Il conflitto sociale al tempo del Covid
Mario Michele Pascale intervista Patrizio Paolinelli
La pandemia da Covid-19 sta allentando la morsa. Le vaccinazioni procedono a ritmo spedito e già si intravede la luce alla fine del tunnel. Ma mettere tra parentesi gli anni 2020-2021 potrebbe essere un errore. La pandemia ha messo a nudo molte criticità di sistema: economiche, politiche, sociali.
Patrizio Paolinelli, sociologo e giornalista, autore di Rabbia. Polemos e il Leviatano, uscito recentemente per i tipi di Asterios editore, indaga i punti in cui il sistema si incrina generando rabbia sociale.
Se nella prima fase del contagio l’Italia intera cantava piena di speranza dai balconi, nella seconda fase il malcontento è montato, l’entusiasmo e la fiducia sono scemati, la rabbia ha invaso le strade. Ed è paradossale come Polemos, il padre di tutte le cose secondo Eraclito, abbia accompagnato la trasformazione della protesta da online, quindi baricentrata sull’uso intensivo ed estensivo dei social network, a offline, portando in piazza le categorie maggiormente colpite dalla crisi economica conseguente al lockdown.
Paolinelli, dopo aver tracciato un quadro generale, chiama in causa una serie di analisti. Attraverso lo strumento dell’intervista porta avanti un’operazione maieutica: solo attraverso Socrate si può analizzare Polemos. L’autore dialoga con Francesco Schettino, docente di economia politica, Maria Grazia Gabrielli, Segretaria generale FILCAMS CGIL, Marino Masucci, Segretario Generale FIT CISL, Giovanni Sgambati, Segretario generale UIL Campania e Napoli, Giulio Sapelli, storico dell’economia, Paolo Ferrero, vice presidente del partito della sinistra europea.
* * * *
Paolinelli, perché l’intervista come strumento di analisi e quale il criterio per la scelta delle voci da intervistare?
La mia è un’indagine di tipo sociologico. In quanto tale ho dato la parola a coloro che in gergo sono chiamati testimoni privilegiati. Ossia osservatori che possiedono conoscenze specifiche su determinati aspetti della realtà. Poiché il libro si occupa del conflitto sociale al tempo del Covid, ho interpellato personalità che si occupano del lavoro, delle politiche economiche e delle loro conseguenze sulla vita quotidiana dei cittadini.
Pensando soprattutto ai lettori mi è sembrato più utile per loro offrire diversi punti di vista più che dire solo la mia. Naturalmente ogni intervista è orientata dal tipo di domande che si pongono e da come si pongono. Comunque le 6 interviste contenute nel libro sono precedute da un breve saggio in cui ricostruisco l’impatto della pandemia sulla società da un punto di vista critico. Ciò non significa mancare di obiettività. D’altra parte i due primi insegnamenti della sociologia dicono che le cose non sono quelle che appaiono e che in genere le scoperte della sociologia non consistono nello scoprire cose nuove, ma scoprire che le cose note hanno un diverso significato. Le sto citando Peter Berger, ultramoderato sociologo statunitense. Giusto per chiarire che non si tratta di uno studioso appartenente alla tradizione del conflitto.
Polemos è il protagonista della sua narrazione. Ma c’è anche un convitato di pietra. Muto, incombente, citato trasversalmente dai suoi intervistati. Parliamo del liberismo…
Credo che l’intera umanità abbia oggi un problema: e questo problema si chiama, per l’appunto, liberismo. Una vecchia ideologia sotto la quale ancora oggi viviamo, ad onta della balla cosmica nota come fine delle ideologie. È probabile che gli storici del futuro si interrogheranno parecchio su come un plateale inganno come la fine delle ideologie sia diventato a sua volta un’ideologia e abbia potuto avere così tanta presa sulla coscienza collettiva. Ora, non mi sfugge che ci siano differenti tipi di capitalismo, e dunque di varianti della sua ideologia. Ma quello che domina incontrastato da 30-40 anni afferisce al cosiddetto neoliberismo. Un’estremizzazione economica, filosofica e antropologica che domina incontrastata e che ha provocato danni spaventosi: in occidente ha impoverito la società, causato disuguaglianze sociali mostruose, arricchito a dismisura una minoranza di capitalisti, distrutto l’ambiente, negato il futuro a almeno un paio di generazioni di giovani, ridotto gli spazi di democrazia, mercificato ogni aspetto della vita e mi fermo qui. La pandemia non ha fatto che esacerbare i guai provocati dal neoliberismo. La cosa grave è che teorici e esecutori politici di questa dottrina, penso all’Unione Europea e ai governi italiani di centrodestra e centrosinistra, sono saldamente al potere e stanno gestendo il dopo-Covid. Non c’è da aspettarsi nulla di buono. Passata l’emergenza sanitaria torneranno alla carica con le privatizzazioni, la deregulation, il debito pubblico e così via. Non sono il solo a pensarlo. Diversi dei miei intervistati lo lasciano trasparire chiaramente. Penso per esempio a Guido Sapelli. Il quale parla senza mezzi termini di totalitarismo liberista. E faccio presente che Sapelli è un cattolico per nulla incline al marxismo.
A fronte di una pubblica amministrazione tutelata, di lavoratori sindacalizzati e di imprenditori “dal portafogli gonfio”, la parte più debole del sistema sembra la classe media che, oltre ad essere stata colpita direttamente, rischia di diversi sobbarcare la gran parte del futuro debito pubblico.
La classe media si trova da anni in una fase di stallo perché all’élite capitalistica serve sempre meno. Nei prossimi anni sostituirà parecchie professioni dall’alto contenuto intellettuale con l’intelligenza artificiale e già oggi sappiamo che i posti di lavoro perduti a causa dell’alta tecnologia non saranno che minimamente rimpiazzati con le professioni hi-tech. Ciò non toglie che, con la pressoché totale complicità degli organi di informazione, noi viviamo immersi nel mito della rivoluzione digitale. La quale tutto è tranne che una rivoluzione. In realtà costituisce la continuazione del capitalismo di tipo neoliberista sotto altre forme. Un capitalismo disumano, predatorio e primitivo. Il mondo delle professioni continuerà a subire colpi pesanti dal neoliberismo declinato come economia digitale, ma credo che nel breve-medio termine la classe media continuerà a giocare un proprio ruolo per quanto sempre più indebolita. La pandemia ha messo in luce quanto la riduzione dei medici di base sia dannosa per la società.
Durante la pandemia chi invece è stata letteralmente fatta a pezzi è la piccola borghesia. Mi riferisco alle piccole imprese, alle piccole attività commerciali, alla galassia del lavoro autonomo. Questi soggetti si trovano oggi presi nella morsa dell’innovazione tecnologica, il commercio on-line per esempio, e la crisi dei consumi, dato che i salari sono bassissimi e il costo della vita altissimo, per non parlare del precariato che continuerà a crescere (si vedano le tanto strombazzate assunzioni nella pubblica amministrazione, in buona misura a tempo determinato) e della disoccupazione di massa. Per tutti questi soggetti il futuro è davvero incerto. Cosa accadrà? Probabilmente avremo milioni di nuovi poveri e aumenteranno le persone che pur lavorando non arrivano a fine mese e dovranno fare un secondo, un terzo lavoro per sbarcare il lunario. Tra costoro ci saranno – e già oggi ci sono – parecchi impiegati dello Stato perché, a parte i dirigenti, gli stipendi dei dipendenti pubblici sono mediamente molto bassi. Verosimilmente avremo una piccola e media borghesia sempre più indebitata la cui vita sarà consegnata nelle mani delle banche. In una parola avremo la compiuta americanizzazione della società. Quello che mi sconcerta è che in pochi notino quanto il modello socioeconomico statunitense sia applicato a tappe forzate qui in Europa e venga spacciato come una fatalità. No, non è una fatalità perché le cosiddette leggi dell’economia hanno sempre a monte decisioni politiche. Si tratta di un progetto sociale ben preciso, che la realtà dei fatti dimostra ogni giorno quanto sia profondamente ingiusto, sbagliato e antieconomico. Lei penserà: ma allora perché funziona? Perché permette alle élite economiche di avere un potere pressoché assoluto. Un potere per certi versi assai simile a quello della nobiltà feudale.
Nella classe media Polemos striscerà o possiamo identificare lì un futuro soggetto politico?
Se ho capito bene il senso della sua domanda le rispondo così. Le rivoluzioni del ‘900 hanno fatto tremare il capitalismo anche, e ripeto: anche, perché i figli della piccola e media borghesia si alleavano col proletariato agricolo e industriale divenendone spesso i dirigenti. In tutto il mondo gran parte dei quadri dei partiti socialisti e comunisti proveniva proprio da quelle classi sociali. Dopo il ’68 il grande capitale e le amministrazioni statali loro sodali ha investito cifre stratosferiche per formare una nuova antropologia. Antropologia perfettamente compiuta nel ventenne-tipo di oggi: un misto di utilitarismo, egocentrismo, opportunismo, narcisismo, spoliticizzazione e enciclopedica ignoranza. Se lei oggi si fa un giro per le università le troverà quasi interamente popolate da questo tipo umano. Ci faccia caso: gli studenti universitari sono stati tra i pochi soggetti sociali a non protestare durante la pandemia. Un tempo le università erano sede della constatazione, oggi sono ovili in cui pascola la futura classe dirigente. L’immaginazione sociologica? Soffocata nella culla con buona pace di quel radical che fu Wright Mills. Nessuno o quasi è oggi capace di connettere i propri problemi personali con quelli sociali. Sconcertante, ma è così. Lei allora penserà alla classe operaia. Perfettamente domata sia nell’industria che nel terziario, se per brevità vogliamo estendere la figura dell’operaio ai mille lavori manuali nelle attività non manifatturiere.
Tutto ciò non è avvenuto per caso, ma a causa della controffensiva economico-culturale del capitalismo iniziata negli anni ’80 del secolo scorso. Ancora una volta ci imbattiamo nel modello sociale statunitense. In pochi decenni è stata costruita anche in Italia un’antropologia incapace di pensare criticamente. Se i figli della borghesia formeranno nuove aggregazioni politiche saranno di stampo reazionario, già oggi abbiamo la Lega, o fascistoide, Fratelli d’Italia, o al massimo ultramoderato, il Partito Democratico. Non è un caso che quest’ultimo si chiami così, sul calco di quello statunitense. E che fa il PD? alza la voce sui diritti civili e balbetta sui diritti sociali. D’altra parte, da sempre negli Stati Uniti i diritti di cittadinanza sono sconosciuti: non c’è il diritto alla salute, alla casa, al lavoro, neanche alle ferie retribuite. Se hai i soldi bene, sennò ti arrangi. L’Italia, Paese europeo tra i più deboli sul piano culturale, è sempre più americanizzata. Condizione che impedisce qualsiasi cambiamento qualitativo della società. Una dittatura perfetta chiamata democrazia liberale. Il bello è che l’Homo Americanus è davvero convinto di essere libero. In realtà possiede una sola libertà: valorizzare il capitale.
E allora da dove verranno nuovi soggetti politici realmente alternativi? In tutta onestà non so dirle. Sicuramente non dal sottoproletariato, storicamente in mano alle peggiori forze reazionarie. Verranno da coloro che si autosfruttano fino all’inverosimile nelle molteplici attività terziarie? Ne dubito. Attraversiamo una fase storica di transizione. Quello che si prospetta è un nuovo feudalesimo, con i computer quantici e i viaggi nello spazio. Una volta che questo nuovo assetto sociale si sarà stabilizzato forse da lì sorgerà l’alternativa politica.
Molte narrazioni “liberal” ci dicono che usciremo dalla crisi economica post Covid grazie alla digitalizzazione. Cosa ne pensa lei e cosa ne pensano i suoi intervistati?
I miei intervistati su questo specifico argomento non si sono espressi perché non ho rivolto loro domande in tal senso. Posso dirle quello che penso io. E io penso questo: dalla rivoluzione industriale a oggi la tecnologia non è pensata per la felicità degli esseri umani. È gestita da oppressori, perché dovrebbero utilizzare le macchine per facilitare la vita di lavoratori e cittadini? La tecnologia digitale non ha reso maggiormente libere e felici le persone. Tutt’altro. Per esempio il capitalismo delle piattaforme ha creato forme di lavoro paraschiaviste. Non parliamo della favoletta sulle start-up narrata dai guru dell’economia digitale e di tanti giornalisti al seguito. Nella realtà concreta, non in quella mediatica, la stragrande maggioranza delle start up chiude bottega a pochi anni dalla nascita. E, come le ho detto precedentemente, i posti di lavoro perduti a causa dell’introduzione delle nuove tecnologie nei processi produttivi non saranno che recuperati in minima parte. Su questo specifico aspetto Luciano Gallino ha scritto pagine chiarissime. Ma continuando con la tecnologia, i dispositivi digitali hanno creato nuove forme di dipendenza, pensi all’uso malsano del telefonino, un’estensione della sorveglianza sulla vita degli individui come mai si era vista nella storia dell’umanità, mentre la Rete è diventata doppione della nostra società: un luogo orribile, pieno di insidie, pericoli e pubblicità.
Come le dicevo il problema dell’indistinzione tra vero e falso è connesso alla mutazione antropologica in senso liberista che ha investito larghi strati della popolazione. Oggi siamo a un nuovo reincanto del mondo: con la pandemia, per esempio, veniamo incantati dalla parola resilienza. La cui applicazione reale altro non è che un aggiornamento della trita e ritrita ideologia borghese del self-made-man. Parole nuove che servono a cambiare d’abito il vecchio e decrepito liberismo. Purtroppo viviamo nel mito della rivoluzione digitale. Mito, badi bene: la realtà è un’altra cosa. E qui le responsabilità dei mezzi di informazione sono immense. D’altra parte la stampa è quasi integralmente in mano agli imprenditori. Cosa ci si aspetta, che dica davvero come stanno le cose? Magari ogni tanto lo fa. Per poi coprire il vero con montagne di surrettizia propaganda spacciata per informazione.
La tecnologia potrebbe farci uscire dalla crisi post-Covid se partecipata, se frutto di un dibattito con i corpi intermedi. Ma così non è. Nelle fabbriche e negli uffici i sindacati se la ritrovano bella e pronta senza che possano metterci bocca. O se qualcosa i padroni permettono loro di dire è sempre post festum. La tecnologia è monopolizzata da pochi attori economici. Tutti o quasi, guarda caso, d’oltreoceano. Ma lei si è mai chiesto perché noi europei non abbiamo un motore di ricerca della portata di Google? Eppure non sono né i saperi né le professionalità né le risorse economiche a mancarci. E allora perché non ce l’abbiamo? Perché siamo sotto il giogo politico degli Stati Uniti e perché l’Unione Europea è una succursale del neoliberismo americano. Gli Stati Uniti sono un impero, non fa certo gli interessi dei suoi deboli alleati e la tecnologia è un’arma geopolitica. Per gli Stati Uniti, l’Europa è solo un mercato in cui esportare i loro prodotti. Un mercato strategico, dato che siamo il più importante del mondo per il livello di consumi. Per questo la Casa Bianca blocca la penetrazione della tecnologia cinese e russa. Stesso discorso per i vaccini. Siamo obbligati a comprare quelli made in USA. Paese che ha gestito malissimo la pandemia. Eppure… Eppure le cose stanno così. È l’antica e semplice questione dei rapporti di forza. Ancora oggi noi europei paghiamo il disastro della Seconda guerra mondiale.
Polemos, al momento, ha avvelenato il pozzo della democrazia. Piazze in fermento, parlamenti esautorati a favore dell’esecutivo, governi confusi e in perenne crisi di credibilità.
Mi permetta una precisazione. Il conflitto, ovvero Polemos, è il sale della democrazia. L’Italia era un Paese molto più democratico quando c’erano il Partito Socialista e il Partito Comunista, quando i sindacati erano forti, quando i corpi intermedi avevano voce in capitolo e quando esisteva l’associazionismo di massa. Tutto questo sistema è stato scientificamente demolito dal neoliberismo proprio perché gli Stati Uniti sono riusciti a imporre il loro modello socio-economico. Oggi, de facto, non ci sono più opposizioni e la sinistra, sempre de facto, è scomparsa, o quantomeno ridotta a un lumicino, giusto per dire che c’è il pluralismo. Il recente movimento di opposizione no-global o no-logo che dir si voglia, è stato annientato a colpi di manganellate e torture durante il G8 di Genova nel 2001. Nelle nostre società i cittadini possono reclamare i loro diritti fino a un certo punto. Se fanno troppo i cittadini la democrazia liberale manda in piazza i gorilla in divisa.
Una repressione dello stesso tipo non è stata attuata durante la pandemia. Ma si è trattato di un puro calcolo politico. La società era già colma di rabbia a causa delle decennali politiche economiche neoliberiste e non si poteva usare la mano pesante se non correndo il rischio di un’incontrollabile rivolta popolare. Infatti non c’è stata un’altra Genova. Il Levitano, ossia lo Stato, ha usato la mano leggera anche dinanzi a manifestazioni che sono finite in vetrine rotte. Neanche il movimento “Io non chiudo” è stato represso con violenza. E che dire dei cittadini che a milioni si sono riversati in strada senza rispettare la distanza interpersonale ogni volta che il visus concedeva una tregua? Mano leggera anche con loro, salvo alcuni casi di eccesso di zelo, per non dire di ottusità, da parte delle forze dell’ordine. In poche parole, in una società americanizzata, ossia senza reale opposizione politica, le classi dominanti sanno che non verranno scalzate. La novità politica emersa con la pandemia non è stata tanto il Parlamento esautorato, perché lo è di fatto da anni e le decisioni strategiche vengono prese in circoli ristretti. La novità forse più importante mi pare sia stata il conflitto tra potere centrale e Regioni. Riflesso della feudalizzazione della società italiana. La quale si ritrova oggi in una situazione diversa e simile a quando il nostro Paese era diviso in tanti staterelli. Non dimentichiamo che fino a poco tempo fa lo slogan della Lega era “Padania libera”.
In quanto alla confusione dei governi nella gestione della pandemia paghiamo il decadimento qualitativo della classe politica. La quale, oltre a non aprire più un libro, oltre a non avere un progetto sociale alternativo al liberismo, non ha da tempo un vero potere decisionale sulle scelte economiche di fondo. Quello che fa è amministrare decisioni prese dai tecnocrati di Bruxelles, i quali a loro volta rispondono ai grandi potentati economici. Pertanto la classe politica è sempre più composta da mediocri che pensano soprattutto alla sopravvivenza personale e del ceto di cui fanno parte. L’altra novità importante emersa dalla pandemia mi pare sia la fine della parabola dei 5 Stelle. Con l’emergenza sanitaria sono emerse tutte le loro contraddizioni interne e tutte le loro debolezze. Nel giro di un anno o poco più, da movimento che aveva raccolto la rabbia sociale degli italiani è definitivamente diventato un partito neocentrista come tutti gli altri. Lo Stato, in quanto istituzione principe della società, col Covid ha invece riconquistato il centro della scena. Oggi nessuno parla più di Stato minimo. Neanche i neoliberisti. Non gli conviene. C’è un’immensa torta di soldi pubblici da mangiare per uscire dalla crisi economica. Ora lo Stato conviene e, spero di sbagliarmi, ma quella torta la mangeranno soprattutto loro. Per essere più chiari: l’élite economica. La stessa che fino a ieri faceva a pezzi la pubblica amministrazione e che oggi, per bocca del suo personale politico, fa passare gli impiegati statali da fannulloni a eroi e volti della Repubblica.
La rabbia sociale potrà trasformarsi in conflitto?
Guardi, questo è stato l’interrogativo principale del mio piccolo libro e, per capirci in fretta, la differenza tra rabbia e conflitto è questa: la rabbia non modifica gli assetti del potere economico, il conflitto sì. Su questo passaggio le opinioni dei miei intervistati oscillano tra cauto realismo e scenari preoccupanti. D’altra parte, la rabbia sociale emersa durante la pandemia è stata generalizzata e ha investito come non accadeva da decenni tutta la società, ma non si è coagulata in una richiesta di cambiamento. Intendo dire, dalla rabbia sociale non è venuta fuori, in forma più o meno organizzata, la richiesta di una società più giusta, più egualitaria, più umana rispetto a quella nella quale vivevamo prima della pandemia. Da marzo 2020 a oggi ogni gruppo è rimasto separato dall’altro e ha pensato a risolvere il proprio problema; che nella maggioranza dei casi consisteva nell’apertura di questa o quella attività. Tale dinamica conferma il successo della politica di frantumazione della società e dei legami tra individui perpetrata dal neoliberismo. Successo che il Covid ha messo in discussione. E penso che Paolo Ferrero colga un aspetto importante quando afferma che forse dalla rabbia si passerà al conflitto nel momento in cui scadrà il blocco dei licenziamenti. Tuttavia, va tenuto conto che, come sostiene Alain Touraine, oggi le società sono programmate. Per realizzare tale programmazione le élite economiche hanno dalla loro parte le migliori intelligenze, controllano lo Stato, i partiti, i parlamenti, la finanza, l’industria, le università, il sistema dell’informazione e pressoché tutta l’industria culturale. Sanno dunque bene come fare affinché la rabbia non si trasformi in un conflitto che ponga l’alternativa al progetto sociale liberista. D’altra parte, non sono così da sempre gli Stati Uniti? Sì, ma la storia non si ferma e la pandemia ha aperto il domani alla possibilità.