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sinistra

Riportando tutto a casa: osare l’impossibile

di Paolo Selmi

Dopo un breve momento di riflessione, rieccomi. Mi sono rafforzato ancor più nella convinzione che sia necessario passare dalla pars destruens a quella construens. E mi sono deciso a tradurre Planomernost', Planirovanie, Plan. Ma non solo, renderlo fruibile, divulgabile, spiegarne le ragioni, predigerirlo, renderlo accattivante, per quanto un testo di economia lo possa essere. Lo scopo è quello che spiego nelle pagine seguenti, di doverosa premessa. Davvero mi piacerebbe che si ritornasse a parlare in questi termini

tab411Per questo ti invio il tutto, rimettendomi come sempre al tuo giudizio. Spero davvero che ti piaccia e che possa piacere ai compagni, interessarli, smuoverli e smuoverne sempre di più, sulla base di questi appunti di lavoro e altri che spero verranno più acuti, più efficaci dei miei.

Che ci volete fare, mi piacciono i vecchi libri e le vecchie fotografie. Questa foto, che rappresenta una giovane contadina mentre guarda attraverso un teodolite per geometri, rappresenta forse la sintesi di questo nuovo ciclo di appunti: guardare il futuro da un punto di vista di classe, il nostro punto di vista. Il futuro lo guardano già in tanti, in troppi, ciascuno dal proprio punto di vista piccolo,medio, o grande borghese: Steve Jobs o Bill Gates, piuttosto che il Sig. Huawei (Ren Zhengfei 任正非 ), con i loro chip sottopelle, insieme ai loro epigoni in piccola, infima, scala, tipo Casaleggio e associati e le loro “democrazie” del futuro, piuttosto che i loro riproduttori su grande scala come le grandi, attuali, potenze imperialistiche: USA, RPC e i loro corridoi economici che segnano le rotte intorno a cui dare ulteriore sostanza alle loro mire egemoniche. Come questo accada e stia portando il pianeta all’autodistruzione, è stato materia del primo quaderno1 .

In questo secondo quaderno, mi piacerebbe rimettere la classe giusta dietro quel teodolite. Mi piacerebbe che si smettesse di parlare di “narrazioni” e “visioni”, come recentemente sottolineato da Carlo Galli2 , ma si iniziasse a parlare di piani concreti o, meglio ancora, di “piano” (план). Già, perché questi appunti saranno stesi partendo da un presupposto, che potrà piacere, far sorridere, o inorridire: ripartiremo da dove il discorso era stato, frettolosamente, interrotto, da dove il bambino era stato buttato via con l’acqua sporca, da dove le socialdemocrazie occidentali avevano preferito avventurosi percorsi alternativi, terze vie intrise di finta responsabilità, di vera paura del “che fare” una volta raggiunto il potere, nonché implicita ammissione di impotenza di fronte ai mutamenti epocali che il Capitale ha rovesciato sulla popolazione di questo pianeta, per la quasi totale maggioranza composta di classi subalterne, dicendo loro: “La Storia va in questa direzione, questa è la minestra”.

È, oggettivamente, un problema che occorre porsi, possibilmente “prima”, non “poi”. Supponiamo, per assurdo ci mancherebbe, di vincere le elezioni con percentuali bulgare, o di prendere comunque il Palazzo d’Inverno, foss’anche soltanto perché sono scappati tutti lasciando anche l’avviso di garanzia sul tavolo, o tenuto appeso dalla cornice. Che facciamo? Va bene, usciamo dall’euro, usciamo dalla NATO, usciamo da tutto, rimettiamo l’articolo 18, nazionializziamo il nazionalizzabile ed espropriamo tutte le ricchezze non ancora scappate all’estero: e poi? Diciamo alle classi subalterne “E’ stato un vero piacere...”? Cerchiamo, come han fatto i cinesi, di attrarre quei capitali che abbiam fatto fuggire per ricostruire un Moloch capitalistico, come prima, più di prima, dove lo sfruttamento non è abolito ma solo legittimato? E dove le ore per il nostro pianeta sono sempre più contate?

Osiamo, per una volta, ancora una volta, l’impossibile. Meglio, osiamo ciò che, chi ha avuto subito interesse – e ha tutt’ora interesse – a mettere e lasciare tre metri sotto terra, ha dichiarato “impossibile”. Ripartiamo dall’analisi dei meccanismi di un’economia di piano a proprietà sociale dei mezzi di produzione. Almeno sforziamoci di capire come funzionava, quali erano i vantaggi che apportava, quali erano le sue criticità e se esistano oggi correttivi per le stesse, messi a disposizione dall’esperienza e dalla tecnologia.

Lo premetto sin da ora: sarà, alpinisticamente parlando, un problema difficile, quasi come quello con cui Olsen descrive la parete nord dell’Eiger: “tre ghiacciai levigati, lunghe traversate di strapiombi senza appigli, con rari crepacci in cui poter piantare un chiodo, un ghiacciaio pensile che raccoglie e distribuisce tutte le lavine dei piani soprastanti; stretti camini su per i quali l’arrampicatore deve issarsi appesantito dall’equipaggiamento; cascate d’acqua gelata che lo inzuppano fino alle ossa; e infine un nevaio con una pendenza di soli 50 gradi ma con una tendenza a lasciar partire smottamenti enormi che hanno spazzato via gli scalatori, uccidendoli proprio quando la vittoria era a pochi metri3 ”.

Il rischio di scivolare fatalmente, di perdere di vista l’obbiettivo finale, di soccombere a metà strada, è quindi reale e concreto: motivi esterni anzi tutto, dal momento che oggi si parla un’altra lingua, a Ovest come a Est del globo, e il clima è tutt’altro che favorevole; ma anche motivi interni, e riguardano il sottoscritto, i suoi limiti. Sono un appassionato di montagna, non una guida alpina: di mestiere faccio altro, il che può essere un vantaggio per una totale assenza di vincoli di ogni genere, accademici e non, ma non lo è affatto se si considera il tempo risicato e le poche energie che posso dedicare alla ricerca, alla traduzione, all’autoformazione. Sono abbastanza rodato a lavorare ritagliandomi spazi, visto che è da oltre vent’anni che lo faccio, e non mi sono estranei gli argomenti attinenti alla scalata che mi appresto a compiere, ma l’esperienza maturata sul campo potrebbe, questa volta come sempre, non bastare.

Chiedo aiuto, quindi, a chiunque voglia, possa, mettersi in cordata. Quello che segue è un semplice taccuino di appunti che, come il precedente potrà, dovrà, essere ampliato, approfondito, da menti più lucide della mia. Non sarà, tuttavia, un taccuino povero di materiali: a capo della cordata ci sarà una guida esperta, che dell’argomento ne ha fatto una ragione di vita; il professore Ivan Mikhajlovič Syroežin (1933-1983)4 . Laureato alla Facoltà di Economia all’Università di Leningrado (LGU, 1957), diviene subito assistente presso la stessa facoltà, viaggia fra il 1963 e il 1964 negli USA per studiare i loro sistemi di gestione della produzione, rientra e viene messo a capo del laboratorio di ricerca scientifica dei metodi economico-matematici della LGU. Dal 1970 al 1983, anno della sua morte, è a capo della cattedra di cibernetica economica da lui fondata: 320 ore di corso annuo, fra lezione frontale ed esercitazioni, per cinque anni. Pedagogo, quindi, oltre che studioso (150 pubblicazioni nella sua breve esistenza). La sua ricerca economica è stata sempre connessa alle sue applicazioni pratiche, come si può facilmente intuire dal fatto che la cibernetica, l’automazione, aiutassero – e non poco – nell’elaborazione di dati complessi in fase di ricerca, pianificazione e controllo dell’esecuzione del piano; da qui il suo interesse e la sua costante ricerca sia sulla teoria dei sistemi economici, sia nello specifico di indicatori di efficienza concreti, che gli valsero una cattedra anche all’ONU, per la precisione all’Istituto Asiatico in Thailandia.

Numeri, ma non solo. Syroežin è anche a capo di un gruppo dedito alla creazione di “giochi” (игры), ovvero esercitazioni pratiche sotto forma di gioco simulato, quegli che gli anglofoni chiamano business games e che, forse, pochi sanno nascere non nella patria del capitalismo ma in URSS5 . La necessità di formare dirigenti, di testarli prima in ambiente sicuro, poi sul campo di battaglia della direzione di una fabbrica o di un kolchoz, portò infatti già negli anni Trenta del secolo scorso alla creazione di “giochi” di questo tipo. Quattro, alla fine degli anni Settanta, erano le scuole di pensiero in URSS che, partendo da principi e orientamenti diversi, avevano prodotto “giochi” sempre più complessi, sempre più adatti – come le analoghe manovre militari, del resto – a ridurre al minimo i margini di incertezza nelle varie situazioni di fronte a cui i futuri dirigenti si potevano trovare. Una di queste scuole era quella di Syroežin6 . “Giochi” come ASTRA (АСТРА – Административно-СТРуктурный Анализ, analisi amministrativo strutturale), EPOS (ЭПОС – Экспериментальное Планирование Ограниченных Средств, pianificazione sperimentale di mezzi limitati), IMPULS (ИМПУЛЬС – Имитационная Модель Планового Управления Локализованными Средствами, modello imitativo di gestione pianificata di mezzi localizzati), insieme ad altri, nascono tutti dalla sua fervida mente. Pertanto, al pari dei numeri, egli ha sempre prestato eguale attenzione a quello che oggi si chiama fattore umano. Quello di cui noi abbiamo bisogno: per questo l’ho scelto come capo cordata.

Purtroppo, non disponiamo né di sciamani siberiani, né di miko (巫女 ) giapponesi per un’interurbana col professore. Disponiamo, tuttavia, di un suo testo fondamentale, che ha due vantaggi rispetto ad altri trovati sull’argomento:

  • rappresenta la summa della sua vita di ricerche (pubblicazione postuma);

  • è recente, forse il più recente sull’argomento, l’ultimo prima della cosiddetta perestrojka.

Contenuti, esperienza, complessità: questo è il motivo per cui mi sono avventurato nella traduzione di Pianificabilità, pianificazione, piano: lineamenti teorici7 . Già nel titolo avvertiamo il suo voler procedere con ordine, dalla possibilità di pianificare un dato processo e integrarlo, armonizzarlo, ottimizzarlo con le restanti funzioni e meccanismi che lo integrano e comprendono, in quell’unicum economico dato dal sistema socialistico, all’attività di pianificazione vera e propria, fino all’esecuzione del piano. Dalla teoria alla prassi, dall’astratto al concreto e, di nuovo e viceversa, dalla prassi alla teoria, dal concreto all’astratto, lungo un movimento continuo di scambio immediato fra produzione di ricchezza sociale, totalmente sociale, e l’intero complesso di bisogni sociali: lo ripeto perché oggi sembra fantascienza, senza nessuna mediazione, senza nessuno che ci lucri, che ci marci, che umili e alieni l’essere umano, annichilendolo insieme all’ambiente che lo circonda.

Abbiamo scelto la strada più difficile, senza dubbio, ma non abbiamo alternative. È lo stesso Autore ad ammetterlo nelle prime pagine del suo lavoro: non ci giriamo intorno, sembra dirci, la “mano invisibile del mercato”, ovvero il via libera allo sfruttamento, all’appropriazione di plusvalore, alla concentrazione, all’accumulazione e all’esportazione di capitali, sebbene tipica di un modo di produzione primitivo, quale quello capitalistico, è indubbiamente la soluzione più semplice. Non c’è bisogno di “trovare la misura”, perché si troverà già da sola, parafrasando un proverbio salentino. A prezzo di cosa, sulla pelle di chi, non importa, anzi, chi se ne importa?

Aggiungo, avendone già accennato nel primo quaderno di appunti: persino annunciare un “piano” (in Occidente sono intellettualmente più onesti e la chiamano “programmazione economica”) dove si dice “dobbiamo arrivare a x e, per farlo, ‘agiamo su meccanismi indiretti’, tradotto ‘fate come volete, non importa il colore del gatto, basta che ci si arrivi’ (ogni riferimento a fatti e persone è puramente voluto)”, è snaturare l’idea stessa di piano, l’idea stessa di modo di produzione socialistico, per il motivo stesso che l’introduzione massiccia di elementi strutturali capitalistici in ogni settore (anche qui, definito con un eufemismo a cosiddetta “economia mista”) ha portato in trent’anni a un modello uniforme, dal punto di vista della logica che lo anima, e ad altrettanto logiche distorsioni importanti, decisive, fra i settori dell’economia, al punto che – come abbiamo visto, e come vedremo nel paragrafo successivo – l’economia poi non può più funzionare senza tali “distorsioni” e il tutto diviene semplicemente un capitalismo gestito in maniera più autoritaristica e dirigistica degli altri. A questo, mescolando capitalismo e confucianesimo, ci erano arrivati prima Singapore, e prima ancora le zaibatsu (財閥 ) giapponesi, seguite a ruota dagli epigoni coreani, taiwanesi, fino ad arrivare agli attuali dirigenti del PCC.

D’altro canto, qualcuno potrebbe chiedersi se non fosse possibile risolvere il tutto in maniera più “snella”, diciamo così. Non sarebbe possibile, magari dopo aver formato un gruppo di “virtuosi”, di “artisti” del genere, improvvisare, intendersi a vista, a orecchio, magari con un’intuizione geniale? Sarebbe bello, ma il jazz va bene per un quartetto, non per un’orchestra da decine di elementi; peraltro, anche in questo caso non è tutto oro quel che luccica. Andando a spulciare le biografie dei grandi jazzisti, l’unica cosa su cui nessuno ha nulla da eccepire è – forse – proprio quel clima di darwinismo sociale che si instaura nella struttura gerarchica del complesso, nello spazio concesso a ciascun assolo, persino nella liquidazione di elementi del gruppo in favore di altri. Pertanto, anche il jazz è bello, è forse lo stato dell’arte musicale, ma lasciamo i suoi capolavori nel loro ambito. Tutt’al più, e questo è a mio avviso fondamentale, traiamone lezioni per quella che deve essere una gestione dell’immediato, una capacità che deve svilupparsi a livello analitico, politico e gestionale per risolvere problemi urgenti nel minor tempo possibile, uscendo da procedure tanto consolidate quanto rivelatesi in quel contesto, con il mutare magari improvviso delle condizioni esterne, inefficaci. Pertanto, lo spazio dell’improvvisazione è fondamentale ma deve essere limitato alla gestione del contingente, laddove, per l’appunto, interviene il fattore umano, quello che ci fa ammarare con entrambi i motori esplosi sul fiume Hudson anziché tornare indietro al La Guardia dopo aver stimato, in qualche manciata di secondi, di non avere sufficiente altezza e sufficiente forza inerziale per farlo. Tuttavia, che un aereo decolli e atterri, non può essere lasciato al solo fattore umano.

A un livello decisamente superiore, di direzione e coordinamento fra le diverse forze produttive, quello che infatti l’Autore sembra dirci è: noi ragioniamo diversamente dalle vie finora percorse,

  • partiamo dai bisogni sociali, dalla loro individuazione e, unicamente in loro funzione,

  • determiniamo un piano di produzione e allocazione di ricchezza sociale che rappresenta – da un lato – l’immediata soluzione di ciascuno di essi e – dall’altro lato – l’espressione di una risultante di tutte le forze vettoriali in campo, ovvero di tutti gli interessi particolari, quindi una linea capace di descrivere in modo concreto, logico, coerente, armonizzato e armonizzante, un percorso concreto e ideale allo stesso tempo nel breve, medio e lungo termine.

  • verifichiamo in fine i risultati ottenuti, misuriamo il grado di efficacia della nostra azione, controlliamo se e in quale misura i bisogni siano stati soddisfatti, o ne siano emersi di nuovi, al fine di apportare eventuali varianti e miglioramenti da introdurre già nella sessione successiva di pianificazione,

  • in un flusso continuo di informazioni e azioni che coinvolgono processi decisionali a più livelli verticali e orizzontali dell’organizzazione sociale. Uno schema complesso che, tuttavia parte da un principio molto semplice:

Facile? Affatto. Possibile? Assolutamente si. Non quel “possibile”, tuttavia, che qualcuno, in 412maniera troppo semplicistica, riduce a quel “certo scientifico”, o pseudo tale, per cui l’acqua bolle sempre a 100°C. L’acqua non bolle sempre a 100°C. Se partiamo da questo presupposto, il possibile diverrà impossibile. Anzi, nelle condizioni attuali, ci muoviamo in un campo di esistenza dove il possibile è stato ideologicamente, coscientemente, evidentemente rappresentato come impossibile.

Accettiamo allora la sfida di quello che oggi appare impossibile, anzi, più impossibile e sicuramente, dopo trent’anni di disimpegno totale sull’argomento, più ignoto di allora. Arriveremo dove arriveremo e, se non in cima, saremo sicuramente più in alto di adesso: e vedremo le cose da un altro punto di vista. Nella mente, mi tornano le parole di uno che le cordate le faceva per davvero, scritte, guarda caso, in occasione di un convegno sull’alpinismo in Occidente e in URSS (a proposito di analogie, non dimentichiamoci che la loro montagna più alta si chiamava, allora, Pik kommunizma8 ):

L'impossibile e l'ignoto sono grandi dimensioni della montagna, non dovremmo sopprimerle. Dovremmo invece misurarci con esse e farlo con mezzi naturali, dettati dalle nostre limitazioni fisiche. L'impossibile bisogna vincerlo perché abbia un senso, non abbatterlo. Sono la mente retta e il cuore saldo che portano lontano, non certo la sola forza atletica; come del resto lo scalare montagne su montagne non vuole sempre dire migliorarsi, e ancora meno significa fare qualcosa di eroico. Eroico, semmai, può essere invece al giorno d'oggi restare se stessi, mantenersi individui, e come tali integri9.

Breve nota operativa: ciò che segue è la traduzione integrale di un testo sicuramente non facile. Per questo, ogni puntata di questa nuova serie di appunti sarà divisa in due parti:

    1. parte introduttiva, dove sono esposti, schematizzati, sviluppati gli argomenti trattati nel brano tradotto;

    2. traduzione integrale, con qualche breve mia nota, inserzione tra parentesi dell’originale russo a fianco di qualche concetto chiave, ma nulla più rispetto all’originale.

Il collegamento al testo originale, per chi volesse leggere con testo a fronte, è in nota alla presente premessa. Chiunque voglia intervenire, sul testo tradotto, sugli schemi e gli argomenti a corredo, è invitato a partecipare alla discussione, come commenti, certo, e meglio ancora come mail. Che non riesca a venirne fuori un gruppo di lavoro? Chiedo scusa sin d’ora di qualsiasi errore e imprecisione, in quanto unico responsabile. Chiedo inoltre scusa perché ho realizzato solo qualche pagina in più, non paragrafi o capitoli, rispetto alle righe che sto ora scrivendo. Pertanto, i tempi di realizzazione di ciascuna puntata saranno decisamente più lunghi (settimane, sicuramente) di quelli del quaderno precedente. Anche il tipo di lavoro sarà molto diverso e più impegnativo, sotto ogni punto di vista. Sarà una scalata per tutti, me per primo. Ma ne vale la pena.

 

Dedicato a loro

Prima di iniziare con la lettura del testo, permettetemi per favore una dedica. Dedico questo lavoro a coloro i quali hanno vissuto sulla loro pelle una fase di sviluppo e di benessere senza precedenti, di altrettanto inedito protagonismo nella Storia, quindi di stallo e infine di decadenza, poco prima del crollo definitivo del loro Paese; a quelli che avevano vinto contro l’aggressore nazifascista, erano andati nello spazio, avevano toccato le vette più alte della scienza e della tecnologia, costruito un Paese dove tutti i servizi alla persona erano gratuiti e all’avanguardia, così come l’istruzione e l’arte; a quelli che avevano sopportato il tradimento finale della loro classe dirigente mettendosi diligentemente in coda come ai tempi della Grande Guerra Patriottica; a quelli che, in larga maggioranza, ci avevano creduto fino alla fine, votando, pochi mesi prima dello scioglimento dell’URSS, al referendum per il suo mantenimento, e che ancora oggi, in maggioranza, rimpiangono quei tempi; a quelli che dopo il crollo continuarono per mesi a lavorare gratis, con la forza della disperazione, nelle miniere e nelle fabbriche, pur di tenerle aperte, per quel puro senso di dignità, di etica del lavoro, di responsabilità che non ebbero i loro quadri, non a caso premiati in Occidente. Proprio, per rispetto nei loro confronti, non posso non partire dal loro dramma.

413

Siamo ormai alla fine: era bastata una manciata di anni di cosiddette “trasparenza” (glaznost’, гласность) e “ristrutturazione” (perestrojka, перестройка) per mettere in ginocchio un Paese come neppure la fame, il freddo, le bombe, avevano fatto. Un grave colpo fu assestato da una legge dell’estate 1987 (chissà perché le maggiori fregature arrivano d’estate…) “Sulle imprese statali” (О государственном предприятии) che ne aumentava enormemente l’autonomia. I ministeri preparavano gli indici di controllo dello sviluppo economico per l’anno corrente e, su tale base, stabilivano le quote di pertinenza statale per ciascuna azienda. Tutto il resto, tempi, prezzi, personale, salari, era stabilito dall’azienda. Un delirio ideologico, un delirio nei fatti.

Come vedremo, minare questo organismo complesso sarebbe stato possibile solo dall’interno, sfruttando il fatto che non aveva previsto questa possibilità: aveva considerato il nemico alle porte, aveva valutato accuratamente persino i rischi derivati da singoli o gruppi di sabotatori e guastatori, ma non il fatto che il nemico potesse essere la classe dirigente stessa. Forse, anche per questo, le loro Costituzioni, a differenza della nostra, nata dopo vent’anni di fascismo e cinque di guerra, non si dotarono di sufficienti anticorpi, quelli che – senza andare tanto lontano – ci hanno appena salvato in extremis, obbligando il governo ad affrontare – e rispettare – l’esito negativo del voto referendario e mettere in cantina la cosiddetta “riforma” costituzionale. Nulla di simile nel Paese dei Soviet, dove probabilmente nessuno si sarebbe mai aspettato l’attacco provenire dal suo stesso Partito, un organismo che era sua stessa emanazione, che costituiva la sua avanguardia, che fino ad allora lo aveva guidato nella sconfitta e condotto alla vittoria, nella guerra e nella pace.

Nessuno se lo sarebbe mai aspettato, neppure Vera Aleksandrovna Rogožina, deputata sovietica, segretaria della commissione del Consiglio dell’Unione per le questioni del lavoro, dei prezzi, e delle politiche sociali. Scrive in un settembre 1990 attraversato da notizie sempre più preoccupanti sulle falle che, di lì a poco, avrebbero affondato il transatlantico, sulle colonne non della Pravda o dell’Izvestija, o di qualche rivista teorica del partito, ma di un rotocalco mensile femminile, “Operaia” (Rabotnica, Работница), prima dei cartamodelli, del punto e croce e degli articoli di cronaca più o meno spiccia10 . Vera è una apparatčica (аппаратчица), una burocrate che ricopre un ruolo importante a livello nazionale, che difende il Partito e la linea a spada tratta, “anche se non funziona, anche se non funziona...”, come cantava proprio in quel periodo un gruppo punk nostrano dal nome suggestivo: eppure non ha le fette di salame sugli occhi. Esprime le proprie perplessità in modo inconsueto, pane al pane e vino al vino, e alla fine la sua perplessità lascia il posto all’angoscia. Ciò che segue è la traduzione integrale di una testimonianza che, aldilà di qualche atto di fede utile forse a ottenere l’imprimatur per la pubblicazione (visto il tono prevalente del testo), considero estremamente interessante anzi, propedeutico per attaccare la salita nel con il giusto passo (sottolineato mio):

Se non noi, chi altro?

Io non sono un’economista, economista la divento soltanto due volte al mese, quando prendo lo stipendio11 . Allora divento presidentessa del Gosplan12 , persino Ministra delle finanze. E tra me e me penso: una pagnotta costa 18 centesimi, mentre una blusa 55 rubli 13 . Quanto pane posso comprare al posto di quella blusa? E pensare che, nel tempo necessario alla sua produzione, il pane non fa neppure in tempo a lievitare14 . Nella nostra economia i prezzi non sono misurabili in base a criteri omogenei, ma i guai hanno avuto inizio proprio quando il governo ha cominciato a occuparsi di questo problema! Premetto che occorra appoggiare il governo e che non vi siano programmi seri, alternativi all’attuale, di transizione al mercato15 .

Occorre, tuttavia, che rivediamo il sistema di formazione dei prezzi da cima a fondo, specialmente per quanto riguarda la merce principale: la forza lavoro. La busta paga, oggi, di chi “cura” le macchine, è più alta di quella di chi cura le persone. Nel programma del governo si parla di introdurre forme di compensazione per i beni di prima necessità, alimentari, vestiti, calzature. Personalmente la vedo così: la compensazione deve esserci per chi non lavora, non per chi lavora. Per questi il salario deve essere tale, per cui non ci sia bisogno di alcuna compensazione. Sono riuscita a persuadere la nostra commissione permanente del Soviet supremo per il lavoro e i prezzi, di cui faccio parte, che oggi è prioritario rivedere in questo senso la Legge sui salari.

Sempre più spesso sento chiedere, nei collettivi operai: “Perché abbiamo il deficit? Perché abbiamo i negozi vuoti?” Rispondo: “Voi stessi avete adottato, nella vostra fabbrica, un piano produzione per i beni di consumo nazionale inferiore del 30% rispetto all’anno precedente.” “E quindi?”, replicano. “Non solo, ma questo piano ridimensionato lo avete completato solo per il 68%, lasciando un 32% di merce non prodotta. I negozi torneranno pieni di merci quando non vi diminuirete i piani di produzione e quando li completerete. Oggi voi, domani i vostri vicini e così via. Scusate, ma da dove pensate che vengano le merci?”

Le imprese godono oggi di una grande autonomia, di maggiori diritti nell’impiego dei mezzi di produzione. Tuttavia, questo si è rivoltato contro le intenzioni del legislatore in modo del tutto inaspettato.

A luglio dell’anno scorso, ho ottenuto per una fabbrica una diminuzione del 5% delle quote da destinare allo Stato. Si presupponeva che, con i soldi “liberati” dal vincolo statale, essa avesse comprato nuove tecnologie. Invece, adesso scopro che hanno comprato stracci, macchine, telecamere e carne in scatola. Ecco la loro “economia di mercato”. Un altro esempio: tutto il nostro deficit se ne sta andando all’estero: ferri da stiro e stiratrici, persino l’intimo di cotone. Sono le stesse ditte a vendere, oggi è permesso… invece di soddisfare il mercato interno, si prendono la libertà concessagli per fare ciò che più gli conviene. Fatti tristi…

Al mercato ci siamo arrivati con un’enorme mole di problemi. Ora occorre che li risolviamo. Se non lo facciamo noi, nessuno lo farà.

Così si concludeva l’articolo della apparatčica, del pezzo grosso del Partito, che denunciava abusi senza capire, meglio, senza voler ammettere, che era il meccanismo stesso instaurato dal suo Segretario ad avere non solo reso possibile, ma addirittura indotto. La perestrojka aveva rivelato il suo vero volto e si era trasformata in un cavallo di Troia, in un “rompete le righe” generale, in una smobilitazione e uno smantellamento, pezzo per pezzo, nel senso assolutamente letterale del termine, di un intero sistema economico, nella sua demolizione. Povera Vera, ignara dell’immane, criminale, catastrofe che sarebbe caduta sul capo a lei e al suo popolo di lì a poco, convinta che sarebbe bastata un po’ di fermezza a risolvere quei “problemi”. Oggi, col senno di poi, due almeno sarebbero state le alternative possibili, peraltro di segno opposto, allo sfascio che ne seguì:

1. Ridiscutere il dogma dell’inevitabilità di una “transizione al mercato”, facendo pulizia dei vari Chubais, Gajdar, El’cyn & Co. dentro e fuori il Partito, mobilitando quelle masse sempre più in fila davanti a negozi sempre più vuoti contro i diretti colpevoli di quella lenta eutanasia, ripartendo dai loro bisogni, riprendendo con forza le redini dell’economia, di tutta l’economia, ristabilendo con il loro contributo, con l’ascolto dei loro bisogni reali, con la loro partecipazione, con il loro protagonismo, quote e proporzioni e riportando l’economia a crescere come prima e più di prima;

2. Con la stessa forza necessaria a percorrere la prima strada, portare a compimento la “transizione al mercato”, restaurando il capitalismo ma, allo stesso tempo, ribadendo l’autorità dello Stato padre-padrone, ovvero quello che sarebbe diventato l’attuale capitalismo monopolistico di Stato d’oltremuraglia. La logica è semplice, il principio di legittimazione anche, come sempre accade quando si parla al basso ventre:

  • Alle persone non servono piani, servono soldi, possibilmente tanti.
  • Chi ne ha di più ha persino un riconoscimento sociale: asfalta, infatti, la strada a chi ne ha di meno (la realtà è che “asfalta” non la strada, ma direttamente chi ne ha di meno… e ci passa sopra non una, ma due, tre volte… spesso con il consenso dell’“asfaltato”: l’ultimo capitolo del primo quaderno di appunti è molto esplicativo a proposito di questo tipo di “fede” nella “politica dei due tempi” che è segno distintivo del consenso al capitalismo16 ).
  • Nessuno, quindi, penserà a (s)vendere macchine da cucire o ferri da stiro strappandoli dalle linee di produzione, nessuno smantellerà grondaie o cavi di rame, perché quel “ciarpame”, un tempo vincolato al rispetto di rigide regole (a garanzia di tutti, ma a questo punto chi se ne importa!), si sarà trasformato quella magica gallina dalle uova d’oro, il cui possesso sarà convertito all’utile, a incamerare profitto nelle proprie tasche (e in questa prospettiva produce più utile una stireria che funziona a pieno regime con operai sottopagati, magari minorenni, piuttosto che la singola vendita dell’impianto).
  • Anche dal punto di vista macroeconomico, cambierà quindi la prospettiva. Non servirà più un piano che considererà persino il bisogno di mutande del contadino siberiano (o tibetano), che sulla base di tale bisogno darà delle priorità precise nella produzione e che, infine, considererà sicuramente un assurdo esportare cento container 40’HC di mutande all’anno tutti per lo stesso facoltoso cliente estero, e lasciare il nostro contadino con le mutande bucate del nonno, o senza.
  • No, che siano fatti i cento container all’anno di mutande, che i soldi al capitalista entrino. Le “mutande nuove” prima o poi arriveranno, non appena arrivano i soldi, non appena il capitalista di Mosca (o Shanghai) riceverà il pagamento: poi, allora, forse ma forse, toglierà dal 100 che ha guadagnato e lasciato quasi tutto in un conto estero, un misero 1, la briciola per il contadino siberiano (o tibetano), ovvero “il castello di trentadue che lui ce n’ha”, ovvero la prebenda che gli avrà chiesto lo Stato per evitare di togliergli anche gli altri trentadue castelli.
  • Per questo, a chi sgarra, a chi esagera, tolto tutto e punizione esemplare. E anche un po’ di soddisfazione a un popolo che, ogni tanto, ha bisogno del suo autodafé per sfogare i propri istinti repressi: qualche fucilazione in piazza, qualche lista di proscrizione, come ai vecchi tempi.
  • Non importa se, per dare 10 al contadino siberiano (o tibetano), il capitalista moscovita (o di Shanghai) dovrà incamerare 1000, oppure 10.000 per dargli 100, mantenendo sempre le stesse ridicole proporzioni di prelievo sul reddito (che faranno aumentare il coefficiente di Gini in un Paese che, per definizione, dovrebbe averlo prossimo allo zero...) e il pianeta, luogo di questo sfruttamento sempre più intensivo, intanto andrà a rotoli, consumato, incenerito fino all’osso, anzi, fino al midollo.

La storia ci racconta come finì la corsa... un gruppo dirigente criminale, sempre più sganciato da ogni controllo e costituitosi in oligarchie e satrapie locali, completò lo smantellamento e la svendita di tutto il vendibile, riducendo allo scheletro l’intero sistema economico e lasciando intatti solo i grossi conglomerati utili alla produzione e riproduzione di armamenti e materie prime, creando un esercito di disoccupati e poveri, causando infine un enorme crollo demografico che oggi, da parte russa, si tende ad assimilare a un vero e proprio genocidio. La Storia non si fa con i se e con i ma: tuttavia, qualche insegnamento ce lo potrebbe dare. Ancora oggi, soprattutto oggi, che raccogliamo un pesante fardello e ce lo carichiamo sulle spalle. Per ripartire.


Note
1Paolo Selmi, Riportando tutto a casa: appunti per un nuovo assalto al cielo, https://www.academia.edu/37305627/Riportando_tutto_a_casa._Appunti_per_un_nuovo_assalto_al_cielo
2Carlo Galli, “Sogni e realtà”, https://sinistrainrete.info/politica-italiana/13183-carlo-galli-sogni-e-realta.html
3Jack Olsen, Arrampicarsi all’inferno, Milano, Longanesi & C., 1962, p. 21.
4I brevi cenni biografici che seguono sono tratti dalla scheda ufficiale di quella che fu la sua Università: https://unecon.ru/oamo/galereya-uchenyh/syroezhin
5Una breve presentazione qui: http://erazvitie.org/english/ochn_delovye_igry
6Vedasi a proposito il più ricco e analitico Vadim Marshev, Gaming in the USSR, INTERNATIONAL INSTITUTE FOR APPLIED SYSTEMS ANALYSIS A-2361 Laxenburg, Austria, 1981, http://pure.iiasa.ac.at/id/eprint/1790/1/CP-81-013.pdf
7Ivan Michajlovič Syroežin, Pianificabilità, pianificazione, piano: lineamenti teorici (Планомерность. Планирование. План: теоретические очерки), Moskva, Ekonomika, 1986, 247 pp.
8Attuale Qullaji Ismojili Somonī, Tajikistan, 7495 m.
9Walter Bonatti, “Relazione di apertura del Convegno Internazionale «Montagna Avventura 2000 – URSS e Occidente, tradizioni e traguardi a confronto»” (1989), Montagne di una vita, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 1996, p. 325.
10«Работница», 1990, №09, pp. 4-5 https://sites.google.com/site/zurnalysssr/home/rabotnica/-rabotnica-za-1990-god
11In URSS lo stipendio si prendeva due volte al mese, come acconto (аванс) e come saldo (окончательный расчет).
12L’autorità nazionale preposta alla pianificazione (contrazione di GOSudarstvennyj PLAN Государственный план).
13Letterale 18 copechi, ovvero l’unità centesimale del rublo. Si noti come lo stipendio medio mensile del 1986 era di 195,6 rubli (fonte: “Salario e reddito della popolazione” [Оплата труда и доходы населения], Settant’anni di economia sovietica [Народное хозяйство СССР за 70 лет], Moskva, Finansy i statistika, 1987 (http://istmat.info/node/9304 ) e si facciano le debite proporzioni su cosa fosse diventato, fuori da ogni controllo, il costo della blusa.
14Vecchie deformazioni… il valore è dato marxianamente dal tempo di lavoro, non da quella cosa strana che sostengono i liberali liberisti libertari detta “legge della domanda e dell’offerta”… un anno ancora e nessuno avrebbe osato nemmeno più pensarlo.
15Amen...

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Paolo Selmi
Thursday, 20 September 2018 22:41
Caro Mario,
Vertov fu un grande... il mio primo incontro con lui fu durante un "fuori orario" su raitre in orari improponibili, e riuscii a restare sveglio! Scherzi a parte, il mio FOTOGLAZ, ("l'occhio fotografico" in russo) un lavoro di ricerca sul valore d'uso in fotografia attraverso una carrellata sull'epopea della fototecnica sovietica, trae ispirazione nel titolo dal suo KINOGLAZ (l'occhio cinematografico), ovvero dal film che citi (https://www.academia.edu/23481893/FOTOGLAZ_Epopea_fotografica_sovietica_e_mutamenti_del_valore_d_uso_fotografico). C'erano Ejzenstein, Pudovkin e lui. Oggi non siamo abituati a quei tempi, ma oggi ci sembrano film "muti", girati con la manovella, anche i nostri degli anni Sessanta. Quindi non fa testo... oggi il cinema è diventato un'altra cosa ed educare un giovane a quello che scrivi tu non è per niente facile. Sono due linguaggi diversi. Ogni tanto me lo chiedo... come fare ad appassionare mia figlia tra un dieci anni, non ora che ne ha poverina solo cinque, alla settima arte. Forse ci riuscirò tramite la fotografia. Già ora vede il suo papà che traffica con macchine con dentro una cosa strana che si chiama rullino, poi si chiude in bagno e spegne la luce, e poi come per magia quella cosa strana, che è finita dentro un'altra cosa strana, sciacquata e risciacquata dentro intrugli altrettanto strani, diventa piena di immagini fra cui c'è anche lei... e quando le passa in positivo la magia si completa del tutto e si vede, sia pur in bianco e nero (https://www.flickr.com/photos/114270893@N02/). Ecco, se soltanto una briciola di tutto questo sarà valorizzata da lei, sarà appropriata da lei, la farà sua, allora anche la scoperta del montaggio, della musica, della fotografia nel cinema andranno di pari passo.
Per quanto riguarda la poetica di Dziga Vertov, certo, era assolutamente improntata all'entusiasmo. Un suo film, peraltro, si intitola Entuziasm: Simfonia Dombassa (Entusiasmo: Sinfonia del Donbass). Mi hai fatto venire in mente un mio collega russo, che ora non c'è più, che lavorava a Mosca nella ditta per cui noi caricavamo i camion a loro diretti. Chiestogli che cosa ne pensava dei fatti cruenti che stavano capitando a Donetsk e a Lugansk, mi rispose: il Donbass per me è una sinfonia... e si riferiva a questo film.
Allo stesso modo loro, come Sergio Leone, come Robert Doisneau, come Caravaggio, e come altri che non sono ancora riuscito ad estrarre dalla mia corteccia cerebrale e a isolare come riferimenti visivi quando sono dietro un obbiettivo, alla fine mi hanno influenzato in tutto: composizione, esposizione delle parti di luce e delle parti di ombra, filtri da usare (giallo tutta la vita, ma anche altri all'occorrenza), persino il tono generale, o spirito, se ironico, piuttosto che appassionato, o distaccato. E se devo scegliere un'immagine per un mio scritto, la scelta dell'immagine è una cosa importante. Così come, all'inverso, spendo sempre un po' di tempo per dare un titolo ai miei lavori fotografici. Testo e immagine, due linguaggi diversi ma la stessa radice (segno e di-segno): antico retaggio dei miei trascorsi fra i segni cinesi. Poi un mio amico mi disse che anche Ejzenstein si era ispirato ai segni cinesi, o "ideogrammi", per il suo montaggio, e capii che non avrebbe chiamato nessuno il 118 se lo avessi detto in giro! :-)
Grazie mille Mario e
ciao!
Paolo
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Mario M
Thursday, 20 September 2018 20:33
Un'immediata associazione è scattata fra la contadina che guarda attraverso il teodolite e le immagini del film The Man with the Movie Camera di Tziga Vertov. Pensavo che Koyaanisqatsi, il film protoambientalista di Philip Glass e Godfrey Reggio dei primi anni '80, fosse un unicum, quando, pochi mesi fa, rovistando fra le musiche di Michael Nyman, casco sulla colonna sonora da lui composta per quel film degli anni '20, girato in una Russia che sembrava vivere nell'ottimismo della rivoluzione, prima di cadere nel totalitarismo e nella barbarie staliniana. Il film russo presenta sequenze poetiche, contemplative, seguite da altre travolgenti, ossessive, con una tecnica avveniristica - come quello americano; in entrambi la musica appare non come semplice commento, ma come parte integrante. I due film sono una sorta di opera-documentario sulla vita delle persone nella società. Ma Koyaanisqatsi è come un film di denuncia, infatti alla fine del film è riportato il testo della profezia Hopi, "If we dig precious things from the land, we will invite disaster. Near the day of Purification, there will be cobwebs spun back and forth in the sky. A container of ashes might one day be thrown from the sky, which could burn the land and boil the oceans". Il film di Vertov invece coglie ancora una società gioiosa, energica, che vuole fare, che guarda al futuro.... Victor Serge, che in quegli anni vive e scrive da protagonista, cercherà con poca fortuna di avvertire gli occidentali della tragedia che stava travolgendo la Russia.
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Paolo Selmi
Tuesday, 18 September 2018 18:46
Ciao Carlo,
grazie a te! Sono a buon punto con la traduzione del primo capitolo e, al momento, tutto fila decisamente bene. E' abbastanza introduttivo all'argomento, ma ci sono già alcuni elementi analitici decisamente interessanti e che mi piacerebbe davvero evidenziare nella prima parte, quella di presentazione al testo "crudo", originale. Quella che poi servirà da base per un ulteriore sviluppo di quello che mi piacererebbe diventasse un lavoro di gruppo. In questo senso, quel "poco" che hai trovato sarà già più che "qualcosa", o magari il testo ti avrà fatto venire in mente altre letture, che andranno ad arricchire di contenuto gli argomenti, i problemi e, speriamo, le prime risposte che ci daremo.

Una sola raccomandazione, mi sento di farci (anzi tutto a me stesso!), visto che il piatto è talmente ricco da andare ad attingere a due mani: cerchiamo il più possibile di "stare sul pezzo". Mi spiego meglio.
1. Mentre leggo, traduco, mentre traduco, scrivo e, terminato il brano, aggiusto la traduzione, uniformo termini che magari ho reso in due modi diversi ecc.,finché il testo non "gira" nella dovuta maniera e con il dovuto rigore.
2. Finché son "fresco", schematizzo i punti fondamentali che poi riporto nella prima parte, mettendo in nota o in corpo testo commenti, riferimenti, collegamenti che mi vengono in mente nel corso di questa prima attività. E comincio a fissare un po' di argomenti, che mi devo imporre essere rigorosamente ATTINENTI a quello che ho tradotto. In questo senso, la raccomandazione la faccio a me stesso, anzi tutto e soprattutto.
3. Parte poi la seconda parte, quella più importante che, se esce bene, davvero verrà fuori un bel lavoro: quella di elaborazione collettiva. Arricchimento di bibliografia, contributi nuovi, argomenti, e gli appunti prendono vita e, anzi, cominciano a vivere di vita propria diventando patrimonio di molti, di chi partecipa attivamente e di chi legge, rielabora e magari partecipa in un secondo momento, o decide di innestare sul vecchio ceppo nuovi filoni di ricerca, seguendo un'intuizione, vecchi appunti, ecc.
4. E qui occorrerà lavorare su ciò che c'è, non su ciò che non c'è. Che detta così, sembra una "catalanata", scusate. Ma il senso è questo: io non ho letto ancora quello che sto traducendo. Quindi non posso neppure rispondere, nel senso di "far rispondere all'Autore" per interposta persona, su cose che non so se ha scritto o sviluppato più avanti. E perderemo del gran tempo a capire se l'ha scritto, come l'ha scritto, oppure no, ecc. Questi consuntivi direi che è meglio farli alla fine e lavorare su ciò che man mano andremo a tradurre.
Può funzionare?
Grazie di tutto e
ciao!
Paolo
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Carlo
Tuesday, 18 September 2018 16:05
Bravo, direi eroico. Tornare a parlare serenamente di piano anche secondo me è essenziale, eppure praticamente impossibile.
Personalmente, quando ho cercato chi ci avesse ragionato di recente non ho trovato molto (Pat Devine, Cockshott & Cottrell, un modello conciso ma interessante di David Laibman. A suo modo anche la Parecon di Hahnel, ma è altra cosa).
Attendo con curiosità il contributo. Grazie.
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Carlo
Tuesday, 18 September 2018 16:05
Bravo, direi eroico. Tornare a parlare serenamente di piano anche secondo me è essenziale, eppure praticamente impossibile.
Personalmente, quando ho cercato chi ci avesse ragionato di recente non ho trovato molto (Pat Devine, Cockshott & Cottrell, un modello conciso ma interessante di David Laibman. A suo modo anche la Parecon di Hahnel, ma è altra cosa).
Attendo con curiosità il contributo. Grazie.
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