Recensione di "Il virus dell'occidente"
di Giovanni Andreozzi
Stefano G. Azzarà, Il virus dell’Occidente. Universalismo astratto e particolarismo sovranista difronte allo stato d’eccezione, Mimesis, Milano, 2020, pp. 425, ISBN 978-885757-155-3
Mentre il muro di Berlino cominciava a mostrare le crepe più profonde, Francis Fukuyama pubblicava un breve saggio intitolato The EndofHistory?. Il saggio riapparve qualche anno dopo in una forma ampliata, con un cambiamento significativo già a partire dal nuovo titolo: The End ofHistory andthe Last Man. L’interrogativo lasciava il posto all’amara consolazione: la storia era finita.
Con l’avvento del nuovo millennio si è andata rafforzando tutta quella congerie filosofica caratterizzata dal suo essere “post”. Post-umanesimo, post-strutturalismo, postmetafisica etc., tutte accomunate dal rifiuto della questione dell’ideologia e dei suoi ambiti performativi. Ecco allora che quando si sfoglia il testo di Azzarà si nota subito che, in quelle narrazioni, qualcosa non torna. Nonostante la sua “fine”, la storia continua a generare nuovi conflitti, i quali divampano massimamente proprio nei momenti di crisi. A palesarsi è, inoltre, il grande rimosso del XIX secolo: l’ideologia.
L’intento critico che anima le pagine de Ilvirus dell’Occidente. Universalismo astratto e particolarismo sovranista di fronte allo stato d’eccezione non è solo quello di svelare le carenze dell’ideologia liberale e delle sue inefficaci risposte di fronte alla catastrofe pandemica, ma anche quello di mostrare le continuità tra tale ideologia e le presunte posizioni alternative. Questo movimento critico-ricostruttivo è esemplificato dall’Autore attraverso la dialettica tra universalismo astratto (il liberalismo) e particolarismo (il sovranismo). Riprendendo un termine molto utilizzato in questo periodo, potremmo definire questi due elementi come le “varianti” ideologiche del capitalismo: l’una legata fortemente alla globalizzazione compiuta; l’altra contraria alla globalizzazione e tesa all’affrancamento da essa.
La pandemia del COVID-19 ha mostrato in modo esemplare - e terribile - l’altra faccia del mondo globalizzato. Ed è questo mondo l’oggetto appropriato per un’analisi storicosociale che voglia comprendere cosa sta accadendo e quali sono le differenze (strutturali e sovrastrutturali) che intersecano le differenti parti del globo. La gestione della pandemia, nel testo di Azzarà, diventa il reagente capace di evidenziare la posizione dei diversi Paesi nei confronti della società, tanto nazionale quanto internazionale. Fatto sta che il modello asiatico - e in primis la Cina - sono stati esecrati fin dall’inizio della pandemia in quanto “autoritari” e noncuranti delle libertà individuali, di cui l’Occidente sarebbe il paladino.
Fin dai primi mesi della crisi pandemica, però, la presunta superiorità dell’Occidente ha mostrato tutte le sue debolezze. Da un lato la minimizzazione della pericolosità della situazione e l’esortazione a continuare a vivere “in modo normale”, dall’altro l’approvazione di vere e proprie pratiche eugenetiche. Nonostante il loro stato avanzato, tanto sul piano economico quanto su quello del rispetto delle libertà individuali - è questa l’autonarrazione dell’Occidente - i Paesi occidentali non sono stati in grado di dare una risposta né tempestiva, né efficace alla crisi tuttora in corso. E questo perché - come Azzarà documenta ampiamente - gli interessi privati hanno continuato a condizionare le scelte politiche anche durante la pandemia. Sarebbe superfluo ripercorrere alcuni esempi, ma è doveroso tratteggiarne le caratteristiche attraverso il confronto con la Cina1. Mentre negli Stati capitalistici i ceti proprietari si sono opposti a una gestione della pandemia che mettesse al primo posto la salute della persona (si pensi ai ritardi dei lockdown nelle aree con maggiore industrializzazione, al desiderio spasmodico e finanche puerile di avviare la cosiddetta “fase 2”), la Repubblica Popolare Cinese ha saputo fronteggiare in modo tempestivo il crescere esponenziale dei contagi. In questa risposta a giocare un ruolo decisivo è l’impostazione politica-economica della Cina: l’economia cinese resta subordinata, sia sul piano teorico che su quello strategico, alle scelte politiche dello Stato. Ecco perché Azzarà scrive che «tutto lo sviluppo della Cina contemporanea si fonda (...) sul presupposto per cui non esiste un unico modello di mercato, che è un’istituzione storica, ma è possibile anche una sua declinazione in chiave socialista» (p. 25). La coordinazione di privato e pubblico si è rivelata vincente nella Repubblica Popolare Cinese e tuttavia tale esperienza è stata subito rifiutata dall’Occidente - si potrebbe parlare di forclusione -, mostrando ancora una volta la sua hybris autoreferenziale.
L’Occidente, sostiene Azzarà, ha perso la sua preziosa chance di riflettere sulle proprie contraddizioni e di pensare un’altra configurazione del rapporto individuo-società, come pure tra gli Stati. Ciò a cui abbiamo assistito è, in estrema sintesi, l’unica e irrinunciabile fede dell’Occidente ateo e utilitarista: la fede, cioè, nell’intrascendibilità dell’esistente, la cui giustificazione è retroattivamente assunta dal dato di fatto: «La società capitalistica pensa infatti se stessa come fondamentalmente a-temporale e dunque come sospesa in via permanente in un infinito presente» (p. 9). In questo cortocircuito attraverso cui l’ideologia liberale incrementa il suo spazio d’azione, coartando al contempo le piattaforme teoriche alternative, l’Occidente ha rivelato tutta la sua incapacità di riflettere sulla condizione storico-concreta, circoscrivendo quel virus che tanto faceva discutere a una precisa area geografica, lontana dall’isola felice del capitalismo compiuto.
Non stupisce che «la religione capitalistica (...) invece di accettare che fossero possibili anche esperienze diverse dalla propria, si sia invece preoccupata con cura di circoscrivere sin dal primo momento quell’inquietante contagio che sembrava provenire da un paese in particolare» (p. 18). Il virus era sì una minaccia per l’uomo (asiatico) ma, in realtà, una colpa derivante dalla sua lontananza dal paradiso capitalistico e dalla democrazia di stampo liberale. A contrastare questa visione, però, è lo stesso movimento del reale. Infatti, nonostante la sua presunta superiorità tecnologica-economica-culturale, l’Occidente è stato colpito in modo devastante dal virus, il quale ha mostrato di poter espandersi in modo fulmineo in tutte le società liberali.
Il libro di Azzarà si rivela una sorte di cartina di tornasole, capace di vedere come nello sfondo delle varie prese di posizione - teoriche, politiche, economiche - ci siano dei processi di emancipazione e di oppressione, processi su cui la filosofia deve continuamente soffermarsi in modo critico. Le due “varianti” dell’ideologia capitalistica - il neoliberalismo e il sovranismo - hanno da subito mostrato una comunanza teorica- ideologica: suprematismo occidentale e rifiuto di rivolgere l’attenzione a forme sociopolitiche “altre”, bollate univocamente come “dittature”. «Il sovranismo si presenta come avversario del neoliberismo e a volte persino come avversario del liberalismo in quanto tale». Del resto, «una volta che le classi subalterne hanno perduto la loro capacità di deterrenza e resistenza e si sono indebolite, il liberalismo ha potuto godere di rapporti di forza favorevolissimi e (...) ha gettato a mare l’egemonia in chiave universalistica ed è tornato (...) a posizioni conservatrici e particolaristiche o storicistiche» (pp. 357-358).
Il primo capitolo del libro è rivolto alle modalità che l’Occidente ha azionato per fronteggiare la crisi pandemica. L’atteggiamento iniziale è stato la sottovalutazione del rischio proprio perché - come già notato - era ferma convinzione dei Paesi occidentali che il virus non avrebbe oltrepassato il suo confine orientale. Nello stesso torno di tempo a Wuhan, epicentro della prima ondata pandemica, venivano attuate le prime contromisure al virus - chiusura integrale dell’area del contagio, tamponi e tracciamento di massa -, contromisure che sono state subito tacciate dall’Occidente di autoritarismo. Quando la pandemia si è presentata con tutti i suoi effetti devastanti in Occidente, tanto la gestione “sanitaria” quanto la comprensione “filosofica” si sono dimostrate del tutto inadeguate. Per quanto riguarda la prima, i tagli alla sanità e la totale mancanza di medicina sul territorio - fenomeni presenti da tempo, seppur con differenze importanti, in tutti gli Stati occidentali - hanno creato il cortocircuito di aumento dei casi, intasamento delle terapie intensive e contagi in ospedale; riguardo alla seconda, intellettuali molto influenti - si pensi al caso italiano - hanno guardato alla catastrofe con degli occhiali vecchi, appannati da un discorso unilaterale e adialettico incentrato sulla diade potere-stato d’eccezione.
Queste soluzioni monche e inadeguate, secondo Azzarà, hanno impedito all’Occidente di comprendere quelle misure che tacciava di “autoritarismo” e, magari, di collaborare insieme per una strategia globale di contenimento del virus. Comprendere il modello cinese di gestione della pandemia poteva aprire le porte a una comprensione più ampia sui rapporti sociali di quel Paese e suoi suoi assetti istituzionali, finanche nei suoi aspetti “democratici”, a patto - giova ripeterlo - di non sottendere in questo termine il modello occidentale di democrazia rappresentativa di stampo liberale2. La modalità cinese della gestione della pandemia non poteva esser compresa, spiega l’Autore, anche perché, oltre al virus, ad esser debellato sarebbe stato il modello occidentale di “democrazia” rappresentativa e di “sviluppo” economico fondati sulla cellula-base dell’individuo proprietario di diritti: collaborare con la Cina cos’altro poteva essere per la “democrazia liberale” se non una degradazione e, infine, una rinuncia alla libertà?
Se la stampa e l’intelligencija si sono subito affrettate a discernere presunti fattori culturali che separerebbero l’Occidente dall’Oriente - individualismo da un lato, collettivismo dall’altro; libertà da un lato, dispotismo e omologazione dall’altro -, Azzarà mostra come queste caratterizzazioni idealtipiche sono totalmente avulse dal contesto storico sociale e dunque false. E se ovunque viene ripetuto il mantra della finanziarizzazione nefasta e della subordinazione della politica all’economia, Azzarà ci ricorda come il conflitto odierno, acuito ma non generato dalla pandemia, non risulta affatto dalla incapacità o dal fallimento della politica rispetto all’economia, ma da uno Stato che continua a essere espressione dell’egemonia politica di determinati - particolaristici - interessi.
La seconda parte del volume è rivolta alle modalità di risposta messe in campo dai filosofi rispetto alla gestione del virus. La modalità maggiormente analizzata coincide con quella maggiormente presente nel dibattito filosofico attuale: filosofia del biopotere e biopolitica. Spicca tra le tante la posizione di Giorgio Agamben il quale, riprendendo a piene mani il paradigma foucaultiano, afferma che lo stato d’eccezione inveratosi con la pandemia è parte di un processo più ampio teso alla “eccezione permanente” volta a reprimere le già indebolite libertà individuali. Nel disegnare questo fantomatico processo plurisecolare di disciplinamento - o meglio ammaestramento - Agamben incorre nella stessa critica rivolta a suo tempo da Hegel a Schelling: se allora la notte impediva di distinguere il colore delle vacche, il paradigma del biopotere impedisce oggi di distinguere gli agenti e le contraddizioni reali che caratterizzano uno specifico contesto storico-sociale, limitandosi piuttosto a denunciare l’unico contrasto che il paradigma biopolitico riesce a pensare, ossia il contrasto tra nuda vita e repressione dello Stato.
I teorici dello stato di eccezione o, come li appella Azzarà, i «critici del totalitarismo eterno», come abbiamo già notato, non hanno offerto un minimo riconoscimento alla gestione cinese della pandemia, a partire dal quale sarebbe stato possibile riflettere sulle modalità e sul ruolo dell’intervento statale. Piuttosto essi si sono limitati a ripetere il paradigma biopolitico, finendo con il destrutturare ulteriormente il lato progressivo ed emancipatore dello Stato moderno. Basterebbe ricordare le parole di Prospero - più volte richiamate da Azzarà - per smentire tale paradigma: l’obbligo di preservare la vita non irrigimenta le masse per prevenire il tumultus contro il sovrano, ma è esso stesso un obbligo che il sovrano deve rispettare e che legittima, qualora ciò non avvenga, alla rivolta contro di lui. La “miseria” della biopolitica, afferma Azzarà, risiede nell’appiattimento delle contraddizioni oggettive alla sola dimensione verticale alto-basso, al cui polo si erge un fantomatico potere astratto e centralizzato che soggioga le moltitudini3.
Lungi dall’opporre una sterile critica a questa posizione, Azzarà si cimenta a fondo con il paradigma biopolitico, evidenziandone i limiti, certo, ma anche quel che - con Adorno - possiamo definirne il “contenuto di verità”. Le preoccupazioni dei “critici del totalitarismo esterno” nei confronti del “dopo” sono sicuramente preferibili rispetto all’abbandono immediato a slogan inutili e contraddittori come “mai più come prima” e “ritorno alla vita”. Ugualmente preoccupante è lo scenario che si affaccia in ambito lavorativo con la stabilizzazione/normalizzazione della dad - completando il progetto di aziendalizzazione della scuola - o dello smart working - completando la flessibilizzazione del lavoro e la sua continua depauperazione. Ulteriore preoccupazione, come sottolinea Azzarà, è che in assenza di conflitto di classe, o meglio nella continua frantumazione della classe lavoratrice ormai resa inerme, le tendenze di centralizzazione della ricchezza e dei privilegi (economici, sanitari, etc.) finiscono per radicalizzarsi e assumere una brusca e definitiva accelerazione4.
L’ultima parte del volume si interroga sulle possibilità concrete che lo Stato può attuare nella fase post-pandemica. Innanzitutto, nota l’Autore, non bisogna pensare che il “ritorno dello Stato” sia la garanzia di un miglioramento delle nostre forme di vita. Molto più probabilmente, guardando gli schieramenti e i conflitti attuali, è che la classe lavoratrice sarà costretta a farsi carico dei costi della crisi. Particolarmente pericolosa è l’ipotesi di Jones e Brennan riguardo a un ritorno dello Stato caoadiuvato dalla epistocrazia e, dunque, dalla progressiva riduzione del suffragio e dall’introduzione di nuove “clausole di esclusione”, che Azzarà, riprendendo le analisi sempre attuali di Domenico Losurdo, riconosce come il vero stigma ineliminabile del liberalismo. La strategia apotropaica che il mondo liberale attua a discapito di altre forme di vita è sintetizzata dall’affermazione di Milanovic secondo cui il capitalismo è attualmente l’unico sistema economico; la stessa Cina sarebbe, secondo l’economista, una Paese capitalista.
Nelle varie declinazioni del (neo)liberalismo Azzarà vede l’attacco congiunto delle classi dominanti, nei confronti dei quali i vari autori forniscono, più o meno consapevolmente, una “apologetica indiretta” per dirla con Lukàcs. Il difficile compito del pensiero dialettico, però, sta nel comprendere come i vari fenomeni siano strettamente connessi all’intero della totalità storico-sociale. Ecco allora che la prospettiva che apertis verbis si oppone allo schema (neo)liberale - quella sovranista-comunitarista - mostra molteplici analogie con la sua avversaria, fino a coincidere con gli scopi di questa. Emblema di questo filone è Andrea Zhok, la cui critica si confonde con una sorta di nostalgia romanticheggiante nei confronti della comunità umana, ormai inesorabilmente frastagliata nelle odierne pratiche di sottomissione reale di tutti gli ambiti della convivenza umana al principio dello scambio. Tale passatismo, criticato già da Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista - precisamente nella critica dei “falsi socialismi” - viene contestato fin dalle sue radici da Azzarà, per il quale qualsiasi discorso concreto sul presente e sulle sue possibilità immanenti non può arretrare al di qua della modernità in un passato idealizzato feticisticamente, quanto piuttosto confrontarsi con la situazione concreta e con le sue contraddizioni oggettive. Il comunitarismo, contraddittoriamente invischiato nell’astrattezza dello slogan “thinkglobal, act local”, propone soluzioni che non fanno altro che ripetere, su diversa scala certo, le stesse clausole di esclusione che vediamo perpetrarsi quotidianamente nel mondo occidentale - Stati Uniti ed Europa in primis - che, mentre afferma in coro “nessuno è al sicuro, finché non lo siamo tutti”, rifiuta la sospensione dei brevetti, richiesta da India e Sudafrica e appoggiata dalla “autoritaria” Cina.
Sotto la bandiera del comunitarismo, il sovranismo rifiuta come “non più attuale” la distinzione tra destra e sinistra e afferma la necessità di un fronte unico anticapitalista che, con l’intento di ereditare i - presunti - valori di destra e di sinistra, finisce nell’esasperato particolarismo di destra. A tal proposito Azzarà parla del sovranismo come “scissione conservatrice” della destra neoliberale. Il grido di ribellione indirizzato a un fantomatico “popolo”5 è finito per coincidere con le aspirazioni aristocratiche dei padroni che hanno mostrato fin da subito enorme fastidio nei confronti dei tentativi dello Stato di riaffermare un’ingerenza nella vita sociale tramite l’imposizione di misure volte al contenimento del contagio. In questo modo il particolarismo populista, che nasce come critica nei confronti del liberalismo e del neoliberalismo, si è capovolto immediatamente in questi ultimi6. Contro i facili e immediati ribaltamenti, Azzarà mette in guardia che lo stesso auspicio di un “ritorno dello Stato” non può essere accettato in modo acritico. La ambiguità di tale auspicio risiede nel fatto che lo Stato non è mai definibile univocamente in modo positivo o negativo, dato che esso, nella realtà concreta, è il luogo di lotta attraversato da continue tensioni e smottamenti tra interessi diversi.
Le risposte inefficaci e le strategie inadeguate, tanto per quanto riguarda i contratti con le case farmaceutiche quanto per la gestione della pandemia nei vari settori della nostra vita, sono strettamente connesse, sul piano teorico-filosofico, alle aporie in cui incorrono sia l’universalismo astratto di matrice liberale, sia il sovranismo particolarista di matrice anarcoide. La pandemia non ci renderà migliori, questo è certo. Ma è anche certo che il virus pandemico ha evidenziato nella massima misura l’altro virus - appunto, il virus dell’Occidente - che in questo periodo sta mostrando la sua massima ferocia insieme alla sua costante - e costitutiva - fragilità.
Lungo l’itinerario del suo volume, Azzarà mostra come tanto l’universalismo liberale quanto il particolarismo sovranista non riusciranno a risolvere i problemi strutturali divampati in Occidente negli ultimi decenni, problemi che la pandemia non ha creato, quanto piuttosto accelerato bruscamente. La caduta del muro, tornando alle righe iniziali, è stato il ribaltamento di una tanica di benzina che, fino a quel momento, giaceva gocciolante nei pressi di una fabbrica di fiammiferi. L’amarezza della situazione attuale non impedisce all’Autore di svolgere qualche considerazione propositiva riguardo alla ripresa generale del conflitto, una ripresa che può esser attivata solo attraverso la critica immanente all’ideologia liberale dominante, i cui presupposti, spesso, fanno da base prospettica e sfondo valoriale anche per i presunti critici del sistema. Bisogna rifiutare l’autonarrazione del liberalismo e il suo fondamentalismo dell’universale astratto - il quale, in realtà, è solo l’affermazione unilaterale e prepotente di un particolare. Con tono affatto consolatorio, Azzarà invita a una serrata critica sul presente e sui suoi sviluppi, un invito che risulta ancora più cogente a più di un anno dallo scoppio della pandemia:
«Siamo dunque alla vigilia di un conflitto tra “alternative incompatibili” che riguardano “sistemi antitetici di governo e valori umani”. (...) Se ne potrà uscire a sinistra, verso una ridefinizione del rapporto tra Stato e mercato che ripristini il ruolo regolatore e innovatore delle istituzioni e verso nuove politiche economiche e di redistribuzione della ricchezza (ma anche del potere e del riconoscimento) che si propongano di sanare le fratture sociali sanguinanti dopo decenni di neoliberalismo. Ma se ne potrà uscire anche a destra, sia in direzione di una gestione autoritaria dello Stato (che impone l’ordine e seda le tensioni sistemiche attraverso la repressione ma soprattutto mediante meccanismi disciplinari e di controllo), sia verso una devoluzione feudale e anarchicheggiante del potere e un’esplosione delle forze sociali in nome dei più diversi livelli di sovranità particolaristica» (pp. 369-371).
Comments
L'agenda neoliberale va avanti incontrastata da decenni e si è ulteriormente rafforzata con la crisi finanziaria del 2007-08.
L'incidente del virus, casuale o provocato, pur senza intaccare il capitalismo finanziario e la politica neoliberale, ha curiosamente determinato qualche frizione tra la classe dominante imperialista che marciava e marcia a ritmo sostenuto verso un capitalismo neomedievale e autoritario e quella un poco recalcitrante a accettare tassi d' interesse negativi e il permanente intervento discrezionale della banca centrale.
Il concetto di sovranismo utilizzato; per limitarsi a riflettere il valore o slogan creato dagli antagonisti neoliberali, se da un lato coglie le debolezze di chi lo usi acriticamente e senza adeguate conosçenze tecniche, dall'altro, per il suo distorsivo semplicismo, impedisce di introdurre una rappresentazione scientifica dell'imperialismo finanziario contemporaneo. Cioè viene meno la possibilità e necessità di analizzare secondo categorie più sofisticate e adeguate il capitalismo finanziario e suo imperialismo: lo scivolare negli slogan castra pure ògni movimento o partito, oggi inesistente, che volesse avenzare proposte critiche.
Il problema politico maggiore è però quello di finire per essere una sofistica distrazione. Negli USA, come si sa, la riflessione ideologica è tendenzialmente circoscritta da cautele o pregiudizi pragmatici. Ma per lo meno se vogliono individuare il problema principale lo fanno senza menare il can per l'aia. E infatti in un articolo di critica alla sinistra viene osservato come i campioni dell'astrattismo anti-neoliberale, quando sono maturate, per i vari disastri, le condizioni per realizzare riforme e cambiamenti, si sono mostrati difensori e sostenitori del neoliberalismo.
In Italia la sinistra è stata la maggiore promotrice dell'agenda neoliberale, svolgendo pure il ruolo di pretoriani.
Per le classi inferiori, dati i rapporti di forza consolidati, la mancanza di rappresentanza politica e l'imperialismo finanziario, il cammino verso povertà e condizione neomedievale appare irrefrenabile.