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L’ideale della libertà e i limiti della democrazia reale: un’analisi tra Kelsen e Bobbio
di Jacopo Moretti
Quest’anno ricorrono quarant’anni dalla pubblicazione di uno degli articoli di maggior successo di Norberto Bobbio: Il futuro della democrazia, un lavoro importante dal momento che «alcune grandi questioni del nostro tempo possono utilmente essere inquadrate e affrontate a partire dal pensiero di Bobbio» nonostante egli abbia «sempre avuto verso il futuro un atteggiamento di preoccupata diffidenza» (Bovero 2011, Introduzione). Il filosofo torinese in questo che è «il suo libro forse più famoso» (Bovero 2011, Introduzione) approfondisce l’analisi degli esiti strutturali della teoria democratica, mettendo alla prova i fatti, cioè valutando se nella pratica la democrazia abbia o meno rispettato i suoi presupposti teorici. Egli individua quindi sei promesse non mantenute, che permettono di riflettere efficacemente «sul divario tra gli ideali democratici e la democrazia reale» (Bobbio 1995, 8) vale a dire quel divario tra la metafisica astratta dove abitano i nostri concetti, e la materia grezza di cui è fatto il mondo.
Il più rilevante di questi concetti, in relazione ai valori della democrazia, è l’ideale della libertà. Bobbio rintraccia gli esiti empirici dell’assorbimento di questo ideale in quella che lui chiama la rozza materia che alimenta il mondo, e che invischia le nostre idee più importanti: anche la libertà non è sfuggita a questo assorbimento ed è stata perciò in gran parte asservita dalla realtà e dalle sue regole. Comprendere queste limitazioni però sembra essere anche uno strumento positivo di consapevolezza e miglioramento della coscienza democratica, e non semplicemente una pessimistica valutazione dell’attualità politica. Per tale ragione in questo articolo metterò a confronto il lavoro di Bobbio con alcune delle riflessioni sulla democrazia svolte da Hans Kelsen in Vom Wesen und Wert Demokratie.
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L’inquinamento da polveri atmosferiche in pianura padana e, più in generale, in Europa e nel mondo
Con una postfazione del 2024
di Luca Benedini
Uno studio del 2017. Il punto di vista scientifico e le prospettive di soluzione per una vera e propria ecatombe tuttora in corso
La pianura Padana continua stabilmente a essere caratterizzata da un inquinamento atmosferico da polveri sospese superiore più volte al limite che l’Unione Europea una decina d’anni fa ha riconosciuto come “tollerabile” (cioè 40 microgrammi di Pm10 per metro cubo come media annuale e 50 microgrammi per metro cubo, o µg/m3, come media giornaliera superabile non più di 35 volte in un anno). Si tratta di un pesantissimo livello di inquinamento che ha conseguenze molto gravi dal punto di vista sanitario. Anche altre parti d’Italia soffrono per la presenza atmosferica di polveri e per il superamento di tale limite anno dopo anno, ma nella pianura Padana si raggiungono tipicamente livelli particolarmente eclatanti.
Fino a ora in questo campo è stato monitorato principalmente il Pm10, cioè le polveri sospese aventi un diametro inferiore ai 10 micron, ma quella che si è rivelata particolarmente pericolosa per la salute è la frazione del Pm10 costituita dal Pm2,5, cioè le polveri sospese aventi un diametro inferiore ai 2,5 micron (e chiamate scientificamente “polveri fini” o “polveri sottili”, mentre le particelle comprese tra 2,5 e 10 micron vengono chiamate “polveri grossolane”). Sottolineava in particolare la Commissione Europea già il 21 settembre 2005, in una sua comunicazione al Consiglio d’Europa e al Parlamento Europeo e in una parallela proposta di direttiva ambientale: «I dati disponibili dimostrano che le polveri sottili (Pm2,5) sono più pericolose di quelle di dimensioni maggiori, anche se queste ultime particelle (che vanno dai 2,5 ai 10 µm di diametro) non possono essere ignorate. [...] Le particelle sottili (Pm2,5) hanno impatti molto negativi sulla salute umana. Finora, inoltre, non esiste una soglia identificabile al di sotto della quale il Pm2,5 non rappresenta un rischio.
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Origine e sviluppi della globalizzazione neoliberista
di Francesca Simi*
Dalla fine di Bretton Woods all’attuale rivalità Usa-Cina: evoluzione geoeconomica e disuguaglianze globali. Attività effettuata nell’ambito del progetto Contemporanea… mente.
L’origine della globalizzazione
La genesi del processo di globalizzazione viene ricondotta da autorevoli economisti, come il prof. Bruno Amoroso, al 15 agosto 1971 quando il presidente statunitense Nixon, a causa delle corpose spese della guerra in Vietnam, dichiarò la fine della convertibilità del dollaro in oro e dei cambi fissi fra le valute, stabiliti negli accordi di Bretton Woods del 1944. Questi ultimi avevano come terzo pilastro fondante la centralità del dollaro come moneta di riferimento degli scambi internazionali. Questi accordi avevano stabilito le regole della nuova fase economica e finanziaria che si sarebbe aperta dopo la Seconda guerra mondiale.
La possibilità per la Federal Reserve di poter stampare moneta per coprire le spese di bilancio senza vincoli rispetto alle riserve auree possedute, creò le condizioni affinché il sistema finanziario mondiale venisse inondato da una grandissima quantità di dollari, soprattutto dopo la crisi petrolifera del 1973. Infatti, l’impennata di 3 volte e mezzo del costo del greggio, essendo quest’ultimo quotato in dollari, aumentò copiosamente la richiesta e l’emissione di biglietti verdi legati al petrolio che, per questo, vennero definiti petrodollari.
Così, i soggetti istituzionali, come governi, banche e fondi d’investimento, che possedevano o avevano in deposito ingenti quantità di dollari, iniziarono a fare pressione affinché venissero tolte le barriere alla libera circolazione dei capitali, come in effetti avvenuto negli anni successivi. Questo possiamo definirlo come il fenomeno che ha innescato la globalizzazione nel settore finanziario.
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Fermare il genocidio e smascherare le cattive narrazioni che lo giustificano
di Paolo Ferrero
Da oltre 6 mesi lo stato israeliano sta massacrando i palestinesi a Gaza. Un tempo lunghissimo in cui un giorno segue l’altro in una brutalità che ha assunto un tratto burocratico, pianificato, normale… Un tempo infinito che ci dice quattro cose:
1. Quella di Israele non è una guerra contro Hamas, ma un genocidio contro il popolo palestinese. In ogni guerra vi sono vittime civili, hanno addirittura inventato la definizione di “danni collaterali” per darne conto. In questo caso non vi è alcun danno collaterale: il centro dell’azione militare dell’esercito israeliano è rivolto contro la popolazione di Gaza con decine di migliaia di morti di cui oltre 13.000 bambini. Le bombe sugli ospedali, sul parlamento, sull’università, sul complesso delle infrastrutture che permettevano la vita a Gaza di due milioni di persone, non sono danni collaterali ma la drammatica normalità di una brutale azione genocida.
2. L’obiettivo del genocidio che lo stato israeliano sta compiendo, non è lo sterminio di tutti i palestinesi ma la pulizia etnica della striscia di Gaza. Israele vuole rendere impossibile la vita a Gaza a due milioni di palestinesi, terrorizzandoli con i bombardamenti, distruggendo le loro case e le infrastrutture, in modo da poterli sgombrare e occupare quel territorio con nuovi insediamenti illegali di coloni israeliani. Siamo dinnanzi a un genocidio finalizzato alla “sostituzione etnica” nel territorio di Gaza.
3. La strumentazione che lo stato di Israele sta utilizzando per realizzare i suoi obiettivi a Gaza non è solo militare. Oltre alle bombe, man mano che passa il tempo, la strategia terroristica dello stato israeliano si esprime sempre più attraverso il blocco dell’ingresso a Gaza dei generi alimentari, dell’acqua, nei medicinali e di quant’altro sia necessario per permettere la nuda vita ai palestinesi intrappolati in quell’immenso campo di concentramento che è Gaza.
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Incubo UE: dal “pilota automatico” europeista a quello atlantista
di Matteo Bortolon
A pochi giorni dalle elezioni europee l’unica vittoria di cui si può essere sicuri è quella della superficialità e approssimazione. Il dibattito procede a suon di luoghi comuni e cliché, con la proposta politica che assume la serica consistenza di un libro dei sogni; si dibatte non in base alla realtà effettiva ma su quello che si vorrebbe essa fosse.
Non si tratta (solo) di carenza di elaborazione nei contenuti, ma di una strategia di cattura del consenso. Molto comodamente, basta enunciare qualcosa di coerente coi valori predominanti nel proprio elettorato (apertura, europeismo, cosmopolitismo, oppure identità, nazione, protezione) per far presa su di esso, a dispetto della effettiva e concreta applicabilitá.
Un reale orizzonte programmatico dovrebbe tener conto della struttura dell’Unione e dei problemi da essa generati. Nessuno di essi è stato risolto in questi anni. Anzi se ne sono aggiunti altri.
A cosa serve il voto europeo?
Prima di tutto andrebbe ricordato che il voto di giugno elegge il Parlamento europeo, che non è il legislatore della Ue. Il processo di approvazione delle misure (regolamenti e direttive) passa per tre soggetti: Commissione, Parlamento, Consiglio. L’iniziativa è esclusiva del primo di essi, una sorta di esecutivo nominato dai governi in carica all’inizio della legislatura: ogni Stato manda un Commissario. L’europarlamento non può proporre nulla, ma solo approvare o modificare quello che la Commissione propone.
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Nativi. Come le riserve indiane ispirarono i campi di concentramento nazisti
di Raffaella Milandri
La capacità dell'America di mantenere un'aria di robusta innocenza sulla scia della morte di massa dei Nativi Americani pare che abbia colpito Hitler come un esempio da emulare. Nel 1928, Hitler osservò, con approvazione, che i coloni bianchi in America avevano “ridotto i milioni di pellerossa a poche centinaia di migliaia”.
«L'illusione è la gramigna più tenace della coscienza collettiva: la storia insegna, ma non ha scolari», diceva Antonio Gramsci. Aveva ragione, la storia non ha scolari che acquisiscano insegnamenti positivi ma, come vedremo, sono le ispirazioni negative e tragiche, invece, che spesso vengono riprese, replicate e “implementate”. Secondo molti studiosi, è questo il caso del trattamento riservato ai Nativi Americani e, in generale, delle leggi razziali statunitensi, tra cui le Leggi Jim Crow, che avrebbero quindi influenzato il regime nazista nella formulazione delle Leggi di Norimberga del settembre 1935.
Andiamo a vedere come.
Innanzitutto, occorre accennare all’ampio movimento dell’eugenetica, iniziato alla fine del XIX secolo, emerso nel Regno Unito, per poi diffondersi in molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti, il Canada, l'Australia (paesi guarda caso in mano ai colonialisti), e la maggior parte dei Paesi europei (come Svezia e Germania). Le politiche eugenetiche, razziste, erano volte a migliorare la qualità del patrimonio genetico delle loro popolazioni e vi aderirono eminenti personaggi come Sir Winston Leonard Spencer Churchill e Dwight D. Eisenhower. La supremazia in tali politiche toccava agli Stati Uniti, come afferma James Q. Whitman, professore alla Yale Law School: “All'inizio del XX secolo, l'America era la principale giurisdizione razzista del mondo”.
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"Unione" europea: su cosa (esattamente) siamo chiamati a votare?
di Alberto Bradanini
1. La narrativa dominante propone il mito iconico di un’Unione Europea (UE) che sfiora il campo della religiosità, un mito destinato a sfarinarsi se solo si trovasse il coraggio di scendere sotto la superficie. Pochi lo fanno, i più preferiscono tenersi a giusta distanza, contenti di digerire le quotidiane menzogne per pigrizia, disinteresse o timore di scoprire che quell’imbroglio premeditato merita il cassonetto dell’indifferenziata!
È sufficiente lo sguardo di un adulto normale (nel senso etimologico, vale a dire che rispetta la norma e la logica) affinché la menzogna si sfaldi, facendo emergere la funesta realtà di una gigantesca mistificazione.
La macchina tecnocratica europea, con gli ingombranti deficit di democrazia, viene somministrata a una popolazione priva di consapevolezza (oltre che di strumenti di accesso) da parte di individui deprecabili, i quali - poco importa se consapevoli o meno - si piegano da decenni a un disegno devastatore in cambio di onori, carriere e prebende.
La pervasività di tale intelaiatura devastatrice possiede una portata che in alcuni paesi (l’Italia, ad esempio, mentre Francia e Germania si sono ben guardate di giungere a tanto!) sopravanza persino la dimensione giuridica e valoriale di una Costituzione straordinaria come la nostra, nata, è bene ricordarlo, dalla vittoria su fascismo e nazismo, che mirava alla costruzione di un mondo di pace e avanzamento sociale.
Ma veniamo al punto. Per una decente decifrazione degli accadimenti, vincendo la pratica di luoghi comuni ben più nocivi di un totale analfabetismo, occorre superare la barriera distorsiva che impedisce di incamminarsi sul percorso della comprensione. Un esempio manifesto di raggiro terminologico è costituito dal termine Unione (in corsivo il sostantivo).
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In Ucraina ogni escalation avvicina sempre più Washington alla sconfitta
di Mike Whitney
C’è una grande differenza tra “non vincere” e “perdere” una guerra. Nel caso dell’Ucraina, “non vincere” significherebbe che il Presidente Zelensky e i suoi referenti a Washington scelgono di perseguire una soluzione negoziata che consenta alla Russia di mantenere il territorio catturato durante la guerra, soddisfacendo al contempo le modeste richieste di sicurezza di Mosca. (Nota: l’Ucraina deve a tutti i costi evitare di aderire alla NATO).
D’altra parte, “perdere” la guerra significa che gli Stati Uniti e la NATO continueranno sulla stessa strada di oggi – riversando in Ucraina armi letali, addestratori e sistemi missilistici a lunga gittata – sperando che l’offensiva russa venga progressivamente indebolita e che l’Ucraina possa prevalere sul campo di battaglia. Questo percorso alternativo – che equivale a un pio desiderio – è il percorso per “perdere” la guerra.
A differenza dello scenario del “non vincere” la guerra, il “perdere” la guerra avrà un effetto catastrofico sugli Stati Uniti e sul loro futuro. Vorrà dire che Washington non è stata in grado di impedire un’incursione militare russa in Europa, che è la principale ragione d’essere della NATO. Metterebbe in discussione l’idea che gli Stati Uniti sono in grado di agire come garanti della sicurezza regionale, ruolo di cui gli USA godono dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. La percezione di una sconfitta degli Stati Uniti per mano della Russia innescherebbe inevitabilmente una rivalutazione delle attuali relazioni di sicurezza che porterebbe alla dissoluzione della NATO stessa e, molto probabilmente, anche dell’UE. In poche parole, perdere la guerra sarebbe un disastro. Ecco come, la settimana scorsa, il colonnello Daniel Davis ha riassunto la situazione:
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La Resistenza palestinese e i movimenti antimperialisti
di Jacques Bonhomme
1. Perché la Palestina resiste
Perché la Palestina resiste? È questa la domanda che, riemersa da un vecchio titolo, si fa strada in molti di noi. Il vecchio titolo, giova ritornarci, era quello di un piccolo volumetto sulla lunga e travagliata storia anticoloniale del popolo vietnamita, scritto da Jean Chesneaux. La stessa domanda dopo sessant’anni, con altri luoghi e un altro popolo, con un popolo, quello palestinese, che già allora si specchiava in quello vietnamita, come del resto in quelli dell’Africa e dell’America latina; la stessa domanda, certo, ma con un mondo dove le restaurazioni sembrano subentrate alle rivoluzioni che allora scuotevano e percuotevano la catena imperialistica mondiale e che nella moltiplicazione dei Vietnam avevano la loro metaforica parola d’ordine. Ed è una domanda, inoltre, che avvicina i mondi complementari delle masse metropolitane dell’Occidente, disarmate dalla scomposizione tecnologica dei luoghi dell’unità di classe, e dei popoli delle periferie coloniali, anch’essi derubati dei progetti di liberazione del secolo scorso, di quei progetti che, dapprima, furono interrotti e soffocati da una controrivoluzione imperialistica mondiale e che, successivamente, o a volte contemporaneamente, vennero disarticolati dal neocolonialismo.
La domanda, quindi, riunisce umanità sfruttate, svalutate e respinte – i sottouomini di Sartre, per intendersi – e fa riascoltare voci antiche nelle nuove, apre una prospettiva sulle forze che, nei mutevoli contesti storici, ridanno costantemente vigore alle lotte antimperialistiche. Infine, questa domanda, come avviene in ogni buona filosofia, avvia un’indagine e chiede repliche e proseguimenti, e, soprattutto, non sollecita una risposta che stringa in mano elementi saldi e univoci, poiché questi, mentre gli aerei israeliani bombardano rabbiosamente i palestinesi e i loro fedayyin, non sono afferrabili.
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Un passo dopo l’altro, verso lo scontro totale tra NATO e Russia
di Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Che la NATO e la Russia siano in guerra aperta dal 24 febbraio di due anni fa è perfino banale. Lo è almeno per noi che dal primo momento abbiamo sostenuto che quando si dice Ucraina, si deve in realtà leggere NATO – questo, per somma sventura delle ucraine e degli ucraini convinti (sono ogni giorno di meno) di stare combattendo una guerra per la propria auto-determinazione. Altrettanto banale è che la prima fase della guerra si sta chiudendo con la secca sconfitta militare della NATO sul territorio ucraino. La Russia non ha difficoltà a tenere ed estendere le posizioni conquistate nel Donbass, e sta saggiando le difese di Kharkiv/Kharkov, la seconda città ucraina.
Non è soltanto una sconfitta militare, è una sconfitta su tutti i piani – anche se, come vedremo, tutt’altro che definitiva per la furiosa reazione del blocco occidentale. L’Ucraina come nazione è stata spinta al suicidio dai cinici oligarchi di Washington, Bruxelles e Kiev – pienamente complice l’Italia di Mattarella, Draghi e Meloni. L’Ucraina è oggi il terzo paese più indebitato al mondo con il FMI, uno stato fallito. La rete delle sue infrastrutture è a pezzi, come lo è la sua economia, inclusa la sua agricoltura un tempo fiorente, e oggi boicottata anche dai coltivatori polacchi. Gran parte delle sue fabbriche – parliamo di quelle scampate ai bombardamenti di Mosca – sono state private di personale, quindi disorganizzate, per le imperiose esigenze del reclutamento. Tant’è che si comincia a parlare di “spingere le donne e i bambini” (sì, i bambini) verso le fabbriche a corto di personale. Le perdite di soldati al fronte sono spaventose. La sempre più estesa fuga dal reclutamento rende ormai difficilissimi il rimpiazzo e la turnazione dei soldati esausti.
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Il prossimo Novus Ordo Seclorum: il cambiamento è necessario, non c’è scelta!
di Alastair Crooke
Durante una visita a Oxford alcune settimane fa, Josep Borrell, l'Alto Rappresentante dell'UE, ha fatto un'osservazione interessante: "La diplomazia è l'arte di gestire i doppi standard". Walter Münchau ha illustrato l'ipocrisia intrinseca di questo concetto, confrontando l'entusiasmo con cui i leader dell'UE hanno sostenuto la decisione della Corte Penale Internazionale di emettere un mandato di arresto contro Putin lo scorso anno e "il rifiuto di accettarla quando colpisce un membro del proprio team" (cioè Netanyahu).
L'esempio più eclatante di questo doppio standard riguarda la gestione occidentale delle realtà create. Un doppio standard – una 'narrazione' di noi che 'vinciamo' – viene costruito e poi contrapposto a una narrazione di 'loro che falliscono'.
L'uso della creazione di narrazioni di vittoria (invece di ottenere effettivamente la vittoria) può sembrare piuttosto astuto, ma l'incertezza che causa può avere conseguenze potenzialmente disastrose. Ad esempio, le minacce deliberatamente confuse del Presidente Macron di inviare forze NATO a servire in Ucraina – che hanno solo contribuito a preparare la Russia per una guerra più ampia contro tutta la NATO, accelerando le sue operazioni offensive.
Invece di scoraggiare – come probabilmente intendeva Macron – ha portato a un avversario più determinato, con Putin che ha avvertito che la Russia eliminerebbe qualsiasi 'invasore' della NATO. Non è stato così astuto, dopo tutto...
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Che cosa significa essere umani?
di Marco Rovelli
Vittorio Gallese e Ugo Morelli: Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, 2024
Che cosa significa essere umani? Partiamo da qui, da questa domanda capitale, perché quel punto interrogativo non è retorico, ma fondativo. Il libro pone molte domande, e a nessuna pretende di rispondere in maniera conclusiva: nella densità del testo a ogni pagina, a ogni questione, si dipartono altre vie, altre domande. Essere umani, del resto, è una domanda aperta: l'ente che chiamiamo umano, infatti, consiste in una radicale dimensione di apertura al mondo. E a farlo consistere in quanto umano, c'è proprio il fatto di essere un produttore di significati: l'umano è l'animale che si chiede “che cosa significa essere umani?”.
Vittorio Gallese, neuroscienziato che negli anni novanta fu parte del team che scoprì i neuroni specchio, e Ugo Morelli, psicologo e studioso di scienze cognitive, hanno scritto a quattro mani questo testo che suona come il precipitato di un comune itinerario di conoscenza e riflessione, nella distinzione delle rispettive competenze e attività, e si pongono la domanda sull'umano incrociando differenti saperi nell'ottica della complessità, con una scrittura a un tempo rigorosa e divulgativa: insomma, mettono a disposizione di un ampio pubblico di lettori il modo in cui i saperi neuroscientifici, psicologici e filosofici cercano di far luce sulla “natura umana” in una prospettiva evolutiva.
Spesso, nel senso comune, le neuroscienze appaiono come la frontiera del riduzionismo: scopriamo i meccanismi del cervello, si pensa, e scopriremo le fondamenta dell'umano, che a quei meccanismi neurali possono tutti quanti essere ricondotti – come molti auspicavano sarebbe stato per il DSM-5 del 2015 – l'ultima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali –, ovvero realizzare una mappatura dei cosiddetti disturbi mentali in relazione al loro fondamento neurobiologico – tentativo fallimentare, ma che testimonia di una tendenza persistente e centrale della nostra cultura e della nostra contemporaneità.
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I rischi di una “escalation controllata” con la Russia
di Gianandrea Gaiani
Non sono certo mancati gli sviluppi dopo gli “incoraggiamenti” formulati la scorsa settimana dal segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, nei confronti degli stati membri dell’alleanza affinché consentano l’impiego delle armi a raggio più esteso donate a Kiev anche contro obiettivi situati sul territorio russo.
Lo stesso Stoltenberg ha precisato che la decisione spetta ai singoli stati. “Non si tratta di decisioni della NATO sulle restrizioni. Alcuni alleati non hanno imposto restrizioni sulle armi che hanno consegnato. Altri lo hanno fatto. Credo che sia giunto il momento di prendere in considerazione tali restrizioni, anche alla luce degli sviluppi della guerra”, ha proseguito.
“Inoltre, dobbiamo ricordare che questo non rende gli alleati della NATO parte del conflitto. Abbiamo il diritto di fornire supporto all’Ucraina per aiutarli a sostenere il diritto all’autodifesa“, ha precisato senza per spiegare perché rilasci così tante dichiarazioni a proposito di un tema che non coinvolge decisioni della NATO, come lui stesso afferma, e soprattutto in base a quali elementi possa negare che consentire a Kiev di colpire il territorio russo con le nostre armi costituisca un ulteri0re coinvolgimento delle nazioni aderenti alla NATO nel conflitto.
Una sorta di “escalation controllata” che non è detto risulti controllabile, anche tenendo conto il contemporaneo invio di istruttori e consiglieri militari francesi (e forse anche di altre nazioni europee) in Ucraina. A dar man forte al segretario generale, che nel recente summit di Praga ha chiesto 40 miliardi di euro di aiuti militari annui a Kiev, sono scesi in campo l’Alto rappresentante Ue per la politica estera Josep Borrell e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
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La società dei codardi
di Nestor Halak
Mi trovo spesso a guidare lungo una strada accanto a una scuola che è piuttosto difficile da percorrere perché sovente ostruita da numerosissime auto, parcheggiate ovunque, di solito con una sola persona a bordo ad aspettare. Si tratta dei genitori (genitore uno oppure due ma forse possono essere tre) o chi per loro, degli studenti che si sentono obbligati e probabilmente lo sono davvero, ad andare a prendere i figli all’uscita per evitare i terribili pericoli che il percorso fino a casa comporta per dei minorenni non protetti. Io che ho frequentato le scuole negli anni 60/70 quando la società era barbara e primitiva e questo salvifico uso non era ancora invalso, lo so bene chi incontravo per strada.
Si assume infatti che le nostre città siano sommamente insicure anche per i grandi, ma per i giovani i rischi sono ancora maggiori e la televisione e la rete ce li ricordano di continuo: i pedofili, gli spacciatori, gli assassini e i maniaci sempre in attesa con la bava alla bocca, il traffico che sfreccia a trenta all’ora rischiando di investire i pargoli, l’inquinamento dell’aria che gli avvelena i polmoni, i bulli sempre pronti a colpire nei momenti in cui non c’è sorveglianza, i minorenni che per definizione sono un pericolo per loro stessi, almeno finché non scatta il fatidico calendario e allora diventano magicamente coraggiosi e responsabili.
Chi mai li sorveglierebbe in questo spazio vuoto dalla casa alla scuola se fosse loro permesso di percorrerlo in autonomia, senza neppure, che so, il maestro di danza? Certo, ognuno di loro ha un telefonino, costantemente connesso alla rete, ma sfortunatamente i pargoli sono poco propensi a rimanere in collegamento con i genitori (o magari con la polizia), sovente sono più portati a fare giochini sparatutto o pettegolezzi sui social, per cui restano pericolosi spazi di vuoto anche di interi minuti.
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La strategia del calcio al barattolo
di Enrico Tomaselli
Si è più volte detto, su queste pagine, che gli Stati Uniti – e la NATO – hanno affrontato il conflitto con la Russia in Ucraina, con una idea di massima di ciò che si aspettavano di ricavarne, ma senza una vera e propria strategia (a tutto campo, non solo militare) per conseguirlo. C’è chi ha lamentato l’assenza di un piano B, ma in effetti il vero problema è stato, ed è, l’assenza di un piano A… Si è più volte, e da più parti, esaminato questo aspetto, cercando di comprenderne le ragioni – che, in ultima analisi, si possono riassumere in una singola questione: sottovalutazione del nemico, e sopravvalutazione di sé.
Qualora l’obiettivo fosse stato il disaccoppiamento tra Europa (Germania) e Federazione Russa, ciò non poteva che intendersi come funzionale all’indebolimento di entrambe, me è fin troppo evidente che questo disegno ha funzionato soltanto a metà: ha colpito gli amici, ma ha solo scalfito il nemico. Per di più, secondo la fondamentale logica imperiale del divide et impera, si è rivelata addirittura controproducente: a seguito del conflitto, infatti, si è determinata una saldissima alleanza tra tutti i principali paesi ostili agli USA, e in particolare – cosa assai più rilevante – tra Russia e Cina.
Escludendo che qualcuno, a Washington, abbia mai potuto pensare di sconfiggere la Russia sul campo di battaglia, e per di più usando il proxy ucraino, l’unico obiettivo militare che si potesse realisticamente prefiggere l’occidente collettivo era quello del logoramento. Impegnare Mosca in un conflitto abbastanza duraturo, e abbastanza duro, tale da costringere il nemico a consumarvi una quota significativa del proprio capitale umano, industriale ed economico.
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Il sé mutante. L’estrusione della politica in Kafka
di Fabrizio Sciacca
Cosa sappiamo davvero di Kafka a cento anni dalla sua morte? Qual è il vero significato della metamorfosi di Gregor Samsa? E in che modo si relaziona con i concetti di libertà e pace? In occasione del centenario della morte di Kafka, un estratto di Franz Kafka e la sfinge del potere di Fabrizio Sciacca, per indagare sempre più a fondo i labirinti del pensiero kafkiano.
Nur dein Nichts ist die Erfarung,
Die sie von dir haben darf.
Solo il tuo nulla è l’esperienza
che il tempo può avere di te. [1]
«Mutando riposa»
In Kafka, come tra Kafka e il K. del Processo o del Castello, non si ha una dicotomia soggetto/oggetto [2]. Non un linguaggio narrativo; non una scrittura descrittiva, ma espressiva [3]. La negazione di questa dicotomia trova conferma in una prosa priva di psicologismi. L’esempio più chiaro è nella Metamorfosi: «Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sonni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo [zu einem ungeheueren Ungeziefer verwandelt]. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando a poco a poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta del letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi» [4].
Sappiamo innanzitutto dallo stesso Kafka che l’idea del racconto e il racconto stesso scaturiscono davvero da penose notti insonni. A Felice riferisce: «dovrò […] scrivere un breve racconto che mi è venuto in mente a letto nella mia pena [in dem Jammer] e incalza dentro di me [mich innerlichst bedrängt]» [5].
L’esempio della Metamorfosi è emblematico per l’assenza della dicotomia tra soggetto narrante e oggetto narrato. Leggere di questo corpo troppo grande e inutile di Samsa-insetto, è come rileggere di Kafka-figlio quando, nella Lettera al padre, parla esplicitamente di sé stesso: così come, attraverso Samsa, Kafka ne parla implicitamente. ‘Samsa’ e ‘Kafka’ presentano due elementi paronimici, s/k e m/f.
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NATO: gli stolti di Stoltenberg
di Gaetano Colonna
Nel comunicato finale della Assemblea Parlamentare della NATO, tenutasi a Sofia dal 24 al 27 maggio scorso, si auspica «l’abolizione di alcune restrizioni sull’uso di armi fornite dagli alleati della NATO per colpire obiettivi legittimi in Russia».
Finora, infatti, gli attacchi ucraini contro obiettivi in Russia sono stati in gran parte limitati alla vicina città di Belgorod, nel raggio d’azione dei missili costruiti dall’Ucraina, anche se la Russia ha dichiarato che armi statunitensi sono già state utilizzate ripetutamente per colpire il suo territorio.
In questa occasione, la NATO, come ripetutamente affermato dal suo oramai decennale segretario generale, Jens Stoltenberg, ha chiesto alle potenze occidentali di permettere all’Ucraina di utilizzare i missili Storm Shadow, SCALP, Taurus e ATACMS, forniti dalla NATO, per colpire obiettivi in profondità nella Russia.
La NATO di Stoltenberg
Dopo che il ministro degli Esteri britannico David Cameron ha dichiarato che l’Ucraina potrebbe usare i missili britannici Storm Shadow per attacchi sulla Russia, il ministero degli Esteri russo ha convocato l’ambasciatore britannico Nigel Casey, ed ha avvertito che la Russia avrebbe potuto rispondere colpendo obiettivi in Gran Bretagna.
Il 27 maggio scorso, durante un vertice a Meseberg, il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron hanno anch’essi entrambi chiesto che l’Ucraina possa colpire la Russia con missili della NATO. Macron ha dichiarato:
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Ucraina/Gaza: Un po’ d’ordine nella situazione globale
di Piero Bevilacqua
Le sorti della guerra in Ucraina
Non lasciamoci fuorviare dai proclami e dalle irresponsabili dichiarazioni di guerra mondiale da parte di dirigenti della Nato, dai politici-pubblicitari e dai giornalisti padronali a pieno servizio. La “guerra americana” in Ucraina è perduta. Le nuove armi messe a disposizione dagli USA e dalla Nato non cambieranno le condizioni sul campo di battaglia. Come ha ricordato Putin in una intervista di qualche mese fa, in previsione di questa escalation: «ci faranno del male, certamente, ma non cambieranno le sorti del conflitto». I missili che colpiranno obiettivi in territorio russo produrranno morte e distruzione in questo o in quel luogo, ma l’esercito russo proseguirà il suo corso sul fronte ucraino. Il popolo russo è abituato a sopportare ben altre sofferenze. Gli attacchi occidentali avranno l’effetto di rinserrare i ranghi della popolazione e di renderla più impegnata nei compiti di produzione e difesa, rinsaldando lo spirito nazionale e il consenso a Putin e all’attuale classe dirigente.
Ricordiamo che la mira fondamentale degli USA e dei suoi alleati è, come voleva l’istituto di studi strategici USA Rand Corporation, in un rapporto del 2019, “Sovraccaricare e destabilizzare la Russia” con una lunga guerra di logoramento. Prospettiva a cui Mosca si è prontamente preparata, evitando di ripetere gli errori dell’Unione Sovietica, che era arrivata a impiegare il 13% del PIL in spese militari (finendo coll’implodere), e indirizzando l’economia verso lo sviluppo di tecnologie a doppio uso, bellico e civile e destinando solo il necessario alle spese di guerra. Non a caso di recente Putin ha sostituito il ministro della Difesa Sergei Shoigu, un militare, con un abile economista, Andrei Belousov. Nel frattempo le relazioni economiche russe si sono quasi tutte spostate verso le regioni dell’Asia e soprattutto della Cina, oltre che verso l’Africa e l’America Latina.
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Complessità e ambiente. Perché non siamo all’altezza della sfida
di Riccardo Leoncini
Abstract. Viviamo in un mondo non lineare, ma pensiamo in modo lineare. L’esistenza di una retroazione negativa dovrebbe garantire che un sistema, di fronte a una perturbazione, si stabilizzi in maniera endogena grazie alle forze che innesca. In questo modo, comportamenti prevedibili sono il risultato “naturale” di ogni possibile perturbazione che colpisce il sistema. Tuttavia, l’esistenza di retroazioni positive, lungi dal costringere il sistema a gravitare intorno all’equilibrio, è più probabile che porti in disequilibrio il sistema e contribuisca a tenerlo lontano da esso.
Le seul véritable voyage […] ce ne serait pas d’aller vers de
nouveaux paysages, mais d’avoir d’autres yeux, de voir
l’univers avec les yeux d’un autre, de cent autres, de voir les
cent univers que chacun d’eux voit, que chacun d’eux est
Marcel Proust, La Prisonnière
El hombre es disipación […] y el miedo a la disipación
Juan Carlos Onetti, Juntacadaveres
Introduzione
Viviamo in un mondo non lineare, ma pensiamo in modo lineare. Non riusciamo a capire che per percorrere 100 km, aumentare la velocità della nostra automobile da 60 a 80 km/h consentirà un risparmio di 25 minuti di tempo di viaggio, mentre aumentando di altri 20 km/h fino a 100 km/h non otterremo la stessa riduzione del tempo di viaggio, ma una riduzione minore.[1]
Viviamo in un mondo non lineare, ma pensiamo in modo lineare. Se oggi il bilancio della Covid-19 fosse di 1.000 persone infette, domani ci aspetteremmo poco più di 1.000 persone, perché non siamo in grado di pensare in termini esponenziali.[2]
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La guerra russo-ucraina: l’allargamento del fronte
La quinta battaglia di Kharkov
di Big Serge
Ci sono alcune regioni del mondo che sono sembrate destinate per il crudele capriccio della geografia e del caso a essere perenni campi di battaglia. Spesso queste terre travagliate si trovano al crocevia di interessi imperiali, come nel caso dell’Afghanistan o della Polonia, che hanno visto tante volte il passaggio di eserciti che andavano di qua o di là, oppure sono semplicemente afflitti da forme di governo perennemente instabili o da turbolenti conflitti etnici. A volte tuttavia è la logica peculiare delle operazioni militari a portare la violenza nello stesso luogo, ancora e ancora. Una di queste note vittime è la grande città industriale di Kharkov, nel nord-est dell’Ucraina.
Fondata originariamente come modesta fortezza nel XVII secolo, Kharkov era destinata a giocare un ruolo insolito nella Seconda Guerra Mondiale. La città divenne una sorta di simbolo della frustrazione per gli eserciti sovietico e tedesco in guerra: era il luogo che entrambi gli eserciti volevano raggiungere, ma che sembrava non riuscissero del tutto a conquistare e mantenere. Nel 1941 la città fu conquistata nelle fasi declinanti della colossale invasione tedesca dell’URSSi, e venne occupata durante l’inverno. Nel 1942 i dintorni della città divennero teatro di un’enorme battagliaii quando i tedeschi progettarono di lanciare un’offensiva da Kharkov proprio nello stesso momento in cui l’Armata Rossa pianificava un’offensiva verso di essa. L'anno successivo, la città fu per breve tempo riconquistata dall'Armata Rossa mentre inseguiva le armate tedesche in ritirata lontano da Stalingrado, prima di passare nuovamente di mano dopo un rapido contrattacco tedescoiii. Infine, alla fine dell’agosto 1943, i sovietici ripresero definitivamente la città mentre iniziavano il loro inarrestabile slancio verso Berlino.
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Le “relazioni pericolose” di Ursula Von der Leyen
di Jean-Pierre Page*
Tra circa due settimane ci saranno le elezioni europee. Per i popoli e i lavoratori, l’Unione Europea (UE) è al cuore di una crisi profonda e il loro divorzio si è ormai ampiamente consumato. Il 16 maggio a Montauban in una riunione di militanti della CGT in Tarn et Garonne, Jean-Pierre Page ha parlato in un intervento di Unione Europea, di estrema destra, di fascistizzazione e dei nuovi rapporti di forza internazionali.
* * * *
La credibilità politica, economica, sociale e culturale delle istituzioni europee ha regredito considerevolmente. Sono emerse divisioni e spaccature sempre più numerose tra i Paesi membri, in tutti i settori: il sociale, la sicurezza, i rifugiati, quello economico e monetario, ecc.
La corruzione, grazie a migliaia di lobby, colpisce la Commissione di Bruxelles e il suo Presidente quanto il Parlamento stesso. l’UE per esistere cerca di compensare il suo funzionamento antidemocratico ricorrendo all’autoritarismo e attaccando le libertà fondamentali.
Come abbiamo visto in Ucraina, in Medio Oriente e nei confronti della Cina, il suo servilismo nei confronti degli Stati Uniti dà la misura di come questa crisi esistenziale derivi dalla natura stessa dell’Unione.
Come ai loro inizi, le istituzioni europee continuano a sviluppare un legame stretto con le forze politiche più retrograde dell’estrema destra neofascista. L’UE sta crollando sulle sue fondamenta, è isolata e non c’è modo di scommettere sul suo futuro. In realtà, non ha prospettive, e il peggio deve ancora arrivare.
D’altra parte, questo innegabile sviluppo dell’Europa non è indifferente o separato agli inizi di un cambiamento significativo negli equilibri di potere nel mondo a cui stiamo assistendo: anzi, quest’evoluzione ne è un elemento rivelatore.
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LombarDie: morte di una regione
Miserie e malesseri della “regione più ricca d’Italia”
di Ilaria Padovan e Graziano Gala
Ogni anno, puntuali, le classifiche. La narrazione è la solita: un luogo dinamico, ricco, desiderabile. Un’autentica occasione: il mercato del lavoro lombardo è un polo di attrazione a livello nazionale e, negli ultimi decenni, internazionale, stando al Rapporto Lombardia 2023 – pigro e ingrato chi pensa il contrario. A parlare bastano i dati: Milano si riconferma tra le prime dieci nella classifica sulla qualità della vita stilata dal Sole24Ore, la Brianza si distingue per operosità e ricchezza, la regione traina l’economia nazionale rappresentandone il 20% del PIL.
È sufficiente per ignorare i problemi globali che la interessano? Secondo un’intervista rilasciata a Milano Correre da Manfredi Catella, presidente del gruppo immobiliare COIMA, leader nell’investimento, sviluppo e gestione di patrimoni immobiliari per conto di investitori istituzionali, c’è troppo pessimismo: dovremmo gloriarci, anzi, del fatto che la Lombardia è una regione che riesce ad attrarre gli investimenti. Eppure, a volerle vedere bene, le classifiche, esistono anche ben altri primati. Dimenticarsi “dei deboli, dei fiacchi e dei vinti che levano braccia disperate” (G. Verga, Introduzione al ciclo dei vinti, Treves, 1881) è facile, forse troppo. Da qui la necessità di rivalutare Milano, cuore pulsante dell’illusione, e un’intera regione che fino ai suoi confini risulta ammalata per scongiurare pericolose proiezioni che, noi per primi, speriamo fallaci.
Più che una città, un prodotto di consumo
Milano capitale morale, della finanza, dell’economia, della moda, del design. Nell’immaginario comune la città è l’emblema di quelli che ce l’hanno fatta. Anzi, di più: l’unico luogo plausibile al farcela, soprattutto dopo la campagna Expo 2015 che ha ripulito la città dal caratteristico grigio di nebbia e asfalto per far risaltare ancora meglio la sua attrattività (si veda L. Tozzi, L’invenzione di Milano, Cronopio, 2023).
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Finale di partita degli Stati Uniti in Ucraina
Guerra senza fine, amen
di Patrick Lawrence per Strategic-culture
Cosa succede quando una nazione potente non può permettersi di perdere una guerra che ha già perso?
Sono ormai trascorsi due anni e mezzo da quando Mosca ha inviato due progetti di trattato, uno a Washington e uno alla NATO a Bruxelles, come proposta di base per colloqui di un nuovo accordo sulla sicurezza: un rinnovamento delle relazioni tra l’alleanza transatlantica e la Federazione Russa..Una ristrutturazione urgentemente necessaria, bisogna subito dire. E poi dobbiamo anche aggiungere l’immediato rifiuto da parte del regime di Biden delle proposte della Russia in quanto “neppure considerate” più velocemente che pronunziare “illusi”. Fermiamoci un attimo per rammentare tutti coloro che sono morti nella guerra scoppiata in Ucraina un anno e pochi mesi dopo che Joe Biden aveva rifiutato, o addirittura deriso, l’onorevole iniziativa diplomatica di Vladimir Putin. Tutti i mutilati e gli sfollati, tutti i paesi e le città distrutti, tutti i terreni agricoli trasformati in paesaggi lunari. E l’accordo di pace quasi completo, negoziato a Istanbul poche settimane dopo l’inizio della guerra che Stati Uniti e Gran Bretagna si sono affrettati a far naufragare. E ovviamente tutti i miliardi di dollari, qualcosa più dei 100 miliardi di dollari attuali, non spesi per migliorare la vita degli americani, ma spesi invece per armare un regime di Kiev che ruba gli aiuti in modo stravagante mentre schiera un esercito di sedicenti neonazisti. È utile ricordare queste cose perché danno un contesto a una serie di sviluppi recenti che è importante capire, anche se i nostri media di sistema scoraggiano tale comprensione. Se teniamo a mente la storia recente, saremo in grado di vedere che le decisioni viscosamente irresponsabili di un paio di anni fa, così dispendiose in vite umane e risorse comuni, si ripetono ora in modo tale che è ormai certo che le brutalità e gli sprechi continueranno all’infinito, anche se la loro inutilità è ormai molto, molto, molto oltre ogni negazione.
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Sorveglianza e interferenza. La guerra segreta di Israele alla Corte Penale Internazionale
di Giacomo Marchetti
“Alti funzionari del governo e della sicurezza israeliani hanno supervisionato un’operazione di sorveglianza durata nove anni che ha preso di mira la CPI e i gruppi per i diritti dei palestinesi per cercare di ostacolare un’indagine sui crimini di guerra”. La rivelazione arriva da un’indagine congiunta di Yuval Abraham e Meron Rapoport, di Local Call +972, In collaborazione con Harry Davies e Bethan McKernan del The Guardian.
Da quanto emerge dall’inchiesta l’operazione “multi-agenzia”, che risale al 2015, ha visto la comunità di intelligence israeliana sorvegliare regolarmente l’attuale procuratore capo della Corte Karim Khan, il suo predecessore Fatou Bensouda e decine di altri funzionari della CPI e delle Nazioni Unite.
L’intelligence israeliana ha anche monitorato il materiale che l’Autorità Palestinese ha presentato all’ufficio del procuratore e ha sorvegliato i dipendenti di quattro organizzazioni palestinesi per i diritti umani le cui denunce sono al centro dell’indagine.
Secondo le fonti dei giornalisti, “l’operazione segreta ha mobilitato i più alti rami del governo israeliano, la comunità dei servizi segreti e i sistemi legali civili e militari al fine di far deragliare l’indagine”.
Di fatto, l’intero apparato di potere israeliano.
Le informazioni di intelligence ottenute attraverso la sorveglianza sono state trasmesse a un gruppo segreto di avvocati e diplomatici del governo israeliano, che si sono recati all’Aia per incontri riservati con funzionari della Corte penale internazionale nel tentativo di “fornire a [il procuratore capo] informazioni che le avrebbero fatto dubitare delle basi del suo diritto di occuparsi di questa questione”.
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Ma tu quando piangi?
Anna Stefi in dialogo con Pietropolli Charmet
Violenti, ritirati, aggressivi, fragili, spaventati, indecisi: con un misto di preoccupazione e rassegnazione i discorsi mettono in primo piano il malessere dei giovani. Inauguriamo, con una conversazione con Gustavo Pietropolli Charmet, che non ha bisogno di presentazioni, uno speciale dedicato a questo disagio nominato, commentato, discusso.
* * * *
Stefi: Professore, partiamo dall’agio? Quali risorse incontra nella clinica, ascoltando gli adolescenti di oggi?
Pietropolli Charmet: Un’osservazione che faccio di frequente è che mi sembra che, soprattutto i maschi, siano molto più intelligenti di quelli che incontravo una volta, e rispetto a questo avrei avanzato un’ipotesi: mi pare che alla liberazione dei costumi sessuali abbia fatto seguito la liberazione di una intelligenza nella sua concezione più vasta, che rende il primo colloquio con un adolescente qualcosa che rivela una plus dotazione. I primi colloqui sono particolarmente nutrienti per un terapeuta che non abbia riferimenti rigidi e che si lasci incantare dalle capacità narrative, creative, espressive, relazionali anche un po’ misteriose e affascinanti.
Stefi: Come se, con la messa in questione dell’immagine di uomo potente, la domanda non fosse più: come si fa a esser uomo ma cosa vuol dire essere un uomo?
Pietropolli Charmet: Mi sembra qualcosa di possibile, mi sembra cioè che tolto il tappo della rimozione, della repressione, e anche della concentrazione sugli aspetti della aggressività e della conflittualità, della contestazione con la legge e con la regola – con il padre, con Dio, con tutto – possano dedicarsi maggiormente ad altri aspetti. Qualitativamente era raro, anzi, era quasi entrato nella psicopatologia l’adolescente plus-dotato.
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