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“La meritocrazia non è un meccanismo di liberazione, ma un’ideologia pericolosa”

Alessandro Bonetti intervista Vittorio Pelligra

Abbiamo intervistato Vittorio Pelligra, professore di politica economica all’Università di Cagliari, che nella sua rubrica Mind the economy sul Sole 24 Ore ha sollevato un interessante dibattito sulla meritocrazia

merito 2 1200Bonetti: Lei sottolinea come molti movimenti che si definiscono progressisti, liberali, di sinistra abbiano introiettato l’idea di meritocrazia. Pensiamo a Blair, Obama, Renzi. Qual è la grande contraddizione?

Pelligra: Più che una contraddizione è un equivoco, nel senso che l’idea di merito è solo apparentemente semplice. È in realtà un concetto complesso, sia dal punto di vista filosofico sia dell’implementazione operativa: merito di cosa, merito per chi? Quanto “merito”?

L’equivoco nasce in buona fede nel tentativo di dare risposta a domande reali. Spesso queste risposte, però, sono diventate semplicistiche scorciatoie. E così, a sinistra l’idea di merito è assurta a una sorta di antidoto alle disuguaglianze. Si afferma che l’attuale struttura sociale tende a rigenerare le disuguaglianze, perché punta più agli esiti che alle opportunità. Quindi se riuscissimo a far partire tutti dalle stesse opportunità potremmo isolare l’effetto della dotazione di partenza dal merito e dall’impegno individuale e perciò diventerebbe possibile incentivare l’impegno premiando il merito stesso. Questo è un tentativo lodevole, ma è logicamente impossibile.

Infatti, tutto quello che è impegno è fortissimamente determinato da elementi che non sono impegno, come l’essere nato in una certa famiglia, in un certo paese, in un determinato momento storico. Oggi sappiamo che il processo di accumulazione di capitale umano funziona attraverso un meccanismo di complementarità dinamica: riesco a imparare se ho imparato ad imparare. Lo stesso impegno, dunque, produce risultati differenti in base alle dotazioni iniziali che dipendono totalmente dalla fortuna.

E infatti le condizioni per poter ottenere risultati ottimali da un percorso scolastico si formano molto prima dell’accesso a quel percorso. Le componenti non cognitive del capitale umano (perseveranza, autocontrollo, capacità di posticipare le gratificazioni, ecc.) si formano ben prima dei 6 anni. Queste cose, naturalmente, non sono frutto del merito, eppure hanno un impatto fortissimo su quello che chiamiamo “impegno”. Premiare l’impegno vuol dire, dunque, premiare qualcosa che si è sviluppato grazie a fattori al di fuori del nostro controllo. Ecco il fraintendimento di fondo. Quello del merito più che un ideale praticabile è una retorica, che nasce per dare risposte semplici a domande molto concrete e molto complesse. Le disuguaglianze richiedono una risposta, ma la soluzione scelta da una certa sinistra è una scorciatoia.

 

Bonetti: Ad esempio?

Pelligra: Mi colpisce molto lo slogan di Obama: “you can if you try” (se ci provi ce la puoi fare). Provarci significa studiare e impegnarsi, ma si sottintende che l’impegno sia una pura scelta personale. Qui si apre il vero aspetto critico, quello che ho chiamato “asimmetria delle valutazioni”. Lo slogan “se ci provi ce la fai” si porta dietro, non esplicitata, l’implicazione morale che se non ce la fai è perché non ci hai provato abbastanza. Questo è l’aspetto perverso della retorica della meritocrazia, che porta non solo a premiare chi ce l’ha fatta, ma contemporaneamente anche a disprezzare (provare disdain) chi non ce l’ha fatta. Ma se uno non ce l’ha fatta, non vuol dire che non si sia impegnato. Non ce l’ha fatta perché magari stava salendo una salita oggettivamente non scalabile.

 

Bonetti: La retorica del merito può aver contribuito alla scomposta reazione populista a cui stiamo assistendo negli ultimi anni?

Pelligra: Certamente. Penso che sia una delle sue radici più forti. Il disorientamento di tanti di fronte al populismo nasce dal fatto che non capiscono quanto questi fenomeni siano legati alla retorica del merito che loro stessi hanno alimentato. Non puoi vendere questa retorica a persone in difficoltà, schiacciate da mutamenti sociali di portata storica, come la sparizione della classe media, che stanno provocando enormi disagi. Non puoi rispondere alle persone travolte da questi mutamenti dicendo “studia”.

Mi ricordo la risposta dell’allora ministro dell’Istruzione Bussetti in visita in Campania, che a una domanda su nuovi fondi per le scuole rispose: “No, vi dovete impegnare di più”. Questo genere di risposte crea risentimento. E i populismi si nutrono di esso. Il punto è che la risposta ai populismi è stata la negazione della legittimità di questo risentimento. Un risentimento che però legittimo lo è, almeno in parte. Il discorso sulla meritocrazia è uno snodo importante. La meritocrazia non è un meccanismo di liberazione, ma un meccanismo che rigenera oppressione.

 

Bonetti: Un altro esponente dell’area liberal-progressista, Tommaso Padoa-Schioppa, nel 2003 scrisse un articolo in cui diceva che nell’Europa continentale erano necessarie riforme per riportare i cittadini a contatto con la durezza del vivere. Il pensiero sottinteso era che dalla rinnovata lotta con le difficoltà della vita quotidiana sarebbero emersi i meritevoli. Chi si fosse impegnato di più ce l’avrebbe fatta. Padoa-Schioppa fu poi ministro con Prodi, il che ci dà una conferma ulteriore che una parte della sinistra si è innamorata di una certa retorica. Quello che Padoa-Schioppa ci disse in quell’articolo è che i meccanismi di mercato dovevano tornare a regolare la vita delle persone. Qual è il legame fra il ruolo del mercato e l’ideologia del merito?

Pelligra: Anche qua c’è un equivoco, quello secondo il quale necessariamente il mercato premia il merito in maniera automatica. Questo non fa parte del pensiero liberale tradizionale: von Hayek e lo stesso Hume erano perfettamente coscienti che il mercato non premia il merito, ma una serie di circostanze al di fuori della dimensione individuale. Per esempio, quando studiamo la concorrenza, sappiamo benissimo che i prezzi di mercato non sono legati a scelte dei singoli. Anzi, i soggetti sono price-taker, ossia prendono i prezzi come dati. Questo perché i prezzi, così come i salari, emergono dall’interazione di un numero enorme di fattori, che hanno a che fare con le contingenze più varie. Se ho un certo talento, non c’è merito o demerito nel coltivarlo o no, perché riguardo al frutto di quel talento può esserci un eccesso di domanda o di offerta. Quello che riesco a ottenere dallo sfruttamento di un talento è determinato da elementi esterni (come domanda e offerta) e indipendenti dalla mia volontà o dal mio impegno.

Quindi, che il mercato premi il merito individuale è un equivoco di fondo. I liberali dovrebbero prenderne le distanze, perché espone la loro visione del mondo a una critica semplice e distruttiva, che in realtà non è un’implicazione logica di una società di mercato. Una società di mercato può funzionare perfettamente anche senza la meritocrazia così intesa.

 

Bonetti: Nei suoi articoli lei ha scritto che come rimedio all’ideologia della meritocrazia si dovrebbe rivalutare la dignità del lavoro, ossia trasformare una società di cittadini-consumatori in una di cittadini-produttori, che trovano gratificazione nel produrre beni e servizi che possono essere utili al resto della comunità. Qual è la radicale differenza economica e filosofica fra questi due tipi di società?

Pelligra: È una questione di enfasi. Siamo già produttori, non solo di beni materiali, ma anche di capitale umano e sociale. Il punto è che la rappresentazione praticamente esclusiva che viene data dei cittadini è quella di consumatori. Da questa narrazione discende quindi che ciò che bisogna tutelare è la capacità di consumare.

Porre l’enfasi su un lato o l’altro della medaglia non è neutrale, neanche per la politica economica. Se voglio tutelare principalmente il tuo essere consumatore, devo proteggere soprattutto il tuo potere d’acquisto. Se invece descrivo e concepisco i cittadini principalmente come produttori, devo tutelare maggiormente la possibilità di lavorare. In un certo discorso queste cose diventano equivalenti: se il lavoro viene visto esclusivamente come un mezzo per procurarsi un reddito e poi poter spendere, allora quando il lavoro non è più necessario basta che ti fornisca il reddito che avevi prima (o una sua parte). Ma le cose non stanno esattamente così, perché il lavoro ha un valore in sé. È quel partecipare alla creazione che umanizza il mondo e rende lavoratori e lavoratrici ancor più uomini e donne. È un’occasione per generare.

Tutta questa dimensione del lavoro e della sua dignità sparisce nella visione dei cittadini come consumatori. È una perdita di senso enorme: perdita di una finalità, della possibilità di essere membri stimati di una comunità, di operare con impegno, creatività e autonomia con e per le persone che hanno intorno. Eliminare questo senso è una ferita di cui paghiamo le conseguenze. L’ho chiamata “espropriazione capitalistica di un surplus esistenziale”, riecheggiando Marx. È come se perdendo il lavoro e ricevendo un sussidio io fossi espropriato di quello che realmente sono. È una ferita quasi più profonda e dolorosa della perdita di lavoro in sé. A tal proposito, alcuni studi di John Layard mostrano che per compensare la perdita di benessere derivante dal diventare disoccupati il soggetto dovrebbe percepire 2 volte e mezzo il reddito che percepiva lavorando. Significa che quando smetto di lavorare ciò che perdo è molto più del reddito: è il senso di sentirmi membro attivo e utile di una comunità.

 

Bonetti: L’ideologia del merito attribuisce l’insuccesso nel trovare un’occupazione o nel raggiungere il lavoro desiderato a un de-merito individuale, a una mancanza di impegno.

Pelligra: Certo, secondo quelle lenti vuol dire o che non ti sei formato abbastanza o che non ti sei impegnato abbastanza o che non ce l’hai messa tutta.

 

Bonetti: Esatto. Ma si sviluppa anche un atteggiamento sprezzante da parte di chi ce l’ha fatta verso chi non è riuscito a raggiungere la posizione lavorativa che voleva, un lavoro stabile o una vita soddisfacente.

Pelligra: Un altro elemento che emerge e ci fa capire gli effetti distorsivi della retorica meritocratica è il proliferare di quelli che David Graeber chiamava “bullshit jobs”. Stiamo progettando e moltiplicando lavori senza senso o addirittura socialmente dannosi. Questo nasce dal fatto che oggi tutti i lavori sono considerati interscambiabili in quanto a valore, perché se sono innanzitutto un consumatore, l’importante è che a fine mese io porti a casa lo stipendio. Che lo faccia costruendo bombe o accudendo anziani non cambia niente. Se una persona che produce bombe e una che accudisce anziani vengono pagate allo stesso modo, il prestigio o valore sociale associato ai due lavori è identico, perché è quello associato al valore di mercato. Non tiene conto di esternalità e motivazioni intrinseche.

La questione del disdain (disprezzo ndt) con cui chi ce la fa rischia di guardare a chi non ce la fa è una forma di neo-aristocrazia. Mi colpisce molto una riflessione di Michael Sandel: quando c’era l’aristocrazia, gli aristocratici erano molto coscienti del fatto che i loro privilegi fossero legati a una questione di nascita. Non potevano dire “è merito mio”, cosa che invece i neo-aristocratici oggi fanno, senza tener conto dell’influenza della famiglia, ad esempio.

Quando uno “ce la fa”, avviene un fenomeno di overconfidence: è molto difficile psicologicamente non attribuire il proprio successo al proprio impegno o alle proprie capacità. Di conseguenza diventa più facile sminuire quelli che hanno avuto meno successo.

Perciò, il punto non è tanto la questione del merito, ma forse quella del de-merito, perché rende instabile la società, crea risentimento e ha forti effetti di perdita di senso. Soluzioni immediate non ce ne sono, ma almeno bisogna porre il problema. Uno degli aspetti che più mi colpisce è la reazione dei liberali a queste riflessioni. I liberali danno il concetto di merito per scontato e non si rendono conto che in realtà è controproducente per la loro visione del mondo.

 

Bonetti: In definitiva, se l’ideologia meritocratica non è neanche liberale, che cos’è?

Pelligra: È un’ideologia. Che si è affermata con il supporto di forze di destra e di sinistra, liberali ed egualitarie. È un grande equivoco, perché da una parte il merito è stato considerato indispensabile per il funzionamento del mercato e quindi è stato assunto dalla visione liberale come un elemento necessario, cosa che non è vera. Dagli egualitari invece è stato visto quasi come un meccanismo di emancipazione: creiamo uguaglianza di opportunità e poi lasciamo che le cose vadano in base all’impegno di ciascuno. Ma l’uguaglianza delle opportunità non esiste ed è difficile ottenerla.

 

Bonetti: Quali sono le implicazioni del superamento dell’ideologia del merito?

Pelligra: Innanzitutto ripensare il sistema fiscale. Se siamo produttori almeno tanto quanto siamo consumatori, punire fiscalmente il lavoro significa penalizzare un’attività che genera valore indipendentemente dalla sua dimensione economica e monetaria. Si svilisce un ruolo, proprio perché non ci si rende conto della dignità intrinseca del lavoro.

In Italia c’è poi una distribuzione geografica delle competenze scolastiche, linguistiche e matematiche impressionante, con una disuguaglianza enorme a sfavore del Sud. Vogliamo chiederci cosa genera questa distribuzione così diseguale? Il problema non è solo la qualità dei sistemi scolastici. Il problema è che i ragazzi arrivano a scuola con dotazioni e competenze differenti. Se si vuole investire nella formazione di capitale umano, bisogna farlo prima che i ragazzi entrino a scuola, per esempio evitando che le famiglie giovani con figli siano i soggetti più a rischio di povertà. Si sta mettendo sulle spalle dei figli di queste coppie una zavorra che si porteranno dietro per tutta la vita. Si sta rendendo la scuola un meccanismo di ri-generazione delle disuguaglianze. Questo è esattamente il meccanismo aristocratico, per cui il beneficio che trai da un percorso educativo non dipende tanto dal percorso educativo stesso ma da come sei arrivato all’ingresso di quel percorso.

I dati mostrano come chi ha competenze elevate a 6 anni continuerà a svilupparle e aumentarle, mentre chi ha competenze basse perderà posti in classifica. Al passare del tempo, tanto più tardi si interviene con il sostegno pubblico, tanto minore sarà il rendimento. Oltre una certa età, fra 10 e 12 anni, sarebbe meglio da un punto di vista economico che i soldi investiti in educazione siano investiti in infrastrutture, perché diventa troppo tardi. L’effetto di quegli investimenti diventa minimo. Ad Harvard, Raj Chetty e altri hanno studiato il rendimento dell’investimento in 130 progetti pubblici, attuati negli USA negli ultimi decenni, dall’educazione ai voucher per la casa. Mappando il rendimento di questi progetti, hanno scoperto che questo è tanto più alto quanto più bassa è l’età dei beneficiari.

Tutti questi fenomeni, soprattutto l’accumulazione di capitale umano, funzionano attraverso la logica della complementarità dinamica: quello che accumuli oggi ti aiuta ad accumulare domani. Vale sia per la crescita che la decrescita.

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