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Accade in Italia
Il decisionismo autoritario di un presidente–sovrano
Scritto da Gianfranco Greco
(Mark Twain)
Trovarsi nei panni degli elettori PD deve durare una certa fatica laddove si pensi che una sapiente e risoluta operazione di restaurazione li ha fatti precipitare dalle mitiche “primarie” - condite dai precisi impegni, presi dai maggiorenti del partito, di non fare accordi con Berlusconi - ad una situazione per tanti versi surreale in cui, alla fine, i loro voti vanno a fare mucchio con quelli degli elettori PDL per dar vita - tanto per rinverdire i fasti tipici del trasformismo italiano – ad un governo delle larghe intese, voluto e realizzato da chi, da sempre, ha svolto un indefesso lavorìo a favore di questa soluzione.
Dolersi, indignarsi per la piega presa dai recenti accadimenti rientra nel più classico dei dejà vu, tuttavia nello stigmatizzare talune prese di posizione, certi giri di valzer, specificatamente a livello parlamentare, non ci si dovrebbe mai dimenticare che gli stessi sono legittimati e quindi consentiti da quella che viene, con spreco di enfasi, definita “la più bella Costituzione del mondo” che, all’art. 67, recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato” significando in tal modo che il singolo parlamentare non ha vincolo né verso il proprio partito, né verso il suo programma elettorale, né, tantomeno, verso gli elettori che lo hanno votato, ai quali viene riconosciuta la sola libertà di non eleggerlo alla successiva tornata elettorale.
Ciò avrebbe garantito, secondo i “padri fondatori”, la libertà di espressione più assoluta ai membri del Parlamento.
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Le origini culturali della crisi*
Alessandro Roncaglia
Negli ultimi mesi abbiamo sentito ripetere infinite volte che gli economisti non hanno previsto la crisi finanziaria ed economica che ci ha travolto. Perfino la regina d’Inghilterra se ne è lamentata. Di fronte a queste critiche, la nostra professione deve porsi con urgenza almeno tre domande. Primo, a nostra parziale discolpa: cosa significa, nel nostro caso, prevedere un evento? Secondo, a parziale critica della superficialità dei mezzi di informazione: è vero che gli economisti non hanno previsto la crisi? Terzo, e più importante: se, come vedremo, alcuni l’hanno prevista e altri no, da cosa è dipesa la relativa preveggenza degli uni e la relativa cecità degli altri?
La terza domanda ci porterà a una questione fondamentale, che merita certo una trattazione più approfondita di quella possibile in un breve intervento come il mio: la responsabilità di un orientamento culturale tuttora prevalente tra gli economisti – che può essere indicato, sempre in modo necessariamente vago, mainstream, o Washington consensus, o fondamentalismo liberista – nel favorire il formarsi della situazione di cui la crisi sarebbe divenuta uno sbocco inevitabile.
Innanzitutto, prevedere una crisi non significa indicare in anticipo il giorno in cui scoppierà, o le precise caratteristiche con cui si svilupperà. Come i sismologi sono in grado di indicare le zone in cui i terremoti sono più probabili (tanto che delle loro analisi si tiene conto nel determinare norme più o meno rigide sul modo in cui costruire gli edifici), così gli economisti sono, o dovrebbero essere, in grado di indicare le condizioni in cui le crisi divengono probabili, se non inevitabili.
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Club Bilderberg e classe capitalistica transnazionale
di Alexander Höbel
Sul Gruppo Bilderberg e organismi affini è fiorita in questi anni una letteratura di taglio “complottistico” che, per quanto attraente per molti lettori, di fatto non favorisce una reale comprensione del fenomeno. In una direzione diversa va invece il libro di Domenico Moro (Club Bilderberg. Gli uomini che comandano il mondo, Aliberti 2013), che colloca la questione in un quadro più ampio, quello dell’attuale fase della storia del capitalismo e delle dinamiche della lotta di classe; Moro insomma affronta il problema da un punto di vista marxista.
Se il titolo e il cuore del libro riguardano il Club Bilderberg (cui si aggiunge la più giovane Trilateral), sullo sfondo ci sono questioni più complessive, il ruolo delle élite (e del “ritorno delle élite” parla anche l’ultimo libro di Rita di Leo), i caratteri dell’attuale oligarchia capitalistica trans-nazionale, le forze di classe in campo e gli scontri in atto sul piano globale, la questione della democrazia e della sua crisi.
Se partiamo da quest’ultimo punto, non possiamo che partire dalla straordinaria avanzata della “democrazia organizzata”, della partecipazione popolare e dei partiti di massa, che riguardò molti paesi e l’Italia in modo particolare negli anni Sessanta e Settanta.
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Espressionismo: rivolta o utopia
di Luciano Parinetto
Gottfried Benn (uno, allora, dei suoi rappresentanti) ebbe a definire l’espressionismo: «un’eversione con eruzioni, estasi, odio, sete d’un’umanità nuova, con un linguaggio che va in pezzi per far volare in pezzi il mondo» (in prefazione a un’antologia di poeti espressionisti, Limes Verlag, Wiesbaden 1955). Effettivamente, secondo la cronologia proposta da Mittner, dal 1907 al 1926 circa (con preludi e postludi), questo movimento, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, rappresenta (assieme, in parte, al futurismo, surrealismo, imagismo di altri paesi) una sovversione non solo estetica, ma morale, anzi, totale, che segna la impietosa svolta critica degli inizi dei secolo.
Ed è la rivolta generazionale in una società che da agricola si avvia a diventare industriale; passando ad un capitalismo che toglie/conserva in sé antiche forme patriarcal feudali e, favorendo l’inurbamento nelle metropoli e il lavoro nelle fabbriche, provoca radicali mutamenti nelle coscienze, nei comportamenti, nei costumi sessuali e, senza volerlo, l’acquisizione anche della coscienza di classe fra le masse proletarizzate. Gli espressionisti sono appunto i diretti testimoni della lacerazione dell’uomo tedesco fra prassi (ormai capitalistica) e coscienza (ancora nel guscio ideologico industriale, o già proiettata nella contestazione del macchinismo alienazione industriale).
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Sul progetto del capitalismo contemporaneo
Un aggiornamento
di Marco Bertarello e Danilo Corradi
La crisi da strutturale si va trasformando in sistemica nella misura in cui l’economia di mercato, nel suo produrre disfunzioni e inefficacia, dà vita a un crescente mancato consenso sociale. L’incapacità di quest’ultimo di riversarsi su un progetto alternativo consente all’attuale sistema di permanere ancora saldamente in sella. Ma allo stesso tempo è sempre più evidente il distacco in ordine sparso e atomizzato, e qui sta il limite che sviluppa impotenza, di importanti segmenti della società. Il problema sarà come passare dal mancato consenso al dissenso, dalla critica alla proposta. Quello che intanto appare come un dato ineliminabile è l’incapacità concreta di uscire dalla crisi da parte delle attuali classi dirigenti. Restando quindi su questo punto, sono necessarie alcune considerazioni per comprendere come sia in corso una sorta di fine dell’Impero a cui è sempre più urgente contrapporre un’alternativa, pena il rischio che forze centrifughe e di destra prendano il sopravvento. Se ci convinciamo seriamente della parabola da fine dell’Impero allora saremo costretti a prendere più seriamente anche la necessità di un’alternativa radicale, capace di uscire dagli schemi politici, economici e sociali che il Novecento ancora riversa sul nuovo secolo.
Lo scorso anno di questi tempi ragionavamo [Quale progetto persegue il capitalismo contemporaneo?, 4/07/2013] su quale fosse il disegno secondo il quale si poteva uscire dalla crisi attraverso politiche economiche di rigore che in definitiva apparivano recessive.
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La politica si illude, in attesa dell'incendio
di Alberto Burgio
Le illusioni e le latenti possibilità di uscire da una crisi della sinistra, iniziata vent'anni fa con l'accettazione del Caimano da parte del PD
Quanto a lungo reggerà il nuovo governo non lo sa nessuno, ma di certo siamo comodamente seduti su una polveriera Il congelamento della crisi del Pd, non ancora matura, ha effetti che coinvolgono l'intero spazio alla sua sinistra La sensazione è che ogni giorno, inesorabilmente, l'ingranaggio si muova verso l'impatto fatale. Qualsiasi cosa accada, qualunque cosa facciano o dicano gli attori principali. Come nel più classico dei thriller o alla vigilia della prima guerra mondiale, quando i capi di Stato di tutta Europa contribuirono all'incendio convinti di impedirlo. Si vive come sospesi, in trepidante attesa. Consapevoli dell'instabilità e dell'incertezza generale, forse anche dell'incapacità di governare il momento.
Perché ci si ritrovi in queste condizioni l'abbiamo detto tante volte, ma di mese in mese il quadro si chiarisce sempre più. Senza andare troppo in là, basta tornare indietro di un paio d'anni.Già la grande crisi imperversava. La destra governava, secondo i suoi criteri, per conto del grande capitale privato. A suon di regalie e scudi fiscali, giri di tangenti e privatizzazioni più o meno legali. Ma - tenendo al consenso - il governo non riduceva la spesa pubblica e soprattutto esitava a inferire al lavoro la mazzata finale. I mercati quindi scalpitavano. La Germania ringraziava ma temeva di dovere, presto o tardi, intervenire a proprie spese. I giornali evocavano ad arte lo spettro della bancarotta. Finché, alla fine del 2011, qualcosa accadde. Qualcosa che avrebbe potuto sconvolgere il quadro e aprire una fase nuova.
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Confindustria chiede una banca pubblica
di Pasquale Cicalese
Il 20 maggio scopri che in Italia ci sono i sovietici; di ritorno dalla sede della Regione Calabria dove rendiconti spese comunitarie, accendi il pc, Vlad Ilic, come al solito, ti ha mandato la rassegna stampa finanziaria, non c'è granché, lasci perdere, vediamo cosa dice Confindustria. Molti documenti non li puoi leggere, sono riservati alle sedi territoriali, che ovviamente manco calcolano, non hai rapporti con la sede di Crotone, non ne vuoi avere, hai il ricordo dei miliardi truffati degli incentivi a fondo perduto donati a partire dal 1992, mille miliardi di lire in dieci anni solo a Crotone mangiati da commercialisti, professionisti e da quel che il proletariato crotonese ha definito "i prenditori". Chissà perché da queste parti sbattono in galera manovalanza della 'ndrangheta e gente che per campare vende e coltiva marjuana, mentre per gli altri vige l'impunità più assoluta. Ah, la maria! Se la legalizzassero...i terreni da queste parti li fittano a poche lire, sono abbandonati, i paesani sono emigrati in Germania, se fosse legalizzata in culo al lavoro salariato, alla disoccupazione, alla miseria e all'emigrazione.
Vuoi mettere la sensimiglia di Amsterdam con la "rossa" calabrese? Per non parlare di quella albanese, robaccia da schifo totale venduta a tonnellate negli anni novanta al nord a gente che si bruciava il cervello. Noi terroni calabresi abbiamo il "Brunello di Montalcino" della canapa indiana, ma se la coltiviamo ci schiaffano 8 anni di galera, l'alternativa è fornire braccia ai sanfedisti brianzoli, veronesi o bolognesi. Pensi a questo dopo aver letto domenica 19 maggio un autentico manifesto antiproibizionista del principe degli economisti di Confindustria, Fabrizio Galimberti.
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Falsificazioni del marxismo
Olympe de Gouges
L’intervista sul potere di Luciano Canfora è certamente un libro di grande interesse, "denso", come amano dire quelli che apprezzano la commistione continua di argomenti e tesi tra i più disparati e non di rado tra loro contraddittori. Un libro che è un monumento di erudizione per le insistenti citazioni e rinvii bibliografici. Insomma, un’opera che piace a un certo pubblico e che può poi essere usata come un bancomat dal quale prelevare un po’ di quella stessa moneta da spendere sul mercato delle idee correnti e in saldo.
Non si parla quasi che di élite, generali, statisti, dittatori e cialtroni del genere. Dall’antichità a ieri l’altro mattina. Le cause del mutamento sociale e di rivolgimento statuale per Canfora vanno ricercate nel gioco politico tra le diverse élite da un lato e nella disputa per l’egemonia tra potenze dall’altro. Le quali cose, soprattutto la seconda, indubbiamente rivestono la loro importanza; e tuttavia se tali aspetti sono declinati lasciando in ombra un fattore essenziale e decisivo della dinamica storica, quale il ruolo dei mutamenti del modo di produzione e di scambio, matrice dei rapporti di dominio e di servitù, di conquista ed espansione, si finisce nell’histoire événementielle, pur se nella versione prestigiosa dei tipi Laterza.
Può essere un esempio il modo in cui il filologo barese delinea le cause dell’affermazione del cristianesimo, francamente con argomentazioni datate e assai banali sulle quali forse ritornerò in una prossima occasione.
Ed è appunto trascurando l’aspetto decisivo dei rapporti sociali basati sulla produzione e lo scambio, dunque gli antagonismi reali tra le classi, che Canfora può stabilire che nazismo e fascismo rappresentino una “terza via tra capitalismo e socialismo”.
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Lafontaine e la trappola dell’euro
di Enrico Grazzini
L'Europa vive una c
risi drammatica sia sul piano economico che politico e va incontro a una frattura storica: l'euro però non fa parte della soluzione ma del problema. L'euro sta spaccando l'Europa e occorre trovare rapidamente una soluzione alla crisi dell'euro per tentare di ricostruire la cooperazione europea. La critica radicale proviene niente di meno che da Oskar Lafontaine, il dirigente socialista tedesco che, come ministro delle finanze e presidente della SPD, negli anni '90 ha dato un contributo sostanziale alla nascita dell'euro, e che però nel 2005, in rotta con la SPD, ha lasciato il partito socialista di Gerhard Schröder per fondare la Linke, la formazione politica della sinistra alternativa. Nel suo blog Lafontaine ha scritto recentemente che è necessario abbandonare l'euro, tornare in maniera ordinata alle monete nazionali e realizzare un sistema flessibile e concordato di cambi in Europa [1]. Lafontaine vorrebbe che i paesi più deboli possano svalutare per riguadagnare competitività di fronte alla potenza dominante tedesca, e tornare a crescere. Una soluzione semplice ma originale, finora non prevista né dalla Linke né da Syriza, il partito della sinistra radicale greca.
Ma la soluzione proposta da Lafontaine è valida e praticabile? Per tentare di rispondere occorre partire da una constatazione. L'euro si è rivelato il fattore più problematico e negativo per l'Europa unita.
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I confini mobili della collettività
di Marco Bascetta
Un pamphlet di Ermanno Vitale per Laterza contro la retorica dei beni comuni e le pulsioni «comunitariste» premoderne. Il problema è giuridico e politico, come l'inclusione del sapere minacciato dalle recinzioni e dal controllo delle multinazionali
Il titolo è di quelli che dovrebbero farti sobbalzare sulla sedia: Contro i beni comuni (Ermanno Vitale, Laterza, pp.126, 12). Un effettaccio editoriale da manuale. Il sottotitolo subito ci rassicura «Una critica illuminista». Tiriamo un profondo sospiro di sollievo: non stiamo dalle parti di un arcigno conservatorismo gerarchico. Ci è promessa chiarezza e onestà intellettuale. Alla terza pagina della prefazione ci mettiamo definitivamente a nostro agio: «penso insomma più ai giovani vicini ai centri sociali e alle forme serie di volontariato che non a quelli che inseguono il mito dell'imprenditore di se stesso o prendono una tessera di questo o quel partito».
Insomma siamo tra amici. E anche il bersaglio di questo pamphlet, vale a dire la stucchevole retorica dei beni comuni e le pulsioni comunitariste, nostalgiche e premoderne che la attraversano merita, in buona parte, di essere condiviso. Che visioni olistiche, organicistiche e perfino mistiche innervino spesso le argomentazioni sulla centralità dei beni comuni è cosa indubbia. Come è indubbio che il libro di Ugo Mattei, Beni comuni. Un manifesto (edito dallo stesso editore e nella stessa collana) vi indulga, (sia pure vincolato alla concisione enfatica propria della forma-manifesto), in svariati passaggi, lasciando trapelare l'idea che esista o possa esistere, nella modernità o nella postmodernità («riflessiva» alla Beck) una società incardinata sui beni comuni e la relativa dottrina.
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Una critica fraterna sull’assemblea di Bologna
di Rino Malinconico
Ho trovato singolare che il dibattito di sabato scorso a Bologna abbia di fatto ignorato le straordinarie potenzialità dei due aggettivi presenti nel titolo dell’appello, e cioè “anticapitalista” e “libertario”. Peraltro molti interventi non solo hanno evitato di cimentarsi coi due termini, ma hanno proceduto speditamente in una direzione che a me è parsa francamente opposta. Porre, infatti, l’accento sull’anticapitalismo, quando quasi tutti partono dalla speculazione, dalla finanza, dalla corruzione e quant’altro, significa impegnarsi su un terreno preciso, che è analitico e programmatico allo stesso tempo. Significa provare a sostenere, con argomentazioni possibilmente documentate, motivate e credibili, che l’origine dei mali del nostro tempo non risieda affatto nella “degenerazione” del capitalismo, ma proprio nel suo sistema normale di funzionamento.
Dal mio punto di vista, far valere una tale affermazione è assolutamente necessario. E però, questa scelta ha poi delle conseguenze stringenti, tanto sul piano della cultura politica quanto sul piano delle modalità dell’azione pratica.
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Un nuovo pensiero di sinistra parte dall’uguaglianza come valore
di Alfonso Gianni
Marc Lazar è tornato recentemente a riflettere sulle sorti della sinistra italiana dopo il non esito elettorale dello scorso febbraio. “Questa drammatica situazione costituisce certo una specificità italiana, ma al tempo stesso rispecchia le turbolenze che scuotono tutta la sinistra europea” ha scritto lo studioso francese. La sua lettura si distingue quindi da quelle che vedono prevalentemente nelle scelte successive al voto un sorta di tradimento da parte delle forze politiche di destra e di sinistra della volontà degli elettori del nostro paese che sarebbe stata perpetrata attraverso la costruzione di una Grosse Koalition in salsa italica o, se si preferisce, dato il carattere non necessitato della medesima, di un oversize government. In effetti una lettura in chiave europea dello scenario italiano aiuta meglio a comprendere la nostra situazione e le cause che l’hanno determinata.
“In Francia, François Hollande ha battuto molti record di impopolarità – ha osservato Lazar –; la sua maggioranza si sta lacerando e le critiche dei settori più a sinistra si fanno più incalzanti. In Gran Bretagna il Labour è sempre in quarantena; in Germania almeno per ora la Spd non sembra in grado di colmare il suo distacco da Angela Merkel”. Né sembra volerlo effettivamente fare, si potrebbe aggiungere, visto le caratteristiche assai moderate del candidato scelto per contrapporlo alla cancelliera di ferro e il fatto che il nuovo segretario della Spd, Gabriel, propone di cambiare volto e nome alla stessa Internazionale socialista in un’ indistinta Alleanza dei progressisti.
Si domanda quindi Lazar: “la sinistra è condannata a scomparire?”. Laddove ha vinto in termini elettorali ha ottenuto successi ambigui, poi subito contraddetti da politiche che in poco o in nulla si discostavano dalla regola aurea dell’austerità europea.
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Eurozona, quelli che “la benzina aumenterà settanta volte sette…”
di Alberto Bagnai
Tira una brutta aria nelle roccaforti del Pude (Partito Unico Dell’Euro), aria di imminente smobilitazione. Le crepe nel muro di gomma sono sempre più evidenti, il dibattito è aperto perfino nel paese che, per i più ingenui, avrebbe meno interesse ad aprirlo (la Germania), l’opposizione all’Eurss si fa, da scientifica, politica, e in paesi più democratici del nostro fa incetta di voti. Questa, peraltro, è un’altra fonte di preoccupazione, visto che lo spazio politico della verità tecnica (l’euro è insostenibile) è stato improvvidamente lasciato alle destre più becere da chi ha ucciso il dibattito a sinistra (in Italia il Pd).
Ma è proprio quando la fine si avvicina, che si manda in prima linea la carne da cannone. Le unità di élite (si fa per dire) meglio risparmiarle: chi scaltramente e per tempo ha dimostrato di avere un po’ di cervello, tornerà poi utile per negoziare al tavolo della pace, forte di un opportunistico “io l’avevo detto”.
Illuminante in questo senso la puntata di “La vita in diretta” del 2 maggio scorso, condotta da un ottimo Marco Liorni. Una puntata che ha raggiunto vette di umorismo involontario grazie alle uscite di due estremi difensori dell’euro.
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La “rottura” della cittadinanza
di Sandro Mezzadra
Étienne Balibar ha perfettamente ragione: dobbiamo “porre da subito il problema di una rifondazione dell’Unione, in vista della costruzione di un’altra Europa”. Dovremmo essergli grati per aver messo in corsivo sia “da subito” sia “rifondazione”. Si deve agire ora, e quest’azione non può dare per scontata né l’esistenza delle forze politiche da mobilitare, né le coalizioni sociali capaci di sostenere una simile mobilitazione, né le energie intellettuali da attivare, né i canali e le strutture istituzionali da assumere come riferimento.
Serve, su ciascuno di questi livelli, una campagna costituente, che sappia trasformare forze e istituzioni esistenti, crearne di nuove, incanalare lotte e “indignazione” sociali verso l’obiettivo di “costruire un’altra Europa”, producendo al tempo stesso nuovi linguaggi politici e immaginari culturali. Una campagna costituente, dicevo: non una campagna per un’“assemblea costituente”, per la quale mancano attualmente tutte le condizioni. Penso a un progetto di durata decennale, in grado di reinventare radicalmente lo spazio europeo, la sua posizione in un mondo tumultuosamente in trasformazione, le sue istituzioni e la sua cittadinanza sulla base di una nuova coniugazione di libertà e uguaglianza. E’ necessario aggiungere che una simile reinvenzione non può che essere allo stesso tempo una reinvenzione della sinistra in Europa? Se la sinistra ha un futuro in questa parte del mondo, sono convinto che questo futuro non possa che essere costruito su scala continentale.
Dovremmo essere consapevoli della dimensione globale delle sfide di fronte a cui ci troviamo oggi in Europa.
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Berlino, Roma e i dolori del giovane euro*
di Marcello De Cecco e Fabrizio Maronta
I guai dell’Eurozona originano da una grave anomalia: l’essere imperniata su un paese esportatore, che drena valuta invece di crearla. Il ritorno della Mitteleuropa. Il bluff delle ‘triple A’. Se la moneta comune salta, un’Italia senza timoniere rischia la deriva
1. La zona euro detiene un invidiabile primato storico: è l’unica area monetaria imperniata su un paese creditore, la Germania. Si tratta di una condizione assolutamente anomala: mai, prima d’ora, si era data una moneta a circolazione plurinazionale costruita attorno a un paese strutturalmente esportatore, perché la funzione del fulcro di un sistema monetario è creare liquidità, non drenarla. Tale funzione viene normalmente assolta mediante il commercio: importando beni e servizi altrui e stampando moneta per pagare le importazioni, il paese economicamente egemone alimenta la massa monetaria della sua zona d’influenza, fornendo così il carburante degli scambi e degli investimenti. Ciò presuppone, però, un deficit commerciale quasi permanente e una certa tolleranza, da parte del paese in questione, per l’inflazione e le oscillazioni del tasso di cambio.
Questa è stata la condotta dell’Inghilterra, specialmente tra la prima e la seconda guerra mondiale, quando Londra reinvestiva sistematicamente i proventi delle colonie alimentando il commercio mondiale e tamponando i guasti provocati dall’aggressivo mercantilismo statunitense, in una fase in cui Washington era impegnata ad affermarsi sui mercati internazionali. Questa è stata la posizione degli Stati Uniti a partire dal secondo dopoguerra, una volta rilevato il testimone dal Regno Unito: prima con il Piano Marshall, che schiuse l’enorme mercato nordamericano all’esangue industria europea; poi, dopo l’abbandono unilaterale del sistema di parità aurea – reso insostenibile proprio dalla crescita degli scambi transatlantici – con la creazione di moneta.
Non è questo il caso della Germania: paese che ad oggi mantiene una percentuale di esportazioni sul pil (50%) superiore persino a quella della Cina, ma che in virtù della sua statura economica si è sempre trovato al centro delle dinamiche europee d’integrazione commerciale (prima) e monetaria (poi).
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Benvenuti alle Termopili
Wu Ming
E così il 26 maggio la cittadinanza bolognese andrà a votare. Referendum consultivo sui finanziamenti comunali alle scuole d’infanzia paritarie private. Alla cittadinanza viene chiesto di esprimere un parere su quale sia la forma “più idonea” di utilizzo dei finanziamenti comunali per garantire “il diritto costituzionale all’istruzione dei bambini e delle bambine”: dare oltre un milione di euro alle scuole pubbliche comunali e statali (A) o continuare a darlo alle scuole paritarie private (B). Un piccolo caso locale che ha attirato l’attenzione da tutta Italia per il forte valore simbolico (qui la prima e la seconda puntata) e che, comunque andrà a finire, ha già messo in evidenza un dato innegabile: un comitato di poche decine di volontari è riuscito a far tremare i colossi dai piedi d’argilla che saturano lo spazio politico italiano, ritrovandoseli tutti contro, dal Pd alla Cei.
Con il passare delle settimane, il clima in città è andato surriscaldandosi a causa dei toni assunti dall’amministrazione comunale e dal sindaco Merola, a ogni uscita pubblica sempre più nervoso e offensivo nei confronti dei referendari. Il refrain dura da mesi, ma ultimamente è diventato un disco rotto: ideologici, strumentalizzati, estremisti, nemici della scuola, nemici dei bambini, discriminatori, e chi più ne ha più ne metta.
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Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso
di Diego Fusaro
In questi giorni si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’antiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo.
Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo.
Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno.
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La speranza di Maurice
Violenza e marxismo nell’esperienza filosofica di Merleau-Ponty
di Stefano Scrima
dei mali futuri; ma i mali presenti trionfano in lei.
La Rochefoucauld
12 dicembre 1946, casa Boris Vian. Maurice Merleau-Ponty ha da poco consegnato a Les Temps Modernes1 il saggio intitolato Le yogi et le prolétaire – in sintesi: un rinnovo della fiducia nel marxismo, unica filosofia in grado di competere col reale – confluito successivamente in Humanisme et terreur (1947); lo scritto richiama volontariamente il romanzo di Koestler The yogi and the commissar, giacché ne è la risposta, o meglio, la critica.
Quella sera Albert Camus, incredulo lettore del fresco saggio merleaupontiano, rovesciò tutto il suo sgomento sull’amico Maurice: ai suoi occhi, da quelle macchie d’inchiostro emerge, pericolosa, la giustificazione dei processi di Mosca degli anni Trenta2, e dunque della violenza del regime comunista russo in nome della rivoluzione. Di qui la rottura fra i due.
Il problema che li divide è pertanto incentrato sull’uso della violenza in politica: è questa necessaria? E se fosse l’unico modo per raggiungere l’agognato stadio finale della Storia – il comunismo vero e proprio –, ottenuto il quale, la violenza stessa potrà assurgere a vago ricordo, a preistoria? Ma per chi non crede al comunismo? Per chi, come Camus, ritiene completamente infondata la “profezia marxista”? Per quest’ultimo tra uomo e mondo vigerebbe una misura, un equilibrio vitale che dev’essere salvaguardato affinché non produca, una volta distorto e manipolato dall’uomo, effetti catastrofici; ma il comunismo, come ogni altro fittizio mondo ideologico3 (fascismi compresi), è araldo di dismisura: distrugge, dimenticandolo, quest’equilibrio originario.
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E’ guerra a internet!
Ma venderemo cara la pelle
Arturo Di Corinto
Quattro Anonymous arrestati, il pressing dell’Agcom per regolamentare in senso poliziesco il diritto d’autore, l’insistenza del presidente Boldrini sul tema della violenza nel web, la necessità di leggi speciali per Internet secondo Pietro Grasso, la riproposizione dell’obbligo di rettifica per i blog dentro la legge bavaglio, le 22 denunce per i commenti anti-napolitano del blog di Grillo…. e si potrebbe continuare. Sta succedendo qualcosa.
In una fase della vita del paese dove le larghe intese rendono difficile l’esercizio della critica ma anche trovare appoggio e consenso nei partiti tradizionalmente schierati per la libertà d’informazione, tutti questi indizi messi insieme possono prefigurare l’inizio di una guerra a Internet? Una normalizzazione del web in senso restrittivo? O solo un modo per sviare l’attenzione da altri problemi? Siamo noi ammalati di cospirazionismo? Forse.
Però l’insistenza dei detective della postale nel rimarcare che chi agiva per conto e come Anonymous lo faceva per interesse materiale e non ideologico non convince. Di sicuro è una perfetta psyop (psychological operation) per anticipare le critiche e minimizzare le reazioni di solidarietà verso gli arrestati, allo stesso tempo infangando la presunta purezza di Anonymous.
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Luca Basso, “Agire in comune
Antropologia e politica nell’ultimo Marx”
di Oscar Oddi
Il rinnovato interesse verso l’opera di Marx ha suscitato anche in Italia una nuova produzione di studi critici sul complesso itinerario del pensatore di Treviri, sorta prevalentemente in ambito accademico vista la riduzione ai minimi termini, non solo numerici, delle espressioni politiche e sociali che dovrebbero averlo come riferimento. All’interno di questo filone si colloca l’ultima fatica di Luca Basso “Agire in comune. Antropologia e politica nell’ultimo Marx”, Ombre Corte, Verona, 2012, pp. 247, € 20,00.
Con l’ausilio dei vari manoscritti che la nuova edizione critica delle opere di Marx e Engels (nota come Mega2) sta progressivamente mettendo a disposizione degli studiosi, Basso ripercorre alcuni snodi fondamentali del percorso marxiano tentando di proporne una lettura lontana dai tradizionali canoni. L’obiettivo prefisso è quello di tenere insieme l’oggettività dell’analisi del capitale e la politicità della soggettività di classe, rintracciando la loro relazione anche attraverso le instabilità che la caratterizzano. Per questo Basso intreccia la riflessione del Capitale con gli scritti storici e politici di Marx, così come respinge una lettura “logicista” del Capitale (si veda la scuola “logicista” tedesca, con Backhaus tra i principali esponenti, di cui è uscito in traduzione italiana, a cura di Riccardo Bellofiore e Tommaso Redolfi Riva, “Dialettica della forma di valore”, Editori Riuniti, Roma, 2009, pp. 549), che insiste sul fatto che la riflessione marxiana non scaturisce da dati ricavabili empiricamente. Il rischio di queste interpretazioni, pur con i loro meriti (ad esempio la messa in luce del legame tra valore e denaro), è per Basso quella di fornire una visione “teoreticistica” del Capitale, con relativo depotenziamento della sua politicità.
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Il ritorno della "Balena bianca" e la crisi del capitalismo
G. Della Casa e S. Mucci intervistano Luciano Vasapollo*
Governo Letta:"Il ritorno della balena bianca"
Il governo Letta si è definitivamente insediato. Rispetto al governo Monti, di cui lei parla nel libro “Il risveglio dei maiali - PIIGS” e nel libro “Se cento giorni di Monti vi sembrano pochi”, c’è continuità o discontinuità?
“Non c’è assolutamente alcuna discontinuità, è la politica che sta imponendo la Banca Centrale Europea. Questo si può notare anche dalle politiche socio-economiche e dalle scelte operative conseguenti applicate nei mesi appena trascorsi. Di solito, quando un paese è instabile dal punto di vista della governabilità, la speculazione finanziaria lo attacca; ciò è avvenuto con la Spagna, con la Grecia, con l’Irlanda e il Portogallo. Durante questi due mesi di assenza completa dei governi in Italia, non c’è stato alcun attacco speculativo perché si è determinata una stabilità compatibile voluta e studiata a tavolino: ha continuato a governare l’esecutivo di Monti che ha applicato le politiche finanziarie, monetarie ed economiche di carattere neoliberiste volute dalla Banca Centrale Europea, dalla Troika quindi anche dal Fondo Monetario Internazionale e ovviamente dalla Commissione Europea. Parallelamente a questo si stava delineando il quadro necessario di maggiore stabilità in funzione di tale politica di austerità, che poi significa massacro sociale con un attacco senza precedenti al salario diretto, indiretto e differito.
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Crisi della democrazia e organizzazione dei comunisti*
di Alexander Höbel
1. Movimento operaio, comunisti, democrazia
Perché affrontare insieme i temi della crisi della democrazia e dell’organizzazione dei comunisti? La risposta è in qualche modo scontata. La vicenda storica del movimento operaio, socialista e comunista, è stata strettamente intrecciata allo sviluppo della democrazia, dalle rivoluzioni democratiche del 1848 alla sperimentazione di un modello democratico inedito con la Comune di Parigi, dalle lotte per l’allargamento del diritto di voto e per il suffragio universale all’affermarsi dei partiti di massa socialdemocratici e socialisti tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, dal peso crescente che essi acquisirono – si pensi al Psi in Italia in seguito all’introduzione del sistema proporzionale – al modello “democratico-sociale” affermatosi in vari paesi nel secondo dopoguerra; e anche qui con una importanza non secondaria del “caso italiano”, segnato in modo rilevante dalla presenza del Pci, ossia del partito comunista più forte del mondo occidentale, un partito di massa che aveva fatto la sua bandiera proprio del progetto di via democratica al socialismo e che era riuscito a collocare l’idea di democrazia progressiva nella stessa Carta costituzionale1 .
A partire dal 1789, l’Europa vede dunque un progresso economico e politico e un costante avanzamento della democrazia (certo, con momenti di arresto e di regresso anche gravi), nel quale il movimento operaio nuota come nel mare che gli è più congeniale.
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I nani d’Europa e la società dimenticata
di Sergio Bruno
Politici europei e tecnocrati, imponendo l’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa. Come è possibile che la cultura di governo sia divenuta tanto povera e ottusa?
La sera del 6 maggio scorso, Antonio Padellaro, parlando di Andreotti e della sua epoca su “la7”, diceva che se i politici di adesso sono normali quelli di allora erano dei giganti o che, se erano normali quelli... Personalmente riserverei il termine di gigante a personaggi quali Churchill e Roosevelt, quelli che avevano voluto Bretton Woods ancor prima che la guerra terminasse nella convinzione che i conflitti commerciali erano la premessa di quelli armati, e ai padri fondatori dell’Europa, animati da convinzioni simili. Forse la classe politica successiva, quella che ha gestito il periodo del benessere, era un tantino meno gigante, ma sempre fatta di figure che avevano una discreta cultura e comunque il senso dello stato. Evidentemente la statura è andata diminuendo con il tempo, ma era difficile prevedere che si potesse cadere così in basso.
Per additare i perversi protagonisti della finanza negli anni ’50 Harold Wilson parlò dei banchieri svizzeri come gli “gnomi di Zurigo”. Oggi, per dipingere politici europei e tecnocrati che, imponendo la pratica dell’austerità di bilancio, stanno riducendo in ginocchio l’Europa, mi sembra il caso di parlare dei “nuovi nani” della scena politica europea. La loro infima statura culturale, associata a pervicace arroganza, è infatti al di là di ogni possibilità di redenzione, come vorrei di seguito argomentare. L’idea che una società possa organizzarsi, che possa agire attraverso la mano pubblica anche fuori dai tempi di guerra sembra estranea alla sensibilità e al cervello dei nuovi nani.
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Il diritto di avere diritti
Carlo Formenti, Stefano Rodotà
Per una replica da Rodotà
Carlo Formenti
Bellissimo il titolo – Il diritto di avere diritti (Laterza, 2012, 433 pp., € 20,00) – del saggio di Stefano Rodotà perché sintetizza perfettamente il nodo centrale attorno acui ruotano i molti temi di un lavoro stimolante e complesso. L’obiettivo di questo articolo, tuttavia, non è recensire il libro, né ricostruirne nel dettaglio i percorsi argomentativi, bensì evidenziarne quelle che mi paiono le tesi più interessanti e, al tempo stesso, metterne in luce alcune aporie per sollecitare repliche e approfondimenti da parte dell’autore. In particolare intendo concentrarmi su quattro punti: 1) Chi è il titolare del «diritto di avere diritti» evocato nel titolo e in che modo può essere fatto valere questo «meta-diritto»? 2) Quanto e come questo concetto può contribuire a tutelare quei diritti sociali che rischiano di essere spazzati via dallo strapotere del mercato? 3) Come si inquadra il tema dei beni comuni nello scenario descritto dal saggio? 4) Come si definiscono i «nuovi diritti» associati all’avvento della rete e quali ostacoli si frappongono alla loro realizzazione? Partiamo dal primo punto, che a mio avviso è quello che solleva più problemi. Per Rodotà il titolare del diritto di avere diritti è la persona. Attenzione però: per capire il senso che l’autore attribuisce a tale termine occorre andare oltre i confini classici in cui lo rinchiudono le tradizioni del pensiero giuridico, filosofico, sociologico e psicologico.L’idea di persona che ci propone Rodotà è un’«immagine» che deve essere costruita ex novo, allo scopo di fronteggiare la crisi di civiltà associata al collasso della sovranità nazionale, cioè di quello che, almeno finora, è stato il «contenitore» per eccellenza tanto dei diritti quanto dei soggetti (i cittadini degli Stati-nazione) che ne erano titolari.
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L'Europa delle banche, Saccomanni e le Supply Side Policies UE
di Quarantotto
Dunque riassumiamo. Imposta in Europa, di sicuro in Italia, la dottrina delle banche centrali indipendenti, un "gruppo di banchieri" si chiude in una stanza e tira fuori Maastricht.
Cioè (a tacere del resto, che conta però molto meno se conservi la sovranità monetaria e quindi quella fiscale), un'area valutaria (non)ottimale in cui il potere di mettere moneta, per gli Stati aderenti, apparteniene ad una banca centrale indipendente, non correlata ad alcun governo fiscale dell'area stessa. E quindi una moneta unica affidata esclusivamente alle determinazioni di tale banca indipendente circa i tassi e le operazioni sulla liquidità: il tutto, con certezza, nell'ambito di una politica monetaria "credibile" nel senso predicato dai Lucas e dai Sargent, che cioè fosse esclusivamente (nel tempo ciò ha superato per default ogni altro dato normativo dei trattati), volta a garantire la stabilità dei prezzi, cioè a combattere l'inflazione. Convinti che ciò portasse al costante riequilibrio dei mercati in base alla legge della domanda e dell'offerta, garantendo il livello "naturale" di piena occupazione.
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