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L’ultimo uomo
di Mauro Pasquinelli
Genesi e finalità della pandemia
Non e’ scopo di questa riflessione stabilire se la pandemia sia stata artificialmente creata dai nuovi padroni del mondo, o emerga spontaneamente dal caos della devastazione criminale della natura. Sia come sia l’imputato numero uno e’ il capitalismo, vuoi nella forma neo-liberista occidentale, vuoi in quella statalista cinese. Sia come sia la Pandemia e’ la nuova tecnica “miracolosa” per far si che il servo interiorizzi i comandi del Signore.
Se anche fosse, ma nessuno puo’ dirlo con certezza, che il virus sia stato modificato in un settore del laboratorio OMS di stanza a Wuhan, controllato da Inglesi e Americani, resta il fatto che la Cina e’ reticente e quindi complice, correa nel crimine.
La complicita’ tra neoliberisti e statalisti si realizza ugualmente se ipotizziamo, che la pandemia sia una falsa pandemia, utile ad entrambi i capitalismi per perfezionare e collaudare nuovi dispositivi di disciplinamento sociale. Ma lo e’ anche se ipotizziamo, al contrario, che il virus sia realmente presente, devastante ed espressione, come affermano i piu’ attenti ecologisti, del Global Warming, della deforestazione che restringe gli spazi di molti animali portatori del virus, e che annulla il naturale distanziamento tra loro e l’uomo.
In ogni caso e detto in termini marxiani, la pandemia pone sul banco degli imputati tout court il modo di produzione capitalistico, cioe’ un modello economico e sociale predatorio ed invasivo, nemico della salute pubblica, giunto per auto-combustione alla sua fase terminale e suicidaria.
Ci sono due laboratori dove si puo’ analizzare la pandemia, quello medico e quello politico sociale. Non essendo virologo posso solo inoltrarmi nel secondo campo.
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1918 + 1929 = 2020? Senza mappa in terre economiche sconosciute
di José A. Tapia*
Una crisi economica senza precedenti è ora iniziata. Il 23 aprile è stato comunicato che nel corso delle ultime cinque settimane, oltre 26 milioni di persone avevano presentato domande di disoccupazione negli Stati Uniti. Questi 26 milioni facevano parte dei 159 milioni di americani che erano stati impiegati a febbraio, poco prima che le politiche per mitigare l'epidemia di coronavirus avessero fermato l'economia domestica. Picchi simili di disoccupazione si verificano sostanzialmente in ogni paese del mondo.
Naturalmente, ora tutti "sanno" che la causa di questa crisi economica mondiale è la pandemia di COVID-19, e sarà difficile discuterne, allo stesso modo è difficile argomentare con l'idea che l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando nel giugno 1914 fu la causa della prima guerra mondiale, o gli embargo dell'OPEC furono la causa della crisi economica globale della metà degli anni '70, o la mancanza di regolamentazione e le frodi nei mercati finanziari furono la causa della Grande Recessione. L'idea che la nostra economia sia intrinsecamente stabile e che solo eventi esterni la spingano verso l'instabilità e la crisi è il principio guida dell'economia tradizionale ed è anche molto radicata nella psiche comune dei nostri tempi. Ma i fatti forniscono una prova evidente che è il contrario: la nostra economia è intrinsecamente instabile e tende a destabilizzarsi abbastanza frequentemente, circa una volta al decennio nei tempi moderni, con o senza innescare eventi come pandemie, "shock" nei mercati petroliferi o " frode "di banche e operatori finanziari.
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«È giunta l’ora di invocare il diritto di resistenza»
Roberto Ciccarelli intervista Sergio Bologna
Cinquant'anni dallo Statuto dei lavoratori, una storia del lungo Sessantotto italiano che inizia nel 1960, dura fino al 1985, e ha cambiato profondamente tutta la società. Parla lo storico del movimento operaio Sergio Bologna: «Nel 1970 quello Statuto fu una conquista democratica, anche se la prassi operaia era più avanti. A chi vuole scrivere oggi statuti dei lavori rispondo che prima bisogna cambiare prima i rapporti di forza tra capitale e forza lavoro. Dopo potremo adottare nuove leggi. Esiste già la Costituzione, basta per tutelare il lavoro. Iniziamo a parlare di conflitto e dal suo primo movimento: la resistenza»
* * * *
Il modo più proficuo per cogliere il significato dell’avanzata impetuosa della classe operaia, e la sua sconfitta, tra il 1960 e il 1985, è quello di mettersi nei panni di un giovane oggi alle prese con la precarietà. A Sergio Bologna, storico del movimento operaio e tra i fondatori della rivista Primo Maggio, potrebbe domandare dove sono finite le conquiste costate tanti sacrifici? Dove sono finiti tutti i diritti?
“Certo – risponde Sergio Bologna – parlando di quel periodo così lontano, ti viene la curiosità di sapere che percezione ha oggi un giovane lavoratore dei suoi diritti. È consapevole di avere dei diritti, sa cosa vuol dire difendere un diritto sul luogo di lavoro? Lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori del maggio 1970 è stato un importante gesto di civiltà, il riconoscimento e la tutela dei diritti sindacali un passo avanti del sistema democratico. Eppure moltissimi quadri sindacali e le stesse correnti politiche a noi più vicine lo consideravano già vecchio, già superato.
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Pandèmoni, pandementi e ciò che si deve fare
di Nico Maccentelli
1. Cosa non ha funzionato?
In questi ultimi tre mesi la vita di gran parte della popolazione mondiale è stata letteralmente stravolta dall’irruzione della pandemia da Covid-19. Tra proibizioni, quarantene, forme di controllo sociale iper-tecnologiche, bastonate, a seconda del paese, questa nuova realtà è subentrata a quella precedente all’improvviso creando panico sociale. Al tempo stesso le autorità e i media hanno cercato di spacciare i provvedimenti presi come inevitabili e i migliori possibili. Ma in realtà, se solo ci soffermiamo sulle modalità con cui per esempio il nostro governo ha affrontato questa pandemia, dobbiamo renderci conto che quello che è stato fatto sui cittadini italiani è un vero e proprio TSO di massa, con controlli polizieschi ossessivi, divieti di spostamento, sanzioni ad cazzum, a seconda dei tiramenti dei tutori dell’ordine che incontravi.
Prendiamo allora il Giappone, paese con una cultura della gerarchia piuttosto spiccata. Lì le cose stanno andando diversamente: ai cittadini nipponici è stato indicato, non ordinato, di evitare assembramenti e di uscire di casa il meno possibile e con attenzione. Trattando la gente come cittadini appunto, non come dei bambini imbecilli da criminalizzare. Sulle singole situazioni la polizia è intervenuta informando e invitando a evitare comportamenti rischiosi. Questo fa uno stato civile. Ma l’Italia abbiamo visto civile non è. E si è posta come la capofila di un “sorvegliare e punire” nel mondo occidentale, il laboratorio sociale di un vero e proprio stravolgimento antropologico del tessuto delle ordinarie relazioni sociali e interpersonali.
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Economia e situazione dell’Unione Europea
di Marco Zuccaro
La crisi attuale, nata come emergenza sanitaria, avrà effetti devastanti sul piano economico e sociale, investendo la costruzione stessa della UE. Per capire cosa ci prospetta il futuro, occorre prendere in considerazione delle visioni alternative rispetto ai luoghi comuni del nostro tempo.
La MMT, spesso bollata come pseudo-scienza, è invece stata recentemente nominata nientemeno che da Mario Draghi come una nuova concezione da discutere in seno alla BCE. Perciò è possibile iniziare a ripensare alcuni concetti-guida sotto la sua prospettiva.
Per spiegare in modo semplice i principi esposti da teorie come la MMT o il Circuitismo occorre che tutti i cittadini, anche quelli che non si sono mai interessati all’economia, prendano piena consapevolezza di che cosa sia il “debito pubblico”, giacché tale argomento è stato l’assoluto protagonista della narrazione politica e giornalistica degli ultimi decenni: una vera costante, che ha finito col confondere molti.
Anzitutto va chiarito che il debito pubblico non è il debito dei cittadini, perciò ogniqualvolta ci si ritrovi a leggere che esso “pesi sulle spalle” dei cittadini (o delle generazioni future), quasi fosse un debito pro capite, si rammenti che cittadini e famiglie che acquistano titoli di debito pubblico non contraggono alcun debito privato, anzi, è vero l’opposto: divengono creditori verso lo Stato. Si potrebbe giustamente dire che al debito dello Stato corrisponda un credito di famiglie, banche, aziende, investitori e così via.
Ci si potrebbe chiedere quale sia la funzione del debito; ebbene, per rispondere a questa domanda ci si dovrebbe interrogare sulla provenienza della moneta e sul funzionamento del sistema economico tutto.
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Gli Scritti etno-antropologici di Marx ed Engels
di Ferdinando Vidoni, Stefano Bracaletti
Presentazione dei curatori
Il presente volume delle Opere complete di Marx ed Engels[1] intende anzitutto fornire la traduzione completa dei cosiddetti «Quaderni di etnologia» marxiani, forse più compiutamente denominabili come «Quaderni etno-antropologici». Negli ultimi anni della sua vita, dal 1879 al 1882, Marx allargò infatti i suoi interessi anche alle nuove scienze umane dell’etnologia e di quella che oggi si usa chiamare antropologia culturale o sociale, che si andavano rapidamente sviluppando su uno sfondo evoluzionistico e che offrivano preziosi elementi di collegamento e confronto con il suo «materialismo storico». Compilò così corposi quaderni di Exzerpte o estratti con citazioni, riassunti, commenti da opere soprattutto di Lewis H. Morgan, John Phear, Henry S. Maine, John Lubbock.
L’insieme di questi materiali di studio marxiani (conservati all’Istituto Internazionale di Scienze Sociali di Amsterdam, Quaderni B 156 e B 150), redatti parte in inglese e parte in tedesco e con molte abbreviazioni, rimase sconosciuto al pubblico fino all’edizione dell’americano Lawrence Krader del 1972 (ed. Van Gorcum, Assen) e a quella, interamente in tedesco e con le abbreviazioni sciolte, del 1976 (curata dallo stesso Krader e con «traduzioni» di Angelika Schweikhart per l’editore Suhrkamp di Frankfurt a.M.). Quest’ultima edizione, più leggibile e pur sempre fedele, viene seguita essenzialmente in questa edizione italiana. Una versione spagnola condotta su quella iniziale di Krader è stata pubblicata da José Maria Ripalda per gli editori associati Siglo XXI e Pablo Iglesias di Madrid nel 1988. Delle parti relative a Morgan e a Maine è uscita anche una versione italiana a cura di Politta Foraboschi per le Edizioni Unicopli, Milano 2008.
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Il neoliberismo non è una teoria economica
Seconda parte* (Qui la prima parte)
di Luca Benedini
Le specifiche e colossali contraddizioni interne dell’austerità predicata dai vertici di Fmi e UE
Sulla mancanza di effettive giustificazioni economiche nei meccanismi di austerità antipopolare previsti da organismi come il Fondo monetario internazionale (Fmi) o l’UE vi è una letteratura ormai vastissima, data la sostanziale assenza di concreti riscontri storici all’ideologia neoliberista secondo cui affidarsi al neoliberismo – rinunciando in gran parte o addirittura del tutto ai vari tipi di intervento pubblico indirizzati a ovviare ai “fallimenti del mercato” – dovrebbe provocare vantaggi economici a tutte le classi sociali e a tutti i ceti.
Se vi è stato qualche momento e luogo in cui il passaggio al neoliberismo ha apportato vantaggi economici un po’ all’intera società, è stato semplicemente perché in quel luogo l’approccio politico-economico precedentemente dominante era divenuto così corrotto, incompetente e/o burocratizzato da causare gravi danni al fluire di tutta l’economia locale. Non è stato il neoliberismo quindi ad apportare quei vantaggi, ma semplicemente l’aver ridotto il peso e la portata di quei fenomeni di corruzione, di incompetenza e/o di eccessiva e inutile burocrazia. Quei vantaggi ci sarebbero stati – e pressoché certamente in una maniera nettamente più equilibrata tra i vari ceti sociali – anche con un approccio keynesiano lucido, onesto e capace di effettiva pragmaticità (che era appunto l’approccio rivendicato dallo stesso Keynes, il quale detestava sia quei fenomeni sia altre forme di allontanamento dalla pragmaticità produttiva come l’espandersi delle speculazioni finanziarie e l’insistere in economia su dei concetti ideologici senza mettersi profondamente a confronto con la concreta vita economico-produttiva del luogo).
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Decreto Rilancio. Ecco le occasioni perse
di Nuova Direzione
55 miliardi, dicono. Poco meno del cumulo del costo degli interessi sul debito pubblico e circa la somma che si spende ogni anno per l’istruzione. Questo è l’importo totale del Decreto con il quale il governo Conte intende tamponare la caduta a picco del sistema economico italiano. Stime di Bankitalia danno il Pil italiano, 1.750 miliardi, in caduta del 5% nel primo trimestre e previsioni ottimiste lo danno al -9% entro la fine dell’anno. Si perderebbe valore aggiunto per 150 miliardi, almeno. Dentro questo arretramento la parte maggiore la dovrebbe fare la produzione industriale, della quale potremmo perderne un quarto, e l’export. In misura minore caleranno i consumi delle famiglie e l’occupazione. La dinamica dei prezzi dovrebbe essere debole sui prodotti energetici ed il prezzo dei servizi, con riduzione del reddito dei relativi lavoratori, in particolare autonomi, ma vedere una certa inflazione dei prezzi alimentari, con danno per i ceti più deboli.
In queste condizioni, come sta accadendo un poco in tutto l’occidente, la nostra società si sta violentemente divaricando su molteplici linee di frattura:
In primo luogo, tra coloro che sono connessi con le catene del valore in qualche modo, sia pure a diverso livello di centralità e valore aggiunto, e coloro che ne vivono al margine, impiegati in una insalata di lavoretti, di occasioni, espedienti, variamente visibili e variamente sommersi. I primi, i visibili, sono circa 25 milioni, solo 4 impegnati in attività manifatturiere e gli altri nel vastissimo e complesso mondo dei ‘servizi’. Qui si va dai 6 milioni di persone del commercio, i 5 milioni della Pubblica Amministrazione i 2,5 dei servizi di intrattenimento e 3,2 di attività professionali. I secondi sono stimati in circa 4 milioni di persone. Poi abbiamo i disoccupati effettivi, che dovrebbero essere 6 milioni.
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Il sistema-mondo, il neoliberismo e il malsviluppo alla luce della pandemia
di Giorgio Riolo
Il Covid-19 come catalizzatore-rivelatore di come funziona il mondo. Alcune considerazioni e alcune alternative
La solidarietà è la cura. La giustizia sociale è il vaccino.
Transnational Institute
1. Alcune premesse metodologiche
Molti contributi, analisi e proposte, attorno alla pandemia e alla crisi in atto si sono prodotti nel mondo. Il pensiero nella sinistra mondiale è stato ed è ricco, fecondo di proposte. Ha delineato scenari, prospettive e alternative. La presente svolta storica avrà conseguenze di enorme portata.
La dialettica è materia scolastica, filosofica propriamente. L’attuale preoccupante passaggio storico mostra in modo perfetto cos’è questa cosa. Così ostica per l’intelletto comune, per il normale pensiero della vita quotidiana.
La deforestazione, la manomissione e la manipolazione di ecosistemi delicati e gli enormi allevamenti intensivi di animali per l’alimentazione umana (suini, polli, bovini ecc.) sono all’origine del sorgere e del mutare di virus patogeni nuovi per gli esseri umani. Come è avvenuto nel recente passato per lo Hiv, Ebola, l’influenza suina, l’influenza aviaria, la Sars e la Mers. La recente pandemia Covid-19 da Sars-CoV-2 rientra in questa fenomenologia.
Fenomeni della ecopredazione ai fini dell’accumulazione e del profitto sfociano processualmente in un fenomeno sanitario esplosivo. La pandemia non è destino cinico e baro. Era annunciata. È il risultato della logica perversa del sistema.
La sua enorme diffusione su scala mondiale, la mortalità indotta, l’enorme impatto sui vari sistemi sanitari, esistenti o non esistenti, come in molte aree del Sud del mondo, le gravi conseguenze economiche e sociali in corso, la messa in discussione degli assetti democratici e politici e della convivenza umana costituiscono un fenomeno inedito rispetto alle precedenti crisi sanitarie e alle precedenti crisi economiche.
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Appunti su “la Distruzione della Ragione”, di György Lukács
di Vox Populi
Una lettura significativa degli ultimi tempi è stata “La distruzione della ragione”, pubblicata nel 1954 e scritta da György Lukács.
In questo libro, l’autore sostiene che le filosofie irrazionalistiche sono una parte molto importante (seppur non l’unica) del fondamento ideologico delle politiche reazionarie. Nel seguente articolo proveremo a riassumere quanto osservato dall’autore, espandendo poi il discorso al fine di trarre qualche conclusione iniziale, che ci sarà estremamente utile per il futuro.
Introduzione e breve riassunto
Il libro è stato completato nel 1954, durante il primo periodo “caldo” della Guerra Fredda. In questo periodo, Lukács era un intellettuale emarginato e dissidente a causa del suo forte marxismo hegeliano, contrapposto al “piatto” ed economicistico “marxismo” staliniano. Egli, come altri intellettuali del tempo (ad esempio Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, Hannah Arendt) dovette rendere conto di come fosse stata possibile la barbarie nazista. Allora la sua ricerca si orientò verso il fondamento ideologico-filosofico del nazismo: l’irrazionalità.
I pensatori affrontati sono soprattutto tedeschi per motivi storici e sociali, ma l’autore fa notare a più riprese come il movimento irrazionalistico (ad esempio quello della “filosofia della vita” di Bergson, Dilthey e James) assuma portata internazionale, riflettendo una vera e propria epoca storica che coincise con le difficoltà di accumulazione del capitale, poco prima del suo “scatenamento imperialistico” nella Prima Guerra Mondiale e successiva “ricaduta” della Seconda Guerra Mondiale.
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Cambio di stagione
di Lanfranco Binni
Una diagnosi sbagliata?
Mi ha colpito molto un articolo, breve e clamoroso, pubblicato dalla microbiologa e virologa Maria Rita Gismondo, una voce fuori dal coro, nella sua rubrica “Antivirus” su «il Fatto Quotidiano» del 3 maggio, e ancora di più mi ha colpito il silenzio che gli è stato riservato dai competenti tecnico-scientifici della medicina di potere e dai media. Riporto integralmente il testo:
Questo virus non finisce di stupirci. Per due mesi abbiamo rincorso i posti letto in rianimazione, abbiamo parlato di polmonite interstiziale: oggi le autopsie ci fanno scoprire ben altro. Al Sacco di Milano e al Papa Giovanni XXIII di Bergamo ne sono state eseguite 70. È venuto fuori che la polmonite è un sintomo successivo, e forse anche meno grave, di quello che il virus provoca nel nostro organismo. Questa ipotesi era già stata avanzata dal dottor Palma, cardiologo di Salerno, tra le critiche dei soliti soloni mediatici: SarsCoV2 colpisce soprattutto i vasi sanguigni, impedendo il regolare afflusso del sangue, con formazione di trombi. La polmonite ne è una delle conseguenze. Nella terapia di questi pazienti, ci siamo quindi focalizzati su uno e forse non il principale meccanismo patogeno del virus. I pazienti deceduti, al netto di altre patologie pregresse, avrebbero sofferto le conseguenze delle prime diagnosi sbagliate. Covid19 è una malattia vascolare sistemica. I polmoni non possono ventilare, malgrado l’insufflazione forzata di ossigeno, perché non vi arriva sangue. Addirittura i respiratori avrebbero peggiorato l’esito della malattia. L’ipotesi italiana è oggi confermata anche dagli Usa. Questa nuova conoscenza porta a una vera rivoluzione. La prima osservazione per fare diagnosi è quindi il livello di infiammazione. E i farmaci con cui intervenire immediatamente sono quelli che possono prevenire o curare infiammazione e formazione di trombi. Tutti farmaci già in uso e a basso costo. Chiuderemo definitivamente le terapie intensive Covid19?
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Hans-Werner Sinn, “La costituzione tedesca e la sovranità europea”. Cronache del crollo
di Alessandro Visalli
Avevo chiuso l’ultimo post[1] individuando come via di uscita dalla ordalia[2] chiamata dalla Germania un’uscita unilaterale della stessa, o la resa latina (con conseguente aggressione finale dei mercati ai più deboli). Certo ci sono anche una serie di possibilità di mezzo e di rinvii, ma rimandano solo l’inevitabile definizione della battaglia finale per l’Europa che è stata avviata.
Per rendere più chiaro il terreno di gioco e le poste designate interviene una delle voci più autorevoli della destra economica tedesca, ovvero Hans-Werner Sinn. In un breve articolo[3] su “Project Syndacate” diffida la Commissione dall’avanzare una procedura di infrazione verso la Germania, conferma la natura eminentemente politico-istituzionale dello scontro, e indica quale unica via di uscita la creazione di un’unione politica realmente indipendente, nella quale si parta dalla protezione militare e nucleare autoctona. Ovvero propone uno scambio di unione fiscale verso condivisione della capacità nucleare, e dei relativi eserciti, alla Francia.
Bisognerà richiamare un lontano antefatto. Quando terminò la Seconda guerra mondiale la Germania era distrutta fisicamente, umiliata moralmente, ed occupata militarmente da tutte le potenze alleate. Si avviò un lungo gioco egemonico e di confronto militare nel quale, fino al crollo sovietico, la posta principale era il controllo dell’Europa, per impedire che potesse passare nel campo avverso. Cruciale in questo gioco è sempre stato il controllo delle due potenze sconfitte, sia militarmente sia ideologicamente. Ovvero di Germania e Italia. Ma, ovviamente, soprattutto della prima. Non è affatto un caso che la “guerra fredda” abbia coinciso con la pace europea e con l’occupazione militare perdurante dei paesi di cui sopra citati. Ci sono alcuni corollari: l’Europa non è più da considerare il centro del mondo, dopo il “suicidio” determinato dalle due grandi guerre questo si è spostato fuori (inizialmente Usa e Urss, ed ora Usa e Cina, con la Russia a fare da terzo ballerino).
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Appunti di una lezione mai svolta
di Davide Romano
Sí vedrem chiaro poi come sovente per le cose dubbiose altri s’avanza, et come spesso indarno si sospira.
(Francesco Petrarca, Canzoniere, sonetto XXXII)
Cari ragazzi,
nel mese di marzo alcuni di voi hanno svolto un tema sul modo in cui la malattia nota come COVID-19 è entrata nella vostra vita. La traccia si concludeva con un’accorata lettera pubblicata a marzo su «Famiglia Cristiana» e presto diventata – conformemente allo spirito dei nostri tempi – virale. Pungolato dalle parole dell’autore, lo psicoterapeuta Alberto Pellai, in quei giorni ho cominciato anch’io a mettere per iscritto alcuni pensieri che andavo rimuginando sin dall’inizio della chiusura scolastica e che avrei voluto condividere con voi; mi ero però imposto il silenzio e una pausa di studio, anche per evitare di turbare la sensibilità di qualcuno nel clima apparentemente edificante di allora. L’evolversi degli eventi proprio nella direzione da me paventata mi ha indotto infine a rompere gli indugi e a completare le mie considerazioni, pur nella consapevolezza che, per vari motivi, non potrò inviarvele o esporvele personalmente. Quando un giorno vi giungeranno forse per via indiretta, vi sorprenderà vedermi esprimere in maniera tanto esplicita, come non era mai successo in precedenza. A scuola mi sono sempre limitato a suggerirvi ogni tanto fugaci spunti provocatori e velate allusioni a idee e argomenti controversi, ma il tempo della prudenza e del temporeggiamento è ormai passato da un pezzo: è giunto il momento di cominciare a parlare senza infingimenti, chiamando, con Giordano Bruno, “la verità per verità […], le imposture per imposture, gl’inganni per inganni”1, e dicendo liberamente – mi scuserete l’espressione, che cito dal letterato del Cinquecento Pietro Aretino – “pane al pane, e cazzo al cazzo”2. Se quello che scriverò vi sembrerà deludente, scriteriato, poco comprensibile o semplicemente noioso, siate indulgenti: potrete pensare che in fondo è opera di un povero “cervel pazzo”.
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L’insostenibile pesantezza della didattica a distanza
Per una scuola libera e viva (dentro e fuori le mura)
di Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Renata Puleo, Andrea Cerroni, Gianni Vacchelli, Ivan Cervesato, Vittorio Perego
Con interventi di Umberto Curi, Fiorella Farinelli, Mirco Pieralisi. Walter Lapini, Maria Chiara Acciarini, Alba Sasso, Giuseppe Caliceti, Teodoro Margarita, Giovanni Carosotti, Rossella Latempa, Renata Puleo, Andrea Cerroni, Gianni Vacchelli, Ivan Cervesato, Vittorio Perego, Stefano Bertoldi, Anna Polo, Nicola Giua; (i siti da cui sono ripresi sono in calce a ogni articolo); le vignette sono di Lopez, Quino e Schulz
Premessa
Lungi dall’essere un’opportunità per cambiare paradigma, come alcuni sembrano suggerire, la Didattica a Distanza è solo la risposta immediata, necessaria e temporanea, ad una crisi sanitaria senza precedenti.
Non una scelta, ma uno sforzo collettivo; non un destino, ma una didattica dell’emergenza, generosamente disomogenea, a tratti improvvisata agli inizi, progressivamente più condivisa e organizzata col trascorrere delle settimane.
Una manifestazione di deontologia professionale, nel rispetto del compito educativo che la nostra Costituzione attribuisce agli insegnanti e, con modalità e profili diversi, alle figure genitoriali, all’intero corpo sociale. Una garanzia per il diritto-dovere all’istruzione, la cui tutela è ancor più necessaria – oggi – a scuola sospesa, costretta al solo spazio virtuale. Anche perché la tecnologia è una “cultura”, che non è in alcun modo neutra, ma che nasce situata e “situa” chi la usa. Come dimenticare poi lo stretto e ormai soffocante legame tra tecnologia ed economicizzazione/aziendalizzazione della scuola, nel regno della quantificazione e della misurabilità?
Nell’ipotesi di un ritorno nelle classi controllato, da parte di circa 8 milioni di studenti e quasi un milione di insegnanti, e nell’attesa di condividere, non appena possibile, luoghi e spazi fisici in presenza, pensiamo valga la pena sottolineare alcuni aspetti che fanno sì che la scuola possa essere ancora libera, viva e significativa: dentro e fuori le mura.
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È di nuovo Primo Maggio
Andrea Bottalico e Francesco Massimo
Un nuovo progetto raccoglie l'eredità della più longeva delle riviste operaiste. E rilancia gli assi principali: l’inchiesta storica e militante assieme all’attenzione alle trasformazioni del lavoro e alle nuove figure sociali che le accompagnano
La rivista Primo Maggio (1973-1989), fondata e animata da Sergio Bologna, Cesare Bermani, Bruno Cartosio, Primo Moroni e altri fu di gran lunga la più longeva delle riviste «operaiste» (Quaderni Rossi pubblicò dal 1961 al 1965; Classe Operaia dal 1964 al 1967; Contropiano dal 1968 al 1971; Rosso dal 1973 al 1979). Questa longevità la rende una rivista meno legata alle contingenze politiche come potevano essere le altre – esposte ai capricci dei rapidi e imprevedibili avvicendamenti storici e di fase – e con un respiro di analisi più profondo. La sua longevità le permise di attraversare due decenni di segno opposto: prima quello dell’ascesa vorticosa e poi quello del lento declino del movimento operaio. E forse questa capacità di resistere, raccogliere energie e produrre analisi anche procedendo contro – ma in molti casi anticipando: si pensi alle intuizioni sulla crescente importanza della logistica così come del lavoro autonomo – il corso della storia rende quell’esperienza particolarmente affascinante e utile per il presente.
Negli scorsi due anni un gruppo di militanti e intellettuali – in buona parte ricercatori/trici precari/e – di diverse generazioni ha fondato il collettivo Officina Primo Maggio con l’obiettivo di recuperare e rivisitare l’esperienza dell’omonima rivista degli anni Settanta e Ottanta: in particolare la centralità del metodo dell’inchiesta – storica e militante – l’attenzione alle trasformazioni del lavoro e alle nuove figure sociali che le accompagnano. Ne avevamo parlato su Jacobin Italia con Sergio Bologna nello scorso gennaio. In quell’intervista Bologna ha insistito su un punto centrale del metodo della vecchia e nuova Primo Maggio:
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L’attualità del socialismo: Un problema storico-teorico
di Pasquale Serra
La struttura di classe della società italiana che la quarantena ha oggi evidenziato in tutta la sua virulenza e drammaticità, non nasce, ovviamente, con la quarantena stessa, perché essa era già squadernata, e pienamente visibile, sin dalla metà degli anni Ottanta del Novecento, se non da ancora molto prima. Così come, d’altronde, erano squadernati, e pienamente visibili, alcuni mutamenti radicali (dei veri e propri rovesciamenti) avvenuti, all’interno di essa, nei riferimenti sociali di destra e sinistra. Lo segnalava già Franco De Felice nella sua ultima, grande, opera, pubblicata nel 1996 per la Storia d’Italia Einaudi, nella quale, ragionando in maniera lucida e spregiudicata sulla nuova composizione sociale italiana, aveva sostenuto che nel blocco più protetto del nuovo quadro della competizione internazionale, c’è molto più la sinistra che la destra, la quale tende, invece, a rappresentare i settori più colpiti[1]. Si tratta di una situazione, questa, particolarmente anomala, perché è una situazione che capovolge i tradizionali riferimenti sociali di destra e sinistra (all’interno della quale, come diceva molto bene Mario Tronti, troppo spesso «vediamo una destra di popolo che avanza in Europa e in Occidente»), assegnando, ormai quasi stabilmente, i salotti alla sinistra e le periferie alla destra. Ma fino a quando, si chiedeva ancora Tronti, potrà durare una situazione come questa?[2]. E questa domanda, posta da Tronti, che individuava con precisione il rovesciamento avvenuto intorno ai rapporti tra classi sociali e ideologie politiche, risuona ancora di più oggi, come un pericolo, in tutta la sua virulenza e drammaticità, perché come ha scritto di recente Dider Eriban, un importante sociologo francese, «la quarantena evidenzia la struttura di classe della società», non solo nel mondo del lavoro, come è evidente, ma soprattutto fuori di esso, dove ci sono quelli che hanno perso tutto, e che «non hanno più niente».
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Instaurazione del rischio di estinzione
di Jacques Camatte
In un primo approccio, l’importanza eccezionale accordata agli effetti patologici legati all’infezione da coronavirus sembrerebbe un buon modo per mascherare il fenomeno essenziale in atto: la distruzione della natura e la rimessa in discussione del processo di vita organica sulla Terra. Si tratta della scomparsa di migliaia di specie e del blocco di tale processo in atto da quasi quattro miliardi di anni, che conducono ad un’immensa estinzione. Ora la Terra è un corpo celeste eccezionale e nessun altro somigliante è stato scoperto a migliaia di anni luce. Come può la specie escamotare* un tale evento, se non a causa della sua follia, rinchiudimento in un divenire, un’erranza, che la fa incapace d’immaginare qualcosa di diverso, in particolare una via d’uscita. Essa si preoccupa solo di se stessa, ignorando che ciò che subisce è una conseguenza della sua dinamica di separazione dalla natura e della sua inimicizia,1 sia interspecifica, che infraspecifica.
Tale dinamica di mascheramento è vera, evidente, ma questa affermazione non implica una sottovalutazione del fenomeno che stiamo subendo. È ciò su cui vogliamo insistere e non intendiamo separare i due fenomeni, ma al contrario integrare ciò che riguarda la specie nel divenire della totalità del fenomeno vivente.
Il carattere più importante di questa pandemia è il suo contagio fortissimo a causa del virus stesso ma soprattutto a causa della sovrappopolazione e della distruzione della natura che riduce il numero delle specie possibili ospiti. Essa è vissuta come una terribile minaccia.
Ora, in diversi momenti del loro processo di vita uomini e donne si trovano, consciamente o inconsciamente, in presenza della minaccia che in certi casi può manifestarsi come una minaccia ben determinata.
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Il capitalismo non è in quarantena
Innovazione e conflitti nella crisi da Covid-19
Giuseppe Molinari e Loris Narda intervistano Salvatore Cominu
A partire dagli spunti contenuti nel libro Frammenti sulle macchine, pubblicato per la collana Input di DeriveApprodi, discutiamo con Salvatore Cominu gli effetti che gli sconvolgimenti dell’emergenza sanitaria ed economica avranno sui processi di innovazione capitalistica, sulle prospettive di rilancio dell’accumulazione, sulle possibilità di un contro-uso della crisi.
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È innegabile che la crisi da Covid rappresenti un acceleratore dei processi di ristrutturazione capitalistica – pensiamo ad esempio alla spinta alla digitalizzazione del lavoro o della formazione – e una ghiotta opportunità per i Big Tech e per le altre imprese che vengono solitamente raggruppate sotto la definizione di «capitalismo delle piattaforme». È altrettanto vero che la crisi ha mostrato le fragilità strutturali dell’organizzazione capitalistica odierna: siti web che non reggono il numero degli accessi, catene di distribuzione incapaci di gestire il quantitativo d’ordini, l’improvvisazione su didattica a distanza e smart working. Si può dire che negli ultimi anni si è aderito pedissequamente alle retoriche capitalistiche sottovalutando lo scarto che c’è tra di esse e quello che effettivamente vediamo?
L’innovazione tecnologica è anche hype, l’innovatore e il suo venture capitalist sono attori che dialogano con i mercati corporate e finanziari, sono produttori di retoriche che spingono le aspettative, enfatizzando le utilità per i compratori (le imprese, gli individui, le organizzazioni) e il valore atteso che alimenta, in ultimo, le convenzioni finanziarie.
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Il crocevia della globalizzazione: quale mondo dopo il coronavirus?
di Andrea Muratore
Torna il nostro dossier “Coronavirus: sfide e scenari”, su cui oggi Andrea Muratore ci parla degli scenari a lungo termine aperti dalla pandemia e delle prospettive riguardanti le evoluzioni economiche, politiche e sociali indotte dalla pandemia in corso in tutto il mondo
L’epidemia di coronavirus e le sue conseguenze per le società del mondo globalizzato stanno, giorno dopo giorno, acquisendo tutte le caratteristiche di una svolta epocale. Di un contesto di catalizzazione di dinamiche, scenari e sviluppi già in atto, accelerati dall’incontro tra la pandemia originatasi in Cina e un mondo globalizzato di cui stavano, gradualmente, venendo in emersione spigolature e contraddizioni. Come ha dichiarato in un’intervista alla rivista francese Le Grand Continent la virologa Ilaria Capua, il virus e i suoi effetti corrono sfruttando la velocità e l’iperconnessione, fisica e non, del nostro sistema: “Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane”.
Il coronavirus impatta come il temuto “cigno nero”, lo shock esogeno teorizzato nell’omonimo saggio di Nassim Nicholas Taleb e che in Italia è stata resa popolare dall’attuale presidente della Consob Paolo Savona. La tutt’altro che remota ipotesi di una malattia pandemica accelerata dai meccanismi della globalizzazione si trasforma in uno shock sistemico. Paradigmi consolidati sono saltati in poche settimane, dopo che le società occidentali si erano cullate nell’illusione che le strategie draconiane messe in campo dalla Cina di Xi Jinping fossero sufficienti a prevenire un’espansione del coronavirus oltre i confini dell’Impero di Mezzo.
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Tagliare la democrazia?
di Geminello Preterossi
Dopo più di due mesi di quarantena, si può dire che il timore che avevo manifestato all’inizio – cioè che un’emergenza reale, dalle cause e implicazioni innanzitutto politiche e sociali (la destrutturazione del Welfare e del sistema sanitario, perché “ce lo chiedeva l’Europa”) potesse scivolare, come su una sorta di piano inclinato, verso una qualche forma di stato di eccezione – si è rivelata purtroppo abbastanza fondata. Dopo il primo impatto, traumatico, con il virus, sono emersi progressivamente errori, omissioni, inspiegabili falle, e anche qualche scivolata (probabilmente dovuti, almeno in parte, a confusione, spiazzamento, cattivi consiglieri, più che a intenzioni sbagliate). E soprattutto si intravedono, oggi, i possibili effetti a lungo termine, dal punto di vista democratico. Prima di ragionare sul futuro, però, è bene fare con franchezza un elenco delle cose che non possono passare in cavalleria: la stigmatizzazione di Andrea Crisanti, che ha salvato il Veneto, seguita da imbarazzati silenzi e mezze ammissioni, troppo tardive ed evasive, da parte dei “tecnici di governo”. La non trasparenza dell’OMS, oggetto di molti condizionamenti e pressioni, che si è riflessa anche sulle direttive ondivaghe e opache dei consulenti cui il governo si è affidato. Le cure snobbate o addirittura osteggiate e poi rivelatesi importanti e comunque utili (plasma, eparina ecc.). La demonizzazione di persone serie (spesso medici in prima linea), semplicemente perché non allineati a una presunta “verità” ufficiale (salvo poi ammettere a denti stretti che avevano ragione: si veda il caso di De Donno a Mantova). L’operazione di drammatizzazione mediatica (dopo una maldestra rassicurazione iniziale), per coprire una grave sottovalutazione all’inizio, che ha imposto una soluzione estrema e generalizzata dopo, la quale ha di fatto scaricato quasi integralmente sui cittadini il peso della risposta alla crisi.
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Internet e social media prima e dopo il Coronavirus
Fraintendimenti e deviazioni che tradiscono la democrazia sociale
di Alessandra Valastro
1. La prova di Internet e dei social media nell’emergenza del 2020: una vittoria o un disvelamento? Qualcosa non torna
Pasquale Costanzo ha sempre affermato che Internet è strumento e non diritto, mezzo e non fine: un mezzo strumentale all’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti, e come tale insuscettibile di essere considerato oggetto di un diritto a sé stante.
Ragionando sul “posto” di Internet nell’ordinamento costituzionale italiano, egli ha invitato a resistere alla tentazione di riconoscere alle pur straordinarie caratteristiche della Rete «capacità nomopoietiche tali da accreditare senz’altro la comparsa di un nuovo, autonomo e, secondo taluni, fondamentale diritto individuale, identificabile con quello di accedere al mezzo»[1]. La rilevanza costituzionale di Internet comincia e finisce nel suo essere strumento, come tale «connotato dalla stessa libertà di qualsiasi altro mezzo idoneo ed efficace per l’esercizio di diritti costituzionalmente guarentigiati». Ciò significa che la natura servente di Internet non muta, e non deve mutare, qualunque sia la tipologia dei diritti che la Rete si accinge a servire (civili, politici, sociali, economici); ed anche quando l’accesso ad essa valga a contribuire alla rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comm 2, Cost.)”»[2].
Mai come oggi questo assunto si manifesta in tutta la sua esattezza, sobrietà, lungimiranza.
Eppure, allo stesso tempo, mai come oggi si ha la sensazione che qualcosa non torni.
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Politica-struttura e socializzazione delle perdite
di Alessandro Pascale e Roberto Sidoli
Nel capitalismo di Stato contemporaneo assume ormai un ruolo sempre più importante la praxis e la regola antiliberista della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite a favore dei grandi monopoli privati. Si tratta di un segmento della sfera politica borghese nella quale emerge con particolar evidenza, a partire dal 1929, la funzione concreta assai rilevante svolta da quest’ultima in qualità di “espressione concentrata dell’economia” (Lenin, 1921) e della politica-struttura, intesa come l’insieme delle azioni materiali degli apparati statali che modificano e influenzano in prima persona, in modo più o meno costante e con effetti sensibili, proprio il processo di produzione delle variegate formazioni economico-sociali di matrice capitalista.
A tal proposito l’inizio del 2020 ha mostrato una vera e propria orgia di aiuti statali e parastatali (quali le banche centrali degli USA, dell’Europa e del Giappone) a favore delle grandi imprese private, dei “too big to fail” delle metropoli imperialistiche, demolendo e ridicolizzando – come durante la gravissima crisi economica e finanziaria del 2007-2009 – per l’ennesima volta la logora favoletta relativa alle presunte virtù taumaturgiche del libero mercato e della sua presunta “mano invisibile”. Molto visibile e concreta, viceversa, si è rilevata la “mano” e la pratica politico-economica dell’amministrazione Trump, a favore della finanza e dei grandi trust statunitensi.
– Negli USA
Secondo Fabio Scacciavillani, professore di economia e commercio alla Luiss di Roma, il ruolo della banca centrale negli USA è di «garantire i profitti della Borsa», piuttosto che di «assicurare la stabilità dei prezzi».
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Il lavoro e le macchine
di Andrea Cengia
Raniero Panzieri: Politica, etica e teoria come coordinate dell’azione
Nel 2021 ricorrerà il centenario della nascita di Raniero Panzieri, padre nobile dell’operaismo italiano e fondatore dei Quaderni Rossi. Per l’occasione ombre corte pubblica Il lavoro e le macchine. Critica dell’uso capitalistico delle macchine, una raccolta di scritti di Panzieri a cura di Andrea Cengia. Pubblichiamo qui un estratto dall’introduzione. Ringraziamo l’editore e l’autore per la collaborazione e ricordiamo che il libro si può acquistare e ordinare direttamente sul sito di ombre corte, in libreria e negli store online. Sosteniamo sempre l’editoria indipendente, in modo particolare ora. Rimettere in circolazione classici del pensiero critico e militante è un progetto culturale e politico indispensabile per ricominciare a respirare.
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A quasi cento anni dalla sua nascita, vengono qui proposti alcuni articoli e saggi di Raniero Panzieri che, lungi dal rappresentare esaustivamente la sua intera produzione, hanno lo scopo di riaprire un dialogo con il suo patrimonio di esperienza politica, teorica e culturale. Senza entrare nel dettaglio della sua straordinaria, quanto difficile biografia, occorre ricordare brevemente che Raniero Panzieri, nato nel 1921, è stato all’origine un dirigente del Partito socialista italiano (Psi) appartenente alla corrente di Rodolfo Morandi con il quale ha sviluppato una forte intesa politica e culturale.
Durante l’esperienza di partito egli ha avuto modo di toccare da vicino la condizione dei braccianti nel sud Italia per poi giungere, negli anni Sessanta, a conoscere i destini delle industrie del nord, spesso popolate da molti braccianti di quel sud che Panzieri aveva ben conosciuto. Nel 2021 ricorrerà il centenario della nascita e questa raccolta di saggi guarda a quell’anniversario non certo con un atteggiamento “memorialistico” o “monumentale”.
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Sovranità (monetaria) o barbarie
di Stuart Medina e Manolo Monereo
Non si può separare la politica monetaria da quella fiscale.
Ogni volta che ci si prova, le motivazioni di solito sono tutt’altro che innocenti e le conseguenze possono rivelarsi disastrose. Questa schizofrenia monetario-fiscale rappresenta spesso uno stratagemma per limitare il potere di uno Stato, subordinandolo a istanze antidemocratiche.
La moneta è un elemento fondante dei rapporti di potere non solo all’interno di uno Stato, ma anche fra gli Stati. L’architettura dei meccanismi di creazione e distruzione della moneta ha un effetto sulla possibilità di accedervi e, quindi, sulla sua distribuzione sociale.
In uno Stato capitalista, le banche, spesso private, sono autorizzate a operare in un altro circuito monetario che fa leva sulla moneta dello Stato. Il circuito inizia con la concessione del credito, che implica la creazione di depositi o di denaro bancario nel medesimo atto, e si chiude con il rimborso dei prestiti. Questo meccanismo conferisce un immenso potere alla classe capitalista perché gli permette di decidere quali risorse verranno mobilitate e quali attività economiche potranno realizzarsi. Ma allo stesso tempo, il sistema finanziario capitalista genera instabilità perché inanella cicli speculativi con periodi di depressione prolungati. Lo Stato capitalista crea categorie privilegiate che usufruiscono di un accesso privilegiato alla moneta per facilitare il processo di accumulazione.
Lo Stato dotato di sovranità monetaria può compensare l’instabilità del sistema finanziario con una rigorosa supervisione bancaria e agendo in chiave anticiclica grazie alla sua capacità di emissione illimitata che gli consente di pagare per i “cocci” quando scoppia una bolla.
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Tempo e Denaro. Risguardi. Franco Piperno interprete di Marx
Inviato da Eugenio Donnici
1. Nel periodo in cui ho vissuto nel campus dell’Università della Calabria accadeva, molto spesso, cosi come accadeva con i vecchi compagni di strada, nel piccolo borgo silano, di accostarsi alla teoria del valore-lavoro di Marx con un approccio intriso di curiosità, interesse, sete di conoscenza unita a un’attitudine a riconoscere la complessità del pensiero. Tutto ciò ci portava a percepire, inconsapevolmente, le complicate interpretazioni a cui questa teoria era stata sottoposta, finendo per farci abbandonare il campo. Anche perché si arrivava alla conclusione che bisognava continuare ad indagare, a studiare ed approfondire non solo l’opera del pensatore tedesco, ma anche tutte quelle opere i cui autori si erano cimentati, misurati con la coerenza della cosiddetta legge del valore-lavoro. Paradossalmente, è stato proprio quest’atto di uscir fuori dallo schema, di non seguire un programma lineare, che ha fatto riemergere il bisogno di riprendere quel cammino, in realtà mai interrotto completamente, e ricco di linfa vitale.
Complice di questo nuovo desiderio, di continuare ad indagare una teoria che ha dato luogo a molte controversie, in quella che viene definita una vera e propria «Babele del marxismo», nei suoi numerosi attacchi per scuotere la validità e quindi le fondamenta dell’intero impianto teorico che si regge su quella scoperta, è stato proprio un articolo di una delle menti più brillanti di quell’ateneo che, in qualche modo, mi ha colto in contropiede. L’articolo in questione è «Lavoro e tempo di lavoro in Marx», di F. Piperno, una persona che ha messo a disposizione del movimento operaio tutta la sua conoscenza scientifica. Piperno ha saputo guardare lontano ed è riuscito ad incidere nella politica, pagando un prezzo molto elevato. Quando nell’Università della Calabria fecero irruzione i gendarmi, sequestrarono e distrussero libri come «La rivoluzione terrestre». Egli, com’è noto, riuscì a rifugiarsi in Francia, evitando le maglie della rete del Teorema del 7 aprile.
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