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sinistra

Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet

di Paolo Selmi

Prima parte: dagli inizi alla NEP

Škola kommunizma i sindacati nel Paese dei Soviet parte 1 html 98bc8d74546bea8fIn questa monografia affronteremo per sommi capi altri cambiamenti epocali, che meriterebbero ben altro spazio e approfondimento, riguardanti quella che divenne l’organizzazione non partitica di massa per eccellenza: il sindacato, o profsojùz. Il motivo è presto detto: come anche nel caso dell’emulazione socialista, o di altri argomenti precedentemente trattati, si tratta di concezioni e dati praticamente ignoti, ignorati o comunque non facenti più parte, da decenni, della coscienza collettiva attualmente operante nel nostro emisfero, persino di quella attraversata da una sempre più forte “nostalgia del futuro”. Senza tanti forse, molti di quei pochi “noi” rimasti, sono sin troppo ottimisti nel tracciare traiettorie verso il socialismo, perché normalmente non prendono minimamente in considerazione questi aspetti.

Eppure, nell’improvvisarsi “commissari tecnici” delle rivoluzioni, nell’abbozzare “ricette per le osterie dell’avvenire”, occorrerebbe entrare un attimo nel concreto e, nello specifico, nei meccanismi di quello che è storicamente stato: scopriremmo tanta “concretezza” che ci aiuterebbe, se non altro, per evitare di sbattere la testa due volte contro lo stesso muro. Inoltre, non tenere conto di questa dimensione storica della rivoluzione, equivarrebbe a ridurre tutto il lavoro che stiamo conducendo sulla pianificazione a una costruzione ideale, ipotetica: l’esatto opposto di ciò che fu l’esperimento sovietico, questo tentativo di assalto al cielo condotto da centinaia di milioni di donne e uomini lungo quei decenni. Per questo, bando alle ciance e iniziamo questo viaggio nel pianeta rosso e nei suoi sindacati, affrontando in questa prima parte il periodo dai primordi alla NEP.

Un primo dato possiamo già apprezzarlo da questo grafico, che mostra la crescita nel tempo del totale occupati (equivalente dagli anni Trenta in URSS al totale forza lavoro, essendo stata liquidata la disoccupazione) e, parallelamente, la crescita del totale lavoratori sindacalizzati lungo tutta l’esperienza  rivoluzionaria sovietica:

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I dati che hanno contribuito alla sua elaborazione sono frutto di un lungo e complesso lavoro di ricerca, confronto e interpolazione da diverse fonti pubblicate nel tempo dagli istituti statistici sovietici1, lavoro mai intrapreso sinora (e che deduco non esser degno di attenzione da parte degli “storici di mestiere”):

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Da ottantamila del 1905 ai 127 milioni di iscritti di ottant’anni più tardi, dallo 0,66% al 98% di sindacalizzazione sul totale dei lavoratori, un po’ di strada era stata fatta: prima della catastrofe gorbacioviana, praticamente ogni lavoratore, fosse egli operaio o impiegato, era iscritto al sindacato.

Poi però vediamo come è finita l’URSS e deduciamo che, questo dato quantitativo, vuol dire tutto e niente. Occorre, per esempio, approfondire se davvero la qualità dei lavoratori sindacalizzati degli anni Ottanta fosse la stessa dei lavoratori negli anni di questo grafico, quando erano 1420 volte di meno, o qualcosa in più.

Il grafico degli anni Venti riportato nella pagina seguente, che rappresenta lo stesso operaio su scala diversa, a seconda del numero di iscritti al sindacato in Russia, in realtà avrebbe dovuto riportare almeno tre disegni di operai diversi. Lo aveva, senza voler anticipare nulla, intuito persino il capo dei sindacati di allora Tomskij (ma ci arriveremo...). E parliamo solo dei primi vent’anni di storia rivoluzionaria. Pensiamo al dopo e diamoci da soli la risposta.

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Lo stesso discorso, per inciso, poteva dirsi anche per la tessera del partito e di quella del komsomol, della gioventù comunista: limitarsi al dato quantitativo vuol dire tutto e non vuol dire niente. Come mostrano i due grafici seguenti2 che ci parlano, alla fine dell’esperienza sovietica, di oltre diciotto milioni di iscritti al PCUS e quasi quarantadue milioni di iscritti al komsomol. Un esercito, numericamente parlando, grande come l’attuale popolazione italiana, se non addirittura qualcosina in più. E il lavoro da cui è tratto si intitola, provocatoriamente: con tutti questi numeri, con questa crescita imponente di iscritti, “Perché il PCUS non ha salvato l’Unione Sovietica?” Quando ancora, nel 1990, mentre tutto stava andando a rotoli, 3/4 degli iscritti al partito rinnovarono la fiducia a Gorbaciov3, invece di mandarlo a casa a pedate nel sedere per lo sfascio che aveva già creato...

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Non scandalizziamoci troppo, tuttavia: senza andare tanto lontano, così come la stragrande maggioranza degli iscritti al PCI traghettò ACRITICAMENTE nella “gioiosa macchina da guerra” del Pelide Achille, anche la triplice sindacale non brillò certamente per trasparenza e coerenza alla causa della rappresentanza operaia che AVREBBE DOVUTO costituirne, invece, il tratto distintivo… vero caro, vecchio, “modello concertativo” degli anni Novanta? Arrivando a oggi, dalle controriforme delle pensioni agli attacchi allo Statuto dei Lavoratori, questi “giganti” di “autonomia sindacale” e, di fatto, “cinghie di trasmissione” allo stesso livello di quelli di oltrecortina, se non di più per certi versi (e ci arriveremo, perché, come avete intuito… questo paragrafetto non finisce qui!), non ammisero mai che le loro scelte, casualmente e salve qualche distinguo per salvare la faccia, coincidevano con i diktat del blocco PDS/DS+Margherita=PD, ci mancherebbe, mai dire le cose come stanno: loro lo facevano per “senso di responsabilità” (mi ricordo ancora che loro così spacciavano tutto… “occorre essere responsabili”, trent’anni di “responsabilità” operaia… mentre i padroni sciallavano, battevano cassa e si pigliavano rivincite per cui avevano rosicato i quarant’anni precedenti) di fronte alla “irresponsabilità” delle opposizioni. Entrando nel dettaglio, c’è solo l’imbarazzo della scelta, dalla legalizzazione del precariato (i “contratti atipici”… che oggi sono quelli “normali”!!!) all’abbandono progressivo e per tutti di garanzie e diritti frutto di decenni di lotte fino ad accontentarsi, oggi, dell’estensione temporanea della cassa integrazione in deroga e del blocco altrettanto temporaneo dei licenziamenti (che non ha impedito 470.000 posti di lavoro in meno nel secondo trimestre 2020 e 841.000 dall’inizio dell’anno!4), scambiandoli con il proprio colpevole silenzio su tutto il resto, su tutti gli abusi – pubblici e privati – compiuti alle spalle e sulla pelle dei lavoratori.

Vogliamo affrontare un altro tema spinoso del sindacato sovietico, inteso come tappa obbligata per l’ottenimento di vantaggi immediati? Ehm… anche qui, non sarebbero “soli nell’universo”. Volendo parlare, infatti, non solo dell’utilizzo degli iscritti da parte del sindacato, ma anche dell’utilizzo del sindacato da parte degli iscritti, un sindacato inteso come passaggio obbligato per l’ottenimento di un posto di lavoro, un tempo anche in senso carrieristico o, comunque, per l’ottenimento di vantaggi in termini lavorativi, vale la pena ricordare che, ancora oggi, un’intera leva di aspiranti dipendenti pubblici si iscrive al sindacato che ritiene “vincente” per l’obbiettivo preposto, per quella spintarella in più al solito concorso dove ne assumono mille su diecimila, per qualche punto un più sulla graduatoria, o peggio ancora. In un passato non lontano il sindacato riusciva a collocare i suoi anche nelle grandi fabbriche del settore privato. Penso che, anziché scandalizzarci, dovremmo starcene solo zitti e cominciare a ripensare un po’ il tutto.

Infatti, anche a noi appassionati di “fantascienza”, resterebbe oggi da capire come trasformare una coscienza sindacale oggi ai minimi storici in un “comune sentire”, che sia ideologicamente egemone fra i nostri lavoratori e le loro associazioni qualora, per puro caso, trovassimo aperta la porta del Palazzo d’Inverno e non ci facesse così schifo entrarci oltre che, sempre per purissimo caso, decidessimo di far tesoro – per una volta – degli errori del passato durante l’ennesimo assalto al cielo.

A puro titolo di appunto, possiamo dire che – oggi come allora – molto c’è da fare sia nel cosiddetto “gioco di rimessa”, ovvero laddove l’iniziativa è altrui e al sindacato spetta un ruolo di tutela, controllo, approvazione ed, entrando nel merito di contraddizioni insite nei processi socioeconomici anche nel modo socialistico di produzione5, apertura di contraddittori e vertenze (pur non in senso antagonistico), sia in fase propositiva, ovvero di soggetto attivo nella cogestione dell’attività economica in cui operano i suoi iscritti in tutti i suoi aspetti.

Tuttavia, per far tesoro degli errori del passato, occorre conoscerlo, il passato. Mi perdonerà pertanto da lassù, il nostro capocordata, se questo dossier sui sindacati si espanderà come il precedente sull’emulazione socialistica, togliendo tempo prezioso al discorso sulla pianificazione. Tuttavia, qualche cenno storico occorre fornirlo: per affrontare argomenti più complessi occorre avere un minimo di basi, basi che non ho neppure io, perché a scuola non insegnano la storia dei sindacati sovietici, stendendo un velo pietoso su com’è presentata la storia del nostro, di movimento operaio.

 

Le origini

A scüśa sciur padrun

sa l'èm fat tribulèr

i eran li prèmi volti

ca ’n saièvum cuma fèr.6

Non erano solo le mondine a “non sapere come fare”. Dal 19 febbraio 1861, milioni di contadini avevano cessato di essere servi della gleba. Il primo pensiero non può che andare a loro, in un Paese come l’allora impero zarista a maggioranza contadina. Ci limitiamo, per l’appunto, a un pensiero, ma non possiamo esimerci dal farlo, e per almeno due motivi:

1. la maggioranza di lavoratori manuali, di braccianti, di operai di allora la fabbrica non sapeva neppure cosa fosse;

2. milioni di ex-contadini divennero, come già visto nel paragrafo sull’emulazione socialista, minatori, operai metalmeccanici, chimici, ecc. Per quanto la fabbrica e i nuovi rapporti di produzione possano aver modificato, anche radicalmente, la concezione del mondo di questi lavoratori, in realtà possiamo dire che sia vero anche l’opposto, specialmente in realtà dove l’ingresso di nuovi lavoratori fu massiccio e preponderante rispetto alla “vecchia guardia” operaia.

V. I. Lenin nel 1903 getta un ponte ideale, unendo la gloriosa storia delle rivolte russe nelle campagne, che ebbero i loro leggendari eroi in Sten’ka Razin (1630-1671) e Emel’jan Pugačëv (1742-1775), a quella più recente della classe operaia russa, sotto l’egida della lotta di classe (klassovaja bor’ba, grassetto mio):

Che cos’è la lotta di classe? È la lotta di una parte di popolo contro un’altra, la lotta delle masse dei senza diritti, degli oppressi, dei lavoratori contro i privilegiati, gli oppressori e i parassiti, la lotta degli operai salariati o proletari, contro i padroni o borghesi. Anche nelle campagne russe c’è sempre stata e c’è anche adesso questa grande lotta, anche se non tutti la vedono, anche se non tutti ne comprendono il significato.

Quando c’era la servitù della gleba, l’intera massa di contadini combatteva contro i suoi oppressori, con la classe dei proprietari mantenuti, difesi e sostenuti dal governo zarista. I contadini non potevano unirsi, allora tenuti nella più totale ignoranza e senza l’aiuto fraterno degli operai di città: ciò nonostante i contadini combatterono, al meglio di come seppero e poterono fare (как умели и как могли).

I contadini non temettero le bestiali persecuzioni del governo, non temettero le esecuzioni e le pallottole, i contadini non credettero ai pope che si profondevano di dimostrazioni dell’approvazione della servitù della gleba nelle sacre scritture e della sua legalizzazione da parte di Dio (questo è quello che disse allora il mitropolita Filaret!), i contadini si sollevarono allora e si sollevano anche adesso e, il governo, alla fine, si è arreso di fronte alla minaccia di insurrezione generale di tutti i contadini7.

Certo, l’ironico “Ca ’n saièvum cuma fèr” sembra quasi richiamare l’icastico “kak umèli i kak moglì” (come seppero e come poterono): un filo rosso, da questo punto di vista, sembra legare le mondine reggiane di ritorno al paese ei krepòstnye, servi della gleba russi; tradizioni che, aldilà delle distanze linguistiche e culturali, oltre che spazio-temporali, sicuramente parlavano una lingua comune assai più di quanto sarebbero riusciti a fare, qualche decennio più tardi e incontrandosi de visu, certi intellettuali e “avanguardie” che, di internazionale, ebbero purtroppo solo la scala di litigiosità.

Qui, tuttavia, finiscono le analogie. Uno stabilimento è uguale dappertutto, dalla Fiat di Mirafiori a Torino alla Vyboržec (Выборжец) di Pietroburgo (ancor prima che diventasse Leningrado), piuttosto che dalla Wolkswagen di Wolfsburg in Germania alla Hyundai di Ulsan in Corea del Sud. Non è, tuttavia, uguale tutto quanto sta dietro a quel gigante di cemento armato, anzi.

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Questa fu la fine di Sten’ka Razin, nel quadro di Sergej Alekseevič Kirillov datato 1986. Chi aveva vissuto queste dinamiche, mutatis mutandis, fino al 1861, non poteva certo vivere il passaggio alla fabbrica come una mondina che passava dalla risaia alla filanda. Per questo, non dobbiamo mai perdere di vista il contesto in cui nasce la classe operaia di Russia.

Lo schema “borgo medievale che si separa dalla campagna → borghesia che si separa dal feudatario → capitalismo” che si studiava una volta per tre cicli di studi da sei a diciott’anni, così che ti entrasse ben bene nella zucca, e qualcuno lo riprendeva anche per un quarto all’università, vale per una porzione di Europa, di cui noi peraltro, come Italia unita, facciamo storicamente parte... solo in parte. Tutti gli altri, fuori da quella porzione di Europa, si arrangiarono, parafrasando Lenin qui sopra, kak umèli i kak moglì (come seppero e come poterono): ne più, ne meno. E la Russia non fece eccezione. Abbiam già visto nel paragrafo precedente come si evolse l’industria sovietica attraverso l’emulazione e la creazione di grandiosi stabilimenti, efficienti cattedrali a uso e celebrazione una classe operaia tanto concentrata e unita, quanto creata ex novo e secondo piano. Ma da dove nacque tutto ciò? Vale la pena fare un passo indietro. A tale scopo ci viene incontro un manualetto del 1926 sui sindacati in Russia, che proprio nell’introduzione recita:

Enorme Paese posto fra due continenti, Europa e Asia, la Russia trova registrati nei propri annali eventi del tutto ignoti ai suoi vicini occidentali; per questo, il nostro movimento operaio non conobbe tutte le tappe della lotta di liberazione del proletariato europeo. [...] La Russia non conobbe quella fioritura di arti e mestieri che impresse un’impronta indelebile nella storia politica medievale dell’Europa. La città russa nacque, anzi tutto, come centro amministrativo e militare. Anche le corporazioni non lasciarono tante notevoli tracce nella storia dei rapporti sociali, come in Europa Occidentale. L’industria manifatturiera nacque e crebbe da noi, anzi tutto, per soddisfare i bisogni e le necessità appena sorte dello Stato8.

Si tratta di affermazioni importanti, che già fissano alcuni paletti, fra cui quello, fondamentale, di come la classe operaia russa nascesse con tratti distintivi ben differenti da quelli che denotarono invece la culla del capitalismo. Conseguentemente, anche la prima, diretta, organizzazione e auto-organizzazione della classe operaia, ovvero il sindacato, non avrebbe potuto non assumere connotati a volte del tutto similari a quelli dei cugini d’Occidente, a volte del tutto peculiari.

Ma torniamo allo “strano caso” del proletariato russo. In realtà, il nostro Paese contiene, al suo interno, molti “climi” e molti “ecosistemi”. Lo stesso vale per la sua variegata storia per cui, con un po’ di fantasia e di capacità di adattamento, non dovremmo far troppa fatica a capire quanto accadde in Russia, a differenza di un inglese; del resto, anche noi a suo tempo, tra una pallina di carta gettata al compagno e un bigliettino alla compagna due banchi più avanti, guardammo sui libri di storia alle enclosures come a un oggetto strano… giusto per dire che quel “proletariato europeo”, quell’“Europa Occidentale” che il nostro amico del manualetto sui sindacati cita in apertura trattazione, andrebbero ridimensionati - e di molto! - rispetto ai confini fisici del continente europeo, tanto quanto per lasciar fuori gran parte del nostro Paese!

Cominciamo a ricordare di quale Stato parla il manualetto. Per Stato, è da intendersi lo Stato feudale, autocratico, zarista: un’industria, quindi, interamente commissionata dallo zar, padre padrone, per produrre armi, uniformi e quant’altro atto a soddisfare i bisogni del proprio esercito e della macchina statale in generale. Gli operai di allora erano servi della gleba trapiantati nelle officine dello zar e pagati in natura (“должны были обрабатывать натурой”), non potendo ricevere, né nelle campagne, né nelle fabbriche, alcun denaro: questo, dal tardo XV secolo fino all’inizio del XIX9.

Il meccanismo “innovativo” – ideato da Pietro I – per cui i servi della gleba, proprietà personale del feudatario russo, potevano essere trasferiti nel nuovo ambiente, sia pur non in quanto proprietà non del padrone della fabbrica, ma in quanto bene mobile legato alla fabbrica stessa (alla stessa stregua del cosiddetto “capitale fisso” di proprietà aziendale!), era teso a consentire un più facile reperimento di manodopera da parte di investitori stranieri, chiamati già allora dallo zar a modernizzare laddove la macchina statale non sapeva, non poteva o non voleva arrivare. Il posessionnoe pravo, o diritto di possesso, di disposizione totale e assoluta della servitù della gleba pur non detenendone la proprietà, restò in vigore fino alla seconda metà del XVIII secolo.

Anche i feudatari tuttavia, fiutato l’affare, vollero buttarsi nel giro delle manifatture. Contestualmente, impiegando manodopera “di proprietà”, ovvero i propri servi della gleba, mandarono in crisi il modello delle posessionnye manifaktury. I lavoratori impiegati secondo tale sistema scesero, dal 1799 al 1860, l’anno prima della sua abolizione, da 33,5 mila operai a 12 mila. Viceversa, gli operai occupati nelle votčinnye manifaktury, nelle manifatture che i feudatari avevano fatto costruire in ciascun loro feudo ereditario, o votčina, nello stesso periodo aumentarono da 14,7 mila a 91 mila10.

Nonostante questi residui di servitù della gleba trapiantati in fabbrica, di cui tuttavia occorre tener conto perché indicativi anche, e soprattutto, del contesto generale in cui si collocava questa nascente realtà di fabbrica, un contesto essenzialmente contadino, notiamo che è proprio nella prima metà del XIX secolo che nasce la kapitalističeskaja manifaktura, che aumentando le sue dimensioni dagli anni Trenta si può definire fabrika a tutti gli effetti, fabbrica capitalistica con manodopera non più coatta ma salariata, pagata da un padrone che detiene “solo” i mezzi di produzione. Ebbene, dal 1825 al 1860 la percentuale di lavoratori salariati nel settore tessile, per esempio, passa dal 18,4% al 50,6%. Nel 1858, tre anni prima soltanto dell’abolizione definitiva della servitù della gleba, il numero di operai era salito a 573,3 mila unità, di cui i salariati erano ormai 462 mila (80%)11. Manteniamo, tuttavia, lo stesso caveat di poche righe sopra: 573,3 mila operai su un totale di quasi settanta milioni di persone!

Il vero boom accadde pochi anni più tardi anche se, inizialmente, il movimento fu di senso opposto e ha un solo termine in italiano per descriverlo: fuga. L’abolizione della servitù della gleba aveva, infatti, liberato gli operai dalla schiavitù di quella fabbrica coatta, e il primo movimento fu lo “svuotamento” di quelle odiate manifatture. Il problema, tuttavia, fu proprio dato da quella riforma, di cui costituiva l’altra faccia della medaglia: niente servitù della gleba, si, ma anche niente terra. E di cosa si sarebbe campato, da allora in avanti? Per giunta con una popolazione in continua crescita?

Attenzione, infatti, alla dinamica demografica. Anche questa è un dato che occorre tenere sott’occhio. Dal 1811 al 1913 la popolazione russa era più che triplicata, da 43,78 milioni a 155,42 milioni di persone, con il vero boom demografico proprio nella seconda metà di questo periodo, visto che nel 1863 si registravano 69,96 milioni di persone, più che raddoppiate cinquant’anni dopo12. Ecco, quindi, instaurarsi a partire dalla seconda metà del XIX secolo, le stesse dinamiche a noi ben note: urbanizzazione, proletarizzazione, creazione di quell’esercito industriale di riserva funzionali al consolidamento del nascente capitalismo russo. In altre parole, queste dinamiche procedevano di pari passo con l’industrializzazione del Paese e una sempre maggior espansione, all’interno dei rapporti socioeconomici esistenti, del modo capitalistico di produzione:

Pertanto il proletariato, ovvero la classe di operai salariati sotto padrone così come la conosciamo noi in Occidente, cominciò ad aumentare il proprio peso specifico rispetto totale dei cittadini russi: nel 1897 gli operai e le loro famiglie costituivano, in totale, il 15,5% della popolazione, con 19,47 milioni di persone. Dieci anni più tardi soltanto, nel 1906, la percentuale di proletari era già salita al 17%, con 24 milioni di persone su un totale di 14213.

Durante i primi anni di questo nuovo corso, dei sindacati non si vide neppure l’ombra e gli scioperi (стачка, забастовка), eventi sporadici che si contavano sulle dita di una mano, assumevano un carattere prettamente spontaneo. Tuttavia, era solo una questione di tempo. Lo sciopero di sei giorni alla Savva Morozov di Orechovo-Zuevo, dal 7 al 13 gennaio 1885, ebbe un’enorme risonanza a livello nazionale perché, per la prima volta, si ponevano in modo netto i temi chiave di una questione operaia anche nella terra dello Zar. Mentre le agitazioni interessavano ormai centinaia di migliaia di lavoratori, cominciarono a formarsi le prime organizzazioni operaie legali: le casse e le società di mutuo soccorso (кассы и общества взаимопомощи). I prodromi di tali organizzazioni sono da ricercare mezzo secolo prima, fra le casse dei minatori e dei ferrovieri. È solo negli anni Ottanta che nacquero anche fra gli operai, sia pur sotto l’occhio vigile delle istituzioni governative e della polizia: nessun carattere non solo conflittuale, ma neppure di classe; eppure, per la prima volta, gli operai si organizzavano collettivamente e gestivano autonomamente qualcosa. Persone che fino a qualche decennio prima erano di proprietà di un signorotto feudale, cominciavano ora a intravedere importanza e dimensioni immediate, concrete, di certe leve economiche14.

Dieci anni più tardi, cominciarono a formarsi le prime organizzazioni operaie illegali: le “unioni di lotta per la liberazione della classe operaia” (союзы борбы за освобождение рабочего класса), strettamente collegate ai socialdemocratici, parimenti illegali. La loro diffusione si ampliò a partire dagli scioperi del 1895-96. L’impennata impressa, durante l’ultimo decennio del secolo, allo sviluppo industriale dal giovane capitalismo russo, aumentò quantitativamente gli operai, quindi gli operai sindacalizzati, quindi i socialdemocratici. Fu in questo clima che, nel 1898 a Minsk, fu fondato il POSDR (Partito Operaio Social-Democratico di Russia). Anche qui, un elemento di distinzione rispetto ad altre esperienze: in assenza di sindacati, il POSDR dovette condurre una lotta sia politica, che economica, intervenendo sin nelle singole vertenze di fabbrica. In alcuni casi la loro direzione era diretta, in altri era invece mediata dalle casse e fondi di resistenza per gli scioperi (стачечные кассы и фонды)15.

Il movimento crebbe negli anni successivi, complici la crisi economica e il malcontento crescente, che culminarono col primo sciopero generale che interessò il meridione dell’Impero zarista (1903), sciopero a guida socialdemocratica in cui si intrecciavano sempre più istanze economiche e politiche. Nel frattempo, i tentativi di divisione del movimento operaio a opera della polizia zarista, con organizzazioni collaborazioniste a opera di Sergej Zubatov, dirigente della polizia segreta (охрана) e del pope Georgij Gapon (поп Гапон), crollarono sotto le loro stesse contraddizioni: il fallimento fu sancito con i 200 morti e 800 feriti ufficiali16 del massacro compiuto in data 22 gennaio 1905 (9 gennaio del calendario giuliano), frutto della repressione di una manifestazione pacifica indetta da tali sigle collaborazioniste per portare una petizione allo zar e che passò alla storia come la “domenica di sangue (кровавое воскресенье)”. Il cammino per la rivoluzione del 1905 era ormai tracciato. La foto che segue è tratta dalla ricostruzione cinematografica del 1925, Devjatoe Janvarja17:

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(Continua...)
Note
1 Fonti: BSE Профессиональные союзы СССР https://www.booksite.ru/fulltext/1/001/008/106/981.htm. Più le innumerevoli raccolte statistiche ufficiali raccolte e scansite con pazienza da istmat.info:
http://istmat.info/files/uploads/22110/trud_v_sssr_1988_chislennost_rabochih.pdf
https://www.gumer.info/bibliotek_Buks/History/Stat/24.php
http://istmat.info/files/uploads/22110/trud_v_sssr_1988_naselenie_i_trud._resursy.pdf
http://www.great-country.ru/content/library/knigi/dokumenty_spravochniki_statistika/xoz_70/xoz_70-047.php
http://istmat.info/files/uploads/17165/narhoz_sssr_1956_chislennost.pdf
http://istmat.info/files/uploads/40054/rgae_1562.41.65_statisticheskie_dinamicheskie_ryady_1913-1951.pdf
http://istmat.info/files/uploads/26109/sh_sssr_1960_svodnyy.pdf
http://www.great-country.ru/content/library/knigi/dokumenty_spravochniki_statistika/xoz_1922-1982/xoz_1922-1982-079.php
2 http://pribudko59.blogspot.com/2018/10/blog-post_30.html
3 Ibidem.
4 https://it.euronews.com/2020/09/11/istat-quasi-mezzo-milione-di-posti-di-lavoro-in-meno
5 A tale proposito non si può non citare V. I. Lenin nelle sue Note al libro di N. I. Bucharin “Economia del periodo di transizione” (Замечания на книгу Н. И. Бухарина: «Экономика переходного периода»): “Antagonismo e contraddizione non sono la stessa cosa. Nel socialismo il primo sparisce, la seconda resta” (Антагонизм и противоречие совсем не одно и то же. Первое исчезнет, второе останется при социализме). in V. I. Lenin, Raccolta leniniana (Ленинский сборник). Vol, XI, Moskva, Leningrad, Institut Lenina pri CK VKP(b), 1929, p. 357. Ancora oggi, questa differenza fondamentale è, in molti casi, trascurata.
6 Sciùr parun, canto di risaia, Gualtieri, Reggio Emilia. In Roberto Leydi, Canti popolari italiani, Milano, Arnoldo Mondadori, 1973, pp. 324-5.
7 Что такое классовая борьба? Это — борьба одной части народа против другой, борьба массы бесправных, угнетенных и трудящихся против привилегированных, угнетателей и тунеядцев, борьба наемных рабочих или пролетариев против собственников или буржуазии. И в русской деревне всегда происходила и теперь происходит эта великая борьба, хотя не все видят ее, не все понимают значение ее. Когда было крепостное право, — вся масса крестьян боролась со своими угнетателями, с классом помещиков, которых охраняло, защищало и поддерживало царское правительство. Крестьяне не могли объединиться, крестьяне были тогда совсем задавлены темнотой, у крестьян не было помощников и братьев среди городских рабочих, но крестьяне все же боролись, как умели и как могли. Крестьяне не боялись зверских преследований правительства, не боялись экзекуций и пуль, крестьяне не верили попам, которые из кожи лезли, доказывая, что крепостное право одобрено священным писанием и узаконено богом (прямо так и говорил тогда митрополит Филарет!), крестьяне поднимались то здесь, то там, и правительство, наконец, уступило, боясь общего восстания всех крестьян. Vladimir Il’ič Lenin, Ai contadini poveri (titolo della versione italiana, Roma, Ed. Rinascita, 1950, lett. “Ai poveri delle campagne” К деревенской бедноте, 1903), in PSS, cit., Vol. 7, pp. 193-194.
8 B. Kolesnikov, I sindacati in Russia (Провсоюзы в России), Khar’kov, Proletarij, 1926, p. 5.
9 Ibidem, p. 6.
10 Cfr BSE alla voce “SSSR – Feodal’nyj stroj”: https://gufo.me/dict/bse/СССР_Феодальный_строй
11 Ibidem.
12 Cfr. Adolf Grigor’evič Rašin, La popolazione russa in 100 anni (1811-1913) (Население России за 100 лет (1811-1913)), Moskva, Gosudarstvennoe Statističeskoe Izdatel’stvo, 1956. https://istmat.info/node/72
13 Cfr Nikolaj Aleksandrovič Rubakin, La Russia in cifre (Россия в цифрах), San Pietroburgo, Vestnika znanija, 1912, https://istmat.info/node/24525
14 B. Kolesnikov, Op. Cit., pp. 8-16.
15 Ibidem, pp. 16-18.
16 https://ria.ru/20200122/1563621636.html

Comments

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Francesco Demarco
Friday, 25 February 2022 08:57
Sei sempre il ragazzo bravissimo che ho conosciuto. Ma perchè non provi a ad osservare tutto attraverso la lente ecologica? Altrimenti non caverai mai il ragno dal buco. Ciao, complimenti e tanta salute.
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Paolo Selmi
Friday, 25 February 2022 17:32
Grazie mille Francesco, davvero!

Anche per il "ragazzo"... ormai in bici non ho più lo spunto sui cavalcavia che avevo una volta, arranco... e arranco anche in montagna... mi passano tutti questi ragazzetti in salita e in discesa come dei grilli e a me lì che bacchette si, bacchette no, non mi rimane che pensare a denti stretti: "vedremo voi a quarantotto anni..." Ma l'importante è esser ragazzi dentro! E quello lo sarò sempre! :-)

Parlando dell'ecologia, mi hai fatto venire in mente un testo del 1983 di Laura Conti (Laura Conti, Questo nostro pianeta, Roma, Editori Riuniti, 1983). E' stato uno degli ultimi libri che ho letto (prevengo la battutaccia... non appena uscito... qualche decennio più tardi.. e neanche finito... mia vergogna), e quel passo mi è piaciuto talmente tanto che l'ho riportato in un lavoro che avevo fatto proprio sulla questione ecologica. Scrive la Conti a p. 19:

Caro Filosofo, caro Architetto, cari compagni e amici che rappresentate la cultura di sinistra, che dirigete le battaglie politiche della sinistra, che a livello di lotte politiche e sociali vi battete per dare a tutti gli uomini uguali probabilità di sopravvivere anche attraverso la propria discendenza, siamo ormai in molti a temere che quello che divideremo in parti uguali non solo fra noi, ma fra tutti i viventi, sarà in realtà la probabilità di non sopravvivere.

E l'avevo collocato in questo lavoro:
https://www.sinistrainrete.info/teoria/12764-paolo-selmi-appunti-per-un-rinnovato-assalto-al-cielo-iii.html

Cerco di non partire per i massimi sistemi anche se questa è un'alzata degna del miglior palleggiatore... mi limito a lanciare la palla oltre la rete perché sono in pausa sigaretta (virtuale, visto che non fumo, ma me la prendo anch'io!) e quindi massima sintesi!

In buona sostanza il secolo scorso sia il socialismo realizzato che il capitalismo hanno fatto pietà dal punto di vista ecologico. Il capitalismo globalizzato di questo secolo è anche peggio. Tutti d'accordo.

Condanna senza appello? non dappertutto. Dove vedo la dicotomia bambino/acqua sporca, è proprio nel modo socialistico di produzione, da me inteso rigorosamente come proprietà socializzata dei mezzi di produzione + piano per coordinarne il movimento e lo sviluppo.

Sono i due capisaldi. Avere tutto statale per poi continuare a fare le porcherie che fanno i padroni "privati" non sposta di un centimetro la questione. D'altro canto, parlare di piano quando son tutti padroni e padroncini privati, in piena anarchia del mercato, è come parlare di concerto sinfonico pensando al sottofondo "musicale" del mercato rionale del sabato.

E il mercato, nemmeno gestito "indirettamente", nemmeno "regolamentato", è in grado di risolvere il problema ecologico.

Torniamo ai due capisaldi. Condizione necessaria? Si. Condizione sufficiente? NO (ma proprio tutto in maiuscolo). Tornando alla metafora del musicista, ho davanti pentagramma, penna, ma in testa soltanto il giro di do maggiore e la rima "cuore-amore"... cosa mai mi uscirà?

Il mio sforzo quindi è di dotare di CONTENUTI di civiltà e di progresso (paroloni ma ci siam capiti, in opposizione all'inciviltà e al regresso attuali ci stan tutti) una FORMA che è l'unica possibile in cui si possono sviluppare.

E da qui il mio lavoro sulla pianificazione, di cui 2+2=5 e Skola kommunizma sono due derivazioni.

Scappo che il venerdì per i trasporti è sempre quaresima... anche a carnevale
E grazie ancora!

ciao!
paolo
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Fabio Rontini
Tuesday, 22 February 2022 18:32
Complimenti per il lavoro di ricerca che hai affrontato.
E' l'articolo di cui mi avevi parlato.
Si prospetta un lavoro mastodontico.
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Paolo Selmi
Tuesday, 22 February 2022 19:32
Grazie mille Fabio!

Questa prima parte, fino alla fine della NEP, sono 219 pagine in tutto. Due anni di lavoro, fuori dall'orario di lavoro. Ma, continuo a ripetermelo e non per convincermi... ne è valsa la pena.

Fa tutto parte di un lavoro più ampio, quello riguardante la traduzione del manuale sovietico sulla pianificazione. Arrivato al V capitolo, forma e contenuto della pianificazione, mi sono stoppato.

Certo, formule, certamente, modelli teorici. Ma chi li doveva mettere in pratica? Cosa ne sappiamo di loro? Su quali basi partivano (o sarebbero dovuti partire)?

Si, un po' di Boffa, che non guasta mai, tanti altri libri che parlano di, di cui mi sono riempito la casa e tra un po' uscirò io insieme a loro... ma nessuno che mi parlava di loro, dei prostye ljudy, della gente come me e come te.

Ne ho conosciuti tanti, tantissimi è un parolone, ma tanti posso dirlo. Alcuni molto da vicino, nel senso che abbiam condiviso qualcosa di più che quattro chiacchiere, e per anni. Mi è servito molto, ma non mi bastava.

Ecco allora nascere, come primo dossier di approfondimento, quello sull'emulazione socialista. che mi è servito enormemente.

E da lì mi sono accorto che sui sindacati sovietici sapevo poco o nulla, se non il classico ritornello della "cinghia di trasmissione".

Non andava bene. E allora in questi due anni ho iniziato a lavorarci sopra. Poi son fatto alla mia maniera e quello che scrivo, lo scrivo per appuntarmelo ma anche per condividerlo. Perché diventi patrimonio di più compagni possibile.

Poi mi sono accorto che un intervento di Tomskij, segretario generale dei profsojuz, al XIV Congresso del PCR(b) del 1925, da cui avrei voluto spiluccare qua e là, era la risposta a quello che andavo cercando. In oltre 20 pagine di intervento toccava tutti gli argomenti che mi interessavano per mettere dei paletti.

E li ho messi, uno a uno. Ogni paragrafo l'ho tradotto e poi sono andato a cercarmi cosa intendesse, a cosa si riferisse. E ho trovato una miniera di informazioni. Utili ieri ma anche - e soprattutto - oggi. Perché un sindacato in un processo di transizione al socialismo, quale fu la NEP, non potè non avere un ruolo centrale.

E ho cominciato ad appuntarmi considerazioni sull'oggi, o sul libro di Trentin "da sfruttati a produttori" che girava in casa dei miei insieme a "intervista sul sindacato" di Lama (che non tocco, mettiamo subito le mani avanti!).

Ed ecco le 219 pagine. Ed ecco perché mi son fermato alla NEP. Perché dalla NEP alla fine dell'URSS ce ne sarebbero volute almeno altrettante. E altri due anni di lavoro. E volevo finire, e voglio finire prima il manuale sulla pianificazione.

Ora di "contenuto", oltre la forma, ce n'è parecchio. Cominciamo a vederli in faccia questi operai, questi capireparto, questi contadini, inurbati e non.

Ho chiesto a Tonino di poterlo dividere in parti da 15 pagine, non di più. Perché mi interessa che sia letto non con la stessa velocità con cui l'ho scritto, ma q.b. come si dice nei manuali di cucina, per assimilare le varie parti, le varie problematiche, eventualment discuterne.

Per chi proprio non resistesse e volesse subito sapere chi è l'assassino (il maggiordomo! sempre il maggiordomo!), qui il link al PDF completo e impaginato.

https://www.academia.edu/71457091/Škola_kommunizma_i_sindacati_nel_Paese_dei_Soviet_I_parte_Dalle_origini_alla_NEP

Scappo.
Grazie ancora di tutto!
Ciao
Paolo
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