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Note sulla questione comunista in Italia
di Fausto Sorini
Credo che abbia fatto bene Marco Pondrelli, direttore del nostro sito, ad aprire con un editoriale il dibattito sulla questione comunista, con una particolare attenzione all’Italia. Perchè se è vero – come scrive – che “oggi nell’Unione europea la forza dei comunisti è marginale, … se guardiamo al caso italiano la situazione è ancora peggiore, desolante” e “di scissione in scissione oramai gli iscritti ed i militanti dei tanti partiti sono sempre meno e i gruppi dirigenti sono sempre più litigiosi e lontani dal mondo del lavoro”, privi di autentico radicamento nella società e nei luoghi del conflitto sociale.
Sappiamo bene che le ragioni più profonde di questa situazione, nel Paese che pure fu patria del partito di Gramsci, di Togliatti, di Longo, di Secchia, vengono da lontano e rimandano ai processi degenerativi insiti nella “mutazione genetica” del PCI, nella sua dissoluzione, nella incapacità dei gruppi dirigenti sorti dopo la fine del PCI di ricostruire una forza comunista anche piccola nelle sue dimensioni, ma solida ed espansiva, relativamente omogenea sul piano ideologico, della collocazione internazionale, della concezione dell’organizzazione, espressione dei settori di avanguardia del mondo del lavoro, dei giovani, degli intellettuali (cioè leninista non solo a parole).
A oltre 30 anni dalla fine del PCI – essendo pure stati alcuni di noi protagonisti di esperienze che risalgono già agli anni ’70 del secolo scorso (Interstampa nel PCI, l’Ernesto in Rifondazione, MarxXXI prima serie nel PdCI) – possiamo dire responsabilmente che tutti questi tentativi sono falliti o sono stati sconfitti: sia per limiti soggettivi interni a loro stessi, sia per una inferiorità troppo grande nei rapporti di forza con chi è sceso in campo per osteggiarli, dall’interno e dall’esterno.
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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente
di Fabio Ciabatti
Qui i capitoli 1. e 2.
3. A proposito di oligarchie
Nella saga di Star Wars, vera e propria fabbrica di moderni archetipi, l’intero universo è permeato e governato da una sorta di misterioso campo di energia, la “forza”. Questa però ha anche il suo lato scuro, che, in ultima istanza, genera il più terrificante dei nemici, l’Impero. C’è un momento di verità in questo modo di concepire il nemico. Ed è per questo che può essere utilmente applicata alla Russia di Putin che, al di là dei punti di scontro, condivide con l’Occidente l’accettazione dei principi del capitalismo neoliberista, a differenza di quanto avveniva con l’URSS che proponeva un sistema socioeconomico diverso da quello capitalistico (quanto poi fosse migliore è un’altra questione). Rimanendo all’allegoria cinematografica, possiamo considerare la forza come i flussi di valore capitalistici che oramai attraversano e plasmano l’intera realtà producendo anche il tenebroso capitalismo russo. Ovviamente il meccanismo narrativo e quello ideologico funzionano finché lo scontro tra il bene e il male è raffigurata come la lotta tra Davide e Golia. Nella realtà i rapporti di forza sono ribaltati, ammesso che la guerra attuale è uno scontro tra Usa e Russia per interposta Ucraina.
Potrebbe sembrare frivolo, di fronte alle tragedie della guerra, chiamare in causa Hollywood, ma la guerra si combatte anche sul piano dell’immaginario. Continuiamo perciò ad approfondire gli elementi che la metafora del nemico come lato oscuro ci consente di cogliere. A questo proposito un’obiezione sorge immediata: cosa c’entra un sistema statalista, oligarchico, autoritario con l’Occidente caratterizzato da mercato, concorrenza e democrazia?
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Il Grande Contraccolpo: ascesa e prospettive del neostatalismo
di Marco Duò
Recensione di Paolo Gerbaudo: Controllare e proteggere. Il ritorno dello Stato, Milano, Edizioni nottetempo, 2022 (ed. orig. The Great Recoil: Politics After Populism and Pandemic , Brooklyn, Verso Books, 2021)
Chi ultimamente ha prestato attenzione alla cronaca avrà forse notato uno shift notevole nel comportamento delle più grandi istituzioni economiche, finanziarie e governative incaricate di gestire la crisi attuale; la Bce, ad esempio, la cui principale prerogativa è sempre stata la solidità dell’euro e il contenimento dei prezzi, sembra oggi aver assunto un atteggiamento più che tollerante nei confronti dell’inflazione. Tale atteggiamento può lasciare perplesso chi ha sempre creduto che la Banca centrale europea fosse un baluardo delle politiche economiche ultraliberiste improntate sull’austerity. Tuttavia, le motivazioni dietro a questa scelta sono chiare: l’unico modo per far ripartire l’economia sono gli investimenti e l’accesso facilitato al credito, ma, com’è noto, questo richiede che i tassi d’interesse rimangano il più possibile vicino allo zero, il che, a sua volta, implica un aumento dell’inflazione dovuto alla crescente quantità di moneta in circolazione. Questa situazione viene a crearsi, fra le altre cose, con il ricorso al Quantitative Easing (Qe) e alla continua introduzione di spese per il sostegno della domanda e misure d’assistenza sociale, fattori che non sono di certo mancati negli ultimi mesi. Sebbene, proprio in questi giorni, la Fed abbia deciso di distaccarsi da questo indirizzo, annunciando un imminente rialzo dei tassi d’interesse, si ricorderà senza dubbio il ruolo che essa ha giocato nel finanziamento dello stimulus check trumpiano e dei recenti piani multimiliardari di Biden. Insomma, pare che di comune accordo banche e governi abbiano abbandonato le politiche di contenimento della spesa degli ultimi anni, arrivando persino a sospendere il Patto di Stabilità, il tutto in nome della ripresa postpandemica.
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Sulla guerra in Ucraina, dal punto di vista dell’internazionalismo
di Pietro Basso
Questo è il testo di un intervento che il compagno Pietro Basso (della redazione di questo blog e della rivista Il Cuneo rosso) ha tenuto a Lucca venerdì 24 giugno ad un’iniziativa sulla guerra in Ucraina, volta a denunciare il bellicismo pro-NATO che ogni giorno di più impazza in Italia, con i suoi risvolti maccartisti tra l’orrido e il grottesco. Essendo un intervento di 15-20 minuti, non poteva essere, né pretende di essere in alcun modo, esauriente – tanto per dirne solo una, non tratta delle questioni dell’autodeterminazione degli ucraini e degli abitanti del Donbass. Ma intende, questo sì, guardare alla guerra in corso dal punto di vista dell’internazionalismo militante. Ed è, perciò, del tutto fuori dai cori. Contro, anzitutto, l’assordante coro militarista e bellicista del capitale nazionale e dell’imperialismo occidentale; ma senza concessioni ai piccoli, molteplici cori campisti e simil-campisti, anch’essi soggiogati dalle logiche e dagli interessi statuali (capitalistici, cioè), e lontani, se non lontanissimi, dalla logica e dagli interessi di classe. (Red.)
* * * *
Ho da fare tre premesse. La prima, ovvia; la seconda, un po’ meno; la terza, insolita.
La prima. Quella che si sta combattendo in Ucraina non è una guerra tra Russia e Ucraina. È una guerra tra NATO/Occidente e Russia (con dietro la Cina), ed è il seguito dell’infausto 2014 di Euromaidan, lo sbocco della contesa globale cominciata nel 1991 per arraffare le smisurate ricchezze naturali e di forza-lavoro dell’Ucraina. Una contesa in cui la “nostra” squallida Italia è stata ed è in prima fila, appropriandosi della vita di 200.000 donne di ogni età e di terre fertili, impiantandovi più di 300 aziende, seminando corruzione e germi di guerra.
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La requisitoria di Sahra Wagenknecht e i suoi limiti
di Carlo Formenti
Il titolo del libro di Sahra Wagenknecht - dirigente storica della Linke, partito di cui è stata vicepresidente dal 2010 al 2014 – rischia di suscitare aspettative eccessive: Contro la sinistra neoliberale (Fazi editore) evoca infatti una svolta radicale, una presa di congedo netta e senza tentennamenti da ciò che le sinistre – non solo la tedesca, bensì tutte le sinistre occidentali – oggi rappresentano. Ci si aspetterebbe, insomma, di leggere una condanna senza appello, del tenore di quella contenuta nella lettera aperta di Hans Modrow alla Linke che abbiamo rilanciato su questa pagina https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2022/02/lettera-di-hans-modrow-alla-linke-hans.html
Viceversa il punto di vista della Wagenknecht è più sfumato e contraddittorio. Non che manchino accenti durissimi nei confronti di quella che l’autrice definisce “sinistra alla moda”: come vedremo fra poco, la sua requisitoria è lunga, dettagliata e argomentata, così come è corretta la sua analisi delle radici di classe del fenomeno politico in oggetto. A lasciare perplessi è però il tentativo di tracciare un confine fra neoliberalismo “di sinistra” e liberalismo tour court; un approccio che legittima l’idea secondo cui il liberalismo di sinistra tradizionale, o liberal socialismo, non è il grembo che ha partorito l’attuale sinistra neoliberale, bensì qualcosa di completamente diverso, un patrimonio di idee e valori da cui si potrebbe trarre il materiale per rifondare una “vera” sinistra. Ma procediamo con ordine.
Il bersaglio della Wagenknecht sono coloro che non pongono più al centro della propria attenzione i problemi sociali e politico-economici bensì le tematiche relative allo stile di vita, alle abitudini di consumo e ai giudizi morali sui comportamenti.
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Cina, Italia, BRICS, mondo multipolare
Pasquale Cicalese intervista Fausto Sorini
Ho già ospitato Fausto Sorini su questo blog con un suo intervento. Il più letto in assoluto. 4 settimane fa gli ho chiesto un’intervista, mi ha fatto attendere ma vi assicuro che ne è valsa la pena, come potete leggere. Fausto Sorini, dirigente Pci e Rifondazione poi, responsabile esteri del Pdci, decenni di relazioni con tanti paesi al mondo, in primis Urss e Cina, dice la sua sulla situazione attuale. Sono felice che me l’abbia concessa, voglio bene a Fausto, ogni tanto lo faccio penare, ma lui, uomo di mondo, si fa scivolare il tutto. E’ tramite lui, assieme a Vladimiro Giacchè, che ho avuto una lunga collaborazione con Marx 21. Molti di quei scritti fanno parte del libro Piano contro mercato. Fausto mi ha invitato come relatore diverse volte a convegni con accademici cinesi di cui sono tuttora molto orgoglioso. Non collaboro da un pò con Marx 21, ogni tanto mando materiali, ma il rapporto con Fausto non è mai venuto meno. Parla bene de Lantidiplomatico dove scrivo da anni, mi sostiene e mi aiuta. Un amico, insomma. Buona lettura.
* * * *
1-Nell’intervista che ho concesso all’Antidiplomatico mi contesti il quadro che dò della Cina nel periodo denghista, vedendolo come un approccio sindacalese e non politico. La tua opinione della Cina di quel periodo qual’è?
Non ho detto “sindacalese”, ma troppo economicistico.
Esistono almeno due fasi della direzione di Deng. La prima è quella che inizia con le riforme annunciate nel 1978, che traggono la loro origine da una considerazione critica sul modello sovietico di statalizzazione integrale dell’economia.
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Il futuro del lavoro
di Michael Roberts
Parte I. Il lavoro a distanza
Poche settimane fa, l'uomo più ricco del mondo Elon Musk, CEO di Tesla, ha detto ai suoi dipendenti che dovevano tornare in ufficio o lasciare l'azienda. Musk ha scritto in un'e-mail che tutti in Tesla devono trascorrere almeno 40 ore a settimana in ufficio. “Per essere super chiari: l'ufficio deve essere il luogo in cui si trovano i tuoi colleghi effettivi, non uno pseudo ufficio remoto. Se non ti presenti, daremo per scontato che ti sia dimesso". Ha poi continuato a lodare i lavoratori nelle sue fabbriche cinesi per aver lavorato fino alle 3 del mattino, se necessario. Nel 2021, l'amministratore delegato di Goldman Sachs, David Solomon, ha affermato che "il lavoro a distanza non è l'ideale per noi e non è una nuova normalità" e ha previsto che sarebbe stata "un'aberrazione che correggeremo il più rapidamente possibile " . Un anno dopo, tuttavia, meno della metà dei dipendenti della banca si recava regolarmente alla sede di New York, costringendo Solomon a supplicare nuovamente il personale di tornare. Anche l'anno scorso, Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan Chase, ha affermato che lavorare da casa “non funziona per la generazione spontanea di idee. Non funziona per la cultura". Dimon alla fine cedette e disse che il 40% dei 270.000 dipendenti della banca poteva lavorare solo due giorni alla settimana dall'ufficio. Nella sua lettera annuale agli azionisti, ha affermato“è chiaro che il lavoro da casa diventerà più permanente negli affari americani”. Musk e questi altri boss sono come Re Canuto che cerca di invertire la tendenza. Dopo la pandemia, molti lavoratori si rifiutano di tornare a una settimana di cinque giorni a tempo pieno. Più di un terzo della forza lavoro in ufficio del Regno Unito lavora ancora da casa.
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Prefazione a Karl Marx: Scritti di critica dell'economia politica
di Giovanni Sgrò
Karl Marx: Scritti di critica dell'economia politica, Pgreco/Filo Rosso, 2022
1. Presentazione dei testi
Il presente volume ripropone in veste invariata la raccolta di testi marxiani, allora veramente “inediti” in Italia, pregevolmente curata da Mario Tronti nel 1963. I testi sono i seguenti:
1) Il commento di Marx agli estratti, risalenti al 1844-1845, dalla traduzione francese del libro di James Mill, Elemens d’économie politique (Paris 1823).
2) La parte superstite (risalente al periodo settembre-ottobre 1858) del secondo e del terzo capitolo, dedicati rispettivamente al denaro e al capitale, del “testo primitivo” (Urtext) di Per la critica dell’economia politica (1859).
3) L’appendice sulla forma di valore per i lettori “non dialettici”, che Marx su consiglio di Friedrich Engels (1820-1895) e di Louis Kugelmann (1828-1902) preparò per la prima edizione del primo libro de Il capitale (1867). Nella seconda edizione (1872) Marx fuse poi insieme il primo capitolo della prima edizione e l’appendice per i lettori “non dialettici” nell’unica nuova versione del primo capitolo, che sarà alla base anche dell’edizione francese (1872-1875) e della terza (1883) e quarta (1890) edizione, pubblicate queste ultime due postume da Engels.
4) Le glosse, risalenti al 1881, alle parti della seconda edizione (1879) del Manuale di economia politica del “socialista della cattedra” Adolph Wagner (1835-1917), in cui erano contenuti riferimenti espliciti alla prima edizione del primo libro de Il capitale (1867).
5) L’inchiesta operaia preparata personalmente da Marx nel 1880 per il movimento rivoluzionario francese.
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Vertice Brics e vertice Nato, un nuovo mondo contro l’imperialismo
di Geraldina Colotti
Oltre il 40% della popolazione mondiale e quasi un quarto del prodotto interno lordo globale. Questo rappresentano i cinque paesi appartenenti ai Brics, acronimo di un gruppo di mercati emergenti composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica –, che si sono riuniti a Pechino il 23 e il 24 giugno, per un vertice dal titolo “Dialogo di alto livello sullo sviluppo globale”. Quest’anno, il commercio tra la Cina e gli altri Paesi del gruppo, fondato nel 2009, ha registrato un aumento del 12,1% rispetto al 2021. Il volume degli scambi commerciali è in crescita, si è detto nella riunione d’apertura, e basato su una cooperazione complementare in materia di sanità, medicina tradizionale, ambiente, scienza e tecnologia, innovazione, agricoltura, istruzione e formazione tecnica e professionale, micro, piccole e medie imprese.
Un campo destinato ad ampliarsi ulteriormente perché la Cina, a cui spetta ora la presidenza di turno, sta lavorando a una piattaforma che coinvolga le economie emergenti, e i principali paesi in via di sviluppo, in alternativa al blocco occidentale a guida Usa, e in nome di una cooperazione su scambi commerciali ed economia. Alcuni di questi paesi, come Kazakhistan, Arabia Saudita, Argentina, Iran, Egitto, Indonesia, Nigeria, Senegal, Emirati Arabi Uniti, Algeria e Tailandia, sono stati invitati ai lavori del vertice come potenziali nuovi soci, e hanno partecipato alla riunione Brics+.
L’acquisizione più importante sarà quella dell’Argentina, che cerca una sponda forte per uscire dal ricatto del Fondo Monetario Internazionale e aggirare le limitazioni nell’accesso al credito internazionale.
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Un reset al servizio delle persone
di Ellen Brown
Invece di accettare il distopico “Great Reset” del World Economic Forum, possiamo costruire un sistema alternativo con il mandato di servire le persone
Questa è la seconda parte del articolo del 17 giugno 2022 intitolato ” Un ripristino monetario in cui i ricchi non possiedono tutto “, il cui succo era che i livelli di debito nazionale e globale sono insostenibili. Abbiamo bisogno di un “reset”, ma di che tipo? Il “Great Reset” del World Economic Forum (WEF) lascerebbe le persone come inquilini non proprietari in una tecnocrazia feudale. Il ripristino dell’Unione economica eurasiatica consentirebbe alle nazioni partecipanti di rinunciare del tutto al sistema capitalista occidentale, ma che dire dei paesi occidentali rimasti? Questa è la domanda qui affrontata.
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I nostri antenati avevano alcune soluzioni innovative
Fortunatamente per gli Stati Uniti, il nostro debito nazionale è in dollari USA. Come ha osservato una volta l'ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan , "Gli Stati Uniti possono pagare qualsiasi debito che hanno perché possiamo sempre stampare denaro per farlo. Quindi non c'è nessuna probabilità di default". Pagare il debito pubblico semplicemente stampando il denaro era la soluzione innovativa dei governi coloniali americani a corto di liquidità. Il problema era che tendeva ad essere inflazionistico. Il tagliando di carta che emettevano era considerato un anticipo contro le tasse future, ma era più facile emettere il denaro che tassarlo dopo e un'emissione eccessiva svalutava la moneta. La colonia della Pennsylvania ha risolto il problema formando una " banca fondiaria " di proprietà del governo . Il denaro è stato emesso come credito agricolo che è stato rimborsato. La nuova moneta è uscita dal governo locale e vi è tornata, stimolando l'economia e il commercio senza svalutare la moneta.
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La parabola dell’economia politica
Parte V: Marx, la crisi e le leggi di movimento del capitalismo
di Ascanio Bernardeschi
L’ultimo articolo su Marx riguarda la spiegazione della crisi economica e le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico: concentrazione e centralizzazione dei capitali, finanziarizzazione, polarizzazione della ricchezza e impoverimento relativo dei lavoratori. Qui la parte I, qui la parte II, qui la parte III, qui la parte quarta
Le cause delle crisi
Ai tempi di Marx, gli economisti borghesi ortodossi erano convinti che la crisi non potesse esistere. Ciò vale non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi, grandi economisti classici. Secondo Adam Smith, per esempio, i meccanismi del mercato sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere all’egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del mercato, mentre lo Stato, per non compromettere questo idillio, dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, pur importanti, quale l’istruzione, la difesa ecc., astenendosi dall’interferire nell’economia.
David Ricardo, da parte sua, aderisce alla cosiddetta legge di Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di sovrapproduzione sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta.
Nei precedenti articoli abbiamo avuto occasione di esporre la confutazione marxiana della legge di Say e quindi la possibilità della crisi.
Tuttavia essa, per Marx, non è solo possibile, ma necessaria, un dato fisiologico del modo di produzione capitalistico, è anche il modo violento con cui tale sistema economico risolve le sue contraddizioni. Quindi occorre esporre gli argomenti di Marx che spiegano come questa possibilità sia anche effettualità. L’argomento fondamentale è che il profitto, la valorizzazione del capitale, l’accumulazione di ricchezza astratta, è l’unico scopo perseguito dai capitalisti e che essi interrompono la loro attività, tolgono il denaro dalla circolazione, non lo reinvestono in attività produttive, lo tesaurizzano o lo investono in attività puramente finanziarie e speculative, quando non ci sono le condizioni per una sua sufficiente remunerazione, innescando effetti a catena per cui le disgrazie di qualche capitalista si ripercuotono con un effetto domino su altri capitalisti che vedono restringere la loro fetta di mercato.
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Chakrabarty, “Clima, storia e capitale”
Invito alla lettura
di Massimo Canella
Dipesh Chakrabarty: Clima, Storia e Capitale, Nottetempo, 2021
“Finora la maggior parte delle nostre libertà sono state ad alto consumo energetico. Il periodo della storia umana solitamente associato a ciò che noi oggi riteniamo essere le istituzioni della civiltà – l’avvio dell’agricoltura, la fondazione delle città, l’emergere delle religioni conosciute, l’invenzione della scrittura – ha avuto inizio circa diecimila anni fa, proprio quando il pianeta stava passando da un periodo geologico, l’ultima era glaciale o Pleistocene, al più recente e caldo Olocene. Noi dovremmo essere nell’Olocene: ma la possibilità del cambiamento climatico antropogenico ha sollevato la questione della sua fine. Ora che gli umani – grazie al nostro numero, all’utilizzo di combustibili fossili e ad altre attività collegate – sono diventati un agente geologico sul pianeta, alcuni scienziati hanno proposto che dovremmo riconoscere l’inizio di una nuova era geologica: un’era in cui gli umani agiscono come i principali fattori determinanti dell’ambiente del pianeta. Il nome che hanno inventato per questa nuova epoca geologica è Antropocene” (Dipesh Chakrabarty, “Clima Storia e Capitale”, Milano 2021, p. 69-70).
Nei densi articoli pubblicati nel 2009 e nel 2014 su Critical Inquiry a proposito del riscaldamento globale, pubblicati da Nottetempo di Milano nel 2021 col titolo “Clima Storia e Capitale”, oltre che in numerosi interventi successivi compreso il volume collettaneo su “La sfida del cambiamenti climatico. Globalizzazione e Antropocene” pubblicato in traduzione nel 2021 da Ombrecorte di Verona, Denis Chakrabarty svolge argomentazioni che sostengono:
1) l’impossibilità di continuare a trattare separatamente storia naturale e storia umana, che induce a una critica radicale delle correnti filosofie della storia e dello statuto che gli storici ritengono conveniente al proprio ambito disciplinare;
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Dugin o non Dugin
di Michele Castaldo
Scrivo queste note prendendo spunto dalle polemiche di alcuni interventi su sinistrainrete.info circa l’utilità di leggere o meno Dugin. Dico subito che molte domande ed altrettante risposte sono mal poste. Chi mi conosce sa che non vado per il sottile e sono solito affrontare le cose di petto, come dovrebbe fare chiunque ama richiamarsi alle ragioni del comunismo.
Anche un uomo di destra può dire cose interessanti? Posta in astratto la domanda chiunque può dire delle cose interessanti, anzi Pirandello dice che per conoscere certe verità di un villaggio bisogna ascoltare il personaggio ritenuto « lo scemo del villaggio », ma Dugin non è « lo scemo del villaggio » e se si apre un dibattito sulle sue tesi vuol dire che le questioni che stanno a monte sono molto più complicate di come le vogliamo rappresentare. Non meniamo il can per l’aia e veniamo perciò alla questione teorica a monte. Prometto di non fare sconti e parto con un esempio.
Molti compagni della mia generazione (i canuti nei paraggi degli ottanta ormai) hanno letto La città del sole di Tommaso Campanella, il filosofo calabrese vissuto tra il ‘500 e il ‘600. Un filosofo apprezzato e stimato. Bene. Ne La città del sole quando parla della procreazione – cito a memoria – indica un criterio di selezione della specie umana, ovvero che i figli devono essere generati da coppie sane preventivamente accertate. Un criterio molto prossimo a Campanella lo esprimeva Hitler, o i filosofi di regime del nazionalsocialismo tedesco. Il nazionalismo tedesco è stato eletto a « male assoluto », mentre Tommaso Campanella continua a essere stimato nella sinistra come un grande filosofo idealista.
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Le scelte paradossali e ipocrite dei paesi imperialisti
di Alessandra Ciattini
Nonostante tutti i tentativi l’Unione Europea non riesce a rendersi indipendente dalle risorse energetiche russe e tutte le conseguenze negative delle sue scelte nefaste ricadono su noi lavoratori
Se disinformare oggi vuol dire affermare qualcosa che i media dominanti non rendono noto, stiamo facendo disinformazione, ne siamo perfettamente consapevoli e ce ne assumiamo tutte le responsabilità. Arriviamo addirittura a citare, tra le altre, fonti russe, anche se questo non significa automaticamente che apprezziamo la Russia attuale, così come si è strutturata con la dissoluzione dell’Urss, le cui straordinarie risorse hanno sollecitato gli appetiti degli imperialisti, che pensavano di potersene approfittare senza colpo ferire. E Infatti hanno guidato la mano dei cosiddetti oligarchi a far man bassa delle proprietà collettive, appropriandosene di una parte consistente, frazionata in pacchetti azionari, e controllando direttamente il rilevante apparato militare ex sovietico. Purtroppo per loro questo processo distruttivo ha avuto termine, la Russia ha ripreso nelle proprie mani il suo destino e si è riaffacciata sullo scenario internazionale facendo presenti i suoi interessi, come fanno tutte le grandi potenze, anche se li nascondono dietro la retorica dei valori e degli ideali, la cui consistenza è più fragile della neve al sole.
Naturalmente non ci richiameremo solo a fonti russe, ma faremo dei parallelismi per verificarne l’attendibilità. Invitiamo “i guardiani della verità” a rispondere con degli argomenti ai nostri argomenti, anche per evitare di fare la figura pietosa della Sarzanini, che non è stata capace di rispondere alle semplici domande postele da Giorgio Bianchi e Manlio Dinucci sulla loro “attività disinformativa”. Sappiamo bene che l’invito è inutile, ma la buona creanza e la logica ci ispirano; sappiamo anche che i suddetti guardiani hanno ragione solo perché hanno dalla loro parte la forza, ossia lo straordinario apparato mediatico, che però comincia a convincere sempre meno persone.
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Figli di Eichmann?
di Finimondo
«L’ingenua speranza ottimistica del diciannovesimo secolo, quella secondo cui con la crescita della tecnica cresce automaticamente anche la “chiarezza” dell’uomo, dobbiamo cancellarla definitivamente. Chi oggi si culla ancora in una tale speranza, non solo è un semplice superstizioso, non solo è un semplice relitto dell’altroieri […] quanto più alta è la velocità del progresso, quanto più grandi sono gli effetti della nostra produzione e quanto più è intricata la struttura dei nostri apparati, tanto più rapidamente la nostra immaginazione e la nostra percezione non riescono a stargli dietro, tanto più rapidamente cala la nostra “chiarezza” e tanto più diventiamo ciechi»
Gunther Anders, Noi figli di Eichmann (1964)
La nostra concezione della storia è rimasta fondamentalmente lineare. A dispetto di mostruose smentite quali Auschwitz o Hiroshima, rapidamente rimosse grazie all'incoscienza macchinica, il mito del progresso ha retto bene negli ultimi decenni. Si è mostrato in grado di incassare colpi, di accettare di includere qualche sfumatura e ancora oggi sembra perfettamente attrezzato per resistere al disincanto ispirato dalla catastrofe climatica che sta accelerando sotto i nostri occhi. «Sotto i nostri occhi» forse non è una bella espressione, essendosi creato da molto tempo un «dislivello» tra le azioni che svolgiamo all'interno dell'apparato produttivo e le conseguenze di tali azioni. Non perché siano impercettibili, troppo insignificanti per essere individuate dai nostri sensi e dalla nostra mente, ma al contrario, perché sono diventate troppo enormi.
L'ondata di caldo — un eufemismo che traduce bene la limitatezza del linguaggio, e quindi della nostra capacità di rappresentare le cose nell’ambito del sensibile e del razionale — che si sta oggi abbattendo su vaste aree del globo è tristemente indicativa a tale proposito.
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La nocività del lavoro all’epoca della produzione digitalizzata
Un libro di Dario Fontana. Intervista all’autore
Negli anni più recenti sono state pubblicate alcune ricerche, nel campo delle scienze sociali (nella fattispecie, la sociologia del lavoro), che pure focalizzate su realtà in divenire o ancora in parte da indagare (e dunque quanto mai «attuali»), comunicano una sensazione di proficua inattualità, laterali come sono (per categorie utilizzate e postura di ricerca) dal senso comune che orienta gli interessi più diffusi dei ricercatori. Digitalizzazione Industriale. Un’inchiesta sulle condizioni di lavoro e salute (Franco Angeli, 2021) di Dario Fontana è una di queste. Il bersaglio dell’indagine è condensato nel titolo del volume, che restituisce i risultati di una ricerca pluriennale, realizzata con un impianto metodologico solido, un lavoro in profondità sulle dimensioni analitiche e sull’operazionalizzazione delle variabili, tecniche di analisi multivariate, a supporto di risultati che potrebbero risultare intuitivi, ma apparirebbero paradossali per quanti si avvicinassero ai materiali trattati con il filtro delle idee dominanti sul rapporto tra cambiamento tecnologico e lavoro. Superfluo consigliarne la lettura agli addetti ai lavori e ai praticanti di studi organizzativi e del lavoro, ma anche a sindacalisti, militanti, attivisti, medici, se non fosse per la barriera del costo (l’editoria scientifica ha le sue regole, che non possono essere imputate ai ricercatori!).
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Il rapporto tra scienza, tecnologia, organizzazione e contenuto del lavoro, ma potremmo altrimenti parlare di nessi tra conoscenza, potere e sfruttamento, ha occupato uno spazio centrale nell’esperienza del movimento operaio e fino a qualche decennio addietro (retaggio del lungo ’68 italiano e del residuo egemonico che ancora esercitava sul mondo intellettuale) anche all’interno delle scienze sociali.
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Fine del lavoro come la fine della storia?
di Sergio Bologna
Parte I
Era il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, quando Francis Fukuyama abbozzava su una rivista la sua teoria della fine della storia, quella che avrebbe poi esplicitato nel libro, dallo stesso titolo, che lo ha reso famoso, pubblicato nel 1992. Tre anni dopo Jeremy Rifkin pubblicava il suo “La fine del lavoro”.
Sollecitato da un vecchio compagno, ho letto alcuni pezzi di un dibattito riguardante il lavoro che ha percorso le pagine de “Il Manifesto” all’inizio dell’estate 2019. Vi ho trovato molte somiglianze con discorsi che sono circolati largamente altrove, più o meno nello stesso periodo, per esempio nelle iniziative della Fondazione Feltrinelli con il ciclo di conferenze-dibattito dal titolo Jobless Society. L’idea che il lavoro sia destinato a sparire con l’automazione o che sia già scomparso per lasciare il posto a non so quali altre cervellotiche forme di rapporti sociali mi ha riportato alla memoria le teorie di Fukuyama o, meglio, l’interpretazione volgare e banale che di quelle teorie è stata data, perché Fukuyama era molto meno stupido dei suoi fans e intendeva per fine della storia il processo di modernizzazione concluso.
Ora, se noi interpretiamo il salto tecnologico in atto (digitalizzazione, IoT, blockchain ecc.) come un processo di modernizzazione, può andar bene, anzi è persino banale, ma se pretendiamo di qualificarlo come un processo concluso o come una frontiera oltre la quale non c’è più nulla, cadiamo nel ridicolo.
Innanzitutto dobbiamo esigere da coloro che parlano di lavoro di essere espliciti su un punto: si sta parlando del lavoro come generica attività umana o di lavoro per conto di terzi in cambio di mezzi di sussistenza? Si parla di lavoro come espressione di sé, delle proprie aspirazioni, dei propri talenti, o si parla di lavoro salariato, cioé retribuito da un soggetto terzo?
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Il diritto al dissenso in tempo di emergenza
di Giulio Di Donato
Negli ultimi due anni, sull’onda della crisi pandemica prima e della guerra in Ucraina poi, abbiamo assistito a una crescente compressione del dibattito pubblico, con forme sempre più estreme di delegittimazione e marginalizzazione del dissenso. L’elemento più paradossale è che in questo caso le opinioni divergenti non sono quelle di una avanguardia avventurista che promuove istanze potenzialmente eversive, ma quelle di chi si schiera in difesa dei principi costituzionali e quindi, come avviene nel nostro paese, reclama una maggiore fedeltà ai valori fondativi della Repubblica. Giocando con le parole, potremmo dire che assistiamo all’insorgenza di un dissenso diffuso dal basso contro i protagonisti del dissenso antisistema dall’alto (i fautori della cosiddetta “ribellione delle élite” verso il nucleo profondo delle democrazie costituzionali, che non può essere oggetto di dissenso). Contro questo ricorrente “sovversivismo delle classi dirigenti”, ovvero contro il polo della subalternità al vincolo esterno e del neoliberismo nelle sue diverse varianti, va fatto appunto valere un dissenso radicale dal basso, il quale, se vuole essere efficace, non può limitarsi a denunciare il baratro nel quale stiamo precipitando ma deve puntare a rigenerare un nuovo consenso attorno all’indirizzo politico fondamentale contenuto nella nostra Costituzione, che ha subito nel tempo una progressiva disattivazione. Rilanciando il senso dei principi basilari della sovranità democratica, della piena occupazione e della libertà incarnata, in relazione.
La democrazia, scriveva Bobbio ne Il futuro della democrazia, non è caratterizzata soltanto dal consenso, ovvero se essa può contare sul consenso dei consociati, ma anche dal dissenso. Del resto, che valore ha il consenso dove il dissenso è ostracizzato, censurato, intimidito? Dove dunque non c’è scelta fra consenso e dissenso?
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La NATO cambia pelle?
di Michela Arricale
Un anno fa, nel Giugno 2021, la NATO ci informava che la guerra era cambiata e che questa non si combatteva più solo con le armi convenzionali, ma anche attraverso strumenti cosiddetti ibridi, ideati cioè per scopi altri rispetto alla guerra ma comunque funzionali ad obiettivi strategici. Ad esempio, l’informazione viene identificata come uno di questi strumenti ibridi, ed è pertanto - ci dicono - da considerare come una vera e propria minaccia alla sicurezza qualsiasi campagna di disinformazione attraverso le cd fakenews, se e quando questa sia in grado di incidere sulle dinamiche democratiche di un Paese alleato mettendone a rischio la stabilità.
Pertanto, le analisi sulle minacce alla sicurezza avrebbero dovuto – da allora in poi - comprendere non solo scenari militari convenzionali, ma anche questi scenari ibridi. Poiché le analisi sulle minacce comprendono anche la predisposizione delle risposte a queste minacce, è diventato altresì necessario allargare le competenze strategiche della NATO per permetterle di adattarsi a tali mutamenti di prospettiva.
E è per questi motivi che i capi di Stato e di Governo hanno deciso di aggiornare lo Strategic Concept della NATO, il documento politico che guida e concerta l’azione dell’Alleanza Atlantica e che sarà formalizzato nel prossimo summit di Madrid, il 28,29 e 30 Giugno.
Non solo l’informazione – ci raccontano gli esperti della NATO - ma anche l’ambiente web, l’economia, lo Spazio e persino il cambiamento climatico dovranno entrare a far parte degli scenari di sicurezza da analizzare in chiave bellica per assicurarsi i propri obiettivi strategici.
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Il mondo rovesciato
di Alessandro Visalli
Fino a ieri, sicuri che il ‘dolce commercio’[1] avrebbe portato con sé attraverso la spinta interna del consumo l'allineamento del mondo agli standard dell'occidente e garantito quindi il relativo dominio di fatto, erano i paesi guida anglosassoni (e gli Usa in primis) a spingere sull’interconnessione. L’idea era anche di considerare la “modernizzazione”[2] compiuta storicamente, ed in innumerevoli conflitti, dalle società europee nel torno di anni tra il XV ed il XIX secolo come una “tappa”[3], storicamente necessaria, dei “progressi”[4] della “Ragione”[5] che porta con sé il necessario -biunivocamente connesso- sviluppo delle forze produttive. Nessuno sviluppo autentico è possibile, né civile e morale, né produttivo autosostenuto, senza che si aderisca a questo movimento ineluttabile e progressivo, irreversibile, scritto nella “Storia”[6], e del quale l’Occidente rappresenta il modello e l’alfiere. Questa costellazione di idee, nelle quali è incorporata la mente di ogni “buon” cittadino occidentale, democratico e progressista, sicuro della propria superiorità e del destino manifesto che aspetta il mondo intero quando lo riconosca, è sfidata dalla direzione che stanno prendendo i fatti.
Le ultime tre presidenze statunitensi hanno progressivamente invertito di fatto le prescrizioni di questa visione, accorgendosi crescentemente che non accadeva quanto previsto dagli scheletrici modelli ideologici settecenteschi (per certi versi cinque-seicenteschi) inconsapevolmente attardati nella mente collettiva delle élite. Ed allora hanno virato sul confronto diretto, ideologico (la lotta “democrazia/autocrazia”[7]) ed economico (sanzioni e reshoring delle produzioni critiche[8]), ora anche militare[9] (che nella tradizione occidentale è sempre stata la prima istanza).
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Non c'è alcuna soluzione alla crisi energetica
di Sandrine Aumercier
Questo testo costituisce la versione scritta della presentazione del libro "Le mur énergétique du capital" (edizioni Crise & Critique), che si è tenuta presso Mille bâbords (61, rue Consolat, 13001 Marsiglia) il 5 giugno 2022
Inizio dalla fine e arrivo subito alla conclusione dicendo che non c'è soluzione alla crisi energetica, neppure una «soluzione minima». Nel caso dovesse emergere una società post-capitalista emancipata, essa allora smetterebbe di preoccuparsi del problema energetico, semplicemente; non lo risolverebbe diventando «più razionale» e «più efficiente» in materia di energia. Una società che mette alla sua base la penuria - come fa il modo di produzione capitalista - si auto-impone di razionare sempre più il consumo di energia, a partire dal fatto che essa si sta avvicinando sempre più a un limite assoluto. Così facendo, si condanna a sprofondare in una gestione totalitaria delle risorse, scatenando delle guerre di stabilità, e a piombare in delle crisi socio-economiche che hanno un impatto sempre più crescente... Ma questo è un limite che fa parte di quelli che sono i principi fondanti di questa società, e non si riferiscono alla natura.
La categoria «energia», è astratta così come lo è quella di «lavoro», e una volta che viene posta a fondamento delle attività umane, non può fare altro che procedere in direzione di un abisso, per effetto della sua stessa logica. Mi ci è voluto molto tempo per capirlo, a causa del fatto che il discorso sui «limiti del pianeta» si impone nella sua falsa evidenza, come se si trattasse di un problema geofisico. Ma il vero problema riguarda le premesse del capitalismo, da cui anche i cosiddetti Paesi socialisti reali non si sono mai staccati. Se mettiamo in fila, uno dietro l'altro, i diversi scenari di «transizione energetica» che si stanno contendendo la palma di vincitore, diventa chiaro come sia proprio il discorso di fondo a combinare due tendenze contraddittorie, in quanto presuppone che: 1) L'impossibile è possibile e che, allo stesso tempo, 2) Se l'impossibile nonostante tutto è impossibile comunque, allora si deve trattare di un fatto di natura (di natura umana, di natura geofisica o di entropia universale). Così facendo, ecco che smette di essere necessario dover esaminare le specificità del modo di produzione capitalistico.
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Pensare la scuola con Gramsci
di Salvatore Bravo
Pensare la scuola significa pensare il proprio tempo. Gramsci è stato critico verso la scuola del suo tempo, la critica necessita di domande profonde. La domanda che guida le osservazioni di Gramsci e pervade i suoi scritti non è un monologo celebrativo come accade normalmente nell’attuale assetto istituzionale e culturale, ma si confronta con un modello teorico di scuola e di pedagogia fondato a livello veritativo. L’essere umano è comunitario, da tale verità sorgono domande sulla scuola del suo tempo e sulla necessita di un’alternativa rispettosa della natura umana. L’istituzione scolastica non è separabile dalla realtà storica ed istituzionale, ne è parte viva, e specialmente mediante ed attraverso di essa si esplica l’egemonia culturale delle classi dirigenti. La scuola è il luogo per eccellenza nel quale la struttura economica si riproduce, l’educazione è il campo di battaglia dove l’egemonia culturale incontra resistenze e consolida il dominio economico e culturale. L’integralismo del plusvalore deve necessariamente abbattere ogni attività intellettuale disinteressata per modellare l’intellettuale organico alla finanza. L’utile è il valore del capitalismo, non esistono fini, ma solo mezzi, al punto che mezzi e fini si confondono fino a fondersi. L’intellettuale organico è specializzato, in modo da essere utilizzabile dalla struttura. Il pensiero specializzato mutila l’essere umano della sua natura generica rendendolo utilizzabile dal potere. L’egemonia culturale dev’essere assediata ed erosa con proposte che preparino la nuova coscienza collettiva e la nuova egemonia di classe. Alla scuola orientata alla specializzazione, oggi più di allora, Gramsci contrappone la scuola unitaria di base, con la scuola unitaria l’essere umano “ritrova” la sua natura generica e comunitaria:
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Hic sunt leones
di Piero Pagliani
1. Un buon modo per smettere di sognare e cercare di vedere la realtà così com'è, è analizzare il ragionamento dell'avversario. Posto quindi che per decreto ministeriale è nostro avversario tutto ciò che non è “Occidente”, qualsiasi cosa ciò voglia dire, o non si assoggetta all'Occidente, riporto brevi estratti di due analisi, una dal campo russo e l'altra da quello cinese [1].
Il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, al Forum Economico di San Pietroburgo, il 17 giungo u. s.:
Gli Stati Uniti, dopo aver dichiarato la vittoria nella Guerra Fredda, si sono anche dichiarati messaggeri di Dio sulla terra, privi di obblighi, ma solo portatori di interessi che hanno dichiarato sacri. Non sembrano aver notato che sul pianeta si sono formati nuovi potenti e sempre più assertivi centri. Ognuno di essi sviluppa il proprio sistema politico e le istituzioni pubbliche secondo il proprio modello di crescita economica e, naturalmente, ha il diritto di proteggerli e di assicurare la sovranità nazionale… . I cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo sono basilari, cruciali e inesorabili. Ed è un errore credere che in un momento di cambiamenti così turbolenti si possa semplicemente tener duro o aspettare che passi finché tutto si rimette in riga e ritorna come prima. Perché non sarà così!
E ora la “Strategia dei tre cerchi” nelle parole di Cheng Yawen, dell'Istituto per le Relazioni Internazionali e Affari Pubblici dell'Università di Studi Internazionali di Shanghai:
Cento anni fa, i vertici del Partito Comunista Cinese proponevano la via rivoluzionaria “accerchiare le città partendo dalle campagne”. In questo momento di “cambiamenti senza precedenti”, la Cina e i paesi in via di sviluppo hanno bisogno di interrompere l'ordine centro-periferia della contemporaneità e l'azione dei Paesi occidentali di prevenzione e repressione dei Paesi non occidentali, nonché di migliorare la solidarietà e la cooperazione nelle aree “rurali” globali.
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La guerra e il lato oscuro dell’Occidente
di Fabio Ciabatti
I. Il nemico esterno
E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere considerata come il lato oscuro della postdemocrazia occidentale (quest’ultima intesa, sulla scia di Colin Crouch,1 come un sistema che è svuotato progressivamente da ogni reale possibilità di partecipazione collettiva alle decisioni politiche, lasciando in vita le sole procedure formali della democrazia). Per questo il rapporto con il nemico oggi dà luogo ad una dinamica differente per quanto riguarda la costituzione della soggettività occidentale. Se in passato il confronto con nemico venuto dall’Est aveva avuto degli esiti per certi versi positivi nei paesi a capitalismo avanzato, oggi assistiamo ad una dinamica sostanzialmente regressiva. Partendo da questo punto di vista, la riflessione che segue non ha come obiettivo quello di stabilire chi ha torto e chi ha ragione nell’attuale guerra o come andrà a finire il conflitto. Vuole essere soprattutto un ragionamento sugli effetti della guerra sull’immaginario occidentale.
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Danni collaterali
di Linda Maggiori
La guerra al virus ha moltiplicato le depressioni e i disturbi d’ansia, è stata fonte di enormi discriminazioni, ha ricordato che in emergenza e in guerra non si dibatte, si obbedisce. Con l’invasione russa all’Ucraina il clima di isteria e la caccia alla streghe si sono sovrapposti e trasferiti dalla pandemia alla guerra. Malgrado tutto c’è chi si ostina a cercare di rendere le crisi un terreno fertile di trasformazione sociale. L’introduzione al libro Semi di pace! La nonviolenza per curare un mondo minacciato da crisi ecologica, pandemia e guerra (Quaderni Satyagraha Centro Gandhi Edizioni)
“Lo scopo della shockterapia è aprire una finestra.
per enormi profitti in brevissimo tempo”
(N. Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Rizzoli)Da una crisi all’altra.
Dalla crisi ecologica e climatica, che continua a pendere come una spada di Damocle sulle nostre teste (e su quelle delle future generazioni), alla crisi sanitaria, sociale e democratica di questi anni pandemici, fino alla crisi bellica ed energetica scatenata dall’invasione russa in Ucraina, che rischia di innescare un devastante conflitto mondiale nucleare. Non fa in tempo a concludersi lo stato di emergenza per pandemia che già viene proclamato lo stato di emergenza per guerra. Un’emergenza permanente in quello che ormai è a tutti gli effetti il “capitalismo dei disastri” come lo definì Naomi Klein.
Un capitalismo dei disastri che avvantaggia i grandi gruppi industriali e finanziari, facendo al contempo aumentare la forbice del divario sociale: secondo un report di Oxfam, in questi due anni di pandemia in Italia (così come nel resto del mondo) è cresciuta la quota di ricchezza nelle mani di pochi super-ricchi mentre oltre un milione di individui e 400mila famiglie sono precipitati nella povertà.
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