Organizzar-bamboleggiar: la scuola italiana tra l’incudine e il martello
di Enrico Rebuffat
Non si tratta di un progetto consapevole e maligno di attacco alla scuola pubblica, mosso dalla volontà di favorire l’istruzione privata, come un tempo si sosteneva, o di asservire i cittadini al potere tramite la loro perdurante ignoranza e immaturità, come spesso si sente dire oggi: meglio sarebbe, se così fosse, giacché sarebbe più facilmente identificabile e circoscrivibile, giacché ci si sentirebbe più stimolati alla lotta. No: si tratta piuttosto di una tendenza di fondo, di un movimento tettonico alle volte impercettibile, alle volte saliente, che ormai da una quindicina d’anni spinge confusamente ma inesorabilmente a un rinnovamento della scuola per adeguarla, così si dice, alle esigenze della contemporaneità; un movimento promosso, nel mondo afferente alla scuola e in quello ulteriore, da persone che, mettendo le mani con superficialità e improvvisazione nella più importante istituzione civile della società, etichettano pregiudizialmente tutto ciò che esiste come antiquato e negativo, mentre qualsiasi novità, anche la più insignificante, sciocca e bislacca, viene da loro presentata come buona, come risolutiva. E dato che le esigenze della contemporaneità vengono avvertite, da queste persone e dal mainstream corrente, come eminentemente tecniche ed economiche, in sostanza la pressione di questo movimento vuole allontanare la scuola dall’humanitas proprio per avvicinarla alla tecnica e all’economia; e ad un’economia meccanicisticamente intesa, dove uno più uno fa due, dove ogni cosa si fa per ottenerne un’altra prevedibile e prevista, dove ciò che conta, letteralmente, è solo ciò che si può contare, misurare, quantificare.
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Esaminiamo ciò che sappiamo: un singolo branco di orchi ha osato attraversare il Bruinen; una daga di un’era passata è stata trovata; e uno stregone umano, che si fa chiamare Negromante, ha preso residenza in una fortezza in rovina. Non è granché, dopotutto.
Così, in una scena de Lo Hobbit, lo stregone Saruman il Bianco minimizza gli indizi del ritorno del Male, che Gandalf il Grigio gli ha riferito. Ma il Male era tornato davvero, e lo stesso Saruman si sarebbe alleato con lui. Per salvare la Terra di Mezzo furono necessari (a quanto afferma chi ha scrutinato a questo scopo i complessivi 532 minuti de Il signore degli Anelli) 222.970 morti[1].
Anche sul mondo della scuola, e in particolare sulla scuola superiore, i segnali premonitori del Male si vanno da qualche tempo addensando. Il rapporto finale del comitato di esperti istituito dal precedente governo col D. M. 21 aprile 2020 (su diciotto membri, un solo insegnante di scuola[2]) auspica ideologicamente e con piglio quasi futurista “il superamento dei paradigmi didattici ereditati dal passato”[3], la ridefinizione del docente come esperto digitale e gestionale[4], per il quale quelle disciplinari siano solo una tra le undici competenze necessarie[5], il ripensamento atomistico e individualistico dei curricoli[6]; persino, d’emblée, l’abbreviamento di un anno del curricolo degli studi superiori[7]. Un economista, Patrizio Bianchi, già presidente di quel comitato, viene nominato dal nuovo governo ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, e appena insediato, in piena emergenza pandemica, annuncia un anno costituente per la scuola[8]. Un italianista di chiara fama già consulente del ministero per l’esame di stato, Luca Serianni, suggerisce, forse per celebrare il settecentesimo dell’Alighieri, di abbandonare alle scuole superiori la lettura di canti interi della Divina Commedia limitandosi a frammenti[9]. Giovanni Biondi, presidente dell’Istituto Nazionale di Documentazione per l’Innovazione e la Ricerca Educativa (Indire), va proponendo con verve dadaista una “didattica collaborativa online” per tutte le discipline[10], nuove forme di insegnamento basate su taumaturgici “oggetti” disponibili in rete[11], il superamento del concetto di ora di lezione[12]: idee che allo scrittore Alessandro Baricco, fondatore della Scuola Holden, sembrano “fantastiche”[13].
Viene avviato l’inutile e discriminatorio Curriculum dello studente, previsto dalla sedicente “Buona Scuola” di Matteo Renzi, presentato pomposamente come “un documento di riferimento fondamentale per l’esame di Stato e per l’orientamento dello studente” sebbene sia evidente che non deve essere la prima cosa e che non può essere la seconda[14]. Da ultimo, il ministro Bianchi dichiara che l’emergenziale pseudo-esame di Stato di questi due anni di pandemia, privo di prove scritte, potrebbe essere confermato nei prossimi anni, in quanto esso sarebbe “una maturità che prepara all’università, al lavoro e ad altre possibilità di crescita” che avrebbe già ricevuto “riscontri positivi dai ragazzi”[15]: stupefacente profezia e dichiarazione di fede, che ricorda molto quelle buffe recensioni a cinque stelle presenti su Amazon, del tipo “Prodotto eccezionale. Arrivato stamattina un giorno prima del previsto, non vedo l’ora di aprire il pacco e di provarlo!”.
Non ci vuole, se non si è stolti o in mala fede come Saruman il Bianco, una sagacia particolare per comprendere a che cosa si mira, che cosa è in arrivo: la fine della scuola pubblica – e degli indirizzi liceali in particolare – per come la conosciamo. La fine cioè di una scuola basata sui saperi storicamente costituiti e imperniata sulla figura del magister, e l’avvento di una scuola basata sulle competenze ritenute di volta in volta utili dal ministro di turno e imperniata sulle tecniche di volta in volta ritenute efficaci, dagli psicopedagogisti di turno, per produrre quelle competenze; una scuola nella quale il docente, al di là degli elenchi sempre crescenti delle sue attribuzioni e requisiti e funzioni, assuma un ruolo marginale; una scuola, in definitiva, che abbandona l’humanitas per sposare quella che Giuseppe Ungaretti, nel 1961, definiva “l’orrenda meccanizzazione”.
Non si tratta di un progetto consapevole e maligno di attacco alla scuola pubblica, mosso dalla volontà di favorire l’istruzione privata, come un tempo si sosteneva, o di asservire i cittadini al potere tramite la loro perdurante ignoranza e immaturità, come spesso si sente dire oggi: meglio sarebbe, se così fosse, giacché il Male sarebbe più facilmente identificabile e circoscrivibile, giacché i buoni si sentirebbero più stimolati alla lotta. No: si tratta piuttosto di una tendenza di fondo, di un movimento tettonico alle volte impercettibile, alle volte saliente, che ormai da una quindicina d’anni spinge confusamente ma inesorabilmente a un rinnovamento della scuola per adeguarla, così si dice, alle esigenze della contemporaneità; un movimento promosso, nel mondo afferente alla scuola e in quello ulteriore, da persone che, mettendo le mani con superficialità e improvvisazione nella più importante istituzione civile della società, etichettano pregiudizialmente tutto ciò che esiste come antiquato e negativo, mentre qualsiasi novità, anche la più insignificante, sciocca e bislacca, viene da loro presentata come buona, come risolutiva. E dato che le esigenze della contemporaneità vengono avvertite, da queste persone e dal mainstream corrente, come eminentemente tecniche ed economiche, in sostanza la pressione di questo movimento vuole allontanare la scuola dall’humanitas proprio per avvicinarla alla tecnica e all’economia; e ad un’economia meccanicisticamente intesa, dove uno più uno fa due, dove ogni cosa si fa per ottenerne un’altra prevedibile e prevista, dove ciò che conta, letteralmente, è solo ciò che si può contare, misurare, quantificare. Poco vale, e non deve illudere, che i medesimi riformatori parlino anche della scuola dell’inclusività, della scuola “che non lascia indietro nessuno”: perché sarà una inclusività che include nella superficialità, include nell’aria fritta, nel nulla, una inclusività di tutti che esclude tutti dall’intelligenza e dalla cultura. E anche la vera e propria ossessione per il recupero, che ormai infesta le scuole superiori senza risultati apparenti se non un inutile aggravio di lavoro per studenti e docenti, solo in superficie è espressione di humanitas, ma in realtà è viziata dallo stesso atteggiamento tecnicista ed economicista di fondo: se lo studente ha una “lacuna”, fa un “corso”, e la scuola “certifica” che ha recuperato quella lacuna. Nulla importa se la “lacuna” consisteva, come in genere accade, in una complessiva e radicata debolezza in discipline un tantino complesse come l’italiano, la matematica, il latino, il “corso” in quattro incontri online di 45 minuti l’uno in una classe mista… fai il corsettino, e via, hai recuperato, sei rientrato nello schema. Per ogni aspetto e problema didattico ci sarà la soluzione tecnica, il protocollo da seguire, che chiunque potrà applicare come chiunque può riscaldare in microonde un piatto precotto: e gli stessi che l’avranno applicato certificheranno che ha funzionato.
Il processo di organizzazione economicista della scuola è ormai in uno stadio avanzato, e penetra senza incontrare quella resistenza che, alcuni anni fa, probabilmente ci sarebbe stata. Molti possono essere i motivi di ciò, ma a mio avviso uno è più pernicioso degli altri: la singolarissima sinergia, che si è creata, tra l’organizzar tecnico-economicistico e un’altra tendenza di fondo, di segno diverso e in apparenza persino opposto, che si era messa in movimento ancor prima. Sto parlando della infantilizzazione della scuola, in tutti i suoi ordini e gradi: un fenomeno storico che meriterebbe di essere indagato. I risultati di questo secondo processo sono più visibili alle scuole superiori solo perché lì vengono a galla anche gli effetti, che negli anni precedenti, si possono in parte mascherare. Oramai i vecchi libri di testo delle scuole elementari andrebbero bene nelle attuali medie, i vecchi libri delle medie alle superiori, i vecchi libri delle superiori all’università. Le nuove edizioni sfrondano, semplificano e banalizzano i testi, sommergendoli con una serie di ‘ausili alla comprensione’, di ‘strumenti’ e di ‘laboratori’ spesso francamente imbarazzanti, che postulano un alunno sprovveduto, a volte senz’altro ebete, e un docente poco più avvertito di lui. I bambini delle elementari fino in quinta “colorano” nei compiti per casa, e svolgono esercizi di comprensione del tipo: “Hai letto il racconto Giuseppe e il girino magico. Il protagonista è un ragazzo di nome Giuseppe, una rana o un mago?” Studenti delle medie possono continuare a scrivere stringendo la penna nel pugno come un punteruolo, senza accenti né apostrofi, per tre anni, e alla fine vengono licenziati con un dieci. Matricole del liceo classico non riescono a stare ferme sulla sedia per un’ora, a seguire un discorso che duri più di dieci parole, ad esprimere un pensiero comprensibile. Le tracce dei temi che furono assegnate all’esame di maturità di chi è oggi docente (tracce di cinque-sei righe che richiedevano davvero conoscenze e, quelle sì, notevoli competenze e capacità per essere svolte) sovrastano di una spanna le lenzuolate propinate ai maturandi di oggi (di ieri, nelle intenzioni del ministro Bianchi), nelle quali una risposta si può già raffazzonare ricomponendo i materiali e le domandine di comprensione[16]. E la “tesina”, negazione del concetto stesso di esame ipocritamente presentata come un modo più maturo ed evoluto di sostenerlo? E gli “obiettivi minimi” (minimi: così vengono chiamati, e ormai sembra normale a tutti!) che devono essere analiticamente indicati nelle programmazioni? Al liceo negli ultimi quindici anni è stata come una cascata, soprattutto in italiano. Molti docenti si sono rassegnati e infine arresi, date le condizioni sempre peggiori dei nuovi iscritti, spesso ancora da alfabetizzare: l’asticella, come si dice, è stata abbassata, sempre di più, e quando non si è potuta abbassare ancora si è scavato. Finché la marea ha sommerso anche l’università, che certamente si sarà adeguata la sua parte. E si è quindi arrivati – non tutti i docenti e i dirigenti, certo, ma parecchi sì – a bamboleggiare: perché all’infantilizzazione non c’è fine, è un processo che alimenta se stesso e tende a demonizzare, tagliare ed eradicare tutto ciò che non vi corrisponde. Chi semplicemente continua a insegnare come sa, e sopratutto come l’indirizzo di studio prevede, rischia di essere stigmatizzato come “il duro”, “il cattivo”, quello che “non pensa al bene dei ragazzi”.
Il bene dei ragazzi. I quali, in capo a una quindicina d’anni, si ritroveranno con in tasca curricola e portfoli e attestati e certificazioni inutili e ridicoli, che saranno dimenticati persino da coloro che oggi organizzano la Scuola del Futuro introducendoli e promuovendoli come fondamentali; e verranno accusati di essere degli adulti bamboccioni anche da coloro che li hanno fatti bamboleggiare nel periodo più cruciale della loro maturazione intellettiva e culturale. Organizzatori e bamboleggiatori vanno a braccetto, forse senza saperlo: perché entrambi negano l’essenza di una scuola seria, quella basata sui saperi storicamente costituiti e imperniata sulla figura del docente, quella che si pone l’educazione, l’istruzione e la maturazione degli studenti al massimo livello possibile come fine del proprio operato: cosciente che il Tempo, il Lavoro, l’Impegno, la Difficoltà non sono nemici da combattere e contenere, ma i più preziosi alleati che ha.
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