Print Friendly, PDF & Email

Il dilemma del vitellone

Raffaele Alberto Ventura

Periodicamente un politico incauto lancia una sparata sui giovani fannulloni, così scatenando il subbuglio di mille code di paglia — «Ho sette lauree, vacci tu a raccogliere i pomodori!» – accompagnato da dotte considerazioni keynesiane sulla natura sempre involontaria della disoccupazione. Ma come si concilia, al di là di ogni giudizio morale, la teoria della disoccupazione involontaria con la realtà di un mercato che nondimeno richiede un certo tipo di manodopera e la soddisfa dislocando milioni di lavoratori da una parte del mondo all’altra? Cosa determina le nostre traiettorie formative e professionali, talvolta demenziali, se non delle scelte deliberate e delle preferenze soggettive?

La tanto vituperata teoria neoclassica della disoccupazione volontaria ha il vantaggio di porre la questione del lavoro in termini di razionalità individuale e può essere utile per capire cosa accade alla classe media occidentale, e italiana in generale. In effetti per chi dispone delle risorse sufficienti è razionale prolungare gli studi universitari, perfezionare un proprio talento o accumulare relazioni, persino andare in tivù da Andrea Diprè, piuttosto che andare a raccogliere pomodori: in questo modo aumenteranno le probabilità di ottenere il successo nel proprio campo, anche se dopo cinque o dieci anni vissuti come I vitelloni di Fellini. Un esempio di questo tipo di strategia è Richard Katz nel romanzo Libertà (2010) di Jonathan Franzen: cantante in uno sconosciuto gruppo rock fino all’alba dei quarant’anni, barcamenandosi tra vari proverbiali «lavoretti», d’un tratto diventa famoso e passa istantaneamente da sfigato a idolo delle folle.

Questo tipo di percorso professionale imprevedibile, caratteristico dei mestieri qualificati e delle attività creative, è analizzato bene da Nassim Nicholas Taleb nel suo Cigno Nero (2007).

Un problema sorge tuttavia quando tutti gli agenti ricorrono a questa strategia e si configura un vero e proprio dilemma del vitellone, una «situazione lose-lose» prodotta dal gioco autodistruttivo delle razionalità individuali. Poiché tutti fanno i proverbiali sacrifici per rendersi appetibili sul mercato del lavoro, sono necessari sacrifici sempre più ingenti: si ritarda l’entrata nella vita attiva, si pagano costose formazioni, si lavora gratis o quasi. In un saggio recente sul mondo del lavoro, per definire questo meccanismo si parlava ancora di «efficienza dell’incertezza» diretta a «regolare le fasi iniziali delle carriere professionali dei knowledge workers destinate a sfociare in lavoro dipendente a tempo indeterminato»: beato ottimismo. In verità l’esito sub-ottimale di questa competizione fratricida è il Declassamento Mutuo Assicurato, versione 2.0 della più celebre Mutual Assured Destruction (MAD) che minacciava il mondo durante la guerra fredda. Una corsa all’armamento formativo che non scatenerà nessuna apocalisse atomica, ma che prosciuga i patrimoni e abbassa il costo del lavoro. Naturalmente i primi a soccombere sono coloro che dispongono di meno risorse, ai quali si è lasciato credere — come ad Alberto Sordi ne Lo scopone scientifico (1972) di Luigi Comencini — che fosse possibile vincere al gioco contando soltanto sul talento e la determinazione.

Ma come siamo finiti in questo pasticcio? Se le cose hanno smesso di funzionare, quando è accaduto? La maggior parte delle analisi attribuisce alla famigerata «crisi» l’origine dell’anomalia. Invece sarebbe opportuno rovesciare l’analisi e chiedersi se il difetto di domanda (non c’è lavoro qualificato) non sia piuttosto un eccesso di offerta (siamo troppi e troppo qualificati). La crisi sarebbe dunque l’effetto di un allargamento sovrabbondante della classe media per effetto di fattori politici, economici e demografici — un allargamento che sembrava cosa buona e giusta in quanto faceva girare i consumi, ma di cui nessuno voleva interrogare il limite. Come mostrava in maniera limpida Thomas Mann nei Buddenbrook (1901), la borghesia racchiude in sé i germi del proprio esaurimento. Da questo punto di vista, vagamente schumpeteriano, il meccanismo di declassamento svolge una funzione di regolazione che restituisce la classe a una dimensione sostenibile. La classe media occidentale deve fallire per sopravvivere. Ma come appunto segnalava Joseph Schumpeter, le crisi periodiche possono avere conseguenze imprevedibili…

L’economista austriaco ha avuto modo di verificare empiricamente gli effetti della sua teoria, assistendo all’ascesa del nazionalsocialismo: conseguenza politica di una crisi economica. Inoltre Schumpeter fu esponente di quella diaspora germanica verso l’America che possiamo, a questo punto, considerare come un caso esemplare di sovrabbondanza dell’offerta di forza-lavoro cognitiva. Non fu la persecuzione nazista a cacciare gli intellettuali dall’Europa, ma la crisi: bisogna contarli, metterli in fila uno per uno questi scienziati, artisti e pensatori — Lang, Lubitsch, Wilder, Schönberg, Weill, von MisesReich, Adorno, Horkheimer, von Braun, Einstein, von Neumann e decine di altri — per rendersi conto che non sarebbe mai stato possibile per tutti quanti «trovare lavoro» in quello spazio tanto piccolo. Erano troppi, ecco tutto. Ed erano essi stessi il segno vivente della crisi, i Christian Buddenbrook per mezzo dei quali la borghesia germanica aveva dissipato il capitale accumulato per generazioni.

Schumpeter distingueva tra crisi normali e crisi patologiche. Sfortunatamente le crisi normali esistono soltanto in teoria, mentre le crisi reali hanno sempre degli aspetti patologici. È patologico, ad esempio, scartare tutte le soluzioni cooperative che permetterebbero di minimizzare il danno e garantirebbero la massima efficienza allocativa delle risorse. È disastroso partecipare a una sfida persa in partenza. Di fronte alla minaccia del declassamento, gli individui iniziano ad assumere comportamenti irrazionali, influenzati da riflessi di classe tenacissimi che rendono ancora più dolorosa la rovina. Così, ad esempio, nelle commedie di Goldoni la borghesia decaduta consuma interamente il proprio patrimonio, ed eventualmente s’indebita, perché incapace di fare altro. Oggi i figli della borghesia, convinti di essere «di sinistra», scendono in strada per rivendicare finanziamenti a musei e orchestre. Nel film Il boom di De Sica (1963) ritroviamo Alberto Sordi che mette in vendita un occhio, letteralmente, per salvare il proprio stile di vita. Ancora più assurdo, un giovane dottorando si sarebbe tolto la vita qualche anno fa perché costretto a mantenersi facendo il bagnino invece che il filosofo. Come raccontava Thomas Malthus nel Saggio sui principi della popolazione: «I contadini del Sud dell’Inghilterra sono così abituati al loro raffinato pane di frumento che si lascerebbero quasi morire di fame piuttosto di vivere come i braccianti scozzesi».

In generale nel modello malthusiano c’è poco spazio per le considerazioni sul sapore del pane: l’incremento demografico è legato principalmente alla produzione agricola e alla soddisfazione dei bisogni primari. Eppure Malthus, nella sua lista dei «freni preventivi» alla crescita della popolazione, menzionava le seguenti considerazioni che un uomo potrebbe porsi prima di fondare una famiglia:

Non corre il rischio di perdere il proprio rango, ed essere costretto a rinunciare alle abitudini che gli sono care? Quale occupazione o mestiere sarà alla sua portata? Non dovrà imporsi un lavoro più gravoso di quello confacente alla sua attuale condizione? E se fosse impossibile garantire ai suoi figli i vantaggi dell’educazione di cui egli ha potuto godere?

Sono considerazioni familiari per la nostra classe media, la quale effettivamente si lascerebbe quasi morire di fame — e all’occasione si ammazza sul serio — piuttosto di finire a vivere come i braccianti negri. Le nostre strategie demografiche non sono allineate alle condizioni di sussistenza (ovvero i bisogni primari) ma alle condizioni di permanenza entro la classe d’origine (ovvero i bisogni secondari). Ed è perciò che, malthusianamente, ci estinguiamo. Non senza aver prima tentato di trascinare tutta la società nel nostro tracollo.

Questa è la tragedia di una classe ricca ma non ricca abbastanza. Come ancora notava Malthus: «Discendere uno o due gradini, a quel punto ove la distinzione finisce e la rozzezza comincia, è un male ben reale agli occhi di coloro che lo provano o che ne sono semplicemente minacciati».

Add comment

Submit