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machina

Ritorno al futuro (anteriore)

di Vincenzo Di Mino

In questo contributo Vincenzo Di Mino discute due libri: Finalmente è giovedì! 8 ragioni per scegliere la settimana corta di Pedro Gomes (Laterza, 2022) e Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita di Francesca Coin (Einaudi, 2023)

0e99dc ebdb232782c14cadaabe9b31a8beef09mv2Lo spirito del tempo, spesso e volentieri, si cristallizza negli elementi della cultura pop. Negli ultimi mesi i canali mediatici sono stati affollati di contenuti da parte di un «creator» che, presentando in maniera cinica e sarcastica le quotidiane disavventure sul posto di lavoro, ha rimesso sul piatto un tema di stretta attualità. Attraverso la comicità, infatti, queste immagini descrivono le attuali condizioni della forza-lavoro e della prestazione lavorativa e propongono come alternativa la fuga dal lavoro. E, nella società globale dello spettacolo continuo, egli è riuscito a veicolare un messaggio tanto sconvolgente (per l’opinione pubblica) quanto semplice: rifiutare il lavoro, inteso come vera e propria «schiavitù». Prima di essere un messaggio politico, questi sketch invitano a riprendersi la vita, a uscire fuori dalla routine e dallo stress delle tempistiche intensive e continuative del lavoro. Cum grano salis si può dire che essi sono il manifesto di una generazione che, lontana dalle ideologie e ancora più lontana da un sentire politico, vuole rimettere al centro del discorso i propri bisogni e non le esigenze della società. Può diventare dunque utile, interessante e necessario riportare questo tipo di discorsi entro il perimetro della critica politica, e rapportarla alle dimensioni materiali della composizione di classe. Da venti e passa anni, infatti, il piagnisteo delle corifee di sinistra sulla precarietà, sulle fughe di cervelli e sullo smantellamento del welfare state hanno completamente perso di vista il terreno soggettivo della composizione, omettendo sia la loro partecipazione attiva- via governo o via opposizione- all’implementazione di questi processi legislativi, e neutralizzando le potenzialità del conflitto.

Ciò che il quindicennio di crisi economiche, crisi sanitarie ed emergenze belliche ha riportato alla luce, invece, è la realtà di una vasta, frammentata e trasversale composizione sociale pauperizzata, socialmente marginalizzata, e politicamente disorganizzata. La questione del lavoro è tornata di stringente attualità proprio nel momento in cui ne è stata proclamata la fine (basti ricordare il famoso testo di Jeremy Rifkin, manifesto del liberismo sinistrorso e delle varie terze vie), facendo piazza pulita dei sogni e degli incubi legati alla trasformazione della stessa prestazione lavorativa. Sempre più working poors sono costretti a barcamenarsi attraverso più prestazioni lavorative per racimolare un vero e proprio salario di sopravvivenza; sempre più poveri vengono (e si sentono loro stessi) colpevolizzati per l’aver percepito un sussidio statale; sempre più si sentono discorsi entusiasti sulla ripresa economica e sulla stabilità dei salari.

E, in tutto questo, le voci dal continente lavoro continuano a mancare, ad essere ignorate e snobbate, pur essendo dentro una vorticosa fase di trasformazioni dei modi e delle forme che assume la produzione capitalista. La pandemia ha mostrato concretamente le modalità di quella che, in maniera differente, autori come Camatte e Balibar hanno identificato come «sussunzione totale», che riguarda non solo la totale messa a disposizione della vita nelle sue funzioni sociali e biologiche ma anche l’accumulazione selvaggia delle risorse naturali e la distruzione come elementi della creazione di plusvalore. Come ha ulteriormente sottolineato il collettivo Mi.Asma, il mondo della produzione non si è fermato neanche davanti alle migliaia di morti, ma ha trovato nuove modalità di estrarre valore dalla morte e dalla tragedia e ha inoltre rafforzato le modalità di cattura del valore attraverso la moltiplicazione dei dispositivi di automazione. Quello che il collettivo ha chiamato necrocapitalismo, infatti, altro non è che la materializzazione del sogno capitalista della produzione e della realizzazione del profitto continua, oltre le barriere della riproduzione della forza-lavoro e oltre i limiti delle legislazioni statali che, a ben ricordare, hanno difeso e giustificato la mobilitazione totale creata e richiesta dalle imprese per non fermare i cicli di produzione e distribuzione delle merci. In questo contesto, però, si sono alzate alcune voci dissonanti, tanto nell’ambito della critica anticapitalista quanto, paradossalmente, nell’ambito di quelle riflessioni liberal-democratiche interne al discorso economico, che hanno rimesso il concetto di «vivibilità» stesso al centro di queste riflessioni. Vivibilità, in questo consenso, vuol dire miglioramento delle condizioni di lavoro, con sguardo sulla vita di tutti i giorni, e ripensamento delle attuali forme di prestazione salariata, riflettendo sulla riduzione della settimana e della giornata lavorativa, e sul rifiuto possibile del lavoro stesso. I due libri che saranno discussi di seguito hanno come proprio oggetto proprio queste tematiche, anche se declinate in forme e maniere differenti. Il primo libro è quello di Pedro Gomes, intitolato Finalmente è giovedì! 8 ragioni per scegliere la settimana corta, in cui si discute sulla trasformazione della settimana lavorativa; il secondo è quello di Francesca Coin Le grandi dimissioni. Il rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, in cui l’autrice, addentrandosi nei meandri della soggettività, mette in luce come il rifiuto del lavoro oggi si possa configurare come pratica di ri-attivazione della vita all’interno del milieu sociale. Pur partendo da presupposti e da sensibilità opposte, i due volumi si muovono all’interno di un orizzonte che è interessante e necessario esplorare, tanto dal punto di vista teorico quanto da quello più urgente della conflittualità di classe contro e oltre il terreno del rapporto capitalistico di lavoro.

Il libro di Gomes è foriero di interesse e stimola la discussione su questi temi sin dal titolo. L’autore, infatti, è un economista con formazione eterodossa, che si muove nel solco post-kantiano, e ovviamente non disdegna il riferimento alle teorie micro-economiche di derivazione neoliberale, che prende sul serio la riduzione della settimana lavorativa. La tesi, che ovviamente non può che aguzzare le orecchie di chi ha sempre sostenuto la nocività dello sfruttamento, fatte salve le dovute precauzioni nel corpo a corpo con le direttrici ideologiche dell’autore. Questo è un libro da prendere sul serio proprio perché in esso si mette a punto un progetto che stride, quantomeno formalmente, con i progetti dei capitani d’industria del capitalismo digitale e le loro distopie, ma che discute di innovazioni tecnologiche e trasformazioni produttive slegandoli dai toni apocalittici, transumani e fumettistici che usano gli eroi ed i modelli pop dell’individualismo tecnocapitalista. Quello di Gomes, infatti, è un riformismo tecnocratico «illuminato», ovvero attento alle esigenze della forza-lavoro, che si muove nel solco del liberalismo «foucaultiano», cioè che si nutre della libertà soggettiva per rafforzare le proprie strutture di governo. Che il rapporto di lavoro venga costruito ab origine sulla libertà soggettiva di vendere la propria forza lavoro non è una novità; ciò che vale la pena di evidenziare è l’attenzione verso le condizioni stesse della vita oltre la prestazione lavorativa. In termini marxiani, Gomes prova a «superare» i limiti della sussunzione reale, dati dal rapporto ad oggi sempre più precario tra lavoro socialmente necessario, pluslavoro e tempo di riproduzione, riducendo il monte giornaliero settimanale e aumentando la produttività dei restanti giorni lavorativi. La tesi è tanto semplice quanto potente oggi: aumentare il riposo per migliorare la prestazione lavorativa. Niente di nuovo sotto il sole, ma questo è un progetto declinato secondo crismi riformisti ad oggi inimmaginabili. Gomes, nelle tre sezioni del volume, porta avanti il progetto di stabilizzazione a 4 giorni della settimana lavorativa, attingendo a 4 pilastri della storia del pensiero economico quali Keynes, Schumpeter, Marx e Hayek; sebbene sia discutibile l’uso fatto del Moro di Treviri, è altresì interessante vederlo usato in questo contesto. Chiaramente, l’economista si muove dentro il piano economico per sfruttarne le caratteristiche e piegarle questo progetto riformista: la dialettica tra equilibrio e distruzione creatrice, quella tra lavoro vivo e riproduzione, tra libertà di impresa e legislazione. Egli si muove in un terreno ideologicamente spurio, in cui riconosce il riformismo come forza innovativa per modulare in termini di benefici collettivi l’irreversibilità di quello che altri hanno definito capitalismo 24\7. La riduzione della settimana lavorativa, infatti, in termini keynesiani risolverebbe il problema della disoccupazione diversificando il «portafoglio» di occupazioni possibili, modulando le differenti prestazioni lavorative in base alla loro utilità, lasciando maggior spazio alla riproduzione ed allo svago creando nuovi spazi occupazionali riguardanti queste attività. Come il keynesismo del new deal, questa soluzione aumenterebbe la domanda aggregata, ovvero i consumi, stimolando la redditività stessa del sistema economico, e tenderebbe ad aumentare i salari all’interno del nuovo equilibrio determinato anche da una maggiore offerta di beni, servizi e posti di lavoro. In termini schumpeteriani la riduzione della settimana lavorativa fungerebbe da volano per l’innovazione continua, connessa questa volta ad una maggiore redditività della forza-lavoro. Vi è in questa formulazione qualcosa che si avvicina ad un uso differente della tecnologia, che sfrutterebbe la mobilitazione totale che essa richiede e mette in forma in termini «positivi», ovvero equilibrando le differenti sezioni delle catene del valore in termini di equilibri salariali ed occupazionali ed evidenziando la natura ‘sociale’ e collettiva dell’innovazione. Di conseguenza, essa non sarebbe più solamente una prerogativa della mitologia figura imprenditoriale (tanto amata e studiata dallo stesso Schumpeter) ma sarebbe in qualche modo condivisa con quei processi sociali che, nel senso di Tarde, generano continuamente innovazione producendo interazione. Nell’ottica hayekiana, la riduzione della giornata lavorativa stimolerebbe la libertà, tanto quella imprenditoriale quanto quella della forza-lavoro, di disporre ed impiegare il proprio tempo libero, e suturerebbe le polarità definite dai conflitti di classe (ma anche di genere e di razza). Nei termini del Marx di Gomes, la riduzione della giornata lavorativa opererebbe riducendo la disoccupazione determinata dall’uso intensivo della tecnologia e migliorando i salari attraverso una maggiore redistribuzione delle stesse prestazioni lavorative. Queste sommariamente le tesi avanzate attraverso il filtro del pensiero economico. Politicamente è di estremo interesse analizzare le implicazioni pratiche di questo progetto, a cui Gomes dedica l’ultima parte del libro. L’autore, infatti, si fa alfiere di un riformismo non ideologico ma pragmatico, che può avere grossi impatti sulla costituzione materiale delle strutture sociali stesse. Attraverso il modello economico di Lucas egli immagina una transizione alla settimana lavorativa di quattro giorni, immaginando modifiche e trasformazioni sia nel settore del lavoro pubblico quanto nel settore dell’impiego privato da attuare nell’arco di quattro-sei anni. Queste sono le ulteriori tesi che Gomes aggiunge al progetto: attraverso la riduzione della quota di lavoro le imprese possono stabilizzare i salari senza adottare misure di crescita e riduzione immediate, possono innalzare i livelli di produttività, possono intervenire sulla scelta delle quote settimanali ed annuali di ore lavorative, livellare gradualmente i costi di produzione e «scaricare» sulle fasce di imprese ad alto tasso di redditività i costi di ammortizzamento di questa transizione. E, fondamentalmente, avocare allo Stato il potere di aiutare le imprese a gestire i turn-over lavorativi attraverso la creazione di minimi salariali, sussidi pro-tempore per governare la disoccupazione, e soprattutto attraverso l’implementazione legislativa progressiva di questi elementi. Si è davanti ad un pensiero forte, di marca riformatrice, che individua nello Stato l’attore che può mediare tra l’accelerazione indotta dalle trasformazioni richieste e le tempistiche medio-lunghe della sua implementazione. E, in questo senso, Gomes propone anche una riforma del lavoro pubblico, già esposto a critiche e tagli salariali, così da migliorare l’efficienza delle proprie prestazioni e assorbire quelle sacche di disoccupazione. Chiaramente, questo comporterebbe una nuova visione del tempo libero, tanto dal punto di vista delle attività che si verrebbero a creare e che creerebbero nuovi posti di lavoro, quanto della qualità stessa del loisir, che andrebbe oltre la mera riproduzione della forza-lavoro. Dietro questo patinato progetto, sostanzialmente, vi è quel progetto continuo nella storia dei sistemi economici di produzione di riduzione del lavoro socialmente necessario a scapito dell’aumento del pluslavoro, ottenuto intensificando gli standard delle prestazioni lavorative nel tempo stabilito dal compromesso capitale-lavoro immaginato dall’autore, e rendendo il tempo libero tempo di formazione continua. La settimana corta, in questa visione, libera la società dall’insoddisfazione e aumenta la produttività moltiplicando e comprimendo le necessità del margine di profitto capitaliste in minori ore e minori giorni. Niente di nuovo sotto il cielo della scienza triste, questo progetto aggiorna in maniera interessante le dinamiche della sussunzione reale, provando a «democratizzarla», migliorandone l’appeal comunicativo e il livello di attrattività per le soggettività, ma illuminando ancor di più l’indistinguibilità e la compatibilità tra tempo di lavoro e tempo di produzione, ovvero i due momenti che scandiscono i ritmi della vita dentro le gabbie della prestazione lavorativa totale.

Proprio sull’insostenibilità della continuità della produzione e riproduzione delle necessità verte la trama discorsiva del libro di Francesca Coin. L’autrice, infatti, si immerge dentro le pieghe della composizione di classe per mostrarne le sofferenze e le criticità, facendo emergere le pratiche di rifiuto e diserzione individuali. Il primo nodo problematico è il seguente: in una struttura sociale che ha trasformato il lavoro da diritto sancito dalle costituzioni novecentesche in obbligo, con differenti sfumature, è possibile una critica attiva? In prima battuta, il modello che Coin utilizza è quello postulato da Hirschman tra le opzioni della voice e dell’exit. Fattasi insostenibile la prima opzione come forma di critica costruttiva e di «fedeltà» al datore di lavoro, l’esodo torna ad essere una alternativa appetibile. In questo senso, la crisi pandemica ha intensificato questa sensazione di indisponibilità su scala globale, da un lato come «ferita» sul corpo vivo della forza-lavoro, esposta in quei lunghissimi mesi al rischio costante della morte, dall’altro rimettendo la qualità della vita al centro dell’attenzione. Di conseguenza, dando libero spazio all’immaginazione della vita lontana dal lavoro su scala globale. Coin infatti mostra come questi due anni abbiano accentuano questo sentimento di distacco e disprezzo della prestazione lavorativa ovunque: le lotte per la sindacalizzazione delle soggettività nel settore dell’high tech in Usa, le lotte dei segmenti inerenti la riproduzione sociale e la cura, le lotte per il tempo libero in Cina segnano, infatti, la ripresa di una conflittualità sociale diffusa e richiedono una specifica politicizzazione. La cassetta degli attrezzi a cui attinge Coin è vasta e va dalla critica femminista dei processi di riproduzione sociale alle analisi sulla sofferenza e sul disagio, attingendo al contempo a piene mani dalle esperienze della forza-lavoro viva in una operazione situata a metà tra la microstoria (così come teorizzata da Ginzburg) e la conricerca. Assumere la fuga dal lavoro come tema politico di stretta attualità vuol dire rapportarlo a quella che l’autrice chiama «anomalia italiana», ovvero a quell’ordine del discorso per cui sussidi statali e ammortizzatori sociali avrebbero disincentivato la ricerca di lavoro, a fronte di statistiche riportate dai colossi della narrazione capitalista mainstream (come il Financial Times) che mostrano come le attuali condizioni di lavoro disincentivino la ricerca di occupazione e la fuga dalla stessa. Questo discorso accomuna, infatti, i guru patinati del capitalismo straccione all’italiana, pronti sempre a pontificare dalle loro postazioni social o televisive, e la sinistra codista che è passata dall’abbracciare il sogno escatologico della classe operaia come soggetto universale all’abbracciare il progetto di trasformare ogni soggetto in imprenditore. Chiunque abbia lavorato invece nel tempo della contro-rivoluzione liberale sa, invece, come le condizioni di lavoro si siano fatte sempre più asfissianti e come, nonostante le generosità dei conflitti, l’opzione della voice sia stata ridotta ad asfissia. Coin, immergendosi nel reale, fa parlare chi il lavoro lo ha subito e lo subisce, in nome della libertà di impresa e dell’accesso alla propria sussistenza, specie durante la crisi sanitaria. I cinque capitoli centrali del libro sono un puzzle in cui ogni tessera è una storia soggettiva di sofferenza dentro il posto lavorativo, in cui la vita è ridotta ad appendice della prestazione salariale continua. Nel sistema sanitario, in primis, che la pandemia ha finito di smobilitare, a fronte della privatizzazione della cura. Le condizioni di lavoro nella sanità descritte da Coin assomigliano a delle lettere dal fronte di una guerra combattuta senza mezzi, in cui sono stati richiesti sacrifici continui a medici e personale sanitario, anche di fronte a evidenti casi di disagio e di impossibilità fisiologica ai turni massacranti di lavoro, che abbassavano ovviamente la qualità delle prestazioni e mettevano ancora di più a rischio le vite. Ma il catalogo continua con il passaggio nel mondo della ristorazione e di quella che viene chiamata «hospitality», vera e propria fucina della gig economy. Come nel mondo della sanità, il lavoro in questo settore è caratterizzato da bassi salari, tutele inesistenti, turni massacranti, richiesta costante di tempo e disponibilità oltre ogni ragionevole limite. E poi gerarchia, sessismo, adesione agli obiettivi aziendali (leggasi: prodotti da vendere e clienti da fidelizzare). Questi elementi si moltiplicano e aumentano la loro carica distruttiva nel settore della grande distribuzione e della logistica, non a caso uno dei settori a più forte razzializzazione e a più intensità conflittuale. I soggetti intervistati, infatti, parlano di umiliazioni, soprusi, costante ricorso agli straordinari senza ricompensa. Per arrivare al campo del lavoro nel mondo culturale, in cui oltre agli elementi già elencati si aggiunge la richiesta di gratitudine per il lavoro stesso. In questo settore di condensano le dinamiche che Raffele Alberto Ventura ha descritto nelle sue analisi, ovvero la ricerca di prestigio sociale tramite un lavoro che richiede costante investimento nel capitale reputazionale e nella formazione e che viene ripagato in «visibilità» e «opportunità». Tanto nell’accademia quanto nel mondo dell’editoria, dell’informazione e della comunicazione, ad uno standard lavorativo presentato come «flessibile» si affiancano richieste di lavoro oltre i limiti della giornata lavorativa, di sacrifici in virtù di un risultato da ottenere (un articolo, una traduzione, un lavoro di revisione ed editing di testi). E, soprattutto, vige il costante richiamo alla importanza dell’opportunità concessa, questo malsano senso di gratitudine per la condizione in cui si lavora che deve legare soggetti e datori di lavoro.

A questa altezza, il diritto al fallimento è una esigenza necessaria, come scrive Coin basandosi sulle teorie di un certo femminismo queer di derivazione marxista. Abbandonare il lavoro, uscire dal gioco della gratitudine perenne, rifiutare condizioni umilianti di lavoro sono il primo passo per far scricchiolare questo sistema. In questo senso, l’immaginario della fuga e del rifiuto possono costituire un utile (dis)incentivo alla ricerca forzosa del lavoro, e per poter sganciare la vita dai dogmi della produttività e dell’efficienza. Per Coin è proprio questa fuga esistenziale, prima che politica, dal lavoro a sottolineare la fine ed il fallimento di un modello produttivo basato sulla marginalizzazione della forza-lavoro a fronte dei profitti, e di scelte politiche volte a ricercare l’equilibrio impossibile tra necessità del profitto e libertà del lavoro. Le «Grandi Dimissioni» sono infatti il primo passo verso una rinnovata critica del lavoro che tenga insieme necessità della «buona vita» e politiche di conflitto e trasformazioni sociali. E, guardando alle mobilitazioni sociali degli ultimi mesi (quelle francesi, ad esempio), il diritto ad una vita libera dalle necessità produttive è tornato come parola d’ordine che accomuna più strati della composizione di classe; nel caso francese, infatti, la critica del caso concreto, l’innalzamento dell’età pensionistica, è diventata la piattaforma di una più diffusa critica della società della «sussunzione reale», legando critica del lavoro a critica ecologica e a richiesta di reddito sganciata dalla prestazione lavorativa.

Ciò che, in conclusione, lega il riformismo liberal di Gomes e l’analisi appassionata e situata di Coin è la critica di un certo modello produttivo. Una radicalizzazione politica dal punto di vista di classe di entrambe le posizioni deve per forza attraversare il campo minato del progetto dell’economista e dare forza organizzativa alla fuga dal lavoro descritta dalla sociologa. Chiaramente, anche un progetto del genere può essere articolato in diverse opzioni: la prima è un classico dei movimenti sociali di classe e riguarda la riduzione generale del lavoro socialmente necessario, che comporta non soltanto la riduzione della giornata lavorativa ma anche il ripensamento della struttura stessa del lavoro. In virtù di questa opzione, è necessario assumere il progetto di Gomes ma per risignificarlo, essendo il senso dei due completamente differente: il primo è un progetto di ristrutturazione socialdemocratica della società salariale, mentre il secondo è un progetto che, erodendo la necessità sociale del lavoro, ne può scardinare la rilevanza sociale intesa come prestazione morale obbligatoria. La seconda opzione è far tornare il salario una «variabile indipendente», ovvero lottare per un minimo salariale dignitoso e allargare le lotte per un reddito sganciato dalla prestazione lavorativa stessa. In questo caso, il rifiuto del lavoro si materializza attraverso degli elementi concreti di contropotere giuridico e politico, trasformando la fuga «disordinata» dal lavoro in un potenziale movimento di conflitto duraturo e dinamico. Questo ulteriore elemento può consentire il ripensamento del rapporto tra rifiuto del lavoro e accelerazioni tecnologiche, senza anatemi aprioristici o fughe in avanti meta-narrative. E, pe concludere, la libertà di scegliere un lavoro senza le necessità dettate delle contingenze può inverare l’utopia concreta del lavoro come mezzo per accrescere spazi di socialità e non come fine ultimo dell’esistenza, e il «diritto all’ozio» comunardo come alternativa alla prestazione lavorativa continua, salariata e non. Ma, ovviamente, prima di immaginare il possibile, bisogna spezzare, come scriveva il poeta, i legami sociali che permettono a questa società di riprodursi continuamente sullo sfruttamento altrui. E, per concludere questa nota per come essa era cominciata, per realizzare queste ipotesi bisogna fare uscire l’appello sonoro al rifiuto del lavoro dagli schermi di tablet e cellulari e lavorare per diffonderne quanto più possibile il contenuto nei corpi concreti della forza-lavoro. Solo così il «vogliamo tutto!» della memoria di classe tornerà ad essere un programma minimo di conflitto e trasformazione sociale.


Immagine: Roberto Rup Paolini

Vincenzo Maria Di Mino (1987), laureato in Scienze della Politica, è ricercatore indipendente in teoria politica e sociale.

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