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sinistra

Appunti per un rinnovato assalto al cielo. III

Turbocapitalismo e ciclo produttivo … di rifiuti

di Paolo Selmi

telefonini3Lasciamo, per un attimo, da parte il passato e guardiamo al presente. L’attuale produzione di beni di consumo avviene, di fatto, come se l’ambiente fosse una risorsa inesauribile, pur sapendo benissimo che non lo è. Tuttavia, ciò che, strutturalmente, accade da quando esiste l’uomo, oggi riceve un’accelerazione sempre maggiore a causa di un ciclo di vita della merce sempre più breve, sempre più globalizzato e sempre più accelerato nelle sue fasi di produzione e riproduzione.

 

1. L’inquinamento in fase di produzione è forse uno degli argomenti più noti: non esiste soltanto il dumping sociale ed economico come presupposto alla delocalizzazione, ma anche quello ambientale. Il problema, quindi, si “sposta” laddove il problema non si pone, o si pone in maniera più blanda. Pensiamo al tessile. Chi scrive, si ricorda ancora di quando andava a scuola a piedi e scommetteva, con gli amici, di che colore fosse quel giorno il torrente su cui sversava la locale tintoria. Oggi la tintoria ha chiuso, il torrente è pulito (quando ha abbastanza acqua), e il problema si è spostato altrove. Le emissioni di CO2 nel magico mondo dell’abbigliamento corrispondono, infatti al 5% del totale di emissioni del pianeta, e sono in aumento, dal momento che anche i consumi dal 2000 sono aumentati, in meno di vent’anni quindi, del 60%1 . La qualità del prodotto finito è degradata, da cui un ciclo di vita sempre più breve, da cui l’aumento di risorse destinate alla produzione (destinate a triplicare dal 2000 al 2050), fra cui un impiego sempre più massiccio di fibre sintetiche, leggasi, guarda caso, plastica, più economiche e più inquinanti. “Fast fashion”, lo chiamano gli anglofoni: talmente “fast” da muoversi da Cina e India (dove si concentra il 60% della produzione mondiale) senza che il visitatore abituale di centro commerciale se ne accorga neppure. Sembra prodotto nel capannone lì dietro, che invece ospita una filiale di una qualche altra multinazionale, di elettrodomestici o di articoli “sportivi”.

 

2. All’inquinamento in fase di produzione, quindi, si aggiunge anche quello in fase di trasporto. Quello che prima era risolto da un camion diesel con carburatore più o meno zozzo, oggi è un processo che coinvolge navi, aerei, treni, camion, o tutti questi mezzi insieme appassionatamente. Risultato: se i gas serra dal 1990 al 2010 sono aumentati del 25%, nello stesso periodo le emissioni di gas dovute al trasporto mare-aereo sono aumentate del 70%, secondo un recente studio del Parlamento Europeo2 , con una proiezione del 250% nel 2050. Sempre secondo lo stesso studio, in termini di emissioni di CO2, la tendenza nel 2050 porterà il “via mare” a occupare il 17% delle intere emissioni del pianeta, e il “via aerea” il 22%: il 40% del totale delle emissioni di anidride carbonica sarà dovuto alla nostra, cara, “globalizzazione” del ciclo produttivo.

Sui svariati modi con cui una nave portacontenitori può contribuire a rendere peggiore il nostro pianeta, dal bruciare carburanti tossici alla pulizia delle vasche in mare aperto, rimando allo studio in nota3 e a un articolo, ormai datato ma sempre attuale, che spiega come le prime 16 navi portacontenitori al mondo inquinino come tutte le autovetture messe assieme4 ; così come, rimando alla nota per dati allarmanti, provenienti – guarda caso – dalla Cina, dove passano il 60% delle navi portacontenitori mondiali, e dove si trovano 7 dei primi 10 maggiori porti del pianeta: ebbene, in questo Paese nel solo 2013 si stimano esserci state 18.000 morti premature a causa delle emissioni di queste navi5 . Cosa han pensato i loro dirigenti “ecologisti”? Rivedere il proprio modello di sviluppo, di modo che con il loro miliardo di abitanti potessero, sicuramente, rappresentare un esempio globale, magari cercando quella strada difficile che porta a un’economia più sostenibile perché più “a km 0”, diremmo noi, o più rispondente a quei principi, guarda caso fissati nella Costituzione di un Paese socialista, l’URSS, di un “unico complesso economico nazionale”6 (Единый народнохозяйственный комплекс)? Nossignori! Basta, dal 2016, che le navi usino un carburante più “ecologico”, limitatamente alla loro permanenza nei porti cinesi, che il problema sia risolto7 : un approccio decisamente “marxista” al problema…

 

3. Stanti queste premesse, è normale che si inquini in fase di consumo. Compriamo, quindi incentiviamo questo modo di produzione, laddove un bene di consumo non solo è di qualità sempre inferiore, dura sempre meno, e quindi è riprodotto sempre più velocemente con un maggior consumo di risorse ma, viaggiando per oltre diecimila km impilato insieme a migliaia di suoi simili in un container o dentro un pallet aereo, particolare attenzione è dedicata al suo imballo (reso poeticamente e asetticamente come packaging): un imballo che cresce di volume rispetto a quello che sarebbe stato reso necessario dalla produzione nella fabbrica dietro casa, fino a ricoprire mediamente dall’1% al 5% del peso totale della merce, un imballo che per il 53% del totale è… di plastica8 e, laddove non lo è, contribuisce a colture intensive di piante per la produzione di cartonati che saranno gettati il giorno stesso dell’arrivo a destino della merce.

 

4. Passiamo quindi all’inquinamento in fase di smaltimento. Nel solo 2010, si stimano entrati in mare dalle 4 ai 12 milioni di tonnellate di plastica9 . Solo l’incertezza del dato può rendere l’idea di come tutto sia, volutamente, oggetto di scarsa ricerca, affidata alla buona volontà e all’empirismo di pochi collettivi, mentre il turbocapitalismo globale continua dritto per la sua strada. Dai 2 milioni di tonnellate prodotte di plastica nel mondo nel 1950 ai 380 milioni del 2015, l’incremento è stato costante e, il cosiddetto “smaltimento”, non ha contribuito minimamente alla riduzione quantitativa di rifiuti, limitandosi soltanto a rallentarne l’incremento10 : nel 2050 arriveremo, se la tendenza non cambia, a 25 miliardi di tonnellate di plastica prodotta e, ancora in qualche modo, in circolo nel pianeta. In altre parole, riprendendo l’espressione marxiana all’inizio di questo lavoro, questo modo di produzione non solo “gronda sangue”, ma è anche putrido “dalla testa ai piedi”, non tanto in ciò che è destinato a diventare, ma in ciò che rende, trasforma, progressivamente, incessantemente, intorno a sé, attraverso il suo cinico e lucido iter verso la distruzione.

Solite Cassandre profetesse di sventura? Assolutamente no, quando dati scientifici inconfutabili collegano a precise coordinate spazio-temporali eventi che, messi insieme, esprimono tendenze anch’esse inconfutabili. Tuttavia basta farlo credere: riducendo il dibattito a una fiera di paese, dove si aggiudica la mucca chi urla di più – pardon, chi è più social, non ci vuole molto. In alternativa, o in aggiunta, basta ridurre il tutto a un immenso Hyde Park, dove gli estremi si elidono, in una “presunta”, “ragionevole”, “responsabile” aurea mediocritas. La libertà di espressione totale e acritica di tutto e il contrario di tutto, crea una realtà virtuale, un non-luogo o, meglio, un meta-luogo, dove agli opposti è consentito pari diritto di cittadinanza affinché tale “caos creativo” risulti funzionale all’esercizio del potere costituito, che nel nostro caso coincide, guarda caso, con il Capitale. Per non parlare, infine, dell’odierno oppio dei popoli rappresentato dalla comunicazione “sociale” mediata da un pezzo di plastica luminoso e variamente colorato, che parla al basso ventre e al narcisismo di ognuno, dove scrivere oltre tre righe serie fra una torta, un cucciolo e un selfie col primo scalzacani di turno, è peccato mortale: altro che Lectio – Meditatio – Oratio – Contemplatio – Evangelizatio – Ruminatio del vecchio oppio! Basta un “A morte tutti”, già scritto così, senza un soggetto o un predicato definiti, per attirare valanghe di “mi piace”.

Così, la ricerca del collettivo indipendente si sovrappone al risultato del gruppo finanziato dalla gilda degli armatori marittimi… ecco che il trasporto oceanico è, da un lato, insostenibile, e dall’altro, l’esatto opposto, magari con un bel “#tutte-balle!”. E via con un altro giro di giostra, questa volta con il distacco di un pezzo di calotta polare grande come l’Italia, quindi altro summit, altre dichiarazioni d’intento, altre contro-ricerche, e intanto sparisce un ghiacciaio a quattromila metri. L’iniziativa è sempre degli scrittori di storie, ovvero della Storia:

Noi siamo un impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà; così, mentre voi studiate quella realtà - con tutto l’equilibrio di cui siete capaci - noi agiamo di nuovo, creando altre nuove realtà che voi potete anche studiare, ed è così che le cose si gestiscono: noi siamo i protagonisti della storia... e a voi, a tutti voi, sarà solamente consentito di studiare ciò che noi facciamo11.

Questa ammissione a microfoni spenti e in seguito smentita, di Karl Rove, all’epoca collaboratore di G. W. Bush, pronunciata quattordici anni or sono, vera che fosse o frutto dell’immaginazione del cronista, ha mantenuto intatta la sua profetica validità, cancellando ogni principio di verità o, se proprio non ci piace questa parola, di verosimiglianza maggiore rispetto ad altri. Un principio che ci avrebbe detto, a chiare lettere, che il modo di produzione capitalistico attualmente egemone a ogni latitudine e longitudine del pianeta, ha fallito; come e più del cosiddetto “socialismo reale”, perché mette a pieno repentaglio la vita dello stesso pianeta e dei suoi abitanti. “Socialismo o muerte” non è, allora, uno slogan che esprime “soltanto” lo slancio ideale di uno spirito rivoluzionario, ma la triste costatazione: in assenza di una trasformazione radicale dell’attuale modo di produzione verso uno socialmente più avanzato, dove l’abolizione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, ovvero la proprietà sociale dei mezzi di produzione in termini globalmente egualitari e la pianificazione di quest’ultima secondo precise priorità e logiche a breve, medio e lungo termine di riequilibrio ecologico, riduzione degli sprechi, aumento della qualità costruttiva e della longevità dei beni stessi di consumo, decida, questa volta in maniera davvero sostenibile, cosa e come produrre, l’alternativa non sarà la “barbarie”: quella ce l’abbiamo già… l’alternativa sarà la morte del pianeta e dei suoi abitanti.

Alle anime candide che si accontentano di un “riformismo” più o meno graduale, di una “testimonianza” più o meno profetica o minoritaria, di un se-dicente “socialismo” magari attraverso le cosiddette “nuove via della Seta”, dedico queste parole non di un fanatico bolscevico col coltello fra i denti, ma di una compagna milanese vissuta nel secolo scorso, Laura Conti, intelligenza lucidissima quanto inascoltata che nel lontano 1983 scriveva:

Caro Filosofo, caro Architetto, cari compagni e amici che rappresentate la cultura di sinistra, che dirigete le battaglie politiche della sinistra, che a livello di lotte politiche e sociali vi battete per dare a tutti gli uomini uguali probabilità di sopravvivere anche attraverso la propria discendenza, siamo ormai in molti a temere che quello che divideremo in parti uguali non solo fra noi, ma fra tutti i viventi, sarà in realtà la probabilità di non sopravvivere12.

Ecco perché, in questo mondo sempre più inquinato, sempre più di plastica, ripensare alla forma merce, non è opera peregrina di nostalgici “passatisti”. Anzi, il percorso di analisi e riflessione fatto finora ci è stato utile come cartina di tornasole per porre in evidenza alcune contraddizioni e questioni irrisolte. Irrisolte dal capitalismo occidentale, irrisolte dal capitalismo “con caratteristiche cinesi”, perché entrambi funzionanti e funzionali alla stessa medesima logica di accumulazione capitalistica e sfruttamento di una classe operaia sempre più sottoproletarizzata e di un pianeta sempre più ridotto a pattumiera. Se, tuttavia, del primo capitalismo sappiamo quasi tutto, ancora troppo poco e troppe ambiguità permangono sul secondo. Cercheremo nel prosieguo di questo lavoro di dipanarne alcune.

 

La Cina è vicina… troppo vicina

Di quale capitalismo stiamo parlando? Di quello vincente di un porto, come quello di Shanghai,shangai12 in grado di superare l’astronomica cifra di 40,2 milioni di TEU movimentati nel solo 2017 (1 TEU equivale ai 33 metri cubi d’aria caricabili su un contenitore da 20’, pertanto, in termini di metri cubi movimentati, parliamo di un miliardo trecentoventi milioni)13 . Per renderci conto degli ordini di grandezza, il maggior porto italiano, quello di Genova, ha movimentato lo stesso anno 2,6 milioni di TEU (record storico!)14 . In altre parole, con una media di 110 mila TEU movimentati al giorno, il SOLO porto di Shanghai

  • il 23 gennaio dell’anno scorso superava già il volume di merce che il porto di Genova avrebbe movimentato in un anno,

  • il 27 gennaio superava il totale annuale movimentato da TUTTI i porti di “trasbordo” (transhipment per gli anglofoni, ovvero Gioia Tauro e Cagliari),

  • il 6 marzo superava il volume di merce annuale movimentato da TUTTI i porti italiani “capolinea” (gateway per gli anglofoni, fra i quali rientrano Genova, La Spezia, Livorno, Salerno, Napoli, Ravenna, Venezia e Trieste, per un totale di 7,2 milioni di TEU) e, dulcis in fundo,

  • il 2 aprile avrebbe eguagliato il lavoro annuale di tutti i porti italiani messi assieme!

La maggior parte della merce-spazzatura di cui abbiamo parlato finora nasce qui, quindi, in un Paese di Mezzo (traduzione letterale di zhongguo 中国) che merita di essere studiato e analizzato in tutti i suoi complessi meccanismi, in quella che deve diventare una sempre più rigorosa e serrata critica all’economia politica di un modo di produzione globalizzato e globalizzante che accentua sempre più lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e le diseguaglianze, oltre al suo essere nichilistico, perché suicida, teso all’autodistruzione del pianeta in cui viviamo.

Inutile dire che un modo di produzione che si regga su logiche del tutto capitalistiche di forma merce, di socialistico non ha nulla. La “pianificazione” a livello macroeconomico (più corretto sarebbe dire “programmazione”), cui corrisponde un’adeguata azione politica tesa a facilitarne o a determinarne direttamente l’attuazione, di fatto è ridotta alla definizione di linee strategiche tese a un unico, grandioso, obbiettivo: rafforzare quel capitalismo monopolistico di Stato che vede, nella propria crescente e, apparentemente inarrestabile, potenza economica e militare, la propria ragion d’essere in quanto Cina, attuato tramite un autoritarismo sempre più centralistico e poco o niente democratico. Anche la quota “sociale”, meglio “statale”, dei mezzi di produzione, ragiona esattamente secondo la stessa logica capitalistica di accumulazione della quota “privata”, con l’aggravante della crescente corruzione fra quadri di partito e quadri di fabbrica per consentire un sempre maggior drenaggio di profitto che, da “sociale”, prende la strada “privata” dei loro conti off-shore.

Vedremo, nel prosieguo di questo lavoro, il mercato in Cina sia tutt’altro che la via più breve oggi per consentire quell’accumulazione e quel benessere necessari a creare una società socialistica domani. Lo vedremo da un punto di vista strutturale, senza fare processi alle intenzioni. Tuttavia, tale discorso non potrebbe essere non accompagnato da un analogo, impetuoso, estremamente lacerante e contraddittorio, mutamento sovrastrutturale. La fame è tanta e cresce sempre di più, fra quel centinaio di milioni di nuovi arricchiti e quelle centinaia di milioni trovatesi improvvisamente sulla soglia di tale arricchimento improvviso, apparentemente alla loro portata, miraggio che si identifica pienamente con un’idea di “benessere” del tutto identica, non simile, a quella creata da tre quarti di secolo di consumismo occidentale. È naturale che vengano quindi meno i presupposti non solo di una transizione al socialismo, ma di una idea diversa, “a misura d’uomo e d’ambiente”, dell’intero ciclo produttivo e riproduttivo della merce, intesa sia come merci che producono merci (industria “pesante” o settore A dei vecchi manuali di economia politica), sia come semilavorati e prodotti finiti (industria “leggera” o settore B), sia della merce “equivalente universale” di tutte le merci: il vil denaro.

In questo, davvero la Cina ci è troppo vicina, anzi ci ha superato, dal momento che un regime autoritario sul modello singaporense è stata, ed è tutt’ora, condicio sine qua non per un’applicazione “prussiana” della legge di accumulazione capitalistica. Capirne il funzionamento di alcuni, importanti, ingranaggi, sarà il compito dei prossimi paragrafi. A guidarci, purtroppo, nessuno dei “nostri”: sia perché pochi, troppo pochi ancora, individuano in questo modo di produzione una minaccia all’intero ecosistema Terra e alla sua biodiversità (ivi compreso quel buffo essere antropomorfo chiamato uomo), sia perché chi sa, tace, e per interesse, si badi, non per paura, sia perché, effettivamente, la Cina è ancora terra incognita e manca uno studio, una critica all’economia politica tanto rigorosa quanto sistematica.

Una voce autorevole, pur in tutti i suoi limiti, potrebbe allora venire da oltrecortina: il Prof. Valentin Jur’evič Katasonov, classe 1950, docente di Finanza internazionale presso l’Università Statale di Mosca per le Relazioni Internazionali (MGIMO): una delle persone più contraddittorie che abbia mai conosciuto, tanto fautore di uno spiritualismo di matrice cristiano-ortodossa per la costruzione di una nuova Russia (e tanto quindi critico verso il Marx “materialistico”), quanto sorprendentemente acuto nelle sue analisi economico-finanziarie, dove paradossalmente dà sfoggio di una conoscenza non banale sia della materia, che dei ferri del mestiere della critica marxistica-leninistica al modo di produzione capitalistico!15 Una figura indubbiamente interessante, come un ex-pugile che lascia il ring perché gli incontri sono truccati ma che non si dimentica di chi gli ha insegnato a tirare i primi pugni, come un ciclista ritiratosi perché schifato dal doping ma sempre affezionato alla propria bicicletta, e via discorrendo: una persona con cui si può essere in accordo o in disaccordo, ma i cui spunti di riflessione sono tutt’altro che banali e le sue analisi e il suo esercizio critico, quanto di più rigoroso e stimolante dal punto di vista marxistico oggi si possa trovare nei confronti del pianeta “Cina”, e non solo. Inoltre, spiace dirlo, ma questo “passa il convento”. Il mio lavoro, quindi, è stato quello di raccogliere il materiale dai suoi saggi, seguire lo scheletro delle sue analisi, aggiornare i dati alle pubblicazioni più recenti, verificarli (in molti casi non li ho citati proprio perché non ho trovato i riscontri necessari, per mia colpa certo, ma anche questo è il prezzo da pagare per non limitarsi alla citazione ipse dixit), unirli in un unico filo logico e trarne delle conclusioni: un lavoro più complesso della semplice traduzione, ma più funzionale allo scopo di questo quaderno di appunti.

(Continua... Qui e qui le puntate precedenti)


Note
1 Questo dato e i seguenti sono tratti da Aa. Vv. ,“The price of fast fashion”, Nature, 02/08/2018: https://www.nature.com/articles/s41558-017-0058-9
2 Martin CAMES, Jakob GRAICHEN, Anne SIEMONS, Vanessa COOK, “Emission Reduction Targets for International Aviation and Shipping”, Direttorato generale per la politica interna del Parlamento europeo, Novembre 2015: http://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2015/569964/IPOL_STU(2015)569964_EN.pdf
3 Anastasia Varsami, Corina Popescu, Eugen Barsan, Radu Hanzu-Pazara, “Pollution Generated by Ships – an Issue That Should be Kept Under Control”, The 12th Annual General Assembly of IAMU – Green Ships, Eco Shipping, Clean Seas: http://iamu-edu.org/wp-content/uploads/2014/07/Pollution-Generated-by-Ships-%E2%80%93-an-Issue-That-Should-be-Kept-Under-Control.pdf
4http://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-1229857/How-16-ships-create-pollution-cars-world.html
5 Freda Fung, Zhixi Zhu, “China is cracking down on air pollution from shipping”, 20/04/2017, https://www.chinadialogue.net/article/show/single/en/9739-China-is-cracking-down-on-air-pollution-from-shipping
6 Articolo 16 “L'economia dell'URSS costituisce un unico complesso economico nazionale che comprende tutte le parti della produzione sociale, della distribuzione e dello scambio sul territorio del Paese”. (Экономика СССР составляет единый народнохозяйственный комплекс, охватывающий все звенья общественного производства, распределения и обмена на территории страны.) Costituzione dell’URSS (1977): http://his95.narod.ru/doc08/10.htm
Ibidem.
8 Eva Pongrácz, “The enviromental impacts of packaging”, in Aa.Vv., Environmentally Conscious Material and Chemically Processing, Myer Kutz, NJ, 2007, pp. 237-278.
9 Roland Geyer, Jenna R. Jambeck, Kara Lavender, “Production, use, and fate of all plastics ever made”, Science Advances, 19 Jul 2017, Vol. 3, no. 7: http://advances.sciencemag.org/content/3/7/e1700782.full
10 Ibidem.
11 We're an empire now, and when we act, we create our own reality. And while you're studying that reality -- judiciously, as you will -- we'll act again, creating other new realities, which you can study too, and that's how things will sort out. We're history's actors . . . and you, all of you, will be left to just study what we do." Ron Suskind, “Faith, Certainty and the Presidency of George W. Bush”, NYT Magazine, 17/10/2004: https://www.nytimes.com/2004/10/17/magazine/faith-certainty-and-the-presidency-of-george-w-bush.html
12 Laura Conti, Questo nostro pianeta, Roma, Editori Riuniti, 1983, p. 19.
13 http://en.shftz.gov.cn/news/news-update/895.shtml
14http://www.trasportoeuropa.it/index.php/home/archvio/14-marittimo/17562-crescono-i-container-nei-porti-gateway-italiani
15 Un esempio di questo atteggiamento contraddittorio in questa recente intervista. http://reosh.ru/valentin-katasonov-marksizmom-nado-bylo-perebolet-aktualnyj-kommentarij.html

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