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marxdialectical

Riflessioni a partire dallo sciopero

di Roberto Fineschi

dmnvknmyfI. Problemi di costruzione di un’identità politica di classe

Nonostante i deliri dello ius sanguinis e il “patriottardismo” del ventennio in nero, la stessa nozione di “popolo italiano” è un costrutto storico in divenire e, nonostante più di centocinquantanni di esistenza istituzionale, tutt’altro che consolidato.

La frantumazione secolare, le differenze socio-economiche, culturali, istituzionali, linguistiche delle varie zone dell’attuale Italia politica hanno reso la creazione di un’entità definibile “popolo italiano” quanto mai complessa, irta di difficoltà e resa ancor più accidentata dalla peculiare composizione della lotta di classe in quel contesto.

La sempre sottolineate estraneità – o addirittura opposizione – delle masse popolari per lo più contadine al processo risorgimentale, il carattere dispotico e disumano del regime liberale prima, del fascismo poi (e il primo in verità meno popolare del secondo) hanno alimentato quello stesso sentimento di non immedesimazione, distacco, ribellione anarcoide contro le istituzioni, qualunque esse siano.

Solo la nascita dei movimenti socialisti prima e comunisti poi da una parte, lo strutturato solidarismo paternalistico cattolico dall’altra hanno contribuito a organizzare il comune sentimento di essere sulla stessa barca di una massa di diseredati mai diventati pienamente cittadini in senso “borghese”.

Il tardo e limitato sviluppo capitalistico, il carattere ultraelitistico delle classi dirigenti italiane hanno limitato il processo progressivo di borghesizzazione della società – la cittadinanza, l’identificazione progressista, e non puramente retorica, di nazione e stato – a una fascia limitata della popolazione, escludendo il “popolo”.

La natura di fondo anarcoide e disorganizzata di questo popolo, la refrattarietà a identificarsi in organizzazioni istituzionali, come si diceva, solo in parte è stata compensata dall’attività politica organizzata dei partiti di massa e ha lasciato fuori da questi processi una larga parte della popolazione che ha continuato a preferire, come aveva fatto per secoli, far buon viso a cattivo gioco, senza capacità trasformativa di largo respiro, mirando al proprio “particulare” date le circostanze esternamente date (Guicciardini teorizza e docet).

In essi matura dunque semmai un sentimento solidale destrutturato di comune umanità diseredata (qui gioca un ruolo anche la comune matrice cattolica dell’essere umano in generale come individuo intimamente, ma non istituzionalmente, personale) contro l’istituzione nemica che può sfociare più in forme di ribellismo e/o più comunemente di dissenso passivo (mancata o finta adesione) piuttosto che in organizzazione e progettualità politica attiva. Questo aspetto è rappresentato emblematicamente per es. in alcuni film di Monicelli (si pensi al finale de La grande guerra).

In casi eclatanti di violenza istituzionale può esplodere fragorosamente per una durata limitata e senza stabile prospettiva trasformativa.

Be’, a questo ci troviamo di fronte per l’ennesima volta anche oggi. La sfida politica, che in parte era stata vinta nei decenni del secondo dopoguerra, è dare un ordine e un’organizzazione a un movimento con tanto stomaco ma con una testa tanto più piccola del corpo. Le recentissime elezioni hanno confermato questa situazione: nessuna coincidenza tra protesta popolare di massa e risposta politica istituzionale.

È ancora una volta la sfida gramsciana dell’organizzazione e dell’egemonia che va affrontata urgentemente. Altrimenti, finita la “buriana”, i cattivi si faranno sentire da par loro.

 

II. Recapitulatio

1) Un paese viola da decenni il diritto internazionale.

2) Recentemente (e già prima non scherzavano) questa violazione ha assunto dimensioni di violenza inaudita, esplicita e inimmaginabile, disumana.

3) Questo paese può fare tutto ciò perché supportato dai padroni del mondo "occidentale" che lo utilizzano come testa di ponte per controllare l'area.

4) Quelli che erano vassalli del padrone occidentale - e che finché c'era la spauracchio dell'URSS dovevano apparire liberi ed eguali e quindi avevano dei margini di manovra - ora sono decaduti alla status di servi da comandare (combattere al posto loro pagando loro le armi) e da spolpare (gas e concessione del controllo finanziario speculativo dell'economia nazionale con l'ingresso dei fondi di investimento, ecc., grande distribuzione via internet, ecc.) e quindi devono semplicemente obbedire. Prima potevano avere una voce dissonante sul Medioriente, ora devono dire signorsì.

5) ll paese genocidario è alleato del nostro, ci fornisce servizi di vario genere, ha addentellati fortissimi nel governo ma anche trasversalmente nel principale partito sedicente di opposizione ("sinistra per I....e").

Gli Stati occidentali non solo stanno dalla parte del paese genocidario, senza di loro esso non potrebbe fare quello che fa, sono *complici*.

6) Per salvare la faccia con la popolazione occidentale progressista incredula si fa il giochino della piccole, tardive, concessioni: riconoscimento ma senza embargo, accompagnamento ma senza intervento, indignazione di alcuni mezzi di informazione (soprattutto in UK e USA) ma senza attaccare con la stessa intensità con cui si accusano i genocidari i propri governanti che ciò rendono possibile. Tutto ovviamente con la massima malafede e solo per sembrare bravi e onesti.

7) Non c'è niente da dimostrare, è inutile prendere sul serio le chiacchiere dei vari lacchè che quotidianamente si arrampicano sugli specchi a dispetto del ridicolo e della perdita della dignità che non hanno mai avuto. È sbagliato rincorrerli nei loro non ragionamenti fatti solo per ingarbugliare il discorso e farlo finire in vicoli ciechi. Bisogna lasciarli perdere ed elencare semplicemente le violazioni continue e ripetute, manifestare e, soprattutto, organizzarsi perché questa indignazione diventi una voce politica.

8 ) Questa voce deve darsi uno statuto organizzativo, far capire al ceto medio nostrano che verrà spazzato via dai padroni a stelle e strisce senza pietà nel giro di breve, e che è nell'interesse nazionale anche dei più refrattari porre la questione degli schieramenti internazionali in cui conviene strategicamente collocarsi.

 

III. Contro la barbarie, sciopero generale!

Tutto nasce ormai più di 100 anni fa come progetto coloniale in cui arabi ed ebrei vengono ingannati con promesse di autonomia statuale ed entrambi strumentalizzati dai “grandi civilizzatori” del governo inglese.

Prosegue come tentativo di egemonia sull’area all’inizio della guerra fredda tra URSS e Inghilterra che muovono pedine sullo scacchiere (valutazione clamorosamente sbagliata di Stalin al tempo).

Già a questo punto l’escalation della violenza ha raggiunto livelli che violano sia il diritto internazionale che quello umanitario.

Subentrando le élite a stelle e strisce e aumentando massicciamente il cotrollo/finanziamento e infine cadendo l’URSS si rompe ogni argine, fino alla mattanza attuale.

La sproporzione tra le forze da mettere in campo per salvare la Palestina e il “guadagno” che può fruttare a un qualunque “decisore” internazionale è grande. La battaglia è ardua. Ma non è una battaglia vana, né solo locale.

Come nella Gerusalemme liberata accade a Rinaldo di fronte allo scudo che riflette la sua immagine corrotta, tutto ciò ha destato le masse dal torpore indotto dai paradisi artificiali in cui vengono tenute drogate, dai sessualismi, edonismi, particularismi, consumismi del nulla. Dalla percezione di una vera e propria crisi di civiltà. L’enormità è tale che non si può non vedere, non si può fare finta di niente, se non altro non si può non temere che tanta violenza fuori da ogni controllo domani possa tornare a sconvolgere l’esistenza “normale” anche da noi.

Se la crescita della coscienza politico-sociale è da tempo arrestata, è anzi in regresso, ciò non ha cancellato, almeno in molti, il sentimento di una comune umanità (che anch’esso non ha niente di naturale ma è un’acquisizione storica).

Questo risveglio va fatto fruttare. La frammentazione politica non si cancella con uno slancio di buone intenzioni. Va creata una piattaforma comune in cui convergere con un paio di obiettivi strategici comuni sui quali focalizzarsi, lasciando da parte le divisioni identitarie (che ovviamente si possono mantenere ma che non devono confliggere con il raggiungimento degli obiettivi minimi comuni).

Il primo obiettivo minimo comune, per chiamare la barbarie con il suo nome, è lo sciopero generale!

 

IV. Ipotesi per il dopo

Senza pretesa di dettare linee a nessuno, solo ragionamenti a voce alta per riflettere.

1) La premessa di cui sono convinto è che, se questo potente, poderoso, incoraggiante movimento non riesce a darsi una qualche organizzazione o delle linee guida di convergenza, c’è il rischio che faccia la fine di tutti gli altri movimenti che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni, ovvero che si disperda e che non si riesca a chiudere la strada alla montante reazione che gli farà seguito.

2) Il movimento è molto ampio e composito, ha molte anime e molte teste, molte identità. Ipotizzare una “unità” non dico organizzativa (direi assolutamente impossibile), ma anche ideale significa secondo me non voler guardare in faccia la realtà. Anzi, rischia di essere controproducente perché impone di trovare delle mediazioni su fortissime questioni identitarie che finirebbero per avere il sopravvento, risultare divise e, soprattutto, confinare la discussione, temo, su un inconcludente terreno ideologico.

3) Per questo motivo credo che non sia questa la strada da intraprendere. Non perché sia impossibile, ma direi che è decisamente prematura e, più che a unità e organizzazione, porterebbe a divisioni.

4) L’idea dunque potrebbe essere non affrontare il tema di un’organizzazione comune, ma di (pochi, chiari, decisivi) *obiettivi comuni*, che lascino da parte le questioni identitarie e che invece valorizzino la convergenza verso temi concreti su cui tutti siamo d’accordo.

5) Ciò potrebbe essere possibile ipotizzando piattaforme terze, anche istituzionali (alleanze, coalizioni, anche una specie di “partito” che abbiano delle *precise regole di funzionamento*) in cui nessuno confluisce, ma in cui si individuano e discutono gli obiettivi comuni per i quali ci si mobilità unitariamente.

6) I punti possibili sono ovviamente molti e ovviamente soggetti alla negoziazione di chi intendesse imbarcarsi in un’operazione del genere. A mio avviso, anche per mantenere il legame con il movimento in atto uno fondamentale dovrebbe essere defalcare le ingenti spese militari programmate (e anche quelle per il ponte) e, in secondo luogo, reindirizzarle verso politiche del lavoro. Abbiamo valenti economisti eterodossi con cui ipotizzare piani di ammodernamento della rete ferroviaria secondaria (pendolari), piani per l’edilizia popolare, riqualificazione del territorio, ecc. Ovviamente scuola e sanità pubbliche, ecc.

7) È qualcosa che non va fatto in astratto o in linea di principio (come le mie chiacchiere), ma concretamente, cifre alla mano su ricaduta occupazionale, effetto volano sull’indotto, ecc. Ci sono delle figure che possono farlo.

E, come scrisse Marx alla fine della Critica del programma di Gotha riecheggiando il vecchio Ezechiele 3,19, “dixi et salvavi animam meam”, che, detto da uno che non crede nell’immortalità dell’anima, vuole suonare scherzoso.

 

V. Sognare, ma con gli occhi ben aperti

Il successo dello sciopero e quello della manifestazione di ieri hanno una portata enorme, è un grande segnale di risveglio e di potenziale ripresa. A partire da questo slancio bisogna pensare al dopo da subito nella maniera più razionale possibile, con grandi aspettative ma anche senza cedere alla tentazione dei facili entusiasmi.

Il movimento è infatti estremamente composito e se qualcuno si immagina di fare jackpot a mio avviso si sbaglia di grosso. Soprattutto quando si passerà a proposte concrete di azione che vadano oltre l’indignazione temo fortemente che ci sarà una vera e propria polverizzazione. È questo ciò cui bisognerà essere pronti con un nocciolo duro e con un programma concreto che possa essere appetibile a molti.

Il programma minimo che proponevo in altro post ovviamente non include probabilmente alcuna delle forze attualmente in parlamento (forse con qualche eccezione, ma certo non nei partiti di maggioranza relativa). Il PD in politica estera ed economica non è diverso dalla Meloni, quindi abbandonare la spesa militare per quella sociale non rientra certo nei suoi piani. Soprattutto perché è altrettanto filo atlantista e quindi la prospettiva è opposta. Di conseguenza è anche difficile capire che cosa farà la CGIL nella sua complessa dialettica col PD.

Dunque, non stavo parlando di questo che non rientra nel novero del possibile. Pensavo alla galassia di partiti e correnti che accetterebbero in principio delle politiche anti-guerra e pro politiche sociali che attualmente raccolgono il 2% o anche meno.

Una fetta piccola ma che può rivolgersi a una larghissima maggioranza di non rappresentati (ricordiamoci che nelle Marche ha votato appena il 50%) che forse nella alternativa tra investire in bombe o in sviluppo economico-sociale opterebbe per la seconda.

Altrettanto realisticamente bisogna prendere atto che un’intesa sui “principi ideologici e fondativi” tra queste piccole realtà è adesso semplicemente impossibile e che questo è un elemento solamente divisivo. Si può invece convergere su punti programmatici comuni.

A mio modo di vedere di lì si deve partire. E sui punti programmatici (sviluppo e non guerra), non sulle indigeste ideologie, può convergere anche chi del comunismo non vuole sentir parlare neanche in cartolina.

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