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Note sul libro di Michael Hardt “I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte”

di Andrea Fumagalli

Settanta sovversivi 1.jpegLa tesi di Michael Hardt, presentata nel libro I Settanta sovversivi. La globalizzazione delle lotte, (Derive Approdi, Bologna, pp. 310, Euro 22,00) è molto semplice ed è già esposta nel titolo:

“Gli anni Settanta sono stati un decennio sovversivo. I politici e i loro generali, i capi della polizia e gli agenti dei servizi segreti, i giornalisti, gli intellettuali conservatori vedevano “sovversivi” dappertutto” (p. 5).

Ma cosa significa “anni sovversivi”? Secondo la Treccani, l’aggettivo “sovversivo” rimanda a due significati:

“1. Che tende a sovvertire l’ordine costituito di uno stato: dottrine, teorie s.; attività s.; propaganda s., delitto contro la personalità dello stato che consiste in un’attività di propaganda per l’instaurazione violenta di una dittatura o per il sovvertimento e la distruzione dell’ordinamento sociale; 2. Per estensione, che sovverte la tradizione, che tende a rivoluzionare e a sconvolgere uno stato di cose esistente”.

La prima definizione è quella che viene tradizionalmente attribuita agli anni Settanta, quindi un’accezione tendenzialmente negativa. Ancora oggi la vulgata dei media ancora si muove in questa direzione. Basti pensare che l’espressione più usata per etichettare quel periodo è “anni di piombo”, un’espressione che, peraltro, tradisce la sua vera origine[1].

Hardt, invece, fa un’operazione di verità storica a 50 anni da quel decennio e afferma che la definizione corretta che deve essere usata è la seconda e riporta in esergo del capitolo introduttivo la seguente affermazione, contenuta in un documento scritto da alcuni militanti dell’Autonomia in attesa del processo al carcere di Rebibbia, Roma, 1983:

“Che non abbiamo avuto nulla a che fare con il terrorismo, è ovvio. Che siamo stati “sovversivi” è altrettanto ovvio. Tra queste due verità si trova la posta in palio del nostro processo”.

A tal fine, per meglio chiarire la questione della “sovversione”, è necessario partire dalla critica ad alcuni luoghi comuni.

Il primo riguarda il rapporto con il decennio degli anni Sessanta, che culmina con il ’68. Quel decennio è spesso rappresentato come ammantato da “una brillante luce aurorale” (p. 7). I movimenti politici degli anni Sessanta hanno inciso nella trasformazione economica e culturale della società e per questo una volta esauriti potevano essere riconosciuti e tollerati. Come ricordano Primo Moroni e Nanni Balestrini, ne L’Orda d’oro[2]:

“la versione ‘ufficiale’ definisce il ’68 come buono e il ’77 (anno culmine del decennio, ndr.) come cattivo, infatti il ’68 è stato recuperato, mentre il ’77 è stato annientato”.

Il secondo luogo comune, sempre facendo un confronto con il decennio precedente, è che mentre gli anni Sessanta hanno lasciato il segno e influenzato il futuro (“gli anni dei sogni”), negli anni Settanta invece “non è accaduto nulla” e “tutto è andato storto” (“gli anni della polvere”) (p. 10)[3]. Hardt discute le ragioni di tale posizionamento facendo riferimento al fatto che negli anni Settanta si sono acuite le differenze all’interno delle forze della sinistra e al fatto che tale decennio è stato contrassegnato più da sconfitte che da vittorie. Tutto apparentemente ragionevole ma discuteremo più avanti se tali fatti siano decisivi.

Infine il terzo luogo comune è quello più duro a morire ed evidenzia la violenza politica degli anni Settanta “a volte con l’assunto (fuorviante) che gli anni Sessanta siano stati caratterizzati da un’azione pacifica e non violenta” (p. 12). Ancora una volta “i buoni Sessanta e i cattivi Settanta”. Si tratta di prese di posizione che spesso confondono il fine con il mezzo. La radicalità degli anni Settanta è stata decisamente superiore, adottando in molti paesi anche gli strumenti della lotta armata (non del terrorismo) ma anche la risposta violenta e repressiva delle istituzioni dello Stato e delle bande paramilitare e fasciste si è fortemente acuita e spesso agita in forme preventive.

Il dibattito su questi temi, tuttavia, non tiene conto di alcuni fatti stilizzati che devono essere sottolineati. In primo luogo, i movimenti sociali degli anni Settanta e i conflitti che ne sono derivati hanno innervato tutti gli aspetti della società e delle sue regole a 360 gradi, nessuno escluso. Alle ragioni socio-economiche e contro l’autoritarismo degli anni Sessanta si sono aggiunte le tematiche di genere, di razza, ecologiche, e della vita quotidiana. “Il personale è politico”: le lotte tendono, nei diversi campi e a partire dalle diverse soggettività, a convergere nell’autodeterminazione libera e autonoma della vita umana. Negli anni Settanta il protagonismo, il “chi”, riguarda sempre più

“movimenti di popolazione che in precedenza non erano state attive o non erano state ampiamente riconosciute, in particolare le lotte femministe, i movimenti di liberazione gay, i movimenti dei poveri e dei disoccupati, le lotte indigene e varie ribellioni razziali e etniche” (p. 9)

a cui aggiungere i primi movimenti ecologisti e contro il nucleare.

In secondo luogo, se gli anni Sessanta hanno segnato la svolta cruciale che ha coinciso e favorito la fine di un’epoca (il fordismo), gli anni Settanta, invece, segnano l’inizio del nostro tempo. Gli anni Sessanta parlano del passato, gli anni Settanta parlano del futuro. Qui sta la più importante rottura tra i due decenni anche se giustamente, soprattutto per quanto riguarda il caso italiano, si parla di continuità tra il ’68 e il ’77.

Ma tale discontinuità risulta evidente anche nell’individuazioni di alcuni schemi concettuali, dove per concetti, ci avverte Hardt, non

“significa riferirsi a ciò che gli intellettuali hanno detto su di loro. Dobbiamo abbandonare il falso presupposto di una divisione del lavoro articolata sul presupposto che gli intellettuali pensano e gli attivisti agiscono, riconoscendo il valore della teorizzazione avanzata collettivamente nei movimenti” (p. 12).

Sicuramente il concetto più importante è quello di “autonomia”, un termine che innerva tutti i movimenti degli anni Settanta e che si applica alle diverse soggettività che lo animano. Gli operai militanti dichiarano la loro autonomia non soltanto dai padroni delle fabbriche ma anche dalla leadership e dalla guida dei maggiori sindacati. Il concetto di autonomia attraversa anche i diversi movimenti femministi e di liberazione gay sino a essere anche una forte componente dei gruppi che hanno utilizzato la strategia dell’accampamento, al fine di bloccare grandi progetti infrastrutturali (aeroporto, una base militare o una centrale nucleare), occupandone il territorio.

Altro concetto importante è la “molteplicità”, che emerge in modo vigoroso nel contesto dei dibattiti femministi e che trae origine dal riconoscimento che la centralità operaia nella lotta rivoluzionaria era prossima a giungere al termine. Ciò, ovviamente (bisogna ricordarlo ad alcuni nostalgici) non significa la fine della lotta di classe ma la necessità di prendere in considerazioni per il conflitto sociale nuovi potenziali soggetti plurimi non interamente riconducibili alla priorità dei lavoratori (maschi) industriali. Tale concetto è rilevante perché segna una netta cesura con il passato e getta un ponte al presente (e attualizzando quel decennio) anticipando il concetto di intersezionalità e di convergenza conflittuale, temi oggi – a cinquanta anni di distanza – sempre più al centro del dibattito politico.

Il terzo concetto sottolineato da Hardt è quello di “democrazia”, ovvero il rifiuto dei principi della democrazia liberale tramite la delega del voto, privilegiando la partecipazione diretta alla rappresentanza.

“I movimenti rivoluzionari (di quel decennio, ndr.) hanno sperimentato la diffusione del potere in una vasta gamma di strutture e commissioni, al fine di istituzionalizzare la partecipazione democratica: commissioni di lavoro nelle fabbriche, commissioni di villaggio, commissioni di quartiere e altro ancora” (p. 16).

Questi tre schemi concettuali hanno rappresentato un salto qualitativo del discorso politico del tempo e ne hanno accentuato la radicalità, minando dal basso qualsiasi forma di compromesso politico istituzionale. Per questo hanno rappresentato una minaccia reale e sovversiva degli assetti di potere dominante. Anche perché non sempre tali pratiche ambivano alla “presa del potere” ma alla costruzione di schemi alternativi, non al di fuori degli assetti capitalistici (in un altrove come poteva essere l’esperienza delle comuni, nei tardi anni Sessanta), ma all’interno dello stesso sistema: qui e ora.

Non è un caso, come sottolinea Hardt, che queste tre parole chiave (autonomia, multipolarità, democrazia) siano accomunate da un forte anelito di liberazione e autodeterminazione. Una liberazione che non era rivolta solo ad una strutturale trasformazione delle istituzioni vigenti ma anche ai soggetti sociali che se ne facevano carico.

Mai nella storia recente si è osato tanto. Per questo il decennio degli anni Settanta doveva essere “annientato”, perché, a differenza del ’68, era irrecuperabile. Gli anni Settanta hanno perso, certamente, ma se guardiamo ai decenni successivi, hanno vinto. O meglio “La rivoluzione è finita, abbiamo vinto”[4].

* * * * *

Il merito del libro di Michael Hardt non è solo quello fare giustizia con la storia e ridare significato e potenza a quel decennio, ma di presentare le diverse esperienze rivoluzionarie che si sono manifestate su scala globale, molte volte spesso del tutto misconosciute. Non è possibile riportarle tutte. Seguendo la traccia di Hardt, tali esperienze possono essere suddivise in 6 parti.

La prima ha come titolo “Cambiare il mondo dalle fondamenta” e tratta delle tematiche relative alla democrazia rivoluzionaria come è stata declinata in due territori: la rivoluzione dei garofani in Portogallo dal 1974 in poi e la proposta di “poder popular” in Mozambico, avanzata da Samora Machel, leader del Frelimo. A questi tentativi di liberazione “istituzionale” si aggiungo i processi di liberazione delle soggettività personale da parte dei movimenti gay negli Usa e poi in Europa sino alla Teologia della liberazione nel continente sudamericano. Approcci apparentemente diversi, ma tesi a eliminare quelle pastoie culturali e conformiste nei rapporti tra gli esseri umani.

La seconda parte è dedicata alle forme di organizzazione o meglio di auto-organizzazione non istituzionali. Hardt fa riferimento alla crescita del socialismo nel Cile di Allende riportando il caso di autogestione della fabbrica tessile Yarur a Santiago, fabbrica che secondo il governo di Allende rientrava nel processo di nazionalizzazione perseguito dal partito di Unidad Popolar, ma che invece venne occupata dalle maestranze, anticipando le tematiche della governance del comune. Problematiche analoghe hanno attraversato la già citata rivoluzione portoghese, che nei suoi primi anni trova nella “commissione democrazia” il principale strumento decisorio. Anche in Portogallo come in Cile, si registrano occupazioni di fabbriche in contrasto con la nazionalizzazione. Un esempio interessante è costituito da una fabbrica di abbigliamento sportivo di Montijo, vicino a Lisbona, di proprietà di una multinazionale francese. Di fronte alle rivendicazioni salariale delle maestranze (quasi tutte donne), alla serrata della fabbrica si risponde con la sua occupazione e la sua autogestione. Il clamore del caso porterà a parlare di “spettro della comune di Lisbona” (pp. 90-92), in seguito allo sviluppo di casi analoghi.

Un altro esempio è accaduto a latitudini ben diverse, in Corea del Sud, nella città di Kwangju, teatro di una rivolta popolare a seguito dell’instaurazione di una nuova giunta miliare. Nel maggio del 1980, gli studenti avevano organizzato una protesta davanti all’università che diede vita a cruenti scontri con le truppe paramilitari che durano due giorni. Seguì una grandissima manifestazione popolare (200.000 partecipanti su una popolazione di 700.000) che riuscì a scacciare le forze militari, proclamando l’autogoverno autonomo della città. Inizialmente, l’organo di governo dominante era composto dall’élite economica e religiosa, ma nei giorni seguenti si formarono diversi comitati di democrazia aperta e sempre più partecipata, con assemblee nelle piazze dove tutti e tutte potevano parlare. La dittatura miliare invio l’esercito e i carrarmati schiacciano nel sangue (più di un centinaio di morti) questa esperienza.

La terza parte è dedicata al mondo del lavoro e alla fabbrica fordista. Come abbiamo già ricordato, negli anni Settanta i movimenti di rivendicazione sul lavoro aprono nuove prospettive. In diverse parti del mondo industrializzato, gli operai tendono a trasformare radicalmente i temi del conflitto e gli strumenti tradizionali della rappresentanza sindacale: diventano autonomi. Così avviene negli Stati Uniti con riferimento alle lotte dei lavoratori neri negli stabilimenti automobilisti di Detroit, dove il sindacato tradizionale (UAW – United Auto Workers) viene scavalcato da organizzazioni autonome operaie, soprattutto neri, come la Rum (Revolutionary Union Movements) e la Drum (Dodge Revolutionary Union Movements). Tali iniziali organizzazioni poi convergono a inizio anni Settanta nella costituzione della League of Revolutionary Black Workers e nel Black Workers Congress (Bwc). Lo scontro con il sindacato ufficiale divenne aspro, sino a utilizzare l’omicidio come nel caso del settore minerario (pp. 108-109). La crisi industriale diventava così crisi politica e sociale.

In Francia è degno di nota l’esempio della fabbrica di orologi Lip, a Besançon, che nel 1974 viene occupata dagli operai di fronte alla volontà padronale di chiusura dello stabilimento Tale occupazione si è caratterizzata per l’introduzione di meccanismi per una maggior partecipazione dei lavoratori, invertendo la linea di gerarchia che tradizionalmente vedeva il management padronale comunicare le decisioni al Consiglio di fabbrica, che, passivamente, faceva da tramite con i lavoratori. Ma l’esperienza forse più articolata e interessante ha come teatro l’Italia con la creazione di Assemblee Autonome nelle principali fabbriche del Nord. Tale esperienza, brutalmente repressa, – a differenza di altre esperienze – è caratterizzata anche da una produzione teorica rilevante che recupera e rinverdisce i concetti chiave del pensiero operaista degli anni Sessanta per adeguarlo alla particolare tessuto produttivo italiano, caratterizzato sempre più da una produzione socialmente diffusa. La figura dell’operaio maschio della grande fabbrica lascia spazio a una figura nuova, figlia del boom demografico e con più alta scolarizzazione, che presenta forme nuove di soggettivazione nei confronti del lavoro (operaio sociale e rifiuto del lavoro).

La quarta parte descrive esempi di molteplicità strategiche, con riferimento essenzialmente a due ambiti: quello femminista e quello razziale, che tendono spesso a intersecarsi, soprattutto nel dibattito politici statunitense. L’esempio più importante è costituito dal Combahee River Collective, composto da un gruppo di femministe lesbiche nere. La dichiarazione del 1977:

“parte dal presupposto che l’articolazione della struttura di potere interconnesse richiede che esse siano comprese su un piano di parità, senza assumere priorità tra loro” (p. 160).

Tenere insieme patriarcato capitalista e il capitalismo razziale, come dispositivi che si muovono in sinergia e che quindi richiedono una risposta eterogenea. Il concetto di molteplicità, quindi, non si concentra su due o tre aspetti ma riguarda un ambito aperto e indefinito. Hardt parla al riguardo di una “intersezionalità” ante litteram, che porta, nelle parole di Angela Davis a una “intersezionalità delle lotte”. Tale concetto di multipolarità comincia a essere presente anche nelle lotte studentesche a partire dai primi anni Settanta.

La quinta e penultima parte riguarda l’allargamento della tecnica dell’occupazione alle realtà territoriali. Se negli anni Sessanta, lo strumento dell’occupazione riguarda direttamente il luogo del conflitto (università e fabbrica, prevalentemente), nel decennio successivo, il conflitto si amplia e diventa multipolare e l’occupazione si trasforma in “accampada”, creando nuove alleanze contro lo Stato. Nelle regioni rurali del Giappone e della Francia, i movimenti di opposizione sono riusciti a bloccare i grandi progetti infrastrutturali statali per quasi un intero decennio, interrompendo la costruzione dell’aeroporto di Narita a Sanrizuka, nell’area di Tokio, e l’espansione di una base militare nella regione di Larzac, nel Sud della Francia. Non diversa è stata la lotta alla fine degli anni Settanta contro l’apertura d’una terza pista di atterraggio all’aeroporto di Francoforte in Germania e le lotte contro il nucleare. Due erano le novità. In primo luogo le ragioni del conflitto non si muovevano nell’alveo delle rivendicazioni socio-economiche ma piuttosto in quelle socio-ambientali. In secondo luogo, tali lotte non hanno semplicemente rifiutato l’autorità dello Stato, “ma hanno contestato le pratiche codificate del conflitto. Invece di presentare petizioni agli organi politici locali, regionali o nazionali, hanno agito in prima persona, bloccando la costruzione, in parte tramite attacchi frontali o sabotaggi e soprattutto costruendo e abitando gli accampamenti” (p. 195). L’occupazione del territorio è quindi emersa come una tattica primaria dell’azione diretta. È facile vedere in queste tattiche le similitudini che ancora oggi valgono con movimenti analoghi come quello contro la TAV in Val di Susa o contro la costruzione di un aeroporto a Notre-Dame-des-Landes in Francia, sino ai noti casi di Piazza Tahir al Cairo, Piazza Taskim a Istambul, passando per Puerta del Sol a Madrid, piazza Syntagma ad Atene, Zuccotti Park a New York e molti altri.

Infine la sesta parte analizza il tema della violenza e svolge lo sguardo all’altro lato della barricata, analizzando le trasformazioni negli assetti della rappresentanza del potere politico ed economico. Con l’eccezione delle sperimentazioni che emergono direttamente dalle teorizzazioni all’interno dei movimenti (di cui abbiamo raccontato in precedenza), nella maggior parte dei casi, analizzando le forme del potere dominante, gli anni Settanta si caratterizzano per l’eclisse dei meccanismi di mediazione della governance. Hardt nota che:

“uno dei sintomi maggiormente evidente di quella che definisco la fine della mediazione è il drammatico aumento della repressione negli anni Settanta, riconosciuto quasi univocamente dagli attivisti di un’ampia gamma di contesti nazionali” (p. 211).

Il dibattito sulla fine della mediazione è stato ampio e articolato e ha interessato i fronti opposti. Da un lato gli ideologi di destra, sul modello di Samuel Huntington, teorizzavano la necessità di una ristrutturazione della società nel suo complesso, oramai diventata ingovernabile, dall’altro, i teorici rivoluzionari (Negri, Roth, Bologna e altri/e) sottolineavano come la crisi della mediazione (e delle relazioni industriali) non fosse altro che l’inizio del processo di ristrutturazione capitalistica, basato su una logica di comando non più mediato. Lo Stato e le istituzioni pubbliche lasciavano spazio al potere gerarchico del mercato. Sulla stessa linea ma – dice Hardt – con “un registro teorico diverso e più distante dai movimenti” (p. 218), si colloca Foucault che vedeva nella fine della mediazione i prodromi della guerra civile. La repressione di quegli anni può esserne una conferma.

Le conseguenze di questa situazione hanno accelerato la radicalizzazione di parte dei movimenti verso forme di lotta armata. Al riguardo occorre fare due riflessioni.

La prima è che lotta armata non è terrorismo. Il terrorismo ha lo scopo di seminare terrore colpendo nel mucchio con l’obiettivo di fomentare un rigurgito di repressione e ordine. La lotta armata alza il livello del conflitto sociale sul piano militare, individuando dei precisi obiettivi complici del potere dominante a diversi livelli di importanza (dai tutori del ordine, ai giornalisti e agli intellettuali accondiscendenti, ai magistrati sino ai politici) al fine di sviluppare una capacità di contro-potere. Si tratta, evidentemente, di due pratiche che non si possono accomunare, come invece normalmente, in modo ambiguo, si fa.

La seconda riflessione ha a che fare con la diffusione della lotta armata, che in molti casi si muove in parallelo e in sinergia con i movimenti di quel decennio, frutto anche di quel venir meno della governance della mediazione e dello spostamento della gestione del potere dalla politica all’economico. È l’inizio della teoria del neoliberalismo degli anni ’80, che postula l’autonomia della logica di mercato e delle imprese e delle istituzioni creditizio-finanziarie dal potere politico rappresentativo.

Se sono note le azioni dei gruppi della lotta armata in Itala (Brigate Rosse e Prima Linea, su tutti) e in Germania (R.A.F.), meno nota è la presenza di formazioni simile in diversi paesi del mondo. Hardt divide in tre gruppi tali esperienze. Il primo è costituito dall’utilizzare la lotta armata per denunciare i crimini commessi dall’élite al potere. L’esempio più interessante è costituito dai Tupamaros dell’Uruguay. Negli Usa ha operato, la Citizen’s Commission to Investigare the Fbi, che compiva azioni dirette illegali (ma senza armi) con l’obiettivo di sottrarre documenti segreti per denunciare le diverse porcherie commesse. Il furto avvenuto l’8 marzo 1971 ha consentito di recuperare interessanti documenti del programma di controspionaggio dell’Fbi (Cointelpro), che conduceva illegalmente attività di sorveglianza, molestie, infiltraggio, falsi arresti e disinformazione con l’obiettivo di distruggere e screditare i gruppi politici americani più radicali, come le organizzazioni per i diritti civili dei neri, il Black Panther Party e l’American Indiam Movement[5].

Un secondo gruppo di lotta e guerriglia urbana tendeva a colpire luoghi simbolo della narrazione di potere. È il caso de Il Fronte armato antigiapponese dell’Asia Orientale, composto da soli giapponesi, intento a denunciare le ingiustizie delle aggressioni militari del Giappone nel XX secolo e i crimini commessi durante la II Guerra Mondiale contro altri paesi asiatici, per poi dopo il 1975 iniziare a colpire grandi aziende giapponesi, ritenute complici, ad esempio la Mitsubishi, definita “come il centro nevralgico dell’imperialismo giapponese” (p.233). Negli Usa, simile era la strategia del gruppo dei Weather Underground, ovvero piazzare bombe in luoghi simbolici, pianificando le proprie azioni in modo di evitare vittime e danneggiare solo le proprietà[6]. Gli obiettivi erano le carceri di detenzioni degli attivisti di colore (come l’attentato al dipartimento di correzione dello Stato di New York, in risposta al massacro nel carcere di Attica del settembre 1971) o gli uffici governativi più coinvolti nella guerra in Vietnam.

Un terzo gruppo è costituito dalle formazioni di lotta armata che hanno invece sviluppato un’attività di attacco allo Stato, tramite l’organizzazione di gruppi totalmente clandestini. È il caso della RAF e delle Brigare Rosse. Se inizialmente, le azioni di tali formazioni si muovevano sul piano simbolico, in seguito hanno sviluppato un confronto militare diretto con lo Stato. In questo caso la clandestinità spesso ha portato i militanti a non accorgersi dei processi di trasformazione socio-economica che nel frattempo, a partir dalla metà degli anni Settanta, hanno cominciare a intervenire sulla composizione del lavoro e sulle soggettività coinvolte, rimando ancorate a uno stereotipo, quello della centralità dell’operaio massa, che cominciava a sgretolarsi. Cionondimeno, la lotta armata, con tutte le sue ambiguità, ha comunque sviluppato un certo potere di fascinazione e sviluppato anche immaginari nuovi, in grado di superare stereotipi antichi[7].

Infine come ultimo aspetto, occorre considerare che un tratto distintivo degli anni Settanta – in questo processo di spostamento dal potere politico al potere economico, che anticipa il neoliberalismo gli anni ottanta – è l’esistenza di una zona grigia tra la lotta armata e la lotta non espressamente dichiarata “armata”, che possiamo restringere al binomio “legalità-illegalità”. Molte realtà politiche degli anni Settanta hanno sviluppato una doppia strategia e una doppia organizzazione. Da un lato, una partecipazione alla scena politica alla luce del sole con interventi nelle realtà sociali, dall’altro, la necessità di sviluppare una capacità di azione illegale, di tipo violento o coercitivo, spesso per motivi di difesa. Il caso del Black Panther Party è, in proposito, emblematico. Il programma di fornire la colazione ai bambini neri andava a braccetto con una pratica di autodifesa militare della gente di colore contro la brutalità della polizia. Interessante è anche il caso italiano, dove le pratiche di illegalità, sotto forma di rapine in banca, espropri, irruzioni di carattere politico, azioni antifasciste si svolgono in sinergia con la militanza politica e culturale tradizionale (doppia organizzazione). In questi casi, non sembra improprio sia negli Usa che in Italia, parlare di “guerra civile” in atto, ricordando le parole di Foucault.

* * * * *

Gli anni Settanta necessitano una rivalutazione. Non devono essere demonizzati. Hanno avuto un ruolo molto più importante degli anni Sessanta: se quest’ultimi hanno segnato la fine di un’epoca, i primi sono stati l’inizio della nostra epoca. Certo, oggi siamo in grado di riconoscere i limiti e gli errori di quell’esperienza, ma dobbiamo anche riconoscere che alcune intuizioni di analisi e di pratiche, che in quei tempi hanno cominciato a circolare, hanno poi influenzato gli anni seguenti, anche se spesso in modo deturnato e in modo strumentale, e “costituito lo stadio larvale di qualcosa che oggi sta arrivando a maturità” (p. 273). Proprio per questi sono stati anni “sovversivi” (nel senso buono del termine) e per questo si è fatto di tutto, con effimero successo, per annientarli. Il libro di Hardt ne è la riprova e per questo dovrebbe rientrare tra i libri di testo di storia contemporanea nelle scuole superiori. Lo ripetiamo: gli anni Settanta sono stati sconfitti, ma in realtà hanno vinto.


NOTE
[1] L’origine del termine è legata al film tedesco “Die bleierne Zeit” (tradotto in italiano come “Anni di piombo”) del 1981, diretto da Margarethe von Trotta, uscito in Italia come Anni di piombo, titolo creato dall’Ufficio Stampa Gaumont Italia (forse, in origine, un gruppo di fan degli “spaghetti western”). Il film avrebbe dovuto più propriamente essere intitolato “L’età del piombo”. Il titolo originale nasce da un’immagine contenuta nella lirica di Friedrich Hölderlin Der Gang auf Land (Passeggiata verso il paese). Con “età del piombo” Margarethe von Trotta si riferisce agli anni Cinquanta del secolo scorso, anni, in Germania, di mediocrità culturale e sociale, per di più gravati dal senso di colpa per la tragedia del nazismo, della guerra e della “soluzione finale”; e, nel film, è proprio il desiderio di riscatto da quegli anni pieni di angosce a essere all’origine della scelta di Gudrun Ensslin, e di altre e altri assieme a lei, di fondare la Rote Armee Fraktion e di andare oltre, fino all’esito fatale nel carcere di Stammheim. Con “età del piombo” Friedrich Hölderlin si riferiva invece, nell’epoca in cui scriveva, agli anni Novanta del Settecento, in Prussia, anni altrettanto scuri e neghittosi: Hölderlin all’epoca era un «giacobino militante» presso l’Università di Jena. Il titolo originario faceva anche riferimento alla scena finale del film, quando uno sconosciuto getta del vetriolo in faccia al figlio della terrorista (nel frattempo “suicidata” nel carcere di Stammhein), per rimarcare l’imbarbarimento culturale, istituzionale e repressivo della Germania dell’epoca. La stampa italiana ha quindi stravolto completamente il significato originario dell’espressione. Ringrazio Giorgio Moroni per queste note.
[2] N. Balestrini, P. Moroni, L’ orda d’oro 1968-1977 La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Sugarco Ed., Milano, 1988
[3] Hardt fa qui riferimento al sottotitolo dei due volumi di Hervé Hamon e Patrick Rotman Génératuin, vol. 1, Les annes de reve, Seuil, Paris, 1987 e Génératin, vol. 2, Le annes de poudre, Seuil, Paris, 1988.
[4] Titolo di un libro di Luca Chiurchiù, Derive Approdi, Bologna, 2017, dove si racconta la storia di A/traverso, una delle riviste più rappresentative del Movimento del ’77, un’esperienza collettiva straordinariamente innovativa.
[5] Julian Assange non ha agito in modo molto diverso ma con mezzi tecnologici più sofisticati.
[6] Le uniche vittime degli attentati dei Weather Underground furono i membri del gruppo stesso: tre furono uccisi in una casa del Greenwich Village a New York nel marzo 1970 mentre stavano preparando degli ordigni.
[7] Un esempio è dato dal panico che alcuni media hanno ravvisato di fronte all’innegabile constatazione del ruolo svolto dalle donne in queste organizzazioni: Bernardine Dohrn nei Weather Underground, Shigenobu Fudsako nel Fronte giapponese, Ulrike Meinhof nella Raf e Margerita Cagol nelle Br. Al riguardo, occorre riconoscere che il rapporto di genere era più paritario in questi gruppi che nella società anche all’interno delle formazioni della sinistra radicale.
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