia-riparativa
[3] Cfr. tra gli altri Cecchinato, Graziano, Papa, Romina, Flipped Classroom: un nuovo modo di insegnare ed apprendere, Utet, Torino, 2016, nonché le interviste di De Mauro su questo tema.

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