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L'Europa delle banche, Saccomanni e le Supply Side Policies UE

di Quarantotto

NEV 15 672 458 resize5Dunque riassumiamo. Imposta in Europa, di sicuro in Italia, la dottrina delle banche centrali indipendenti, un "gruppo di banchieri" si chiude in una stanza e tira fuori Maastricht.

Cioè (a tacere del resto, che conta però molto meno se conservi la sovranità monetaria e quindi quella fiscale), un'area valutaria (non)ottimale in cui il potere di mettere moneta, per gli Stati aderenti, apparteniene ad una banca centrale indipendente, non correlata ad alcun governo fiscale dell'area stessa. E quindi una moneta unica affidata esclusivamente alle determinazioni di tale banca indipendente circa i tassi e le operazioni sulla liquidità: il tutto, con certezza, nell'ambito di una politica monetaria "credibile" nel senso predicato dai Lucas e dai Sargent, che cioè fosse esclusivamente (nel tempo ciò ha superato per default ogni altro dato normativo dei trattati), volta a garantire la stabilità dei prezzi, cioè a combattere l'inflazione.
Convinti che ciò portasse al costante riequilibrio dei mercati in base alla legge della domanda e dell'offerta, garantendo il livello "naturale" di piena occupazione.

Cioè di "qualsiasi" livello implicato da una stabilizzazione dei prezzi verso il basso e conforme alle scelte di investimento delle imprese, orientate in base alla "aspettative razionali": che poi,in pratica sono quelle di soggetti monopolisti o oligopolisti, cioè i meno soggetti possibile alla "forte competizione", accuratamente rafforzati in tali posizioni dalla restante legislazione UE, creativa di un minuzioso dumping normativo, e  orientate sul bench mark dei rendimenti finanziari, agevolato dalla rendita di posizione sul mercato. Nonchè partecipanti al gigantesco festino dell'acquisizione, sempre in posizione di rendita, delle imprese pubbliche.

Tant'è che l'effetto spiazzamento dei maggiori investimenti che la contemporanea limitazione della presenza statale dall'economia avrebbe dovuto portare non si s'è mai registrato. E perchè mai avrebbe dovuto, quando la redditività è affidata alle operazioni sui titoli finanziari e alla deflazione del lavoro?


A loro volta le piccole e medie imprese, quelle più soggette alla predicata "forte competizione", non rientranti in questo disegno di "tutela dall'alto", erano destinate a soccombere come obsolete rappresentanti di un mondo capitalista superato, incapace sia di contrattare il costo del lavoro con la dovuta logica deflattiva, sia di effettuare gli investimenti e la propagandata "ricerca" che la forte competizione richiederebbe.


Ma tale concorrenza, in realtà, è stata alterata, da un lato, dal dumping stesso
(che in realtà ha ratificato e incentivato le tendenze inevitabili del capitalismo contemporaneo), dall'altro dal meccanismo di area valutaria imperfetta, cioè non affidato a trasferimenti che consentano di compensare gli inevitabili squilibri commerciali tra stati aderenti.


Squilibri commerciali anzi ben prevedibili dall'inizio, specie tralasciando intenzionalmente di perseguire le pur previste politiche coordinate in capo economico, tributario e del lavoro: il tutto per consentire, in violazione di qualsiasi spirito cooperativo intrinseco ai trattati, di concorrere essenzialmente sulla competitività (relativa) di prezzo, determinata dall'abbassamento dell'inflazione mediante riforme del lavoro e svalutazione dei tassi di cambio reale in forma aggressiva verso i componenti della stessa area valutaria. Strategie, cioè, di mercantilismo, per di più attuate dagli Stati che, già in precedenza, perseguivano inflazioni tradizionalmente più basse, al fine apertamente teorizzato di espandersi commercialmente a danno degli altri, nella stessa area valutaria.


Nel quadro monetarista acriticamente recepito, corredato del divieto di ogni forma di credito erogabile agli Stati da parte della banca centrale "unica",  ciò ha significato diluire costantemente l'immissione nel sistema economico di liquidità ad alto potenziale
.


Ma non ovviamente per le banche, a seconda della necessità, creata patologicamente dalla loro "universalità", cioè dalla indiscriminata vena speculativa perseguita coi soldi dei depositanti e sottratta, per sistema normativo progressivamente rafforzato, a seri controlli sia interni che esterni sui bilanci: i cui problemi emergono invariabilmente in condizioni "critiche", cioè non in base a controlli effettuati in base a criteri prudenziali concreti e mirati, ma a voragini ormai manifestatesi ed al cui ripianamento hanno di recente provveduto gli Stati aumentando il debito pubblico da collocare a crescenti interessi...presso la banche stesse.


Quindi la BCE ha voluto praticare costantemente tassi di interesse fissati anelasticamente verso l'alto, ritardando ogni correzione anticiclica, seppure nel senso limitato che ciò può comportare, e ottenendo di avere un cambio valutario, verso l'esterno dell'area, in costante rafforzamento.


Le banche hanno potuto così vivere il calo dei tassi dovuto alla discesa dell'inflazione, registratasi in tutto il mondo a partire dagli anni '90 (e anche prima), senza rischi di cambio nei rapporti con le aree commerciali di naturale maggior interscambio e fruire, in definitiva, di interessi reali positivi, rispetto all'inflazione, sia sui titoli del debito pubblico sia sui crediti erogati.
Con il connesso vantaggio di potersi scegliere il paese e i titoli più vantaggiosi all'interno dell'area valutaria per concedere il credito ed accumulare interessi più alti di quelli ottenibili nel proprio paese. Una situazione che, nonostante gli strepiti del 2011, non è sostanzialmente venuta meno, anzi, è stata corretta, a garanzia dei sistemi bancari creditori, con politiche di consolidamento fiscale imposte ai paesi-sistemi debitori, che hanno essenzialmente inciso sui redditi dei cittadini e sulla loro occupazione.


Insomma, una vera manna bancaria, non correlata a un fiorire dell'intermediazione creditizia sull'economia reale, proprio per il carattere "universale" che ha trascinato profitti e liquidità verso gli impieghi speculativi finanziari, che si sono aggiunte, come dimostrano i casi tedesco e francese (e in misura molto più limitata e contingente quello italiano), a quelli dettati dalle convenienze dei differenziali di inflazione e di rendimento negli stessi paesi dell'area, alimentando regolarmente bolle speculative immobiliari e di credito al consumo drogato (verso la importazione).


Ovviamente, non poteva esaurirsi in ciò un'area valutaria, dato che la moneta era destinata comunque a regolare i pagamenti, il credito e in generale l'attività economica delle comunità statali interessate. Ora, nonostante che così non potesse funzionare, perchè ha il "piccolo inconveniente" di distruggere la domanda aggregata (occupazione, consumi e investimenti non finanziari), nei paesi debitori, si dice che bisogna andare avanti ad ogni costo. In Italia, soprattutto.


Ed infatti, di tutto questo non si tiene in alcun conto ancora oggi, ripetiamo, e lo si propone come un "obolo" indispensabile per poter fruire degli immaginari vantaggi, non altrimenti indicati (se non in ridicoli spot progandistici relativi al turismo in altri pesi UEM), che il sistema avrebbe comportato.


Di sicuro per le banche e di sicuro per il fronte della grande industria che ha potuto giovarsi del sostegno del sistema a giustificazione "lovuolel'europa", nello sterilizzare il costo del lavoro, vedendo accolte le misure di riforma del relativo mercato, nel senso della precarizzazione e della concertazione moderatice coi sindacati, e, ancor più, nel senso della costante e crescente deprivazione del sostegno pubblico all'economia, accoppiandosi questa anomala etero-sovranità monetaria con limiti di deficit e vincoli di consolidamento del bilancio, uniti alla privatizzazione delle attività economiche degli Stati: cioè, come si è detto prima nel descrivere la vera natura della "forte competizione UE" alla cessione, a prezzi accuratamente depatrimonializzati, a investitori privati, di settori ad alto flusso di cash, altamente vantaggiosi, per lo più in posizione di rendita monopolistica e oligopolistica, con ulteriore spinta ad accentrare il profitto e al peggioramento del livello dei servizi e dell'onere tariffario per gli utenti. Senza alcun progresso tecnologico e miglioramento dell'efficienza, rimasti un mito sulla carta smentito clamorosamente dai fatti


Ora, ieri sera mi è capitato di sentire un'intervista a Saccomanni fatta da una giornalista che andava avanti a fare le domande, con aria sussiegosa e padrona di sè, senza in realtà ascoltare le risposte. Era evidente che non ne comprendeva il senso, e che non aveva alcuna idea del quadro ora sommariamente descritto, e che quindi sarebbe stato persino inutile che cogliesse il senso effettivo delle risposte, essendo la tipa avvolta nell'idea che, insomma, in fondo il problema è il debito pubblico e Saccomanni, dall'alto della sua indiscussa competenza, confermava questo dogma da ogni poro.


La cosa che mi ha fatto sobbalzare, però, è stata la risposta del ministro circa i vantaggi concreti che la "chiusura" della procedura di deficit eccessivo aperta contro l'Italia avrebbe comportato. Concetto ripetuto cripticamente dal ministro da quando si è praticamente insediato. Tale risposta è stata che, ad esempio, l'Italia avrebbe potuto accedere a un finanziamento europeo magari con un co-finanziamento Ma cosa ha voluto dire?


Non poteva logicamente riferisi ai fondi europei del bilancio UE 2014-2020, che, a parte la tormentata vicenda della loro approvazione in misura ridotta, rinviata al vertice del prossimo 22 maggio, ci vede come contribuenti netti, più della Germania (in percentuale pro-capite sul PIL), e che dovrebbero costituire una voce di entrata che non richiede altro che la nostra regolare contribuzione e la capacità di spendere effettivamente tali "restituzioni" (che sono in passivo, nel senso che se non ci fosse l'UE, avremmo più soldi dei contribuenti italiani a disposizione).



Due ulteriori premesse.


Nella intervista e nelle dichiarazioni non compariva alcuna analisi delle emergenze dell'economia reale e delle loro cause
. Non si diceva quindi come si sarebbe potuta affrontare la disoccupazione e la, evidentemente connessa, crisi delle imprese costrette a chiudere per mancanza di crediti erogati da parte del sistema bancario.


Che è poi un altro modo di dire che, essendo ovvia la rinuncia all'autofinanziamento (un tempo sistema diffuso per il reinvestimento nelle imprese italiane), si pone un problema, grande come l'Everest, di domanda: prima estera, determinato dal tasso nominale  di cambio fisso e dalla rivalutazione cumulativa dell'inflazione sul rasso di cambio reale, che aveva affossato nella stagnazione la nostra industria; poi interna, conseguente a tutto il resto delle politiche fiscali imposte dall'adesione all'UEM, che aveva proprio condotto alla recessione.


Quindi, per Saccomanni una problema di domanda non c'è. L'occupazione, ormai è scontato, si rilancia con le riforme strutturali: cioè con....disoccupazione e precarietà, tanto la competitività dipende solo dal costo del lavoro. E comunque non è problema degno di essere rimesso in discussione.


C'è solo il problema di "un'intera revisione della tassazione sugli immobili" e di "riduzione della tasse sul lavoro e sulla impresa, finanziandola con delle formule che non prevedano altro debito", come detto nel reportage dell'intervista televisiva rinvenibile sul Sole 24 ore.


Detto che la riduzione di tasse sul lavoro e sulla impresa non si capisce come sia effettuabile senza "altro debito", tranne tagliare ulteriormente la spesa pubblica, (cosa poco prima esclusa nella stessa intervista: il bilancio è bello stirato e "senza pieghe" e non ci sarà bisogno di una nuova manovra" in corso d'anno....????), si tratta pur sempre di supply side policies, cioè politiche sul lato dell'offerta.


Le stesse che hanno scarsa efficacia in situazione di cambio valutario che deprime le aspettative di vendita dei nostri prodotti all'estero, e che ha provocato, da 15 anni (almeno), per l'accumulo di indebitamento di sistema e l'output gap del nostro PIL da deficit commerciale (con crescente difficoltà a rispettare i parametri fiscali di Maastricht dato il calo della base imponibile), lo stesso credit crunch, e che è ben descritto dalle leggi di Thirlwall e Verdoorn sulla crescita e la produttività.


Che naturalmente Saccomanni non considera, neanche per un attimo. Contentandosi (ma non è il solo) di vedere il calo delle importazioni dovuto allo spaventoso calo dei consumi, cioè alla recessione, mentre il volume delle esportazioni rimane sostanzialmente invariato (cioè è solo calo della domanda e non c'è alcuna ripresa industriale).



E qui si innesta la seconda premessa: dal reportage del Sole scompare l'accenno al fnanziamento europeo e al cofinanziamento, proprio quello che la intervistatrice non ha, guarda un pò, "raccolto" e cercato di approfondire. 


Ma sono sicuro di non essermelo sognato (era presente anche Sofia con cui abbiamo prontamente commentato il "liscio" della giornalista).


Forse Saccomanni si riferiva veramente ai fondi UE ordinari, cioè al bilancio nel quadro finanziario 2007-2013,  e che per poter sfruttare occorrerebbe evidentemente "prendere tempo" (uscendo dalla procedura di deficit presso la Commissione).


Solo che la storia del "cofinanziamento" lascia presagire una linea di credito aggiuntivo già contrattata dall'Italia per proprie esigenze con una favorevole valutazione di criteri. In più questo finanziamento, coerentemente con  le premesse (si spera), non dovrebbe creare "altro debito", ed essere consentito in quanto si sia fuori dalla procedura UE per deficit eccessivo.


Ci soccorre questo articolo de "Il Giornale": "In realtà, il governo italiano non sembra affatto intenzionato a chiedere slittamenti per il raggiungimento del target. Oggi abbiamo un deficit certificato dalla Commissione al 2,9% per il 2013, con la previsione di una sua discesa al 2,5% nel 2014. Una circostanza che consente di sbloccare 12 miliardi di co-finanziamenti europei da dedicare agli investimenti."


Ma che roba è? Parrebbe trattarsi di questo (dal portale UE delle PMI): cioè di finanziamenti a cui avrebbero accesso le imprese italiane, a quanto pare, in quella misura di 12 miliardi, e che sarebbe una forma alternativa al finanziamento bancario e direttamente gravante sui loro bilanci, quindi non creativa di "altro debito pubblico". O ancor meglio di questo, cioè dei "finanziamenti alla politica regionale e di coesione per il periodo 2007-2013" che "ammontano a 347 miliardi di euro (pari al 35,7% del bilancio totale dell’UE per tale periodo), ossia poco più di 49 miliardi di euro l’anno" di cui all'Italia spettano (in parziale restituzione di quanto già erogato come contributi)  circa 28 miliardi per l'intero periodo 2007-2013.


Insomma, noi paghiamo, caricando anticipatamente sul nostro debito pubblico le contribuzioni al bilancio dei vari fondi UE, ma poi i soldi ci vengono ridati solo se rispettiamo i limiti di deficit, sforati magari anche per aver dovuto contribuire al bilancio UE! E naturalmente sforati per una recessione indotta dal consolidamento di bilancio impostoci dalla UEM e comunque reso arduo dal meccanismo dell'euro e dei tassi di cambio reali sfavorevoli e invece svalutati dalla Germania (come ormai denunzia persino il Belgio)


Ma non altrettanto accade, evidentemente, per tutti gli altri paesi UEM
, dato che siamo i soli oltre alla Germania a presentare un deficit sostanzialmente in linea col 3%, almeno tra quelli "non disagiati", cioè classificati come beneficiari dei fondi UE per il loro ritardo economico-industriale rispetto a determinate percentuali del PIL medio UE.



Ma veniamo al dunque: davvero si pensa che con supply side policies per 12 miliardi - mentre si preparano inevitabili altri tagli della spesa pubblica "improduttiva" cioè quella sulle funzioni e sulla struttura della pubblica amministrazione-, corrisposti non si sa bene quando, l'Italia possa risolvere i propri problemi di domanda?



Anche perchè le "aspettative" di ulteriori politiche del governo, che ci si attende che Saccomanni attui senza indugi, e sulle quali le sue dichiarazioni risultano pefettamente in linea, sono così descritte dall'editoriale odierno dello stesso Sole 24 ore:


"Rimodulazione dei fondi europei, tagli alla spesa improduttiva, riduzione del perimetro dello Stato, dismissioni immobiliari, risparmi sugli interessi sul debito: si individuino le fonti di finanziamento e si presenti un piano trasparente di intervento."

Il tutto perchè "urge una strategia complessiva del Fisco per la crescita" e sempre, però, nel rispetto degli obiettivi di consolidamento del bilancio e di riduzione del deficit. Cioè proseguendo in pareggio di bilancio, con tagli alla spesa pubblica, in base a meccanismi già innescati dai precedenti governi, ma non ancora portati a compimento, e quindi incidenti in pieno nei prossimi esercizi, senza bisogno di manovre aggiuntive.


La verità?


Questi signori non hanno la più pallida idea di come fronteggiare la crisi
.


La BCE, grande regista di tutta la strategia UEM, non trova di meglio di ammettere di aver sottovalutato gli effetti depressivi a fa il "mea culpa" (sempre sul Sole, pag.8), affrettandosi ad aggiungere però, che per la crescita bisogna completare i "primi passi" verso la (indovinate?) completa riforma del mercato del lavoro per raggiungere la competitività. Non gli basta continuare a toppare, e a prendere per buona la linea che ha provocato la crisi da domanda: devono aggiungere altra deflazione salariale. Non sia mai che la domanda si riprenda e le teorie mainstream-Von Hayek ne risultassero smentite. Riduciamo il perimetro dello Stato e il salario: poi se va male lo stesso, un bel "mea culpa" e tutti a...Davos.


In Italia nessuno è sfiorato dal dubbio: si sentono in una botte di ferro. Abbiamo la soluzione. Nel 2014, dovendo portare il deficit pubblico da 2,9 (se pure mai fosse rispettato) a 2,5 "ce la faremo", perchè usciremo dalla recessione, coi tagli della spesa e delle detrazioni fiscali.


Vogliamo scommettere?

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