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Ucraina e Grecia: la violazione "internazionalista" del principio di non ingerenza e la religione guerrafondaia del Free-Trade
di Quarantotto
Oggi tutto il mondo è (o dice di essere) col "fiato sospeso", di fronte alle preoccupazioni per la guerra civile in Ucraina, date le sue potenziali implicazioni di coinvolgimento, diretto e militare, della Russia da un lato e degli USA, (più o meno uniti alla UE), in un non ben chiaro quadro NATO.
1. La questione ucraina va ripercorsa dal suo inizio.
E lo faremo riassumendo i passaggi fondamentali del noto post di Riccardo Seremedi "Ucraina Dies Irae" (che in effetti è un quasi-trattato sulla materia, data l'enorme ed esauriente mole di notizie, links e connessioni che vi sono contenute).
E dunque:
a) La crisi ucraina – come si ricorderà - è iniziata con il rifiuto del presidente Yanukovich di aderire all'Accordo di Libero Scambio (DCFTA) di fine novembre 2013 a Vilnius; sono seguite giornate convulse nelle quali la cosidetta “Euromaidan” si è popolata magicamente di persone, spesso reclutate per pochi dollari l'ora, con migliaia di vessilli UE nuovi di zecca spuntati da chissà dove...
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La crisi greca, la recessione italiana e le contraddizioni dell’Eurozona
di Guglielmo Forges Davanzati
La crisi greca è la più eclatante manifestazione del fatto che l’Unione monetaria europea non può che generare impoverimento crescente delle aree deboli. La spirale perversa nella quale è precipitata l’economia ellenica è molto simile a quella che caratterizza la nostra economia. In questo scenario, e contrariamente alla posizione assunta dal governo Renzi, dovrebbe essere interesse anche nostro sostenere il programma di revisione dell’architettura istituzionale europea che Syriza propone
"Il libero scambio porta inevitabilmente alla concentrazione spaziale della produzione industriale – un processo di polarizzazione che inibisce la crescita di queste attività in alcune aree e le concentra in altre” (N.Kaldor, The foundation of free trade theory, 1980).
I numerosissimi commenti sulla situazione greca si sono, nella gran parte dei casi, concentrati sul problema della ristrutturazione del debito e sulla tenuta dell’Unione Monetaria Europea. Non vi è dubbio che si tratta di problemi di massima rilevanza, così come non vi è dubbio che la soluzione della crisi greca ha natura innanzitutto politica. Non dovrebbe però passare in secondo piano un altro dato che attiene al fatto che ciò che è accaduto all’economia greca – per quanto attiene alla sua struttura produttiva – è molto simile a ciò che è accaduto (e sta accadendo) agli altri Paesi periferici del continente, Italia inclusa.
Le affinità fra i due Paesi non sono marginali, sebbene lo siano, ovviamente, con ordini di grandezza assai diversi. Fra queste, l’elevato debito pubblico, l’elevata evasione fiscale1, l’elevata disoccupazione (prevalentemente giovanile) e soprattutto una specializzazione produttiva in settori a bassa intensità tecnologica accomunano le due economie2. In particolare, l’Italia, a differenza della Grecia, non ha mai sperimentato tassi di crescita negativi nell’ordine dell’8% (come accaduto in Grecia nel 2011), né ha mai fatto registrare un rapporto debito pubblico/Pil del 175% (come nella Grecia del 2014), attestandosi questo rapporto, ad oggi, al 135%. Ma soprattutto, mentre la Grecia ha sempre avuto una specializzazione produttiva in settori a bassa intensità tecnologica (agricoltura e turismo, in primis), l’economia italiana è stata un’economia industriale, per poi sperimentare, almeno a partire dall’inizio degli anni novanta, un intenso processo di deindustrializzazione che la rende ora sempre più simile a quella greca.
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Tra l’ottimismo e la catastrofe
Mario Nuti
Il calo del petrolio e dell’euro e la decisione della Bce possono dare un aiuto alla crescita, anche se non sono privi di qualche controindicazione. Il nuovo governo di Atene ha avanzato proposte molto ragionevoli, ma per ora accolte con ostilità: se si dovesse decidere di abbandonare la Grecia provocandone l’uscita dall’euro, la situazione potrebbe precipitare
Il mese di gennaio 2015 ci ha dato diversi motivi per un moderato ottimismo circa le prospettive di ripresa economica dell’Eurozona e dell’Italia.
In primo luogo, il rafforzamento della tendenza già manifestatasi della caduta del prezzo del petrolio. Da metà giugno del 2014 a fine gennaio 2015 il prezzo del greggio infatti è diminuito di ben il 60 per cento, riducendo i costi energetici delle imprese dell’Eurozona nonostante la contemporanea ma molto inferiore svalutazione dell’euro rispetto al dollaro (di cui si parla più avanti). Stime quantitative dell’effetto di questa riduzione dei costi sul tasso di sviluppo del Pil sono incerte e variano intorno allo 0,5%-0.8%, ma indubbiamente l’effetto positivo c’è e non è trascurabile.
Il secondo motivo di moderato ottimismo è la decisione della Bce del 22 gennaio scorso sull’allentamento monetario (Quantitative Easing, o QE), sia pure con la disapprovazione del presidente della Bundesbank Jens Weidmann e di altri rappresentanti di paesi nordici in minoranza: 60 miliardi di euro al mese per 19 mesi, da marzo 2015 al settembre 2016, e se necessario anche oltre, fino a quando non sarà raggiunto l’obiettivo di un tasso d’inflazione dell’Eurozona “vicino ma inferiore al 2 per cento”. Questo ammontare include altri interventi già decisi in precedenza, per cui in realtà non si tratta di 1140 miliardi ma di circa 900 miliardi aggiuntivi. E l’effetto sorpresa (importante ad esempio nella recente rivalutazione del franco svizzero) è stato diluito da mesi, anzi da anni, di discussioni e controversie. Tuttavia l’ammontare dell’intervento è stato pur sempre maggiore delle aspettative, che erano dell’ordine di 500 miliardi, per cui i mercati sono stati sorpresi lo stesso. L’assunzione da parte delle Banche centrali nazionali del rischio di default eventuale sull’80% dei titoli del loro paese acquistati dalla Bce è un limite importante all’unione monetaria ma un prezzo accettabile per questo massiccio intervento.
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Il mestiere di pensare e il ruolo pubblico della filosofia
di Andrea Zhok
Recentemente è uscito in libreria un volumetto di Diego Marconi dall’impegnativo titolo: Il mestiere di pensare. Il testo pone alcune domande cruciali per chiunque abbia a cuore la filosofia come pratica, storia e vocazione. Marconi è un filosofo analitico di valore, ma nonostante l’indubbia qualità della scrittura e della riflessione le sue tesi risultano piuttosto controverse. Di seguito ne forniremo un resoconto critico.
1. Diagnosi e ricette
Marconi pone una questione importante, concernente la natura pubblica del filosofare. Egli ritiene che la filosofia accademica sia oggi assai meno comunicativa verso il pubblico colto di quanto fosse in altri periodi storici, anche recenti (p. 6), e che la filosofia sia di fatto “in buona parte sparita dall’orizzonte delle persone colte” (p. 8).
La diagnosi che viene fornita di questo processo è la seguente: secondo l’autore si tratterebbe di un’evoluzione obbligata, dovuta al naturale processo di specializzazione accademica. Il crescere di una letteratura specialistica sarebbe parte costitutiva della rispettabilità dell’odierno lavoro accademico e sarebbe inevitabile il crearsi di una produzione filosofica sempre più numerosa, tecnica e circoscritta.
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La guerra è la sola igiene del mondo?
Prospettive 2015
di Piotr
La crisi sistemica sul piano inclinato del dollaro, dell'Ucraina, dell'egemonia USA e della tentazione della guerra
I tratti salienti del 2015 iniziano a delinearsi. Cercherò in futuro di analizzarli meglio, ma quelli centrali mi sembrano che vertano su alcuni punti salienti.
Due parole sul metodo
Come al solito non uso una sfera di cristallo, ma un po' di logica applicata ai fatti. Alcuni sono fatti certi, altri sono il risultato di incroci di fonti informative di diversa provenienza e di diversa tendenza. Non ho servizi di intelligence a mia disposizione e quindi mi devo accontentare. Quelli che invece si accontentano di una sola fonte, di fatto si accontentano anche di essere ricettori passivi di servizi di intelligence. Data l'origine promiscua delle mie informazioni, requisito essenziale è non fare il tifo per una parte, ma cercare di essere un lettore equilibrato. Ciò non vuol dire che il mio cuore non stia dalla parte degli aggrediti, degli umiliati e degli offesi. L'osservatore puramente razionale e neutrale è una mostruosa finzione al servizio del pensiero dominante. Essere equilibrato nell'osservazione e nell'analisi non vuol dire essere indifferente, bensì analizzare con disincanto il maggior numero possibile di linee di forza in gioco per poter intervenire a vantaggio degli aggrediti, degli umiliati e degli offesi.
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I limiti del keynesismo
di Michel Husson
La stagnazione europea sembra dare ragione alle “analisi keynesiane”. Il ragionamento di fondo è il seguente: l’austerità provoca recessione e debito, si tratta quindi di una politica assurda. Sarebbe meglio rilanciare l’attività economica attraverso politiche monetarie e di bilancio più dinamiche e un aumento dei salari e/o degli investimenti pubblici. Questa presentazione è un po’ caricaturale, ma è un riassunto provvisorio del nocciolo di questo discorso che chiameremo, per comodità, “keynesiano”.
La critica che possiamo indirizzare a questo discorso obbedisce alla seguente dialettica:
- Le proposte “keynesiane” sono in un certo senso corrette;
- ma fanno astrazione della logica profonda del capitalismo,
- e perciò conducono ad alternative incoerenti poiché incomplete.
I modelli post-keynesiani
La diagnosi “keynesiana” si fonda sul ricorso ai cosiddetti modelli di stock-flow consistent realizzati da una scuola di economisti eterodossi che si definiscono piuttosto come “post-keynesiani”. Questi modelli combinano i flussi (per esempio il volume della produzione, l’investimento, la massa salariale) con gli stock (per esempio il capitale fisso, l’indebitamento,ecc.).
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Guerra impura
di Paul Virilio
Con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine dell’equilibrio tra potenze, è scomparsa anche la nozione classica di guerra, sostituita da conflitti locali permanenti che hanno l’obiettivo di seminare il panico nelle grandi città. Esattamente venticinque anni fa, mentre scrivevo Pure War (Semiotext<e>-Mit Press, 1983), la dissuasione si poneva ancora sul piano strettamente militare. Gli Stati praticavano una dissuasione reciproca, favorendo l’equilibrio del terrore.
Venticinque anni dopo, sono costretti ad ammettere che la corsa agli armamenti tipica della «guerra pura» ha cancellato non soltanto l’Unione Sovietica, che è implosa, ma anche l’idea stessa della «grande guerra classica», la guerra clausewitziana, prolungamento della politica con altri mezzi.
Questa dissoluzione ha condotto il nostro mondo direttamente tra le braccia del terrore, del disequilibrio terrorista e della proliferazione nucleare che, purtroppo, impariamo a conoscere ogni giorno di più. La copertura antimissilistica globale degli americani – quella sorta di ombrello o parafulmine che Bush sta proponendo a tutti nel mondo – mi pare esemplifichi bene il grado di squilibrio e il delirio geostrategico di cui siamo vittime. Incredibile e degna di nota, a mio avviso, anche la risposta di Vladimir Putin alle proposte americane, una risposta su cui non si è discusso a dovere. Che cosa ha detto, in sostanza, Putin? Ha proposto di installare i radar di questo scudo globale… in Russia e Azerbaigian. Non poteva essere più chiaro. Così, dopo la «grande guerra classica» e politica ci ritroviamo adesso alle prese con una guerra asimmetrica e transpolitica.
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In Ucraina la guerra globale è alle porte
Si mobiliti finalmente tutta la sinistra!
di Mauro Gemma
Quando uno dei “potenti della terra”,il presidente francese Hollande, arriva a fare affermazioni che non escludono la possibilità dello scatenamento, nello scenario ucraino, di una guerra dalle proporzioni inimmaginabili tra l'Occidente imperialista e la Russia, non occorre essere particolarmente ferrati in politica internazionale per capire che ormai si corre il rischio di essere arrivati a un punto di non ritorno.
L'ipotesi di una spaventosa guerra globale non viene avanzata più solamente dalle voci isolate di qualche esperto preveggente, come quelle di coloro che già tempo fa la ipotizzavano nelle prime fasi del conflitto del Donbass, attribuendo all'imperialismo statunitense persino la volontà di utilizzare le armi più devastanti per affermare definitivamente il proprio progetto egemonico nell'intero spazio post-sovietico.
Ora, di fronte a quanto sta accadendo, con l'intenzione ormai dichiarata dell'amministrazione USA di scendere in campo prepotentemente a fianco dell'esercito dei golpisti di Kiev, rendendo esplicito il sostegno di armi e istruttori che già, sottobanco, era stato garantito fin dall'inizio alle operazioni “antiterroriste” nell'Ucraina sud orientale avviate dai dirigenti nazional-fascisti della giunta ucraina e sfociate in un autentico genocidio delle popolazioni dell'Ucraina sud orientale, si precisa un quadro che dovrebbe terrorizzare l'opinione pubblica dell'intero nostro continente.
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Riflessioni sul programma di Syriza e il futuro della Grecia
di Lorenzo Battisti
Le elezioni greche hanno generato molte aspettative a sinistra, nella speranza che la vittoria di Tsipras e di Syriza possa cambiare gli equilibri europei e quindi aprire la strada alla fine dei programmi economici di austerità che hanno colpito i paesi europei negli ultimi anni. Al contempo, l'alleanza con il Partito dei Greci Indipendenti ha colto di sorpresa molti.
Partirò da un'analisi del programma di Syriza e di come è mutato rispetto al 2012. Cercherò poi di indicare l'importanza delle scelte post elettorali.
Le differenze con il programma del 2012
Il programma di Syriza è stato presentato a Settembre a Salonnico durante un discorso tenuto da Tsipras e poi ampiamente diffuso in rete. Il discorso può essere trovato qui in inglese(1) mentre la traduzione italiana è disponibile qui (2).
Innanzitutto non si possono non notare importanti differenze con il programma che Syriza presentò solo due anni e mezzo fa, quando per la prima volta arrivò a pochi passi dal governo della Grecia(3). Il programma attuale tratta esclusivamente il tema economico, non lasciando alcuna indicazione su altri importanti temi. In particolare due punti risaltano per la loro assenza.
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Lo svuotamento postmoderno della democrazia
di Emiliano Alessandroni
La storia ci ha insegnato che non esiste società, né epoca umana, la quale non registri al suo interno una certa componente più o meno robusta di dissenso. Il dissenso, di per sé, non è né buono né cattivo, ma qualunque connotato esso assuma, costituisce l'anima, il cardine della contraddizione. Dissenzienti erano gli schiavi quando la legge ne prevedeva giuridicamente l'esistenza, ma non meno dissenzienti erano i proprietari di schiavi, nel sud degli Stati Uniti, ai quali, nella seconda metà dell'Ottocento, l'imponenza dei processi e delle lotte stava strappando via quei privilegi da essi designati come sacrosanti diritti di proprietà. Le spinte che premevano per la soppressione della schiavitù, venivano inizialmente additate, dalla cultura del tempo, come minacce nei confronti della libertà: era la libertà dei proprietari, la libertà di possedere esseri umani [1]. Comprendiamo allora il monito di Hegel quando, nell'affrontare la questione dei privilegi baronali presenti nella Polonia feudale e di come questi venivano difesi dalla cultura del tempo, avverte che «quando si parla di libertà, si deve sempre far caso se, in realtà, non si stia parlando d'interessi privati».[2]
Nato in nome di una libertà, contro altre libertà (alcune composte da privilegi, altre da diritti), il mondo capitalistico-occidentale ha dato luogo, sin dai suoi albori, ad ampie forme di dissenso.
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Troika e disinformazione
Quelli che ‘portiamo la democrazia in Europa’
di Alberto Bagnai
Non ho le competenze per poter definire in modo scientifico (nel senso delle scienze politiche) cosa sia la democrazia: diciamo che io, come la maggior parte di voi, la democrazia la vivo, o la subisco, ma non la studio. Tuttavia sono ragionevolmente certo del fatto che nessuno scienziato politico contesterebbe, almeno non apertamente, l’idea che un presupposto della democrazia sia la corretta informazione dei cittadini, del demos. Se il demos deve governare, è quanto meno opportuno che lo faccia con una minima cognizione di causa, e questo tanto più quanto più si invoca la democrazia diretta.
Mi sono reso conto che per motivi imperscrutabili questo principio viene messo in discussione da molti commentatori di questo blog, i quali non hanno colto la gravità estrema dell’operazione di scorretta informazione, casualmente in senso pro-Troika, denunciata dai miei due ultimi interventi. Fa evidentemente parte della democrazia anche il desiderare di vivere da servi, e lo schernire chi come me ha altre ambizioni: sono opinioni, e nessuno contesta il diritto di esprimerle!
La mia principale obiezione al progetto europeo verte proprio su questo aspetto politico.
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Il terrorismo della Bce
di Andrea Fumagalli
Il 4 febbraio 2015 la Bce ha deciso di non accettare più come garanzia “collaterale” i titoli di stato greci per fornire la liquidità necessaria al sistema creditizio greco per far fronte alle normali operazioni bancarie. Si tratta di una misura drastica che rischia di ricreare quella situazione di crisi di liquidità (cash crunch) che aveva sconvolto l’Argentina nei momenti topici della crisi del 2000, con corsa agli sportelli, bancomat inutilizzabili e sviluppo di nuove monete alternative e nuovi sistemi di pagamento.
L’agenzia statunitense Bloomberg stima che la liquidità bancaria in Grecia sarà sufficiente sino a fine febbraio. Rimarrà in vigore invece il fondo di ultima istanza: Emergency Liquidity Assistance (ELA). Bontà sua, la Bce ha infatti autorizzato, a mo’ di compensazione, la Banca Centrale Greca a erogare alle banche in difficoltà sino a un massimo di 60 miliardi di euro all’anno (5 mld al mese), una cifra che tuttavia rischia di essere insufficiente a garantire quella liquidità monetara necessaria per la sopravvivenza quotidiana
La decisione è decisamente politica. Avviene nel corso del tour europeo di Tsipras e del ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, poco dopo che quest’ultimo aveva incontrato lo stesso Draghi, e il giorno prima dell’appuntamento con il ministro dell’economia tedesco, il falco Wolfgang Schaeuble. È un chiaro segnale che ci conferma da che parte tira il vento e dove stanno i poteri forti.
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Uscita da sinistra e sovranità
di Dino Greco
Sabato 31 gennaio, a Roma, si è svolto il Seminario di Rifondazione Comunista “Crisi, Euro, Italia, Europa“ (QUI il breve resoconto). Di fronte a tante ambiguità vi sono stati alcuni contributi rilevanti e che hanno ben compreso la natura della crisi del neoliberismo e dell’euro. Ad esempio l’intervento seguente di Dino Greco.*
«La Lega cerca – con preoccupante successo – di egemonizzare il movimento antieuropeista su una linea di populismo reazionario, xenofobo, di marca dichiaratamente lepenista. Assistiamo persino al tentativo di capitalizzare a destra lo stesso straordinario successo di Syriza nelle elezioni greche, oscurandone l’imprinting radicalmente antiliberista. Anche il M5S cavalca l’onda, sebbene con un profilo più basso e confuso, esibendo come distintivo indennitario la pura e semplice, propagandistica, uscita dall’euro tramite il Referendum .
L’agognato ritorno alla moneta nazionale non è tuttavia auspicato da costoro per restaurare diritti espropriati (welfare, diritto del lavoro), o per proteggere i salari, o per ostacolare il processo di privatizzazione selvaggio, o per definire nuove regole per il commercio e controllare la circolazione dei capitali, o per pubblicizzare banche e asset nazionali. Tutto il contrario. Si tratta di un nazionalismo autarchico e reazionario che si sdraia su un senso comune sempre più diffuso e sulla crescente disperazione di un popolo che non sa più a che santo votarsi, per lucrarne un vantaggio politico-elettorale a buon mercato.
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Grecia, il braccio di ferro è iniziato*
di Michel Husson
La Banca centrale europea (BCE) ha preso una decisione di una brutalità inaudita: a partire dall’11 febbraio, non accetterà più i titoli pubblici greci in contropartita delle liquidità accordate alle banche greche [leggi, in inglese, dal sito della BCE]. È una dichiarazione di guerra aperta contro il governo Tsipras: o questo rinuncia alla sua politica, o le banche greche falliscono. La BCE sceglie in tal modo una strategia del caos dalle conseguenze assolutamente imprevedibili.
Super Mario: la fine delle illusioni
La nomina di Mario Draghi alla testa della BCE era in sé stessa una provocazione. Ci si ricorda che l’ingresso della Grecia nella zona euro, nel 2001, è stata resa possibile grazie alla manipolazione dei suoi conti, effettuata sotto l’egida della banca Goldman Sachs. Questa aveva consigliato al governo greco di utilizzare prodotti derivati per ridurre l’ampiezza del suo deficit di bilancio. In seguito, l’inganno è stato riconosciuto e i conti corretti. Ma Mario Draghi ha esercitato dal 2002 al 2005 le funzioni di vice presidente per l’Europa di Goldman Sachs e, a questo titolo, è difficile credere che non fosse al corrente di quelle manipolazioni, né dei 300 milioni di dollari che avevano procurato alla sua banca. Dopo essere subentrato a Jean-Paul Trichet alla testa della BCE, quest’ultimo aveva opposto un silenzio pesante e rivelatore (in francese) alla domanda di un giornalista sul passato di Draghi alla Goldman Sachs.
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Crisi del lavoro e terremoti finanziari
Storia e tesi del Gruppo Krisis
di Riccardo Frola
In quest’articolo si ripercorre il senso di una delle esperienze più originali della sinistra tedesca degli ultimi anni, e cioè quella del Gruppo Krisis. Nell’analisi prodotta dai membri del gruppo la superfetazione finanziaria è ricondotta immediatamente all’esaurimento della figura della forza-lavoro come agente produttivo di merci
La crisi, dal 2008, sembra aver messo tutti d’accordo, almeno sul piano psicologico: viviamo in un periodo di rimpianti. Le nostalgie per un giardino dell’Eden incontaminato fatto di fabbriche, uffici, lavoro full time, risparmi e seconde case al mare; si mescolano al rimpianto per la vecchia politica attiva, le lotte sindacali, l’opinione pubblica e i valori illuministi perduti. Un arcadico ambiente «naturale», costituito da un capitalismo sano e operoso, frutto supremo del progresso dell’Occidente, che si sarebbe pervertito – secondo la vulgata ufficiale – a causa dell’avidità e della corruzione delle élites politiche ed economiche. In questa narrazione biblica e larmoyante, le tesi della corrente internazionale nota come «critica del valore», elaborate negli ultimi trent’anni principalmente in Germania attorno alle riviste Krisis ed Exit! da R. Kurz, N. Trenkle, E. Lohoff, A. Jappe, R. Scholz e altri autori meno noti in Italia, rappresentano l’unica eccezione rimasta lucidamente a ciglio asciutto.
I titoli di alcuni degli scritti questi autori: «La fine della politica», «Manifesto contro il lavoro», «Denaro senza valore», suonano oggi come una bestemmia alle orecchie di un pubblico che, stordito dalla crisi, non fa che chiedere lavoro, denaro e politica. Eppure, la figura di Krisis era apparsa blasfema, ai suoi esordi, per ragioni contrarie, quando – unica eccezione nel contesto eccitato degli anni’90 -, era stata la prima a segnalare proprio quella crisi che è oggi sotto gli occhi di tutti.
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Dalla città keynesiana alla città neoliberista
Qualche nota sparsa a partire da "Geografia e Capitale" di David Harvey
di Clément Homs
Avvertenza : Queste note sulle tesi del geografo David Harvey, marxista tradizionale, non hanno la finalità di svolgere una critica di tale marxismo che assume il punto di vista del lavoro. In tal senso, si consiglia una lettura del testo di Moishe Postone: «Theorizing the Contemporary World : David Harvey, Giovanni Arrighi, Robert Brenner», testo che costituisce una critica dell'opera di Harvey
Henry Lefebvre ha mostrato, per primo, l'importanza del fenomeno urbano per quel che concerne la dinamica del capitalismo: il capitalismo, per potersi meglio riprodurre, deve urbanizzarsi. L'urbanizzazione capitalista ha la sua logica e le sue forme proprie di contraddizione. A partire dal XIX secolo e fino ad oggi, si possono sommariamente distinguere tre modelli di urbanizzazione capitalista in funzione delle sue configurazioni storiche successive: la città-laboratorio, la città-keynesiana, la città neoliberista. Per meglio definire il contesto generale della traiettoria urbana del capitale nel XX secolo, parleremo brevemente, dapprima, della reinterpretazione delle principali configurazioni storiche attuate dal capitalismo nel XX secolo, come vengono proposte da Moishe Postone (va notato come questa interpretazione della traiettoria storica sia sensibilmente diversa, nei suoi fattori esplicativi, da quella proposta da Norbert Trenkle ed Ernst Lohoff ne La Grande Svalorizzazione, che salvo poche eccezioni qui non verrà trattata).
La ruota dei criceti: breve presentazione delle configurazioni storiche successive del capitalismo del XX secolo
Moishe Postone segue qui utilmente la periodizzazione fatta da Eric Hobsbawm, specificandola teoricamente al fine di poterla usare come base. Bisogna distinguere tre periodi essenziali nel XX secolo, che costituiscono delle diverse configurazioni storiche del capitalismo, ma che non sono altro che l'espressione della forma della dinamica immanente ad un tale sistema immerso in un movimento incessante.
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Cosa dimostra la Grecia di Tsipras sull'euro
Domenico Moro
Sul successo del governo Tsipras si giocherà una partita importantissima non solo per i greci ma per le classi subalterne di tutta l’Europa. Infatti, il governo Tsipras rappresenta un cuneo potenzialmente pericoloso per questa Europa, l’Europa dei capitali e non dei popoli.
Il problema posto dal governo greco non sta tanto nel debito, quanto nelle misure economiche che sono nella sua agenda programmatica. A tale proposito, è significativo quanto scrive il 31 gennaio The Economist, una delle voci più autorevoli del capitale finanziario europeo. Per il settimanale, Tsipras dice due cose giuste e una completamente sbagliata. Quelle giuste sono che l’austerity europea è stata eccessiva e che il debito (salito dal 103,1% al 175% in sei anni malgrado i tagli feroci alla spesa pubblica) non può essere pagato. Fin qui siamo d’accordo. Quale sarebbe allora la cosa completamente sbagliata? Tsipras sbaglierebbe ad abbandonare le cosidette riforme di struttura, su cui il governo greco precedente si era accordato con la Troika in cambio di prestiti ulteriori. L’abbandono delle riforme comporta misure che in Europa sono in completa controtendenza, come la riassunzione di 12mila lavoratori pubblici licenziati, l’innalzamento delle pensioni minime e soprattutto la cancellazione del programma di massicce privatizzazioni (in Grecia le banche più importanti hanno come principale azionista lo Stato). The Economist propone questa soluzione: la ristrutturazione del debito o la riduzione dei suo valore facciale in cambio della prosecuzione delle riforme.
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Grecia, un gioco complesso
Jacques Sapir
Jacques Sapir analizza la strategia della partita che si sta giocando tra la Grecia e l’Euroestablishment alla luce della teoria dei giochi, di cui il Ministro Varoufakis è un esperto: si starebbe giocando al “gioco del pollo”, in cui vince chi tiene duro e non molla, ma se nessuno dei due molla alla fine si sfascia tutto (e considerando che in questa seconda ipotesi a sfasciarsi sarebbe la gabbia dell’euro, non ci sembra l’ipotesi più peregrina)
Syriza ha vinto le elezioni greche del 25 gennaio. E’ passato un po’ di tempo, e possiamo quindi cominciare a farci un’idea degli eventi. Dopo una settimana di stupore per un governo che applica il suo programma (e che mantiene le sue promesse), dopo aver preso atto dei primi atti politici della squadra di Alexis Tsipras (e del suo nuovo ministero delle Finanze), dopo aver relegato la “Troika”, ossia l’alleanza di FMI, Banca centrale europea e Commissione europea, nell’angolo degli strumenti obsoleti [1], conviene ora interrogarsi sulla strategia di Syriza.
La strategia di Syriza
Quest’ultima si riassume in un punto. Tsipras vuole ritrovare dei margini di manovra di bilancio. Per questo ha bisogno di poter “recuperare” dai 6 agli 8 miliardi di euro, attualmente assegnati al pagamento degli interessi sul debito greco. Ha bisogno di questi soldi per mettere in atto delle misure che possano evitare che il popolo greco soccomba. Si tratta di una tragica realtà, ma abbastanza ovvia. Questa riduzione della spesa per interessi è necessaria e consentirà al governo di istituire un programma di uscita dall’austerità. Questo è il motivo per cui Syriza ha fatto della cancellazione parziale del debito, o almeno di una moratoria dei pagamenti dai 20 ai 30 anni, una delle sue priorità.
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USA, il post Ferguson tra proteste, movimento e memoria storica
Intervista a Loren Goldner*
Pubblichiamo la traduzione italiana dell'intervista a Loren Goldner a cura dell'associazione PonSinMor. Nella prima parte viene proposta una ricostruzione del movimento generatosi a partire dall'omicidio di Mike Brown. Invitiamo tuttavia soprattutto a leggere la seconda parte dell'intervista, nella quale viene elaborata una sintetica ricostruzione della storia dei movimenti nordamericani attraverso il fil rouge della linea del colore. Viene inoltre chiaramente messo in luce come la razza sia, storicamente, una costruzione del capitalista collettivo americano volta a disarticolare e sconnettere una composizione di classe che, sino al XVII secolo, esprimeva tratti di insorgenza legati dalle comuni condizioni di vita che non avevano nella distinzione del colore un elemento di divisione
Immagino che tu avessi previsto di iniziare con gli avvenimenti recenti, sulla scia degli assassinii di Ferguson, di New York...con l'oppressione poliziesca, in definitiva, non è vero?
Come probabilmente è noto alla maggior parte del nostro pubblico, questo movimento è cominciato nell'agosto della scorsa estate [2014], alla periferia della città di St. Louis, in una piccola città chiamata Ferguson, e qui c'è già una storia molto interessante, perché 30, 40 anni fa, St Louis, come molte città (si trova nel Midwest, quasi nel mezzo)... in questa zona, c'era una forte industrializzazione. Ma, dalla crisi degli anni settanta, iniziò un'ondata di chiusure di fabbriche,ristrutturazioni... cose che voialtri conoscete molto bene nelle Asturie... E, naturalmente, tutto questo ha trasformato profondamente la città di St. Louis e le periferie come Ferguson, che era una città veramente operaia, quindi; dovrei aggiungere di maggioranza operaia bianca. Con la ristrutturazione e la disoccupazione permanente, a poco a poco, Ferguson, come molte piccole città lì vicino, si trasformò in una città con significativa presenza nera, non so con esattezza le cifre, ma per darvi un quadro più generale, si può dire che in questo paese, settimanalmente, la polizia uccide da qual che parte due o tre giovani neri o latini in vari tipi di incidenti.
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La guerra diffusa della crisi
Gigi Roggero intervista Christian Marazzi
Già nella scorsa intervista avevamo parlato del prepotente ritorno della guerra come possibile strumento di risoluzione capitalistica della crisi. Nel seminario a Milano su crisi e composizione di classe hai ipotizzato l’intensificarsi di uno scenario di guerra diffusa, legato innanzitutto all’esplosione della bolla del petrolio e al crollo del suo prezzo, dovuti a una rivolta dell’Opec contro i nuovi produttori. Hai anche messo in discussione l’ipotesi di un’alleanza tra Arabia Saudita e Stati Uniti in chiave anti-russa. Boaventura de Sousa Santos parla invece di una “nuova guerra fredda”, tra capitalismo neoliberale e capitalismo socialdemocratico, incarnato nei Brics. L’azione contro Charlie Hebdo delle scorse settimane, pur con le sue forti specificità, può essere inserita in questo quadro. Come si configura quindi lo scacchiere di una geopolitica imperiale su cui spirano forti i venti di guerra?
Al seminario di Milano ho cercato di ragionare attorno a questo scenario di guerra diffusa, prendendo lo spunto dal dimezzamento del prezzo del petrolio, che è la conseguenza di una scelta ben precisa da parte dell’Arabia Saudita in particolare. La scelta consiste nel forzare il prezzo del petrolio non diminuendo la produzione, mettendo in difficoltà paesi come Iran, Nigeria e Venezuela che hanno bisogno per funzionare economicamente di un prezzo del petrolio superiore ai 100-120 dollari al barile (per quanto un’economia fondata sul petrolio e sulla monocultura sia tutta da criticare).
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#Foibe o #Esodo?
«Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo
di Lorenzo Filipaz
[Oggi pubblichiamo un importante testo di Lorenzo Filipaz. Lorenzo è triestino e figlio di un esule istriano. Dal ramo materno è di ascendenza slovena. Fa parte del gruppo di inchiesta su Wikipedia «Nicoletta Bourbaki». Appassionato delle storie della sua terra di confine, da anni ha intrapreso un percorso di ricerca e autoanalisi sul cosiddetto «Esodo giuliano-dalmata». L’intento è quello di capire cosa sia andato storto, per quali ragioni l’esodo da Istria e Dalmazia sia diventato una narrazione così platealmente assurda e antistorica, e come mai i figli di una terra meticcia siano diventati i pasdaran del nazionalismo.
L’approccio è quello di una seduta psicoanalitica, una sorta di terapia post-traumatica. Terapia in ritardo di sessant’anni, ma più che mai utile agli odierni discendenti di esuli, per disinnescare certi meccanismi difensivi che favoriscono reticenze e strumentalizzazioni.
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Il Rosso e il Tricolore
Alain Badiou
Sfondo: la situazione mondiale
Oggigiorno, il mondo è totalmente investito dal capitalismo globale, sottomesso ai dettami dell’oligarchia internazionale e asservito all’astrazione monetaria come unica figura riconosciuta dell’universalità. Viviamo in un periodo di transizione molto difficile, che separa la fine della seconda tappa storica dell’Idea comunista (la costruzione indifendibile, terrorista, di un “comunismo di Stato”) dalla terza tappa (il comunismo come realizzazione politica, adatta al reale, dell’“emancipazione dell’umanità intera”). In questo contesto, si è insediato un mediocre conformismo intellettuale; una sorta di rassegnazione al contempo lamentevole e soddisfatta, che accompagna l’assenza di ogni futuro altro, ovvero la ripetizione dispiegata di ciò che già c’è.
Vediamo allora apparire – come controcanto al tempo stesso logico e orribile, disperata e fatale miscela di capitalismo corrotto e di gangsterismo assassino – un ripiegamento maniaco, soggettivamente manovrato dalla pulsione di morte, contro le identità più variegate. Questo ripiegamento suscita a sua volta delle contro-identità sclerotizzate e arroganti.
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Sinistra al bivio: modello Keynes o infinita terza via?
Stefano Santachiara
Per l’Europa si aggira lo spettro della presa di coscienza collettiva dopo la rivoluzione democratica di Syriza, la cui affermazione elettorale restituisce dignità e speranza ad un popolo devastato che ha avuto la forza di non piegarsi ai ricatti del potere finanziario internazionale e delle tecnocrazie Ue. Mentre si resta in attesa di comprendere le prime mosse del governo di coalizione di Alexis Tsipras, anzichè entrare nell’indeterminato e spesso superfluo dibattito italiano sulle alleanze possibili, sovraccarico di calcoli personali e polemiche strumentali, intendo approfondire alcuni effetti dell’azione di governo negli Stati Uniti. Il grafico che troverete al link sottostante concerne l’andamento dei deficit e surplus nei settori economici (pubblico, privato, estero), è stato pubblicato dalla professoressa Stephanie Kelton, presidente del Dipartimento di Economia dell’università di Kansas City, cuore della Modern Money Theory. Kelton a fine anno è stata nominata chief economist della Commissione Finanze del Senato dal democratico Bernie Sanders, più volte accusato di ispirarsi a idee “socialiste”
Una strada innovativa per la rinascita di una nuova Sinistra, una volta elaborate specifiche analisi, sarebbe quella di sperimentare policy di matrice keynesiana come in parte ha già saputo dispiegare il presidente Obama. Lasciando da parte la peculiare condizione americana di negatività costante nella bilancia dei pagamenti, un elemento compatibile con il ruolo del dollaro di moneta mondiale di riferimento, si registra un surplus per imprese e cittadini dovuto ad una combinazione di fattori e passato attraverso fasi alterne: dal 2010 il deficit pubblico utilizzato per rilanciare l’economia dopo la crisi finanziaria è tornato a scendere sino all’odierno 2,8% del Pil, ma in precedenza aveva superato anche la vetta del 10%, dunque oltre il triplo di quanto oggi è consentito ai Paesi dell’Eurozona.
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Voltandosi verso il "sole dell'avvenire"
Un'intervista a Valerio Evangelisti
Pubblichiamo una chiacchierata che abbiamo avuto con lo scrittore Valerio Evangelisti. Valerio nelle sue opere ha spaziato tra diversi generi, dal fantasy alla fantascienza, al romanzo storico.
I suoi ultimi due libri, “Il sole dell'avvenire. Vivere lavorando o morire combattendo” e “Il sole dell'avvenire. Chi ha del ferro ha del pane”, ci raccontano, partendo da vissuti individuali, dello sfruttamento e delle lotte proletarie che hanno attraversato l'Emilia-Romagna dal periodo post-risorgimentale agli anni '20 del secolo scorso. Già il semplice racconto di quei periodi ci permette di riappropriaci di un patrimonio utilissimo, e per questo non possiamo non consigliarvi di leggere i suoi libri, ma Valerio oltre a essere uno scrittore affermato, è un prezioso compagno e abbiamo provato con lui a tracciare differenze e similitudini col periodo storico che stiamo vivendo.
Buona lettura!
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Prosperare sul disastro
Cronache dall’emergenza sociale permanente
di Alexik
L’ultimo mese dell’anno ci ha riservato, all’ora del TG, un lungo telepanettone noir pieno di personaggi coloriti: er Cecato, er Ciccione, lo Spezzapollici ….
Un gradevole entertainment, che come ogni fiction che si rispetti ci propone un finale e una lettura degli eventi in definitiva rassicurante: il disastro della capitale, il collasso delle sue funzioni vitali sono frutto dell’attività criminale di un gruppo – sia pur nutrito – di biechi delinquenti, corrotti e corruttori ormai resi innocui dalla giustizia trionfante.
Disastro e collasso non derivano dunque da quelle scelte politiche che per decenni hanno nutrito deliberatamente la speculazione privata con tonnellate di denaro pubblico, a prescindere dall’esistenza o meno di mazzette e dal ricorso del potere economico a pratiche formalmente illegali.
La retorica della legalità è la narrazione necessaria affinché, una volta eliminate le “mele marce”, tutto ritorni come prima, o meglio, perché la speculazione si dia forme più moderne, più efficaci, meno grossolane. È una retorica che non entra nel merito del fatto che la devastazione sociale e quella dei territori possano avvenire anche a norma di legge.
Tutta questa enfasi sulle tangenti è riduttiva e fuorviante, perché c’è qualcosa di ancora più grave dell’aspetto corruttivo: un prezzo molto più alto da pagare ai detentori del potere economico. Lo pagano i territori in termini ambientali, lo paga il lavoro in termini di diritti, lo pagano le fasce più deboli di questo paese in termini di emarginazione sociale.
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