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I tre livelli dell’ideologia. Contro la guerra tra i sessi
di Pier Paolo Caserta
Prima parte
Le ideologie possono essere analizzate facendo riferimento a tre livelli interfunzionali, che si chiariscono e si rafforzano a vicenda.
In primo luogo, tutte le ideologie hanno sempre avuto una vetrina attraente necessaria a compattare e aggregare attorno a sé, ingenerando persuasione. A questo livello esterno è affidato il compito di produrre e di diffondere le parole d’ordine.
Il livello più interno e profondo è formato dal nocciolo duro che costituisce la materia sulla quale le ideologie lavorano effettivamente, plasmando la coscienza degli individui e la loro rappresentazione della realtà.
La cintura esterna espone l’individuo-massa a contenuti palesi, mentre il nucleo interno ha carattere implicito, ma è proprio su questo che viene compiuto tutto il lavoro di modellizzazione dell’immaginario.
Il livello esterno, come ho detto, è popolato delle parole d’ordine dell’ideologia. È, in altri termini, il livello delle sfere discorsive, al quale sono affidati persuasione e reclutamento. Tra queste sfere discorsive, particolare importanza rivestono gli “incipit”, cioè punti di avvio che assolvono al compito fondamentale di incanalare il discorso pubblico sui binari lungo i quali proseguirà nella direzione e con il formato previsti, in modo quasi automatico, seguendo stilemi discorsivi replicabili. Il catechismo dell’ideologia ha un bisogno fondamentale di questi “attacchi” rigidi. Sono, per esempio, tipici incipit dell’ideologia liberal e politicamente corretta: “C’è ancora molta strada da fare”, “è un problema di mentalità/culturale” ecc. Proprio in quanto avviano il discorso secondo logiche preimpostate e linee argomentative univoche, gli incipit hanno anche la funzione precipua di escludere altre sfere discorsive che si aprirebbero verso narrazioni alternative, e che devono essere inabissate nel silenzio, sprofondate nella notte dell’invisibilità e della non-rappresentanza. Per esempio, l’incipit discorsivo “è una questione di mentalità” serve a prevenire e obliare la tesi alternativa che il problema sia, invece, economico e di classe – e, quindi, sostanzialmente non di genere. I diversi tasselli delle sfere discorsive si tengono evidentemente insieme.
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La cura del linguaggio/4. “Non si può equiparare Israele e Hamas”
di Dante Barontini
Ogni tanto è indispensabile fermarsi e ragionare. Viviamo in tempi di guerra, non esiste più alcuna informazione “neutrale”, l’”obiettività” latita, la professionalità – tranne rare eccezioni cui proviamo a dar riconoscimento – è un lontano ricordo o un alibi.
La propaganda di guerra è una macchina potente, articolata, internazionale. Non è “geniale” – quelli che, “a sinistra”, piangono sulla presunta “scarsa capacità di comunicazione” dicono sciocchezze – ma è la potenza di fuoco a decidere, non la finezza dell’eloquio o dell’argomentazione. Se si controllano tutti i media principali (tv, quotidiani, ecc) il vantaggio strategico è evidente.
Consapevoli che anche queste nostre considerazioni saranno facilmente sommerse dal mare di merda che i media mainstream vomitano h24, proviamo comunque a fornire un piccolo contributo di chiarificazione che può essere utile a chi, nel discutere in mezzo alla classe, deve districarsi tra parole che sembrano aver un significato universale, ma in realtà sono sempre il contrassegno di un’ideologia posta a difesa di interessi e di un rapporto di forza che ha il terrore di esser rovesciato.
Non è la prima volta che lo facciamo, e i risultati in qualche misura ci confortano…
L’innovazione linguistica più usata in questi giorni è stata elaborata per minimizzare – se non rovesciare – l’impatto politico-mediatico dei mandati di cattura emessi calla Corte Penali Internazionale contro Netanyahu, Gallant e uno dei pochi capi militari di Hamas forse ancora in vita.
E’ fin troppo evidente che il dover considerare due “buoni” per definizione come “ricercati in tutto il mondo” costringe tutti i governanti e i gazzettieri occidentali a giri di parole molto simili alla lotta nel fango. anche perché viene a crollare tutto l’edificio narrativo eretto a garanzia della “superiorità morale” delle “democrazie occidentali”.
E quindi analizziamo la frase di moda, con le sue pochissime varianti.
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Palestina. La situazione dei lavoratori dei Territori Arabi Occupati: Gaza, Cisgiordania e Golan
di International Labour Organization (ILO)*
Morti, feriti e devastazione: cosa significherà a lungo termine? Un durissimo Rapporto dell’International Labour Organization fotografa l’annientamento dell’economia e del mercato del lavoro a Gaza, in Cisgiordania e nel Golan e mostra come la distruzione non sia iniziata il 7 ottobre 2023 e non finirà con il cessate il fuoco: sono terre nelle quali Israele si è strutturato per rendere sempre più difficile la sopravvivenza ai palestinesi e spingerli ad andarsene
45.000 palestinesi morti e 95.000 feriti a Gaza, al 10 settembre 2024. Un bollettino tenuto costantemente aggiornato, insieme alla portata della distruzione causata dai bombardamenti e dalle incursioni via terra dell’esercito israeliano. Ciò su cui ci si focalizza meno è cosa significherà tutto questo a lungo termine. È quel che fa questo Rapporto dell’International Labour Office, presentato a giugno 2024, partendo dalla situazione del lavoro e dei lavoratori non solo di Gaza, ma di tutti i Territori Arabo/Palestinesi Occupati, ossia anche Cisgiordania e Golan. È una situazione di cui non si può avere contezza della portata se non si analizzano i dettagli e i numeri, e questo documento li contiene.
Veniamo così a sapere, per citare appena alcune realtà fotografate dal Report, che a Gaza il PIL è crollato dell’81% e la disoccupazione è all’89%; che l’80% degli stabilimenti commerciali, industriali e dei servizi è stato danneggiato o distrutto, causando la chiusura delle attività economiche; che la produzione agricola è cessata perché Israele sta “radendo al suolo tutte le strutture, compresi i campi agricoli e le serre, e creando una zona cuscinetto lungo la recinzione di confine tra Israele e Gaza che dovrebbe essere larga fino a un chilometro e occupare circa il 16% della superficie dell’enclave”, mentre anche pesca e acquacoltura sono crollate perché “nessuna imbarcazione nel porto di Gaza è rimasta utilizzabile e le gabbie per la piscicoltura, le attrezzature per la pesca e gli impianti per la produzione di ghiaccio per preservare il pescato sono stati distrutti durante i bombardamenti all’inizio della guerra”: una condizione che ha contribuito alla carestia e all’attuale crisi alimentare.
Anche in Cisgiordania l’economia e il lavoro sono franati. Prima della guerra, 140.000 palestinesi della Cisgiordania erano impiegati in Israele e altri 40.000 negli insediamenti israeliani: la maggior parte ha perso il lavoro a causa della chiusura dei valichi di frontiera operata da Israele.
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De-dollarizzazione, BRICS e il significativo esperimento cinese
di Danilo Silvestri*
La decisione del Ministero delle Finanze cinese del 5 novembre scorso di emettere titoli di Stato denominati in dollari proprio in Arabia Saudita avviene in un momento storico significativo. Non solo perché segue immediatamente il XVI Summit BRICS di Kazan (22-24 ottobre) e coincide con le elezioni americane (5 novembre), ma anche perché questa decisione rivela alcune atipicità significative per il sistema internazionale nel suo insieme.
Partiamo dal contesto: durante il Summit di Kazan si è discusso ampiamente dei deficit strutturali del sistema finanziario globale, sono state avanzate alcune possibili soluzioni e si è anche fatto riferimento alla necessità di superare la centralità del dollaro statunitense quale valuta di riferimento per la comunità internazionale. La de-dollarizzazione, cioè il progressivo abbandono del dollaro, è una delle sfide più significative per la comunità internazionale, e vede i BRICS in prima linea in questo processo.
Per capire perché questo evento sia così interessante, procederemo a ritroso. Dopo aver illustrato le ragioni della sua atipicità, presenteremo alcune ipotesi per il sistema internazionale e la posizione che potrà assumere, in questo contesto, la Cina. Dopodiché, confronteremo la posizione cinese con il ruolo effettivo giocato dagli Stati Uniti nel sistema finanziario internazionale, per poi affrontare il problema da un punto di vista strutturale, soffermandoci sul significato della centralità del dollaro e sugli squilibri che ciò comporta per l’intero sistema. Infine, tenteremo di delineare quali scenari futuri potrebbero aprirsi a partire da questo fatto passato, per lo più, inosservato.
Cosa c’è di atipico?
Con la sua operazione, la Cina ha raccolto 2 miliardi di dollari emettendo, in Arabia Saudita, titoli di Stato con scadenza a tre e cinque anni, rispettivamente a uno e tre punti base (cioè: 0.01-0.03%) in più rispetto ai titoli del Tesoro statunitense. Per questa prima emissione di obbligazioni in dollari dal 2021, la Cina ha ricevuto offerte per oltre 40 miliardi di dollari, venti volte l'importo emesso, indicando una domanda estremamente elevata per i suoi titoli.
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La Corte nel mirino
di Giancarlo Scarpari
Nel maggio del 1950, in un articolo dal titolo emblematico, Difendiamoci dal comunismo, don Luigi Sturzo aveva indicato alla Dc la linea da seguire per stabilire le modalità di nomina dei giudici della Corte costituzionale, la cui legge istitutiva era allora in discussione. Il messaggio era chiaro: «I comunisti, finché stanno all’opposizione non hanno diritto di partecipare all’amministrazione dello Stato e degli organi e degli enti» e, di conseguenza, non si potevano eleggere i cinque giudici di nomina parlamentare col sistema del Regolamento della Camera, che prevedeva l’assegnazione di due posti alla minoranza.
L’iter della legge era stato sofferto, perché, come ricordava Calamandrei su questa rivista[nota 1], vi erano stati quattro «viaggi di andata e ritorno» tra Camera e Senato per via degli emendamenti introdotti in relazione alla nomina dei giudici che dovevano essere scelti dal Parlamento e dal capo dello Stato.
Sulla base dell’indicazione di Sturzo, l’on. Riccio (Dc) aveva proposto che per l’elezione dei giudici eletti dal Parlamento fosse sufficiente la maggioranza semplice, per cui, scavalcando il Regolamento, tutti i giudici sarebbero stati nominati dalla coalizione di governo; poi per la massiccia opposizione dei partiti di sinistra e l’insostenibilità manifesta di questa posizione radicale, era stato deciso che la maggioranza necessaria doveva essere “qualificata”, almeno nella misura dei 3/5. Con i numeri allora esistenti in Parlamento, il governo non aveva la possibilità di eleggere tutti i giudici, ma con la prevista vittoria alle elezioni questo non sarebbe stato più un problema, vista l’entità numerica del premio.
Com’è noto, infatti, la legge elettorale varata in vista delle elezioni del giugno del 1953 prevedeva una distorsione dei principi della rappresentanza, in quanto stabiliva che la coalizione che avesse ottenuto il 50% più 1 dei voti avrebbe ottenuto il 65% dei seggi e cioè 380, mentre alle altre liste ne sarebbero spettati solo 209: per una simile maggioranza e con il contributo di alcuni volonterosi “soccorritori”, sarebbe stato perciò agevole raggiungere i 3/5 necessari dei parlamentari per nominare tutti i giudici di suo gradimento.
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L’oligarchia tecnocratica al potere negli Usa. La risposta dei Brics
di Alfonso Gianni
La rivincita di Trump è stata brutale, per le modalità con cui è stata conseguita e per le sue dimensioni. C’è chi più cortesemente l’ha definita eccezionale, riferendosi soprattutto al fatto che solo un’altra volta un ex presidente americano è stato rieletto. Ma era accaduto più di cent’anni fa, precisamente nel 1893, un’altra epoca storica, quando il democratico Grover Cleveland ritornò nello studio ovale, dopo che per quattro anni vi si era insediato il repubblicano Benjamin Harrison.
Questa volta abbiamo avuto un ex presidente che non solo non ha voluto mai riconoscere l’esito delle elezioni del 2020, ma ha incitato all’assalto del Campidoglio a Washington nel giorno in cui il Congresso si apprestava a registrare la vittoria di Biden, lasciando sul terreno cinque morti (un agente e quattro manifestanti), spavaldamente sicuro della sua impunità; ha capitalizzato in campagna elettorale gli effetti degli attentati subiti – o ritenuti tali – esponendo il suo corpo leggermente ferito come una promessa di vittoria e una minaccia per i perdenti; ha rovesciato un numero incredibile di insulti sui suoi antagonisti e persino su settori dell’elettorato a cui pure sarebbe andato a chiedere il voto.
Eppure tutto questo è stato spazzato via come d’incanto dalla vittoria elettorale, così come sono stati ridicolizzati i sondaggi che fino all’ultimo prevedevano un testa a testa fra i due candidati, che non c’è mai stato. Insieme a tutto ciò sono state affossate le illusioni dei democratici, che le elezioni di Mid-term dell’8 ottobre del 2022 avevano tutto sommato premiato, permettendo loro di guadagnare quel seggio che gli dava la maggioranza al Senato e contenendo la perdita alla Camera, solo nove eletti in meno. Tanto più che si trattava di una cosa insolita, visto che quelle elezioni hanno avuto perlopiù esiti in controtendenza rispetto al partito del presidente in carica.
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György Lukács, un’eresia ortodossa / 2 — Affinità elettive
di Emilio Quadrelli
[Continua la pubblicazione di un lungo saggio di Emilio Quadrelli che il medesimo avrebbe volentieri visto pubblicato su Carmilla. Un modo per ricordare e valorizzare lo strenuo lavoro di rielaborazione teorica condotta da un militante instancabile, ricercatore appassionato e grande collaboratore e amico della nostra testata – Sandro Moiso]
Se decliniamo, infatti, il tema della alienazione dentro l’ambito coloniale avremo la netta sensazione di come le argomentazioni lukácsiane abbiano ben poco di datato, e ancor meno di erudito, ma colgano esattamente la questione essenziale di un’epoca. Ciò apre qualcosa di più che un semplice ponte tra Lukács e Fanon poiché, tra i due, le affinità non sembrano essere secondarie. Il fatto che, nei nostri mondi, questa affinità non sia stata colta mostra, più che una disattenzione, la diffidenza che la stessa intellettualità radicale, con un occhio però sempre attento ai dispositivi posti in campo dall’ortodossia, abbia continuato a nutrire verso tutto ciò che continuava a essere in odor di eresia e, aspetto forse ancora più significativo, verso quella teoria politica, come nel caso di Fanon, che nel marxismo ortodosso individuava un non secondario tratto colonialista. Mentre l’oggettivismo imperante dentro il mondo comunista non poteva che essere un elemento di rafforzamento dello status quo, tanto a ovest come a est, l’umanesimo marxiano di Lukács apriva verso quel mondo colonizzato il quale, proprio nei suoi aspetti più radicali e rivoluzionari, si appropriava interamente della sovversione marxiana giovanile. Va da sé che, in un simile contesto, l’attualità della rivoluzione non può che essere l’attualità di una prassi. La riscoperta di Lukács coincide con la riscoperta della attualità della rivoluzione e di quel passaggio dalla preistoria alla storia che sempre fa da sfondo all’insorgenza dei subalterni. In fondo quel tratto escatologico che aveva contrassegnato la rivista eretica “Kommunismus” è proprio di tutte le ere rivoluzionarie, il riscatto è sempre alla fonte della lotta di classe. Ma torniamo al nostro pamphlet.
Il testo su Lenin è tanto più stupefacente se teniamo a mente che, nel momento in cui viene scritto, l’autore è ben distante dal conoscere gran parte della produzione leniniana, della quale ha, però, una profonda conoscenza empirica. È un Lenin conosciuto nella prassi, dentro quel turbinio di fatti che il treno della rivoluzione scandiva a ogni suo passaggio. Un treno dove le fermate e le ripartenze e la stessa velocità di crociera non poteva essere predeterminata. Solo il fuoco della lotta di classe, di tutte le classi sociali in lotta, offriva il combustibile alla locomotiva.
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Rivolta sociale?
di Vladimiro Merlin*
Un’ipotesi plausibile, viste le condizioni del lavoro in Italia ma, più che evocata, la rivolta sociale andrebbe praticata.
Il segretario della Cgil, Landini, l’ha evocata in relazione alla situazione che ha portato la Cgil e la Uil a proclamare lo sciopero generale per il 29 novembre.
In effetti, la condizione dei lavoratori italiani è tragica da tutti i punti di vista.
Gli stipendi, dal 1990 al 2020, in Italia sono diminuiti del 2,9%, in tutta Europa si è registrata una crescita, la più bassa, in Spagna, è stata del 10%.
Su 17 milioni di lavoratori del settore privato 7,9 milioni sono lavoratori discontinui, 2,2 milioni sono part-time, assieme sono il 60% dei lavoratori privati.
A questi lavoratori con redditi stabilmente bassi andrebbero aggiunti tutti quelli in cassa integrazione, che hanno uno stipendio ridotto tra il 50 e il 60% del normale.
Ma, come abbiamo già visto, anche ai lavoratori stabili non è andata bene, in questi ultimi 30 anni il loro stipendio non solo non è cresciuto ma si è ridotto del 3%.
Da anni, varie fonti, dai sindacati alla Caritas, ma anche l’Istat, registrano un aumento progressivo della povertà anche tra persone che hanno un lavoro.
Una progressiva povertà che i ceti popolari misurano ogni giorno quando fanno la spesa.
Sulla situazione già tragica dei salari si è innestata l’impennata inflazionistica di questi ultimi anni, impennata che, nonostante i dati ufficiali manipolati, continua; infatti, i rincari dei generi di prima necessità, in primo luogo gli alimentari, sono ancora attorno al 9/10%.
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La guerra come atto impolitico
di Luigi Alfieri
Ma a che serve separare concettualmente politica e guerra? In termini pratici, a nulla: questo non porrà termine alla guerra. Serve a un’igiene del pensiero, a non scambiare il disordine con l’ordine, l’abnorme con il normale, la morte con la vita
Il nesso forte, sostanziale, tra guerra e politica è uno dei (pochi) punti fermi del pensiero politico contemporaneo. Non esiste o quasi, oggi, filosofo o politologo che non dia per ovvio che la guerra sia un atto politico, se non l’atto politico per eccellenza, uno dei poteri che per antica tradizione definiscono il sovrano, cioè, oggi, lo Stato: lo ius gladii, il diritto di spada. Che non è solo il diritto sovrano di fare la guerra, ma il diritto sovrano di disporre della vita dei sudditi; tanto di mandarli a rischiare la vita in guerra, quanto di condannarli a morte. E ne risulta, anche nelle attuali forme democratiche dello Stato, il correlativo dovere dei cittadini di mettere la propria vita a disposizione dello Stato, o meglio, come più spesso si dice quando è questione di sacrificare la vita, a disposizione della Patria. Come fa anche la nostra Costituzione all’art. 52, parlando, in quest’unico caso, di “sacro dovere”.
Ripercorrere la teorizzazione di questo nesso, tanto dell’essere sovrano quanto dell’essere cittadini, con la guerra sarebbe contemporaneamente facilissimo e impossibile. Facilissimo perché basterebbe un poco di pazienza per accumulare una quantità indefinita di citazioni, a partire dalla Grecia antica, senza affatto escludere il cristianesimo; impossibile perché la sovrabbondanza sarebbe tale da impedire comunque di tracciare un quadro completo. Mi limiterò a tre rapidi sondaggi nel pensiero contemporaneo: ulteriori approfondimenti sarebbero tipici sfondamenti di porte aperte.
Hegel, Schmitt. La politica è guerra, la guerra è politica
Comincio da quello che è il massimo teorico dello Stato nel pensiero classico tedesco: Hegel. Nel § 324 dei Lineamenti di filosofia del diritto, citando una sua opera precedente, Hegel sostiene che la guerra è il momento di suprema unificazione etica dello Stato, perché è il momento in cui i diritti individuali dei cittadini, compresi quelli alla vita e alla proprietà, rivelano la propria accidentalità e vengono giustamente sacrificati al superiore bene dello Stato, che è l’universale oggettivo.
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Lotte palestinesi in Italia
di Jacques Bonhomme
1. La Palestina vista dall’Italia
Un’effervescenza di mobilitazioni, di assemblee, di manifesti, di dichiarazioni, accompagnati da tante, tante bandiere, in una coreografia spontanea e vivace di gesti e di discorsi nelle piazze: questa è la forma sociale in cui le lotte palestinesi attraversano l’Italia. La piazza non smentisce la rete attirando soltanto sparuti gruppetti, ma moltiplica gli effetti degli articoli, dei commenti e dei comunicati con cortei e raduni di massa trascinanti e combattivi. Sembra – e forse è ben più di un’impressione – che le resistenze sociali alle nuove discipline capitalistiche del lavoro, all’impoverimento sempre maggiore di ampi settori della società e alla militarizzazione della legislazione penale nel segno delle emergenze, abbiano finalmente trovato un collante capace di unificarne gli intenti e di concentrarne gli sforzi. Così, per quanto nessuna ricomposizione di classe possa essere intravista all’orizzonte, nelle fasce sociali dove il disagio e la sofferenza sono più acute e diffuse, ossia nelle fasce sociali più o meno proletarie o proletarizzate, l’avversione nei confronti dello “stato di cose presente” viene politicizzato attraverso differenti forme di coinvolgimento nelle azioni di massa costruite e animate dalle organizzazioni palestinesi.
Occorre dissipare un possibile malinteso: non siamo di fronte a una delega triste e obliqua, a una falsificazione equivoca di compiti e di ruoli e, meno che mai, può essere maliziosamente sospettato uno spostamento sostitutivo di scopi, ascrivibile a fantomatiche dinamiche inconsce; quanto avviene è piuttosto il “riconoscimento” di una dimensione storico-mondiale della lotta dei palestinesi, di una radicalità in essa racchiusa, di una radicalità determinata da un’inevitabile frattura delle linee di espansione, di accumulazione e di conquista dell’imperialismo occidentale. La lunghissima, rinascente e multiforme guerra di popolo dei palestinesi contro le strategie concentrazionarie, le pulizie etniche e il terrore militare di Israele, è stata, infatti, l’ostacolo che ha spesso spezzato la traiettoria del riassetto neocoloniale del Medio Oriente, rendendo avvertibile la possibilità di una Rivoluzione socialista araba.
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Le critiche d'un filosofo sovietico alle sinistre radicali occidentali
Un dibattito del '73 che aiuta a capire perché il capitale ha vinto
di Carlo Formenti
Alcune settimane fa Alessandro Visalli, il quale era giunto a conoscenza della sua esistenza da un post su Internet, mi ha segnalato un libro del 1973: Filosofia della rivolta. Critica della sinistra radicale, del filosofo sovietico Eduard Jakovlevič Batalov. Il libro, uscito in edizione italiana qualche anno fa per i tipi della Anteo Edizioni, benché infarcito di refusi e tradotto malissimo (solo chi disponga di una buona conoscenza degli argomenti è in grado di afferrare il senso di certi passaggi al limite della incomprensibilità) è di indiscutibile interesse storico da vari punti di vista.
In primo luogo, perché questa analisi di un intellettuale russo dell’era brezneviana sulle sinistre radicali degli anni Sessanta in Occidente, permette di comprendere meglio con quali occhiali teorici e ideologici la cultura sovietica di allora osservasse la società tardo capitalista e i suoi conflitti di classe, le lotte del Terzo Mondo, le prospettive del movimento comunista e della rivoluzione mondiale, il tutto non molto prima di andare incontro alla propria dissoluzione. Poi perché, a mezzo secolo di distanza dalla sua stesura, il bilancio che Batalov traccia dei limiti della cosiddetta Nuova Sinistra e delle ragioni del suo fallimento (estendibile al fallimento dei “nuovi movimenti” che ne hanno raccolto l’eredità culturale e politica) anticipa una riflessione critica che, alle nostre latitudini, è maturata solo a partire dai primi del Duemila. Infine, perché è una lettura che aiuta a capire come i punti di vista dei soggetti criticati e il punto di vista di chi li critica, per quanto apparentemente opposti, condividessero una serie di elementi che hanno impedito a entrambi di prevedere e contrastare la controrivoluzione liberale che di lì a poco li avrebbe duramente sconfitti.
I bersagli critici di Batalov
Sul piano ideologico e filosofico, le critiche di Batalov puntano il dito in particolare contro il sociologo americano Wright Mills; contro i membri della scuola di Francoforte e il loro concetto di “dialettica negativa” (1),
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Crescere su Marte. Su “La generazione ansiosa” di Jonathan Haidt
di Andrea Sartori
Jonathan Haidt è uno psicologo sociale che insegna alla Stern School of Business della New York University. La sua ricerca si concentra sugli aspetti psicologici del comportamento morale. Quest’ultimo è un campo d’indagine che riguarda quel che gli individui ritengono utile e di valore, e cosa essi fanno per vivere all’altezza dei propri orientamenti morali, ovvero di quel che gli individui ritengono utile e di valore, e di cosa essi fanno per vivere all’altezza dei propri orientamenti morali.
La generazione ansiosa del suo libro più recente, The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood is Causing an Epidemic of Mental Illness (Penguin, New York, 2024) – in italiano per Rizzoli con il titolo La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli – è quella di chi si è affacciato all’adolescenza nei primi anni 10 del ventunesimo secolo (la cosiddetta generazione Z). In quegli anni, i social si sono imposti come imprescindibile e privilegiato veicolo del rapporto con gli altri, plasmando sul proprio codice comunicativo la mente dei giovani utenti, il modo in cui essi fanno esperienza del mondo e degli affetti – ecco il great rewiring a cui fa riferimento il sottotitolo dell’edizione inglese del libro, dalla cui versione ebook citiamo nel seguito di questo articolo.
Essere bambini e poi adolescenti negli anni dei social, sostiene Haidt, è come «crescere su Marte» (pp. 1-16), ovvero in un mondo non solo completamente diverso da quello a cui si era abituati, ma anche pericolosamente incline a flirtare con l’irrealtà, e con ideali tossici di comportamento e bellezza. È vero che l’industria tech – a partire dalla TV negli anni 50 – ha sempre cambiato la vita tanto degli adulti quanto dei bambini. Già nel 1965, ad esempio, Antonio Pietrangeli aveva diretto Stefania Sandrelli in un film, Io la conoscevo bene, che in maniera riflessiva e quasi meta-cinematografica si soffermava sui possibili pericoli rappresentati dai role models veicolati dal cinema e dalla pubblicità.
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Genocidio per scettici
di Flavio Del Santo*
Israele sta bombardando Gaza da oltre 13 mesi: la crisi umanitaria in tutta la Palestina, così come nelle aree limitrofe del Medio Oriente, ha raggiunto livelli critici come mai prima d’ora. L’ONU stima che oltre 43.000 palestinesi siano stati uccisi, tra cui circa 17.000 bambini, e che più di 102.000 siano rimasti feriti, mentre 1,9 milioni siano sfollati, su un totale di 2,2 milioni di abitanti nella Striscia di Gaza! [1].
Sebbene si registri una tendenza positiva nell’opinione pubblica e nella partecipazione alle iniziative che condannano sempre più apertamente queste atrocità – come i movimenti studenteschi della scorsa primavera, che hanno visto la più grande ondata mondiale di occupazioni universitarie dai tempi della guerra in Vietnam – permane una forte reazione repressiva verso le critiche a Israele, che vengono censurate o, più spesso, grottescamente bollate come forme di antisemitismo, o violentemente sedate [2].
Proprio a causa di questa forte polarizzazione nell’informazione normalmente reperibile, sembra spesso di percepire una reticenza, uno scetticismo verso le differenti narrazioni, considerate faziose e strumentali, specialmente quelle a favore di Gaza, che da sempre sono appannaggio dei nostri ambienti di sinistra internazionalista, antimperialista e antisistema. Credo pertanto che molti delle nostre narrazioni nell’interesse della verità e della pace vengano spesso etichettate come ideologiche, poco obiettive e iperboliche, e quindi largamente ignorate, quando non apertamente avversate.
Questo articolo è un tentativo di raccontare una storia proprio a quegli scettici, confusi, o coloro che volutamente si arroccano su posizioni “neutrali”. È un pezzo scritto specificamente per i moderati, come chi, ad esempio per i motivi appena elencati, si irrigidisce quando sente la parola ‘genocidio’.
Sebbene sia in generale impossibile fornire dati oggettivi completamente privi di interpretazione, e lo dico da scienziato, sarà inevitabile, a un certo punto, riconoscere la competenza e l’autorità di alcune fonti, nonché la pertinenza di alcune analisi.
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Il marxismo e l'era multipolare - III parte
di Leonardo Sinigaglia
Come ogni Venerdì, ecco il terzo dei 9 appuntamenti dove vi proporremo un importante lavoro di analisi e approfondimento di Leonardo Sinigaglia dal titolo "Marxismo e Multipolarismo"
3- La questione nazionale. Prima parte
“Gli operai non hanno patria”: queste parole del Manifesto del Partito Comunista scritte da Marx ed Engels spesso vengono citate con superficialità per dimostrare un preteso carattere “antipatriottico” del pensiero marxista e la sua incompatibilità con qualsiasi forma di orgoglio nazionale. Tali ricostruzioni non solo sono superficiali, ma dimostrano una profonda ignoranza dell’attività rivoluzionaria dei due fondatori del socialismo scientifico. Contestualizzare le parole del Manifesto nell’insieme del testo da cui sono tratte ne permette un’interpretazione scevra da deformazioni.
“Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia”: gli operai “non hanno patria” in quanto ogni paese era all’epoca controllato politicamente dalle classi possidenti, le quali privano il proletariato di ogni “cittadinanza”, impedendogli di godere pienamente dei frutti del proprio lavoro e della totalità delle attività sociali. Il proletariato “non ha patria” nella stessa misura in cui potevano non averla i perieci e gli iloti sotto il dominio spartano: non si tratta di negarne la Storia, la cultura, il carattere nazionale, ma di sottolinearne l’estraneità alla gestione del potere.
“Non hanno patria” indica l’assenza di potere politico, non di nazionalità, come emerge chiaramente dalle frasi successive, con l’invito al proletariato a “elevarsi a classe nazionale” conquistando quel potere, uscendo da quello stato d’asservimento e alienazione in cui l’ordine borghese lo condannava. Il proletariato lottando per la conquista del potere scopre il proprio carattere nazionale, che ha un “senso diverso da quello borghese”, in quanto superamento dialettico di questo.
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Bologna 1980. «La bomba, per me, scoppiò la sera»
di Luca Baiada
Come titolo, Cento milioni per testa di morto, pubblicato nel 1989, fa pensare a un western. La veste tipografica è orrenda: imprecisa, disadorna. La carta sembra da razionamento: quasi da pacchi, tagliata male, e sa di polvere. La stampa è cattiva. La prosa è appesantita da ripetizioni e pignolerie. La punteggiatura è confusa (qui, nelle citazioni, l’ho modificata). Quanto al marchio editoriale, da trent’anni non pubblica nulla. Però.
Un libro formidabile. Il contrasto tra la forma scadente e la sostanza aurea insegna cosa conta davvero.
L’autore, Torquato Secci, durante la guerra mondiale torna dalla Grecia e si arruola nel Corpo italiano di Liberazione. Poi lavora come perito industriale. Il 2 agosto 1980, nella strage di Bologna, perde il figlio Sergio, ventiquattro anni.
È un uomo, un padre: «La bomba, per me, scoppiò la sera di quel tragico giorno al ritorno a casa da una passeggiata». La notizia che il figlio è fra le vittime si mischia ai primi commenti, al comportamento della città, alle reazioni. Sergio è ferito in modo spaventoso; morirà dopo qualche giorno. Il padre non nasconde la debolezza iniziale:
Non potevo credere ai miei occhi, la visione era talmente brutale e agghiacciante che mi lasciò senza fiato. […] Sergio, malgrado stesse a occhi chiusi a causa delle gravi ustioni, aveva riconosciuto la mia voce, aveva capito che ero lì, quindi malgrado la gravità del suo stato era cosciente di ciò che era accaduto, di ciò che stava accadendo, e realisticamente non nutriva alcuna speranza di salvarsi. […] Dopo averlo visto me ne uscii precipitosamente dal reparto rianimazione, come se volessi fuggire per allontanarmi da un pericolo.
Torquato Secci, che voleva fuggire, invece si impegnerà, diventerà presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime, pubblicherà questo volume dopo la sentenza di primo grado del processo. Adesso seguiamolo in un segmento narrativo che ha la forza di certi racconti dell’occupazione nazifascista. Indimenticabile, la bambina muta nel film L’uomo che verrà, col suo andirivieni nella terra della morte:
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Quali sono gli scenari futuri della presidenza Trump?
di Domenico Moro
Definire gli scenari futuri della presidenza Trump è difficile perché le promesse e le dichiarazioni della campagna elettorale dovranno misurarsi con una realtà che per gli Usa è molto complessa.
Per capire perché Trump ha vinto elezioni dobbiamo rifarci al quadro generale. Gli Usa stanno attraversando da tempo una fase di declino, che è sia economico sia di egemonia. La Russia e soprattutto la Cina stanno sfidando il dominio storico degli Usa. Ma sono molti gli Stati del Sud del mondo che mettono in discussione il vecchio ordine mondiale risalente agli Accordi di Bretton Woods del 1944, che sancirono il dominio degli Usa e del dollaro a livello mondiale.
Per frenare tale declino gli Usa, spinti soprattutto dalla corrente neoconservatrice, negli ultimi decenni hanno adottato una politica imperialista aggressiva che non ha risolto la situazione ma ha accelerato il loro declino. Questa strategia aggressiva è stata propugnata dal blocco dominante in modo bipartisan. Ma, di fronte agli insuccessi della strategia adottata fino a ora, è cresciuta all’interno dell’élite dominante una tendenza che è orientata a cambiare rotta.
Di fatto, si è prodotta, a causa della crisi degli Usa, una spaccatura all’interno della classe dominante, che ha rotto il tradizionale consenso bipartisan che era in vigore specialmente nella politica estera. La frazione dell’élite che è per il cambiamento è ricorsa a un outsider fuori dai partiti tradizionali, Trump, e al populismo politico, sfruttando le contraddizioni economiche che hanno impoverito milioni di americani. La virulenza della campagna elettorale, con i suoi toni particolarmente accesi, e i tentativi di eliminare Trump per via giudiziaria e finanche fisicamente, sono il riflesso di una forte tensione politica all’interno della classe dominante statunitense come non si osservava da molto tempo. Trump è appoggiato da diversi di settori del capitale, a partire da quelli più innovativi delle criptovalute e delle big tech, rappresentati da Elon Musk, ma anche da Jeff Bezos, il patron di Amazon, che ha impedito al quotidiano di sua proprietà, l’autorevole Washington Post, di dare il tradizionale appoggio ai democratici e a Kamala Harris, facendo poi i complimenti, per nulla scontati, a Trump una volta che questi è stato eletto.
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Nichilismo della forma politica e logica dell’insorgenza
In margine a un testo di Carmelo Meazza
di Leandro Cossu
La tragedia a cui sembra essersi consegnato il Politico negli stati europei negli ultimi trent’anni – tragedia egualmente composta tanto di impotenza verso i problemi strutturali posti dalla vittoria temporanea della globalizzazione, quanto afasia per l’incapacità di tematizzare, e persino di nominare, i suddetti problemi – sembra avere origini ben precedenti al crollo del muro di Berlino e l’affermazione, apparentemente assoluta, di un capitalismo anomico e di un individualismo sfrenato, entro cui sembra confinata ogni risposta possibile e ogni caduco tentativo di insorgenza. In effetti, il nichilismo del postmoderno sembra trovare luogo già in alcune figure teoriche della modernità. È quindi impreteribile urgenza capire che l’origine di questi mali è da identificare negli strumenti della cattiva metafisica. E, senza che questo sia un momento speculativo separato o consecutivo, pensare e nominare quelle nuove categorie che costituiranno non solo lo spazio teorico, ma anche, e soprattutto, lo spazio di agibilità politica per la prassi del XXI secolo.
Questo è il tentativo che prova a fare il prof. Carmelo Meazza, ordinario di filosofia morale a Sassari, in una delle sue ultime monografie: Il nichilismo della forma politica. Nell’eredità del comunismo im/possibile di Jean-Luc Nancy (Orthotes, Napoli 2024). Come dice il titolo, il saggio non è una monografia integralmente dedicata al filosofo francese, ma si rifà ad alcune sue intuizioni, portandole alle estreme conseguenze teoretiche.
Per capire cosa intenda Meazza con “nichilismo della forma”, dobbiamo ricostruire quello che, nei primi capitoli del saggio, viene individuato come vizio strutturale di ogni fondazione. Ogni ente, in quanto de-limitato, è già consegnato costitutivamente alla propria scomparsa, in quanto depositato nella possibilità della propria stessa negazione. La mela è fissata in ente perché in quanto ente è imminente la possibilità della sua negazione: che marcisca, germogli in melo, che venga mangiata et similia. Ma se io edifico qualcosa su un ente tutto quanto ciò che v’è sopra – il fondato – oscilla nella possibilità della nientificazione insieme al fondamento.
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Non sapere aude!
di Lelio Demichelis
Leggere la mente grazie alle neuro-tecnologie e alle neuro-scienze, manipolarla ben oltre quanto fatto dai totalitarismi del ‘900 e della pubblicità e dalla propaganda; e la libertà e la democrazia messe a rischio da una oligarchia di imprenditori del Big Tech, tra anarco-capitalisti e transumanisti ed Elon Musk, che qualcuno si ostina a chiamare visionari; e scienziati che invece di lavorare per accrescere e diffondere il sapere lo azzerano incorporandolo e soprattutto centralizzandolo in macchine/algoritmi/intelligenza artificiale, creando un uomo sempre meno sapiens e sempre più macchina. E su tutto, la tecnologia, che avanza a grandi passi, sempre più veloci, realizzando ben altro che il Grande Fratello orwelliano.
A molti, tutto questo sembra fantascienza, ma è la realtà già di oggi. E dunque, è tempo di rivendicare un nuovo diritto, quello alla libertà cognitiva, come lo definisce Nita Farahany – che insegna Diritto e Filosofia alla Duke University – in questo suo libro da poco tradotto in italiano e dal titolo programmatico se non imperativo di Difendere il nostro cervello (Bollati Boringhieri, pag. 482, € 27.00). Ma come rivendicare questo diritto alla libertà cognitiva – concetto e diritto bellissimo e soprattutto urgente - se da tempo abbiamo già rinunciato (come richiesto dal capitale, che necessitava dei nostri dati) al diritto alla privacy e che era il presupposto per la libertà individuale; se ogni giorno produciamo appunto dati che servono a toglierci la libertà di pensare (e il lavoro prossimo venturo), delegando tutto alle macchine/algoritmi/i.a.? Forse per avere le risposte prima ancora di avere fatto le domande – nella neolingua aziendalistica dominante si chiama efficientare? Perché siamo feticisti della tecnica? Perché abbiamo paura della libertà? Forse stiamo entrando nel transumano, senza rendercene conto? O perché siamo governati da tecno-crazie e imprenditori e non più dalla politica e dal demos, realizzandosi in pieno il programma del positivismo ottocentesco? Ma su tutto: siamo capaci di fermare le macchine e i neuro-scienziati se i rischi per l’uomo e la libertà stanno diventando – e lo stanno diventando – troppo grandi?
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È tutto loro quello che luccica!
di Luca Busca
Netanyahu e Gallant in realtà più che subire “conseguenze di non poco conto” sono stati “graziati”, non più rei di genocidio ma solo di “banali” crimini di guerra, d’altra parte commessi anche dalla controparte palestinese
E sì, non è un errore di stampa, “è tutto loro quello che luccica” è l’unica risposta sensata all’atavica domanda “è tutto oro quello che luccica?”. E il mandato di arresto di Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant luccica parecchio. A prima vista sembra una piccola rivoluzione, il riconoscimento di una giustizia sana che tenta di fermare anche i potenti, gli intoccabili. Non solo ma come ha brillantemente scritto Jeffrey Sachs: “il mandato di arresto della CPI per Netanyahu è anche un’accusa alla complicità USA.”
Una luce completamente nuova, soprattutto se messa a confronto con il precedente di inizio millennio, che vide i crimini di George W. Bush, come Abu Graib, Guantanamo e un milione di civili iracheni uccisi, completamente ignorati. Di contro Saddam Hussein, reo di mancato possesso di armi di distruzione di massa, venne condannato a morte da un tribunale fantoccio. “A Bagdad si è invece celebrata, per i fatti di Dujail, una farsa. I giudici sono stati nominati dall’esecutivo (il Consiglio di governo) e da esso sostituiti quando non si allineavano sulle posizioni ufficiali delle autorità o si dimostravano scarsamente efficaci. Il tribunale sin dall’inizio è stato finanziato dagli Usa, che hanno anche elaborato il suo Statuto, poi formalmente approvato dall’Assemblea nazionale irachena, nell’agosto 2005. (studiperlapace.it)
La notizia del mandato d’arresto per Netanyahu e Gallant ha suscitato immediate reazioni di entusiasmo e giubilo in tutte le tipologie di pacifisti che popolano l’articolato mondo del dissenso. Più pacate quelle dei governanti italiani con Crosetto ad affermare “la decisione della CPI, anche se sbagliata va applicata”. La Meloni con la sua consueta moderazione ha dichiarato: “Approfondirò in questi giorni le motivazioni che hanno portato alla sentenza della Corte Penale Internazionale. Motivazioni che dovrebbero essere sempre oggettive e non di natura politica”. Più determinato il “ministro degli Esteri Antonio Tajani cerca di trovare spiragli per non applicare la sentenza in Italia in caso di viaggio nel nostro Paese del primo ministro d’Israele accusato di crimini di guerra, mentre la Lega di Matteo Salvini definisce la sentenza della Corte internazionale addirittura «filo islamica».
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Perché la sinistra non è all’altezza dei problemi che deve affrontare?
di Guido Ortona
Osservazioni preliminari. L’autore di questa nota ha militato a sinistra per circa 60 anni; ed è stato ricercatore e poi professore di Politica Economica per più di 50. Scrivo questo perché le cose che leggerete potranno apparire banali, spero anzi che sia così; ma può essere utile sapere che queste banalità sono il risultato di decenni di pratica e di studio. Per “sinistra” intendo l’area a sinistra del PD, e una parte minoritaria di esso, la cui estensione non sono in grado di valutare.
1. Occorre affrontare i grandi problemi. La situazione politica generale in Italia (ma le considerazioni che faremo valgono anche per altri paesi) è grave e pericolosa, ma ha almeno un vantaggio: dovrebbe obbligare la sinistra a mettere al centro della propria proposta politica le grandi scelte, che invece preferisce trascurare, per vari motivi. Discutere di questi motivi e della loro importanza è il tema di questo articolo.
Le grandi scelte che non possono più essere eluse sono l’alternativa fra accettare le politiche europee o no, e quella fra tassare i ricchi o no. Chiamo queste alternative “grandi scelte” per questo: non è possibile proporre serie politiche di sinistra se non vengono affrontati questi nodi. Il motivo di ciò è che se non interviene con serie politiche di rottura su quei punti, allora mancheranno necessariamente le risorse per qualsiasi politica di sinistra di ampio respiro; il che renderebbe, e rende, impraticabile qualsiasi proposta di politiche economiche di sinistra che aspiri a incidere in modo significativo sulla nostra società.
L'Italia dovrà pagare (almeno) 10 miliardi all'anno per ridurre il disavanzo pubblico onde rispettare i vincoli europei sul rientro dal debito. Ma non basta: questa somma si aggiunge al normale servizio del debito, per un totale, a quanto pare, compreso fra 80 e 100 miliardi all’anno. Una parte, circa un quarto, ritorna come interessi sulla quota di debito detenuta dalla Banca d’Italia; ma per quanto riguarda l’attivazione sull’economia del nostro paese il resto è sostanzialmente buttato via - si tratta di almeno il 3% del PIL.
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Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista*
di Carlo Di Mascio
La scelta di una filosofia dipende da quello che sei.
J. G. Fichte, Prima introduzione alla Dottrina della Scienza
1. La ricezione russo-sovietica di Hegel tra filosofia e politica
Nel 1931 Evgeni Pashukanis pubblica un saggio dal titolo ‘Hegel. Stato e diritto’1, dedicato al centenario della morte di Hegel. L’occasione era stata fornita dalla possibilità di partecipare, con alcuni scritti di filosofi e giuristi sovietici, allo Hegel-Kongreß tenutosi a Berlino nello stesso anno, partecipazione poi - come ricorderà Pashukanis - «comicamente» negata dagli organizzatori che, nel rifiutare gli scritti di provenienza sovietica, si limitarono solo alla ricezione di semplici comunicazioni «sulla portata e l'organizzazione degli studi hegeliani nelle istituzioni scientifiche russe». A ciò fece seguito, come ancora polemicamente riportato dal giurista sovietico, il commento di Georg Lasson, tra i promotori del congresso berlinese, per il quale sarebbe stato «assurdo scoprire la dottrina hegeliana dello Spirito assoluto nel materialismo inanimato del marxismo»2. Ora, non serve qui soffermarsi sulle ragioni di una tale esclusione. Essa non poteva che dipendere dal ritenuto stato «avanzato» degli studi hegeliani nell’Occidente europeo, in un contesto culturale e storico-politico molto particolare, connotato dall’avvento del nazi-fascismo in Germania e in Italia3, dal «ritorno a Hegel» e ai motivi più reazionari del suo pensiero riassunti in quel «neohegelismo»4 da impiegare come baluardo politico-filosofico allo stato «avanzato» della crisi, sociale ed economica, in una Europa segnata dal timore di una rivoluzione interna sull’esempio di quella sovietica - ma anche da una sostanziale debolezza della tradizione filosofica russa, già vent’anni prima riconosciuta da Lenin, secondo cui «Nelle correnti d’avanguardia del pensiero russo non c’è una grande tradizione filosofica come quella che per i francesi è legata agli enciclopedisti del XVIII secolo, per i tedeschi all’epoca della filosofia classica da Kant a Hegel a Feuerbach.»5.
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I popoli africani contro l'imperialismo 3. Amilcar Cabral
di Carlo Formenti
Amilcar Cabral è l’ultimo intellettuale rivoluzionario africano di questo trittico in cui ho già presentato le idee di Said Bouamama e Kevin Ochieng Okoth. Nato in Nuova Guinea da genitori capoverdiani nel 1924, quando il Paese era ancora una colonia portoghese, nel 1945 ottenne una borsa di studio che gli consentì di frequentare l’Università di Lisbona dove conseguì la laurea in agronomia e dove rimase fino al 1952, ma soprattutto dove conobbe quelli che sarebbero diventati, assieme a lui, i leader delle guerre di liberazione delle altre colonie portoghesi, fra i quali l’angolano Mario Pinto de Andrade e il mozambicano Eduardo Mondlane. Rientrato in patria con l’incarico di agrimensore, si mise alla testa della lotta per l’indipendenza nazionale che si concluse vittoriosamente nel 1973 pochi mesi dopo la sua morte (nel gennaio di quell’anno venne assassinato da agenti portoghesi). Il suo contributo teorico, politico e culturale alla rivoluzione anticolonialista e antimperialista e allo sviluppo della teoria marxista, è di ampio respiro e resta un punto di riferimento obbligato per capire le dinamiche della lotta di classe in Africa. Per presentarne il pensiero, ho utilizzato qui un’antologia che raccoglie testi di discorsi tenuti nel corso dei suoi viaggi in giro per il mondo per raccogliere solidarietà alla lotta del popolo guineano (“Return to the Source”, Monthly Review Press). Alla fine trarrò le conclusioni di questo percorso in tre tappe.
* * * *
1. Teoria e prassi come momenti di un unico processo di apprendimento
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Contro la sinistra liberale. Riflessioni sul tema
di Nicoletta Pirotta
In Germania, dopo la rottura con il Partito della Sinistra (Die Linke), Sahra Wagenknecht ha intrapreso un proprio percorso politico che l’ha portata a dare vita a un’associazione e poi, nel gennaio di quest’anno, a un partito vero e proprio: il BSW che sta per “Bündnis Sahra Wagenknecht” (“Coalizione Sahra Wagenknecht”). Con questo partito si è presentata alle elezioni regionali in Turingia e in Sassonia e lo scorso settembre in Brandeburgo piazzandosi al terzo posto in tutti e tre le regioni, rispettivamente con il 15,8, l’11,8 e il 13,5% dei voti. Voti raccolti soprattutto nelle periferie e nei quartieri popolari.
Per dare conto dei fondamenti teorici di un partito, in grado fin dalla sua fondazione, di ottenere non pochi consensi, Wagenknecht ha scritto un libro pubblicato anche in Italia, con la prefazione di Vladimiro Giacché, dal titolo Contro la sinistra neoliberale.
Su di lei si è detto tutto e il contrario di tutto, anche nel nostro Paese.
Già questo fatto mi ha incuriosito perché quando i pareri divergono così profondamente vuole dire che un po’ di ciccia c’è. Ma il motivo per cui ho voluto leggere il libro di Wagenknecht è un altro.
Esso ha a che vedere con lo spaesamento e l’impotenza che provo nel constatare, contemporaneamente, l’avanzata, non solo sul piano politico, di una destra sempre più aggressiva e la mancanza di alternative condivise capaci non tanto di modificare i rapporti di forza ma nemmeno di fare da argine a questa avanzata.
Questo è vero particolarmente in Italia vista la mancanza di un soggetto politico in grado di rappresentare un punto di vista alternativo al neoliberismo, autonomo ma al contempo non autoreferenziale. L’ultima esperienza politica che ha avuto un senso in tale prospettiva era stata Rifondazione Comunista almeno fino al 2008. Ho partecipato con slancio e convinzione a questo percorso che poi, però, mi ha lasciata orfana di una “rifondazione” mai compiuta fino in fondo.
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Ripensare il marxismo, progettare la società post-capitalista
di Giorgio Grimaldi
Introduzione a Domenico Losurdo, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, Carocci 2021
§1. Perché La questione comunista?
Nella genesi di un’opera agiscono le questioni, le esigenze che all’autore si presentano come elementi che decidono del movimento del proprio tempo. Possono occupare una posizione più o meno centrale, o appariscente, nel dibattito riservato a determinati circoli culturali o anche agli occhi dell’opinione pubblica, e compito dell’autore è quello in primo luogo di individuarli, isolandoli dal materiale che, seguendo la logica delle mode, è avvertito come argomento “del momento”, e che “nel momento” si esaurisce. L’opera che la moda (oppure la mera contingenza) detta non presuppone un’analisi degli aspetti decisivi del proprio tempo, ma ne riflette, con maggiore o minore eleganza, le decisioni.
Per un filosofo come Domenico Losurdo, che non ha mai seguito o assecondato le mode ma ha sempre mantenuto libero e coerente lo sguardo su un obiettivo – «l’emancipazione politica e sociale dell’umanità nel suo complesso» (infra, p. 178) –, la prima domanda che occorre porsi di fronte a questo testo inedito (il primo lavoro monografico a essere pubblicato dopo la scomparsa, avvenuta il 28 giugno del 2018) è il perché abbia scelto di proseguire nel progetto di ripensamento del marxismo che ha animato l’ultima fase del suo pensiero. Non si tratta, come invece il titolo di lavoro del volume (La questione comunista a cent’anni dalla rivoluzione d’ottobre) potrebbe suggerire, di un testo che prende avvio da un’occasione, da una contingenza. Certo, si innesta nelle discussioni nate a partire dalla ricorrenza del centenario della rivoluzione del 1917, ma, fuori da ogni intento celebrativo e apologetico, La questione comunista intende articolare un bilancio storico dell’esperienza sovietica e del marxismo nel suo complesso. Non solo: Losurdo osserva il marxismo negli elementi che in esso confluiscono e in ciò che è capace, in un futuro prossimo o remoto, di produrre.
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La nuova governance fiscale europea fra mezze verità e metafisica
di Sergio Cesaratto (Unisi-Deps)
Anche a scopo didattico, pubblico alcune note sul Piano strutturale di bilancio che il governo sta discutendo con la Commissione Europea. Una sintesi è apparsa su Il Fatto del 31 ottobre 2024
Con il voto del Parlamento europeo e del Consiglio della UE, nell’aprile 2024 sono stati adottati i testi legislativi che delineano la nuova governance economica dell’Unione [1]
Obiettivi
L’obiettivo generale è portare il rapporto fra il debito e il PIL su una traiettoria plausibilmente discendente o mantenerlo su livelli prudenti, nonché per portare o mantenere il disavanzo al di sotto del 3 per cento del PIL nel medio termine.
Allo scopo ciascun paese deve presentare un Piano strutturale di bilancio (PSB ) che definisca il percorso di consolidamento necessario per realizzare gli obiettivi.
Al centro del nuovo assetto vi sono le analisi di sostenibilità del debito pubblico nel medio termine e il confronto tra ogni Stato membro e la Commissione per la definizione di una politica di bilancio appropriata, anche in relazione a piani di riforme e di investimenti. In tal modo si intende superare la logica delle regole valide per tutti (vedremo che non è poi così).
Obiettivi specifici
Il PSB deve assicurare che per gli Stati con un debito pubblico superiore al 60 per cento del PIL o con un disavanzo superiore al 3 per cento del PIL (come l’Italia) alla fine del periodo di consolidamento:
(i) il debito pubblico in rapporto al PIL si deve collocare su una dinamica plausibilmente decrescente nel medio termine o mantenersi su livelli prudenti al di sotto del 60 per cento;
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