È l’accademia, bellezza!
di Linda Brancaleone
1. “Oggi la precarietà è dappertutto”: un’introduzione necessaria
La precarietà è ormai la cifra del nostro tempo, si trova «dappertutto»[1], come ammoniva Bourdieu. Non è solo una condizione lavorativa: è una forma di vita, un destino imposto a una generazione che ha fatto dell’incertezza la propria biografia. Il “precariato” – fusione simbolica di precario e proletariato – definisce un nuovo soggetto sociale, sfruttato e vulnerabile, privato di garanzie e diritti, gettato nel limbo di contratti a termine, borse malpagate, rinnovi a singhiozzo. È una condizione «che si radica anzitutto nella sfera occupazionale»[2], ma si estende a tutte le altre: abitativa, relazionale, affettiva. Nulla sfugge al morbo della precarietà.
Né si tratta di una questione privata: la precarietà si fa istituzione, criterio di governo. Come nei sistemi neoliberali descritti dalla sociologia più critica, i meccanismi di welfare vengono piegati per “espellere” i lavoratori instabili, trasformando la mancanza di stabilità in colpa individuale. Il precario diventa, per usare le parole della dottrina, un «impossible group»[3], una moltitudine di esclusi accomunati solo dalla mancanza: di sicurezza, di diritti, di voce. Nessun senso di appartenenza, nessuna “comunità occupazionale”: solo la solitudine di chi naviga a vista in un mare di incertezze.
A rendere questa condizione più insidiosa è la vulnerabilità, intesa come «elevata esposizione a certi rischi»[4] unita all’incapacità di difendersi dalle loro conseguenze. Guy Standing ha descritto bene questa categoria: i precari non sono solo lavoratori poveri, ma cittadini dimezzati, esclusi dal tessuto sociale, privi di riconoscimento[5]. La loro esistenza è frammentata, il loro tempo sequestrato. È qui che la precarietà diventa biopolitica: il potere plasma i corpi e ne regola i ritmi, “autorizzando” solo forme di vita funzionali all’economia dell’incertezza.
2. Il ddl Bernini: la riforma che moltiplica la precarietà
Dentro questo quadro, la recente riforma universitaria – il cosiddetto ddl Bernini (A.S. 1240) – avrebbe dovuto rappresentare una svolta. Invece, perpetua e anzi accentua la logica dello sfruttamento sistemico dei giovani ricercatori. La riforma nasceva con l’intento dichiarato di “valorizzare la ricerca” e “razionalizzare” i percorsi accademici pre-ruolo, ma si traduce in una giungla contrattuale che istituzionalizza la precarietà.
Il cuore della riforma è l’introduzione del contratto di ricerca, che sostituisce il famigerato assegno di ricerca (forma parasubordinata, priva di tutele e con compensi miseri: 19.367 euro annui). Sulla carta, si tratta di un contratto di lavoro subordinato, con durata minima biennale e massima quinquennale. Nella realtà, rappresenta solo un’ennesima tappa nel percorso a ostacoli del “pre-ruolo”, un girone dantesco che ritarda indefinitamente l’accesso alla stabilità.
Accanto al contratto di ricerca, la riforma immaginava un sistema “ordinato” di reclutamento fondato sul fabbisogno degli atenei. Ma i “buoni propositi” (per quanto buoni possano essere, considerando il modus pensandi della ministra proponente) si scontrano con la realtà di fondi insufficienti, vincoli burocratici e assenza di un piano di stabilizzazione. Il risultato? Un sistema che continua a sfornare ricercatori senza futuro, sospesi fra bandi a tempo e sogni di ruolo.
Le quattro nuove figure previste dal ddl – borse junior e senior, contratto post-doc, professore aggiunto – avrebbero dovuto ampliare le opportunità. In realtà, creano nuove forme di precarietà ancora più deboli e sottopagate. Le borse di assistenza alla ricerca, prive di tutele e retribuzioni definite, appaiono come un ritorno a logiche retrive di apprendistato gratuito. Il contratto post-doc, a tempo determinato, aggiunge obblighi didattici senza garanzie. E il professore aggiunto – figura reclutata senza concorso, su chiamata diretta – spalanca le porte all’arbitrio dei baroni, scardinando il principio del merito e della trasparenza.
In nome della “mobilità” e della “flessibilità”, il ddl riporta indietro le lancette della dignità accademica. Il rischio è la moltiplicazione di forme para-contrattuali, scelte dagli atenei non per valore scientifico, ma per convenienza economica. Le università diventano così aziende del risparmio, dove i corpi precari sono materia a basso costo, sacrificabile sull’altare della competitività.
Particolarmente drammatica è la sorte dei ricercatori PNRR: terminati i fondi straordinari, restano senza prospettive né continuità. È l’emblema di una riforma che promette stabilità e consegna abbandono.
3. Il D.D. 47/2025: tra discriminazioni e sottofinanziamento
La prima applicazione concreta del contratto di ricerca avviene con il D.D. 47/2025, relativo ai “ricercatori internazionali post-doc”. Un provvedimento che, invece di ampliare le opportunità, le restringe con requisiti capziosi e discriminatori. Possono accedere solo candidati under 41 (o 46, con deroga) e con esperienze limitate di direzione scientifica. Ma soprattutto, viene introdotto l’obbligo di un periodo all’estero di almeno tre mesi, requisito “in coerenza” con una Decisione UE che, paradossalmente, non lo prevede.
Si tratta di un criterio che penalizza intere generazioni di dottorandi, specie quelli dei cicli 33°-39°, formatisi in piena pandemia, e di chi opera in settori non internazionalizzabili. Una discriminazione mascherata da “eccellenza”.
Anche sul piano economico, il bando è una beffa: 37,5 milioni per 250 posizioni (150.000 euro ciascuna), durata massima 24 mesi, e con almeno il 40% dei contratti vincolati al Meridione. Briciole, rispetto alla massa di ricercatori formati e ora espulsi dal sistema. Il tutto aggravato da procedure opache, che affidano la selezione alle Host Institutions, libere di presentare fino a venti richieste valutate non per merito scientifico ma per “priorità amministrativa”. Ancora una volta, la logica non è la qualità, ma la velocità burocratica. Un sistema che confonde la ricerca con la compilazione di moduli.
4. L’emendamento Occhiuto-Cattaneo: un colpo di mano parlamentare
Bloccato il ddl Bernini dopo le proteste e l’esposto alla Commissione Europea (per violazione della Carta Europea dei Ricercatori e della Direttiva 2024/1499), il Governo tenta un colpo di mano: inserire la riforma per via surrettizia nel “Decreto Scuola” (DL 45/2025) tramite l’emendamento Occhiuto-Cattaneo. Un’operazione politica spregiudicata che aggira il confronto parlamentare e introduce nuove figure – incarichi post-doc e incarichi di ricerca – peggiorative rispetto al contratto di ricerca.
Gli incarichi post-doc (art. 22-bis L. 240/2010) durano da uno a tre anni, includono didattica e terza missione e sono regolati da diritto pubblico, con compensi fissati per decreto: più rigidi, più poveri, più controllati. Gli incarichi di ricerca (art. 22-ter), riservati a chi abbia conseguito la laurea da meno di sei anni, inaugurano una nuova frontiera del precariato: contratti senza IRPEF, senza IRAP, senza contribuzione pubblica, relegati alla gestione separata INPS. Incompatibili con il dottorato (tranne che per i dottorati Marie Skłodowska-Curie Actions – MSCA), questi incarichi appaiono come un espediente per sfruttare giovani ricercatori “a costo zero”, in barba alle direttive europee.
Il tutto mentre si riduce persino la durata minima della tenure track da tre a un anno, svuotandola del suo senso originario. È la precarietà istituzionalizzata per legge, la stabilità ridotta a miraggio.
5. Numeri e carne viva del precariato: il volto diseguale della ricerca
A denunciare con forza l’impatto di questa deriva è la XII Indagine ADI[6]: un quadro impietoso della condizione post-doc in Italia. Il 73% delle donne è confinato in assegni o borse, contro il 67,2% degli uomini: la precarietà ha un volto femminile. Al Nord i fondi sono più stabili, al Sud dilaga l’insicurezza. Tutti, ovunque, lavorano oltre le 40 ore settimanali, senza diritti, senza voce. Una precarietà che divora tempo e salute, che nega ogni progettualità, che trasforma la ricerca in sopravvivenza.
Come recita l’indagine, «[l]a precarietà accademica non è soltanto una questione categoriale: riguarda l’intera società e il futuro democratico del Paese. Un’università ridotta a fabbrica di precari […] è un’università che non può svolgere la sua funzione di formazione critica»[7]. Dietro la retorica dell’“eccellenza” si cela un disegno politico: piegare l’università a logiche neoliberali, farne un ingranaggio della produzione, dove “valore” significa output, non pensiero critico.
Il precariato accademico incarna così tutti i tratti del lavoro tardo-capitalista: contratti brevi, compensi insufficienti, welfare assente, mobilità forzata, assenza di sindacati. È un lavoro senza tempo, dove «la precarietà tende […] a sottrarre ai singoli la possibilità di controllare il proprio tempo di vita»[8]. E sottrarre il tempo è sottrarre la libertà.
6. Biopolitica della precarietà: i corpi docili dell’accademia
Seguendo la lezione foucaultiana[9], la precarietà diventa strumento biopolitico: un potere che non uccide ma regola la vita, ne scandisce i ritmi, ne detta i limiti. Il precario accademico è il paradigma di questa nuova soggettività: il suo corpo è al servizio della produttività, la sua mente imprigionata da metriche bibliometriche, la sua esistenza frantumata da bandi e scadenze. È un essere “vulnerabile per statuto”, plasmato in funzione di un sapere quantificabile, non critico. È la vittima di quella che è stata definita «epistemonormatività»[10]: la riduzione del sapere a numeri, citazioni, impact factor. L’eterogeneità delle conoscenze è sacrificata sull’altare della performance.
Come mostra la letteratura più recente, questa condizione non solo minaccia la salute mentale e fisica dei ricercatori, ma impoverisce la qualità della ricerca stessa. Un’università di precari produce sapere precario: corto respiro, bassa innovazione, massima competizione.
7. Conclusione: contro la precarizzazione sistemica, per un’università giusta
Il precariato accademico non è una contingenza, ma un dispositivo di governo. Trasforma l’instabilità in norma, la vulnerabilità in destino, la ricerca in sopravvivenza. È il segno tangibile di una politica che ha scelto di rendere la conoscenza precaria, per renderla docile. Ma come ricordava Judith Butler[11], la precarietà non è solo condizione subita: è anche terreno di lotta. Riconoscere la propria vulnerabilità può diventare atto politico, punto di partenza per reclamare giustizia e dignità.
Affrontare la precarietà accademica non è un favore ai giovani ricercatori, ma una questione di giustizia sociale e di sostenibilità democratica. Un Paese che abbandona la sua intelligenza collettiva, che costringe i suoi cervelli alla fuga o alla rassegnazione, è un Paese che rinuncia al futuro.
L’università pubblica, oggi, è il campo di battaglia tra due visioni del mondo: da un lato la conoscenza come bene comune, dall’altro come merce a tempo. Scegliere la prima significa rompere il silenzio, denunciare l’ipocrisia di riforme che promettono “valorizzazione” e consegnano miseria. Significa affermare, con forza militante, che non c’è eccellenza senza giustizia, non c’è ricerca senza diritti, non c’è università senza dignità.