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sinistra

Sette mesi dopo il 7 ottobre

di Nicola Casale

È venuto fuori un papiello infinito. Chi lo legge si dovrà armare di molta pazienza. Le questioni trattate, purtroppo, non sono di semplice soluzione e coinvolgono una serie di altre questioni che è difficile lasciare fuori. Spero almeno che sia di facile comprensione. Di questa, ovviamente, risponde solo chi lo ha scritto...

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A più di sette mesi dal 7 ottobre, a che punto siamo in Palestina? Per rispondere bisogna guardare l’aspetto militare, ma non limitarsi a esso. Quella in atto è, davvero, guerra senza limiti. Non si combatte solo sul piano militare ma coinvolge tutti gli aspetti politici, economici, sociali, culturali, ecc. Inoltre, mai come adesso è chiaro a tutti come questo scontro si inserisce in uno molto più ampio che interessa l’Asia Occidentale e il mondo intero. Merita, inevitabilmente, lungo spazio.

Prima di tutto è obbligatorio fare una premessa su Hamas, su cui si sono concentrate molte attenzioni. Chi difende Israele la definisce integralista islamica e terrorista e ritiene la reazione di Israele al 7 ottobre una legittima difesa contro di essa, invocando il diritto degli ebrei di difendersi da chi li vorrebbe vittime di un nuovo Olocausto. Ma anche tra molti che difendono i palestinesi, le prese di distanza da Hamas sono molteplici: pedina di Israele, integralista islamica, reazionaria, espressione della borghesia palestinese, ecc. Due parole su Hamas sono, perciò, indispensabili.

Prendiamo in esame la tesi che la ritiene una pedina di Israele, molto diffusa tra i complottisti. Si può vedere, a titolo di esempio un articolo di Thierry Meyssan che oltre a sostenere che Hamas sia usata da Israele è anche protetta dagli inglesi. Meyssan non è tra i complottisti più accaniti, ma proprio per questo è un esempio particolarmente utile. Il complottista talvolta scopre notizie di una qualche utilità, dopo averle, però, ripulite dai fantasiosi contesti in cui le colloca. Perché fantasiosi? Perché i complottisti sono, per lo più, affetti dalla tipica patologia di infantilismo. Spieghiamo.

Un bambino percepisce (o se si vuole, comprende) di avere con il mondo esterno un rapporto di totale dipendenza, ma anche di totale impotenza.

La sua vita dipende da quel che il mondo esterno gli fornisce, mentre non può fare nulla per ottenerlo. Da questa situazione sviluppa, in modo naturale, una visione fantastica del mondo, in cui le forze reali agenti vengono tramutate in forze fantastiche, se non magiche. Il mondo esterno viene percepito come basato su una dualità estremamente semplificata, il male e il bene. Il male è tutto ciò che è ignoto, e per il bambino lo è tutto, mentre il bene è qualcosa che il bambino non può fare nulla per meritarlo, gli può derivare solo da personaggi che lo fanno per intrinseca predisposizione. Alla fase infantile segue la adolescenziale, in cui si scopre di avere un certo potere di intervenire nella realtà e, quindi, ci si mette alla prova per capire cosa veramente ci circonda e cosa siamo in grado di fare per intervenirvi. Si entra, perciò, in una fase in cui non c’è più bisogno di rappresentarsi la realtà in vesti fantastiche, ma la si può guardare senza necessariamente averne paura, ma, anzi, potendoci intervenire come soggetti attivi. Una sperimentazione di sé necessaria per transitare alla fase adulta con una conoscenza realistica del mondo esterno e delle proprie possibilità di intervenirvi.

Il passaggio da bambino ad adolescente e poi adulto, non è agevole. Produce spesso salti drammatici, dato che si passa da una fase in cui tutto è dovuto, a una in cui bisogna darsi da fare per sviluppare le relazioni con il mondo. Perciò, molti vi rinunciano e preferiscono restare nel mondo fantastico dell’infanzia (per motivi sociali e individuali che non indaghiamo qui). Gli Usa, nel divenire potenza dominante, si resero conto che il modo migliore per governare i cittadini propri e del resto del mondo era di trattenerli in uno stadio di infanzia perenne, e così, tra l’altro, favorirono la diffusione della fumettistica dei super-eroi, che ha alimentato generazioni di giovani non solo occidentali. Il super-eroe è nient’altro che la proiezione del senso infantile di impotenza che immagina che per affrontare la realtà malvagia sia possibile solo se si hanno super-poteri.

I super-eroi non hanno provocato l’infantilismo diffuso, ma hanno, però, aiutato milioni di persone a rimanere in uno stadio infantile. Oggi, con i mezzi moderni di informazione il processo di infantilizzazione di massa è divenuto più facile (ancora una volta, la causa non sono i media, essi aiutano un processo che ha le cause profonde in tutto l’insieme dei rapporti economico-sociali). Con la promozione del gender, poi, si riesce ad andare più a fondo, creando, fin dall’infanzia, individui che hanno dubbi persino sulla propria realtà sessuale e, quindi, sono indotti a crearsi una realtà fantastica su sé stessi, e passano la vita a realizzare le loro fantasie, con l’aiuto dei super-poteri che la tecnoscienza gli offre. Il discorso si farebbe troppo lungo…

Torniamo al complottista. Il suo mondo fantastico è mosso da menti sopraffine e onnipotenti, in grado di manipolare la realtà e la contro-realtà, il potere e la sua opposizione. Tutto ciò che accade è deciso da queste forze che lui (e lui solo! Altra tipica manifestazione di infantilismo) è in grado di individuare. Problemi economici, politici, sociali, geo-politici, ecc. scompaiono o sono con facilità manovrati in modo artificioso. Soprattutto, dato comune a tutti i complottisti, è escluso che gli individui si costituiscano in massa (popolo, classi, partiti di massa, movimenti di lotta, ecc.) senza essere manovrati dal vero potere. Il complottista guarda il resto dell’umanità dall’alto in basso, come massa di ignoranti destinata sempre e soltanto a essere manovrata. A meno che non si abbeveri alla fonte di coscienza detenuta, ovviamente, soltanto da lui, l’illuminato (d’altronde, se tutte le faccende del mondo si risolvono nella questione del potere degli illuminati, cosa contrapporgli se non altri illuminati?). Infantilismo e super-eroe, appunto.

Prima di parlare di Hamas e Palestina due brevi divagazioni.

1. Il complottismo è molto sviluppato in Occidente, e solo qui, altrove la gente è abituata a guardare la realtà degli interessi e delle forze in campo, e non si lascia abbindolare facilmente dalle fiabe. In Occidente questo complottismo è pienamente funzionale al potere, che lo coltiva come uno dei metodi di dominio. Non c’è nulla di meglio per tenere gli oppositori nel nullismo politico se non di convincerli che il potere è onnipotente, in grado di manovrare tutto, la sua realtà e i suoi oppositori. Ed è funzionale anche perché radica la convinzione che qualunque azione di massa sia inutile contro di esso, proprio perché lui stesso la manovra, e che non resti altro che dedicarsi a difendere sé stessi dotandosi della coscienza individuale da depositare, al più, in un’urna ...

2. Maurizio Blondet può essere, a ragione, considerato il principe dei complottisti, per il libro del 1994, Adelphi della dissoluzione. Curiosamente negli ultimi anni ha cambiato molte posizioni. Oggi, per esempio, mentre ospita nel sito articoli complottisti, ospita e scrive egli stesso articoli che riconoscono pienamente l’aspetto politico reale della resistenza dei palestinesi e dell’Iran. Anche per gli studenti americani ha avuto parole di comprensione, riconoscendo come molti di loro siano mossi da sentimenti profondamente umani. Detto da lui che è perfettamente consapevole di come all’interno di quei studenti si muovano anche le solite marionette di Soros, woke, gender, climate change, ecc. gli fa particolarmente merito. Probabilmente ha cominciato a cambiare ottica anche grazie alla conversione alla fede cristiana di qualche anno fa. Anche Mario Giordano ha espresso parole di apprezzamento per l’umanità che muove gli studenti Usa. Merito anche a lui.

Difficile che un complottista sia capace della stessa comprensione… per lui è impossibile ammettere che nella lotta politica possano entrare fattori come il senso di solidarietà umana, e che possano avere addirittura un peso. Per lui esistono solo manovratori e manovrati.

 

Fratellanza Musulmana

Hamas fu creata come costola della Fratellanza Musulmana (Fm). La Fm era nata con l’aiuto dei servizi segreti inglesi. Ciò è molto importante, ma non sufficiente per dedurre che sia sempre manovrata da loro. Bisogna sempre indagare il contesto in cui gli eventi accadono e la realtà con cui debbono confrontarsi, che può portare anche certi manovrati a trasformarsi in nemici dei manovratori. È successo più di una volta che le marionette dell’imperialismo si siano rivoltate a esso: p.e. Noriega in Panama e Saddam Hussein.

In quale contesto era nata la Fm? La Gran Bretagna (Gb) appoggiava il nazionalismo arabo, che era laico, per contrastare l’Impero Ottomano, ma temeva, a giusta ragione, che sconfitto l’Impero, gli arabi non si sarebbero fermati e avrebbero lottato per la piena autonomia nazionale pan-araba, unificante di tutti i vasti territori abitati da arabi. Ciò avrebbe vanificato le mire inglesi, francesi e italiane (Dodecanneso e Libia) di spartirsi i resti di quell’Impero. L’Impero Ottomano fu distrutto con la prima guerra mondiale. Gb e Francia tradirono le aspettative dei nazionalisti arabi dividendo l’area dominata dagli ottomani secondo confini arbitrari, nei quali crearono nuovi paesi e li affidarono a dinastie regnanti, scelte da loro e sottomesse alla loro protezione, e, inoltre, istallando in Palestina il focolare ebraico come perno fondamentale per impedire l’unità pan-araba e creare un avamposto per il dominio permanente sull’intera regione. Il nazionalismo arabo continuò a svilupparsi e a coniugare sempre di più il nazionalismo anti-coloniale con il socialismo, minacciando, quindi, il nuovo ordine imperialista disegnato in tutta la regione. Il laicismo nazionalista aveva indebolito anche l’influenza della religione islamica e, di conseguenza, erano nate correnti religiose che cercavano di ripristinarla. La Fm nacque, nel 1928 in Egitto, esattamente con questo obiettivo: rilanciare a nuova vita l’Islam opponendosi al laicismo crescente e al suo programma di portare nelle terre musulmane la modernità economica e sociale mutuata dall’Occidente capitalista, e, peggio ancora, dal socialismo o comunismo, apertamente atei. Si diffuse essenzialmente nei paesi in cui prevaleva l’islamismo sunnita.

Qual’era il nocciolo della Fm su cui la Gb fondava la sua leva? La Fm riconosceva anch’essa che il mondo islamico fosse dominato dal potere coloniale/imperialista, ma delineava un percorso di liberazione fondato su due distinte tappe: la prima avrebbe dovuto rinsaldare l’Islam, mettendo sotto la sua egemonia gli stati arabi, e, dopo dedicarsi alla seconda, la liberazione dall’oppressione esterna, naturalmente con crismi islamici contrari alle due modernità. La Gb ne favorì la nascita perché comprese che il raggiungimento della prima tappa avrebbe comportato il duro conflitto con il nazionalismo laico e crescentemente socialista. Lo avrebbe perciò indebolito. Inoltre, nella lotta contro il nazionalismo laicista le correnti islamiste avrebbero potuto trovare indispensabile accettare qualche aiutino da parte dell’imperialismo stesso. Ciò che, in realtà, avvenne, e fu più di un aiutino... La Fm si rivelò, quindi, utile, perché alimentò il divide et impera già innescato con gli stati fantoccio e Israele, ma la sua evoluzione l’ha portata a mutare alcune delle sue premesse e a rivelarsi uno strumento problematico nelle mani dell’imperialismo. Vediamola succintamente.

Essa fu particolarmente impegnata in Egitto contro il nazionalismo socialisteggiante di Nasser, ma ciò non impedì a Nasser di conseguire una vittoria schiacciante contro Gb, Francia e Israele con la nazionalizzazione del canale di Suez. Nasser represse duramente la Fm. Il suo successore, Sadat, cambiò la politica di Nasser, sottoscrisse, sotto guida Usa, gli accordi di pace di Camp David con Israele, e lasciò alla Fm una certa libertà di movimento. Tuttavia, una scissione di questa che ne contestava la sottomissione all’imperialismo, uccise Sadat. Dopo di lui, anche Mubarak tollerò la Fm e continuò i rapporti di pace con Israele, ma, considerata la pressione popolare, doveva ricorrere spesso a una retorica anti-israeliana, che creava ostacoli all’affermazione definitiva della pax Usa e israeliana. Ciò segnò il suo destino. Nel ridisegno del Medio Oriente progettato in Usa, per lui non c’era più posto. Fu abbattuto, con la primavera araba, e sostituito da un governo della Fm, con Morsi presidente. Durò poco, per gli stessi motivi per cui ha fallito in Tunisia e Libia.

Quindi la storia della Fm nel paese stesso in cui è nata non è affatto lineare, non di meno, ha svolto un certo ruolo nel contrastare il nazionalismo socialisteggiante, ma non è riuscita a sconfiggerlo. La sconfitta del nazionalismo arabo in Egitto è arrivata per causa, essenzialmente, della guerra dello Yom Kippur, nel 1973. Altrove la Fm è stata ancora più impotente. In Iraq e Siria il nazionalismo socialista andò al potere con il partito Bath. Per sconfiggerlo in Iraq la Fm è stata inutile e sono state necessarie tre guerre (con l’Iran 1980-88, l’aggressione del 1991 e quella del 2003). In Siria il Bath resiste ancora al governo.

È stata rispolverata in grande stile con il detournement delle primavere arabe operato grazie soprattutto a Obama. Sulla spinta delle primavere è andata al potere in Egitto, Tunisia e Libia, ma ovunque è stata costretta ad abbandonarlo. La Fm arrivata al potere era molto diversa da quella originaria, perché mentre conservava il suo substrato religioso, aveva dovuto mutare i suoi programmi in senso nazionalistico e sociale. Quindi si è rivelata incapace di realizzare gli obiettivi assegnatigli dai manovratori occidentali e, allo stesso tempo, incapace di realizzare gli obiettivi nazionalistici e sociali che la sua base gli chiedeva e che, inevitabilmente, l’avrebbero portata a uno scontro con i manovratori. Un fallimento, insomma. Perché era stata costretta a mutare?

La Fm è una setta, i cui membri e il cui governo sono segreti, ma ha una profonda differenza da altre sette che si danno il solo scopo di disciplinare e dirigere l’attività dei membri per perseguire gli interessi dei soli membri e della setta. La Fm non aspira solo a realizzare gli interessi dei fratelli-membri, ma ritiene fratelli tutti i musulmani e si dedica, di conseguenza, ad attività di solidarietà sociale, culturali, religiose, alimentari, sanitarie, ecc. I suoi membri, di ceti sociali alti e medi, hanno come scopo il benessere spirituale e fisico di tutta la comunità musulmana, per lo meno quella sunnita. Perciò si dedicano a una costante opera di attività per il popolo e assieme al popolo. La presenza continua dentro il popolo, soprattutto nei ceti più poveri e bisognosi, espone i membri a doversi confrontare con le esigenze e i punti di vista del popolo, e, soprattutto, con il bisogno dei poveri di non essere solo dei destinatari della carità, ma di divenire artefici di un reale miglioramento economico e sociale. Ciò ha spinto molti membri e sezioni della Fm ad abbandonare l’originaria postura unicamente caritatevole e scendere nell’agone politico, dove, però, non bastava la rivendicazione religiosa, ma si doveva necessariamente assumere nei programmi una parte almeno delle necessità popolari. Peraltro, più il nazionalismo arabo si indeboliva, più aumentavano le pressioni popolari sulla Fm affinché assumesse compiti nazionalistici e di promozione economica e sociale, per conseguire i quali ci si deve obbligatoriamente scontrare con l’imperialismo che ha bisogno di mantenere quei paesi nel permanente sotto-sviluppo, per saccheggiarli di ogni risorsa, fisica e umana. Insomma, il progetto di usare la Fm come organo politico di governo che assolve i compiti assegnatigli dall’imperialismo non poteva che fallire. E, infatti, alla prova dei fatti, è fallito.

Dove essa è stata, invece, molto utile è nel creare gruppi di combattenti islamici contro l’Urss in Afghanistan, contro la Cina nello Xiniang, e contro Assad in Siria. A questi gruppi non è assegnato il compito di prendere il potere in interi paesi, ma di impedire che vi si affermino poteri ostili al dominio imperialista. In verità, le formazioni combattenti nell’Afghanistan occupato dall’Urss erano nate soprattutto sul ceppo del wahabbismo (a partire da Al Qaeda), una corrente islamica originaria della penisola araba, diversa, e per molti tratti ostile, alla Fm, anch’essa nata con il supporto degli inglesi che riuscirono nel 1800 a unire le famiglie Wahab e Saud e a conquistare un grande pezzo della penisola araba, divenuta, appunto, Arabia Saudita (As). L’As è stata a lungo completamente asservita a Gb e Usa, ma, per una serie di motivi di cui diremo qualcosa più innanzi, ha cominciato a puntare su una politica più autonoma (un processo molto difficoltoso in quanto è un paese fortemente ricattato dall’imperialismo) e, di conseguenza, ha progressivamente abbandonato i gruppi armati creati e finanziati da essa, attivi soprattutto in Afghanistan e Siria, i quali nei successivi sviluppi sono, per lo più, confluiti nella galassia islamica dell’Isis-Stato islamico, attiva in Siria, Afghanistan, Xiniang, Sahel, Libia e altrove. L’Isis è, invece, creatura della Fm.

 

Hamas

Veniamo ad Hamas. È nata nel 1987 come sviluppo di sezioni della Fm già presenti in Palestina. Il suo primo programma era impiantato su una visione totalmente religiosa, in cui era compreso l’obiettivo di combattere tutti gli ebrei, considerati in quanto tali nemici dell’Islam. Il suo Statuto citava, infatti, un hadith (tradizione narrativa di detti attribuiti a Maometto, ma non inseriti nel Corano) secondo cui “L’Ultimo Giorno non verrà finché tutti i musulmani non combatteranno contro gli ebrei, e i musulmani non li uccideranno”. E inseriva il sionismo all’interno del programma di dominio mondiale contenuto nei Protocolli degli anziani di Sion.Come gli inglesi avevano fatto perno sull’integralismo religioso della Fm per usarla contro il nazionalismo laico, così Israele ha provato a fare perno sull’integralismo religioso di Hamas per utilizzarla contro il nazionalismo laico e socialista dell’Olp. Di conseguenza, ne ha favorito la nascita e lo sviluppo.

Perché Israele faceva perno sulla dimensione religiosa di Hamas? La resistenza palestinese si era sviluppata come lotta contro il colonialismo israeliano ed esigeva la liberazione dall’occupazione coloniale e la costituzione di uno stato nazionale dei palestinesi. La sua lotta trovava ampia solidarietà in tutto il mondo, sia in quello che viveva una situazione analoga sotto il dominio europeo e Usa, sia da parte della sinistra dei paesi occidentali e persino in parti dell’establishment di questi paesi che affettavano simpatie per i palestinesi per intrecciare buone relazioni con i paesi arabi. La nascita di Hamas dava a Israele la possibilità di provare a cambiare il terreno dello scontro, da quello nazionale anti-colonialista a uno scontro religioso. In questo modo la solidarietà internazionale ai palestinesi si sarebbe tramutata in ostilità contro di loro in quanto integralisti islamici perché l’integralismo islamico è anche per i progressisti reazionario e da rifiutare. Inoltre, nella comune lotta contro di esso, Israele, puntava a rinsaldare il fronte a suo favore con l’invocazione delle origini giudaico-cristiane di Europa e Usa.

L’Olp è finita effettivamente in una deriva che ne ha segnato la scomparsa come soggetto politico in grado di rappresentare le speranze di libertà dei palestinesi. Ma la deriva non è stata causata da Hamas. La solidarietà internazionale alla resistenza palestinese si è affievolita con l’affievolirsi della sinistra, che da forte movimento di opposizione, si è andata indebolendo e, soprattutto, anche a seguito del crollo dell’Urss, trasformandosi in strumento della governance imperialista. I palestinesi sono stati sempre più soli. Pure le politiche degli establishment filo-arabi si sono progressivamente ribaltate, anche grazie a eventi opportuni che le hanno sconvolte. Per esempio, la seconda repubblica italiana, nata con Tangentopoli, ha segnato un progressivo allontanamento dalle simpatie filo-palestinesi a quelle per Israele, evento sottolineato con soddisfazione dall’ambasciatore israeliano dell’epoca quando lasciò l’Italia (il complottismo è infondato, ma di singoli complotti e cospirazioni è costellata tutta la lotta politica interna a ogni paese e internazionale).

Il progressivo isolamento indusse l’Olp a piegarsi agli accordi di Oslo, definiti territori in cambio di pace. In cambio della rinuncia alla resistenza armata, ai palestinesi veniva promesso un proprio stato con Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est e lo sviluppo economico per migliorarne le condizioni, mentre per i rifugiati si rinviava a successivi accordi. I palestinesi non hanno avuto lo stato né lo sviluppo economico e sociale. L’espulsione dalle loro terre e lo stillicidio delle loro vite non si sono mai fermate. L’Olp è stata sostanzialmente assorbita nell’Anp (Autorità Nazionale Palestinese), rivelatasi un ente manovrato da Israele, Usa ed Eu allo scopo di controllare e reprimere ogni resistenza palestinese alla sorte di oppressione, sterminio ed espulsione. Per questo l’Anp e l’Olp hanno perso la fiducia dei palestinesi, i quali, però, non hanno rinunciato agli obiettivi originari (libertà dal colonialismo e stato nazionale laico e democratico) per abbracciare obiettivi islamisti e hanno iniziato ad affidarsi ad Hamas, esigendo che si conformasse a quegli obiettivi.

Come la Fm, Hamas nella sua evoluzione è entrata, perciò, in pieno contatto con le masse popolari. Questo aspetto la rende necessariamente un corpo vivo che è costretto non solo a trasmettere unilateralmente il suo messaggio, ma anche ad assorbire spinte, pressioni ed esigenze che emanano dall’altrettanto corpo vivo delle masse tra cui conduce l’attività di assistenza. E la rende diversa anche da gruppi come l’Isis che del consenso popolare se ne fregano, al punto di imporre la loro versione di sharia (legge islamica) anche con la violenza.

Questa dinamica ha portato Hamas ad abbandonare la postura iniziale fondata unicamente sull’islamismo e ad assumere una posizione sempre più nazionalista e intrecciata con la promozione di sviluppo economico e sociale moderno. Nel sua Carta del 2017, scompaiono i riferimenti all’hadith anti-ebrei e ai Protocolli e, anzi, è precisatoHamas afferma che il suo conflitto è con il progetto sionista e non con gli ebrei a causa della loro religione. Hamas non lotta contro gli ebrei perché sono ebrei, ma lotta contro i sionisti che occupano la Palestina”. Inoltre: “... senza compromettere il suo rifiuto dell'entità sionista e senza rinunciare ad alcun diritto palestinese, Hamas considera l'istituzione di uno Stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale, secondo le linee del 4 giugno 1967, con il ritorno dei profughi e degli sfollati alle loro case da cui sono stati espulsi, come un obiettivo da raggiungere”. Un obiettivo evidentemente transitorio dato che la Carta riconferma che “Un vero Stato di Palestina è uno Stato … palestinese pienamente sovrano sull'intero suolo nazionale palestinese, con Gerusalemme come capitale”. A proposito del regime politico “Hamas sottolinea la necessità di costruire le istituzioni nazionali palestinesi su solidi principi democratici, primo fra tutti quello di elezioni libere ed eque”. Infine anche in merito alle donne che nello Statuto erano esaltate per il loro ruolo di madri e “forgiatrici di uomini” la Carta si limita a dire: “Il ruolo delle donne palestinesi è fondamentale nel processo di costruzione del presente e del futuro, così come lo è sempre stato nel processo di costruzione della storia palestinese. È un ruolo centrale nel progetto di resistenza, liberazione e costruzione del sistema politico”.

Le posizioni di Hamas, quindi, sono divenute sempre più simili a quelle della resistenza laica raccolte precedentemente nell’Olp: lotta al colonialismo israeliano, all’imperialismo Usa ed europeo, per uno stato palestinese con confini nazionali, e non una umma (comunità) islamica senza frontiere nazionali e neanche un califfato. Sui palchi delle manifestazioni palestinesi chiunque vi partecipi può ascoltare come i giovani palestinesi esprimano con la semplicità e immediatezza (tipiche di giovani militanti che preservano il cervello dalle involuzioni e circonvoluzioni cui siamo ormai proni noi occidentali) la posizione di una parte crescente dei palestinesi: siamo contrari ai due stati per due popoli, vogliamo un solo stato, lo Stato della Palestina, in cui convivano tutti i palestinesi, a prescindere dall’etnia o religione, che siano cristiani, musulmani o ebrei. Questo vuol dire che devono essere esclusi non tutti gli ebrei, ma tutti quelli (ebrei, sionisti cristiani, avventurieri di ogni sorta spacciatisi per ebrei) che non sono originari della Palestina, ma si sono appropriati delle sue terre per costituirvi la propria colonia. Semplice, diretto ed efficace. Questi giovani non sono necessariamente militanti o simpatizzanti di Hamas, ma la posizione di Hamas è identica alla loro. Chi ha cambiato le proprie posizioni, i palestinesi o Hamas?

Questo non è un invito a divenire seguaci di Hamas. Ma, quel che deve essere chiaro è che Hamas non è uno strumento nelle mani di Israele, ma è ormai pienamente divenuta uno strumento importante per la lotta di liberazione dei palestinesi e si conforma alle esigenze di questa lotta. Conserva ancora un fondamento islamista, ma i suoi obiettivi non sono più puramente islamisti, ma nazionali e sociali. Infatti, ha stretto rapporti con l’Islam sciita di Iran ed Hezbollah, che la Fm considera nemico, e ha intrecciato rapporti con tutti gli altri gruppi della resistenza, compresi quelli laici e comunisti (Fplp). Il fondamento islamico persiste e chiama a raccolta in solidarietà con la Palestina tutti i musulmani del mondo. L’operazione del 7 ottobre è denominata Tempesta di Al Aqsa proprio per richiamare l’importanza di Gerusalemme per tutti gli islamici. Ma il suo obiettivo non è uno stato islamico o un califfato, ma uno stato laico, tanto è vero che persegue da anni l’unità con l’Olp, e di recente sta ottenendo in tal senso appoggi internazionali importanti (Russia e Cina).

Il perno su cui Israele faceva leva per trasferire su un terreno religioso il conflitto, si è insomma completamente consumato. Israele continua ad agitarlo, sostenendo che il 7 ottobre sia stato un progrom anti-ebraico del cieco estremismo islamista di Hamas, ma a questa versione crede ormai solo l’establishment imperialista e i media mainstream. Il resto dell’umanità no. Persino nella sinistra europea/Usa, almeno in parte della estrema sinistra, questa versione è stata rifiutata.

 

Tempesta di al Aqsa

Il complottista ritiene, però, di aver trovato nel 7 ottobre la pistola fumante che dimostrerebbe che Hamas sia un gingillo di Israele. Per parlare di pistola fumante si deve leggere la situazione sulla base di due presupposti:

1. che Israele era perfettamente a conoscenza della preparazione dell’operazione e l’abbia lasciata svolgere per rivestire il ruolo di vittima;

2. che dall’operazione discenda sicuramente l’atto finale del genocidio e dell’evacuazione dei palestinesi da Gaza.

Corrispondono alla realtà o non sono, invece, semplici proiezioni di una visione distorta?

Sull’onnipotenza dell’Idf (Israeli Defense Force), l’esercito israeliano, e i servizi segreti d’Israele esiste una diffusa pubblicistica, scritta e filmata, del tutto analoga alla costruzione hollywoodiana dell’onnipotenza di esercito e servizi segreti Usa. Tutti, per esempio, sono convinti che il film di Spielberg sul Mossad che uccide tutti i partecipanti all’operazione delle Olimpiadi di Monaco del 1972, sia basato su fatti reali. Quasi nessuno dà credito alla versione palestinese secondo cui la maggior parte di loro è morta in successive battaglie o di vecchiaia e che alcuni siano ancora viventi. Tutti, altro esempio, sono convinti che l’Idf sia dotato di un sofisticatissimo apparato tecnologico, e sono così convinti di ciò e dell’onnipotenza della tecnologia moderna, da non poter neanche prendere in considerazione che i palestinesi possano avere sviluppato pratiche e azioni militari che l’abbiano vanificata o aggirata. Uomini che prevalgono contro i robot? Impossibile, per definizione. Almeno secondo gli adoratori delle tecnologie moderne. Ma purtroppo anche per molti dissidenti che giustificano la propria inazione o incapacità con l’impossibilità di contrastare l’onnipotente mostro tecnocratico che sta assumendo il potere su tutto.

Questa è una visione ancora una volta semplicemente infantile. Idf, Mossad, Shin Bet (servizio segreto interno) sono tutte organizzazioni composte da uomini, dirette da uno stato, e come tutti gli uomini e tutti gli stati soggiacciono a una serie di limiti e devono affrontare tutta una serie di problemi che escludono qualsiasi possibilità di essere veramente onnipotenti. Se non tali, non di meno sono molto potenti, e, dunque, per contrastarli bisogna conoscerli a fondo, sfruttarne debolezze e contraddizioni e cercare di contrapporgli forze estremamente organizzate e determinate.

Per il secondo punto, bisogna necessariamente considerare un insieme di questioni.

Anzitutto, la pulizia etnica dei palestinesi non è iniziata come reazione al 7 ottobre. È iniziata nel 1948, con la Nakba, la catastrofe, quando le milizie israeliane distrussero quasi 700 villaggi e città palestinesi, espropriarono di case e terre centinaia di migliaia di loro, ne costrinsero 750.000 al di fuori della Palestina. Da allora non si è mai fermata. Alla vigilia del 7 ottobre, Israele era convinto di aver raggiunto la sua pace: Gaza era un grande lager, super-controllato e in cui Israele portava continue aggressioni e assassini per terrorizzarne la popolazione, tenuta in uno stadio vegetativo, la Cisgiordania sotto il controllo compiacente dell’Anp veniva progressivamente invasa dalle colonie e così anche Gerusalemme. Nessuno si aspettava ormai che i palestinesi potessero ingaggiare una nuova efficace resistenza. Infatti, il progetto Usa-israeliano di ridisegno del Medio Oriente stava arrivando a compimento: con gli accordi di Abramo, Israele sarebbe stato riconosciuto da buona parte dei paesi arabi, mentre i paesi arabi ostili a Israele erano stati distrutti (Iraq e Libia) o fortemente indeboliti (Siria). L’unica opposizione seria era l’Iran, ma la configurazione che gli accordi di Abramo avrebbero dato all’intera regione (un blocco israeliano-arabo con Israele sulla sommità) avrebbe sancito il completo isolamento dell’Iran e una forte coalizione di stati per contrastarlo e, se del caso, aggredirlo. Per Usa e Ue sarebbe stata l’agognata soluzione preparata in lunghi decenni di strategie politiche, economiche e finanziarie, nonché di aggressioni militari e rivoluzioni colorate (appoggiate con entusiasmo da molti sinistrorsi, alcuni dei quali, con immarcescibile ipocrisia, oggi sgomitano per photo opportunity a fianco dei palestinesi!). L’Asia Occidentale sarebbe stata definitivamente sottomessa al loro dominio, con in più la possibilità di ridurre la propria presenza militare, in modo da sganciare forze militari nel Pacifico contro la Cina. Per i palestinesi sarebbe stata la morte definitiva di ogni speranza di liberazione, e il destino di popolo progressivamente privato di terre, case e della stessa vita sarebbe stato portato a termine nel silenzio dell’intero mondo. Agli accordi mancava solo la firma dell’As, il paese più ricco e potente, in grado anche di trascinare con sé tutti (o quasi) gli altri. Insomma, la prospettiva dei palestinesi era la certezza di una lenta agonia e la certezza della morte di ogni aspirazione di liberazione.

I palestinesi erano, insomma, di fronte alla scelta tra una morte lenta e un disperato quanto si vuole tentativo di ribellione.

Un altro inciso. In Occidente è difficile provare profonda empatia per i palestinesi. Al massimo si empatizza per loro in quanto vittime (e, per carità, è già qualcosa!), ma non si riesce a empatizzare con la loro determinazione a resistere, dopo 100 anni di aggressioni!, e, soprattutto, a non rinunciare ai propri obiettivi in quanto popolo. Si prova pena per gli individui maltrattati e non si riesce a comprendere come per loro ogni singola vittima non è valutata solo per il dramma che provoca nella famiglia e nei circuiti affettivi, ma anche, e soprattutto, nel bilancio complessivo di resistenza in quanto popolo. L’incapacità a empatizzare con questo fatto deriva anche dal profondo senso di sconfitta che si è radicato in Occidente. Avendo rinunciato a ogni speranza di riscatto collettivo, non possiamo ammettere a noi stessi che altrove ci sia chi non vi abbia rinunciato e, perciò, combatte e, addirittura, si immola per una causa collettiva. Che un complottista sia incapace di tale empatia è scontato. Lui è preoccupato solo di dare ragione a sé stesso, in un moto perenne di auto-referenzialità, che sfiora l’autismo. Chi, invece, ha partecipato di recente a momenti di resistenza collettiva, dovrebbe, in teoria, riuscire a provare maggiore empatia. Ma, purtroppo, l’aver visto come milioni di persone hanno facilmente ceduto al ricatto del green pass, e, come i pochi che vi hanno resistito siano immediatamente finiti nel nullismo politico, o nella caccia al voto, o nell’auto-celebrazione dei propri meriti individuali, ecc. non aiuta a comprendere, appunto, come qualcun altro possa essere molto più determinato nella propria resistenza collettiva. Chiuso l’inciso.

Dunque, tra morte lenta e ribellione, i palestinesi, non solo Hamas, hanno deciso per la seconda. E, memori di tutte le precedenti esperienze, questa volta l’hanno a lungo preparata, cercando di costruire tutte le condizioni affinché potesse essere efficace, se non addirittura vincente.

Quali condizioni hanno preparato? Innanzitutto un grande accumulo di armi, quelle povere che possono procurarsi o costruirsi da soli. Povere, ma in grandi quantità. Secondo, una struttura di nascondigli e depositi il più possibile protetta dai bombardamenti dall’aria. Terzo, un numero elevato di combattenti addestrati alla guerriglia contro un esercito spropositatamente più forte e armato. Quarto, canali di comunicazione fisici e umani che non siano intercettabili dalle tecnologie dell’Idf. Quinto, una rete di sostegno esterna, in grado di impegnare Israele su molti fronti. Sesto, inserire questa preparazione in un contesto di analisi politica di tutte le condizioni politiche, economiche, sociali, internazionali, ecc. all’interno delle quali si colloca la loro resistenza.

Il bilancio sulle esperienze precedenti e la comprensione delle condizioni generali in cui la lotta dei palestinesi si colloca, sono essenziali per delineare una strategia militare e politica. Il 7 ottobre è stato il frutto di questo lungo lavoro di preparazione. Che esseri inferiori come i palestinesi siano stati capaci di una costruzione così sofisticata non è possibile, ancora una volta per definizione. Di conseguenza, si preferisce pensare che il 7 ottobre sia solo e soltanto una costruzione israeliana…

E, invece, piaccia o no, il 7 ottobre nasce da una lunga, metodica e sofisticata preparazione, di cui bisogna dare il pieno merito a tutte le forze della resistenza palestinese, e, assieme a loro, a tutto l’Asse per la resistenza che, nello stesso periodo di tempo (a partire dalla rivoluzione colorata in Siria), ha compreso la necessità di doversi preparare a rispondere a un’aggressione che si faceva sempre più estesa e dura. Probabilmente, molti meriti vanno riconosciuti al generale iraniano Soleimani, il principale artefice della costruzione dell’Asse, che, proprio per questo, ha pagato con la sua vita per mano di Trump. Ma, evidentemente, la sua morte non ha provocato danni al rafforzamento dell’Asse, ormai in grado di continuare con le proprie gambe.

Non ci dilunghiamo sugli aspetti politici e geo-politici che sottostanno alla costruzione dell’Asse. Diciamo solo che nella sua preparazione allo scontro c’era la consapevolezza della centralità della Palestina. Tutti gli assetti politici e geopolitici dell’Asia Occidentale ruotano attorno a essa. Altrove abbiamo sostenuto che la Palestina è il cuore del mondo, e forse per molti questa è solo retorica. Non ci torniamo su, ma, dovrebbe essere chiaro a tutti che la Palestina è di sicuro il cuore dell’Asia Occidentale. Per questo l’Asse ha messo al centro della sua strategia l’analisi di Israele, come stato e come società, e l’analisi degli equilibri mondiali entro cui Israele trova gli appoggi necessari alla sopravvivenza. Credere che la guerra sia solo un fatto militare, o, al massimo, militare-economico-finanziario, è estremamente riduttivo e, per lo più, porta a sbattere contro spiacevoli sorprese. Vedere la sicumera con cui la Nato ha affrontato la Russia. Tra i due contendenti non c’è paragone: sul piano militare, economico e finanziario la Nato sovrasta la Russia in modo incontrovertibile. Eppure, chi sta vincendo in Ucraina? (la Nato, tuttavia, non può perdere questa guerra e farà di tutto per prolungarla sperando di innescare la crisi della Russia, compreso il coinvolgimento diretto dell’Europa, mentre gli Usa, come nelle due guerre precedenti, contano di rimanere a guardare mentre i contendenti si dissanguano). Del pari, Israele sovrasta i palestinesi. Quindi, anche loro, come la Russia, hanno dovuto necessariamente delineare una strategia e le tattiche correlate per una guerra che tenesse conto di tutti gli aspetti, e non solo quelli sui quali sono sicuramente perdenti.

Per non farla ulteriormente lunga, partiamo dalla fine. Chiediamoci: a che punto siamo oggi?

Dopo sette mesi di stermini brutali Israele non può ancora dichiarare vittoria. Sette mesi non sono stati sufficienti al presunto esercito più forte del mondo per sconfiggere un pugno di gruppi combattenti che, se tutto va bene, saranno in tutto 30-40 mila. E non sono stati sufficienti nemmeno a domare il popolo dei gazawi, che, nonostante la tattica israeliana puramente terrorista di distruzioni, assassini individuali e collettivi, fame, sete, assenza di assistenza sanitaria, ecc. ancora non dimostra alcuna volontà di evacuare da Gaza, né alcuna presa di distanza da Hamas e il resto della resistenza, anzi tutti riconoscono che dal 7 ottobre i consensi per Hamas sono aumentati tra tutti i palestinesi (gazawi compresi) e sono diminuiti quelli all’Anp.

Dopo sette mesi Israele dichiara che per vincere deve invadere Rafah, ma mentre cerca di farlo, è costretto a scontrarsi quotidianamente con le forze della resistenza a Nord di Gaza. Tutte le aree che Israele aveva dichiarato di avere liberato dai gazawi e dalla resistenza, sono, oggi, dopo sette mesi!, ancora abitate (si fa per dire...) e, soprattutto, aree di battaglia, in cui vengono distrutte attrezzature militari e colpiti i soldati d’Israele. Anche il corridoio di Netzarim con cui Israele aveva dichiarato di aver costruito una strada sicura per spaccare la Striscia in due è quotidianamente sotto il fuoco della resistenza. Nugoli di razzi continuano a partire dalla Striscia per raggiungere località israeliane. I coloni scacciati dalle prossimità di Gaza ancora non possono ritornare alle loro case.

Guardando fuori Gaza, sempre sul piano militare:

- i coloni scacciati dal Nord di Israele dalle azioni di Hezbollah ancora non possono tornare alle loro case e perdono fiducia nel proprio governo ed esercito, al punto che qualcuno di loro inizia a invocare la costituzione di uno stato separato da Israele, lo Stato di Galilea. Le continue promesse di aumentare la guerra contro Hezbollah non sono state finora realizzate. Perché l’esercito più potente del mondo non affronta duramente Hezbollah dopo sette mesi in cui Hezbollah ha mantenuto una pressione militare costante? Per caso, ha paura di non riuscire a prevalere?

- gli Houthi hanno bloccato il traffico israeliano nel Mar Rosso e il porto di Eilat. Israele contro di loro è impotente. Usa ed Europa sono intervenuti per ripristinare la libertà dei commerci. Non l’hanno, finora, ripristinata. Tedeschi e francesi si sono ritirati senza clamore. Usa e Gb hanno diradato le loro aggressioni alle città yemenite, avendo esaurito i missili per colpirle. Italia? Non pervenuta, non se ne parla più nei media. Si può, per caso, parlare di sconfitta di queste grandi potenze navali da parte degli Houthi? I palestinesi e gli Houthi ne parlano...

- le milizie iraqene continuano la pressione armata contro le basi Usa in Siria e Iraq, e incrementano i colpi diretti ai porti israeliani di Haifa e Ashdod. Israele non può molto contro di loro. Gli Usa potrebbero, ma cercano di evitare un coinvolgimento in uno scontro aperto con milizie che sarebbero in grado di colpire anche le loro basi nel Golfo Persico (basi che i paesi ospitanti, peraltro, non gli permettono di usare contro Houthi e milizie iraqene! Altra notizia assente dai media per non dover ammettere che anche per paesi come As, Eau e Qatar non è più così scontato obbedire ciecamente ai desideri dell’imperialismo. Tranquilli, le elite sono sempre saldamente legate all’imperialismo, ma ne cominciano ad avvertire qualche fastidio, anche perché tra le proprie popolazioni cresce la solidarietà coi palestinesi e l’odio verso Israele, Usa ed Ue).

- l’Iran ha eseguito un attacco micidiale contro Israele. Non per i danni inflitti, quanto per aver dimostrato di essere in grado di colpirne due basi (dei 15 missili balistici, ben 11 sono giunti a bersaglio!), superando tutte le barriere schierate da Israele, Usa, Gb, Francia (243 aerei e centinaia di costosissimi missili finiti, per lo più, contro droni economici lanciati per saturare le difese). Una guerra contro l’Iran sarebbe per Israele un modo per tornare a fare la vittima, coprendo i massacri a Gaza e Cisgiordania, e, inoltre, colpirebbe il paese senza del quale l’Asse non esisterebbe e non sarebbe così efficace. Ma, anche al più imbecille dei politici israeliani è ormai chiaro che una guerra del solo Israele contro l’Iran sarebbe, per Israele, perdente. La può vincere solo trascinandosi dietro Usa e Nato. Al momento, Usa e Nato si sentono sicure di vincere facile contro l’Iran…?

Dopo questa breve panoramica sul piano militare, diamo un breve sguardo anche agli altri piani su cui questa guerra si combatte. Suddividendoli in interno di Israele ed esterno.

Interno. Israele non è mai riuscito a divenire una società davvero compatta e unita. Le contraddizioni e i conflitti tra laici e religiosi, all’interno dei credi religiosi (vi sono miriadi di sette, spesso coincidenti con vere e proprie tribù), provenienze etno-geografiche (Aschkenazi, Sefarditi, Mizrhavi, Falascia, ecc.), non sono mai venuti a compimento, né mai assopiti. Ciò che tiene insieme la società è il desiderio di oppressione dei palestinesi, necessaria per strappargli in modo definitivo la terra. L’unità della società è dunque relativa a un unico elemento: combattere un nemico comune. Finché il nemico viene tenuto a bada con sforzi limitati, la cosa funziona: si rimane abbastanza uniti per combatterlo, ma combatterlo non comporta particolari sacrifici per nessuno, al di là di credi, provenienze, ecc. Ma, cosa succede se questo nemico si rivela più difficilmente addomesticabile?

Le forze che hanno preparato l’azione del 7 ottobre hanno sicuramente preso in esame questa realtà, e ne hanno derivato che se fossero riuscite a impegnare Israele in una lunga guerra, se avessero dimostrato che la pax israeliana è impossibile, se avessero fatto percepire agli israeliani di non possedere più la tanto auto-celebrata deterrenza, o che, almeno, per ristabilirla si dovrebbero impegnare in uno scontro molto più oneroso di quello cui si erano abituati negli ultimi 50 anni, che, insomma, devono mettere in conto costi sociali e individuali molto maggiori di quelli che erano abituati a pagare, allora, forse, questa unità potrebbe dimostrare la sua precarietà e spingere la società israeliana in una vera e propria dinamica di caos e di possibile disgregazione.

Dopo sette mesi di guerra, a che punto siamo rispetto a questa ipotesi? La società israeliana è più o meno unita? Si possono rilevare segnali di maggiore coesione o, al contrario, di maggiori conflitti interni? Secondo tutti i sondaggi la stragrande maggioranza degli israeliani condivide gli obiettivi di comminare ai palestinesi una lezione definitiva, e non si fa nessuno scrupolo a vederli massacrati, violentati, affamati, privati d’assistenza, ecc. Vero. Tuttavia, in questi mesi abbiamo visto:

- la protesta dei parenti degli ostaggi. Quando si sono resi conto che la vittoria, con la liberazione degli ostaggi, non era per nulla facile e che, più passava il tempo, più c’era il rischio che gli ostaggi finissero sotto il fuoco amico di un esercito e un governo che di loro se ne fregano, hanno iniziato a protestare ed hanno elevato il livello di protesta fino a chiedere al governo di accettare l’accordo di cessate il fuoco permanente se questo era l’unico modo per salvare le vite degli ostaggi. La loro protesta ha raccolto consensi anche di altri israeliani non imparentati con ostaggi. Motivo: va bene che tutti ci dobbiamo sacrificare per domare i palestinesi, ma perché devo pagare proprio io con la vita del mio parente? Interesse individuale contro interesse comune, appunto.

- il conflitto tra ortodossi e non-ortodossi. I primi sono esentati dal servizio militare, ma, tranne qualche piccola setta, tutti ferocemente anti-palestinesi e sostenitori dell’espansione delle colonie. I secondi finora hanno tollerato che i primi vivessero come parassiti, dal punto di vista militare, ma anche degli studi cui dedicano la vita, finanziati dallo stato. Ma, ora che i palestinesi si rivelano meno addomesticabili si chiedono: perché solo io devo mettere a rischio la mia vita contro il nemico comune? Che combattano anche gli ortodossi! Questi si rifiutano di farlo e minacciano che, se fossero costretti ad arruolarsi, abbandonerebbero Israele!

- dei coloni scacciati dal Nord di Israele, si è già scritto. La loro fiducia nello stato e nell’Idf crolla. Del pari crolla tra i coloni che vivevano nelle vicinanze di Gaza. Più dura la guerra, più la fiducia si riduce. E crescono le proteste. Ma cresce anche la domanda: chi me lo fa fare a restare in Israele? Chi me lo fa fare a restare in un paese che non riesce a garantire più sicurezza e stabilità?

- questa domanda non riguarda solo i coloni di queste zone. Due mesi dopo il 7 ottobre ben 480.000 israeliani erano fuggiti da Israele e la maggioranza di loro dichiarava di non volervi più tornare. Si tenga presente che gli ebrei (tra virgolette perché molti lo sono solo sulla carta) in tutta Israele sono circa 7.300.000 (sostanzialmente alla pari con i palestinesi arabi che vivono in Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme, e come cittadini di serie B in Israele, mentre i profughi palestinesi al di fuori della Palestina sono ormai circa 6.600.000). Da allora il flusso di ebrei in uscita è continuato. Una fonte palestinese li indica in due milioni. Dato, forse, esagerato, ma la tendenza è reale. Chi esce è soprattutto la parte più benestante, originaria di Europa, Usa e Russia, che ha conservato la doppia cittadinanza col paese d’origine o vi conserva solidi agganci. Nel contempo il flusso in entrata è passato da una media di 5.000 al mese a zero. Una colonia che fa una guerra di bassa intensità con una popolazione ostile e promette terre, case e benessere attira molti aspiranti coloni. Una colonia che deve scontrarsi con un’opposizione forte li fa scappare.

- dal 7 ottobre stanno crescendo i suicidi e le malattie psichiche tra i militari israeliani, e crescono anche i casi di diserzione. Qualche giorno fa centinaia di famiglie israeliane (secondo alcuni 600, per altri 900) hanno scritto al governo per chiedere di non inviare i propri figli a combattere.

- per ultimo, all’interno del Gabinetto di guerra gli scontri sono crescenti e crescentemente furiosi sia sulla condotta di guerra che sulle prospettive.

Se si guarda Israele dall’interno, insomma, si può vedere che la possibilità che scivoli nel caos non sia del tutto peregrina. L’ipotesi della resistenza che un conflitto di lunga durata avrebbe potuto aprire il vaso di pandora delle contraddizioni interne a Israele non è, quindi, infondata.

Uno sguardo all’esterno.

Nella costante oppressione e progressivo sfoltimento dei palestinesi, Israele gode da sempre del pieno supporto di alcuni stati e, da alcuni decenni, della silenziosa tolleranza di tutti gli altri. Oppositore esplicito era rimasto solo l’Iran. In sette mesi la situazione si è ribaltata. Persino il più sionista degli americani, Trump, ha espresso la preoccupazione che Israele si stia trasformando in uno stato paria, isolato e schifato da tutti gli altri. Esattamente ciò che sta succedendo. Israele reagisce con rabbia definendo anti-semita ogni critica alla sua politica di sterminio, ma questo giochino non funziona più, tranne che in alcuni (neanche tutti!) gli stati occidentali. Certo, molti stati criticano Israele solo a parole, mentre continuano ad armarlo e proteggerlo. Ma anche questo inganno rivela che gli stessi stati più filo-Israele non possono dichiararlo esplicitamente, in quanto le loro stesse opinioni pubbliche (non i media...) non sono più disposte a stare a quel giochino.

In opposizione alla politica genocida di Israele continuano a svolgersi massive azioni di protesta in tutto il mondo. In esse non è prevalente una generica soluzione di pace (e ciò crea disagio ai paci-finti), ma la condanna del solo Israele e lo slogan Palestina libera, cioè libera dal colonialismo e dai coloni. Le accuse di anti-semitismo e di filo-terrorismo non hanno fatto, almeno finora, arretrare di un millimetro questo sentimento delle piazze (molto significativamente, peraltro, le piazze più partecipate sono nei paesi anglofoni, in testa Gb e Usa, con gli studenti e gli ebrei filo-Palestina).

La maggioranza degli stati che pur non essendo i tutori di Israele ne avevano, comunque, finora tollerato le politiche, oggi si orienta verso un’opposizione esplicita a esse, e sostiene con forza la soluzione due popoli, due stati. Persino alcuni stati che hanno sempre aiutato Israele (in quanto proprio strumento di dominio nella regione), si esprimono oggi ufficialmente per la stessa soluzione (ufficialmente, sia chiaro, per tenere a bada le opinioni pubbliche proprie e altrui, mentre continuano il sostegno armato e politico a Israele).

Proviamo a questo proposito a fare una panoramica degli eventi significativi successivi al 7 ottobre, scontando di dimenticarne qualcuno:

- diversi paesi hanno sospeso i rapporti diplomatici con Israele;

- il Sudafrica ha proposto la condanna di Israele alla Corte di Giustizia dell’Aja, la quale è stata costretta a dichiarare ammissibile la richiesta e a disporre misure a Israele per contenere (non fermare!) i suoi assalti e ingiungendogli di fermare l’offensiva a Rafah. Misure che Israele si guarda bene dall’applicare, protetto dai soliti stati che escludono che stia commettendo un genocidio;

- la Corte Penale Internazionale, strumento dell’imperialismo per perseguire solo i propri oppositori, ha espresso la possibilità di incriminare Hamas, principale colpevole in quanto iniziatore (!) delle ostilità, ma, non ha potuto fare a meno di esprimere la possibilità di incriminare Netanyahu e Gallant. Altra testimonianza di come certe istituzioni abbiano difficoltà a continuare a ignorare le azioni di Israele, per il rischio di perdere ogni credibilità verso l’opinione pubblica mondiale;

- anche l’Onu, nella persona di Gutierrez e di altri esponenti istituzionali, non ha potuto osservare il silenzio sugli atti di Israele, pena, anche per esso, il rischio di perdere ogni residua credibilità;

- Russia e Cina sono uscite dalla loro silenziosa tolleranza delle politiche israeliane, si sono schierate risolutamente per la soluzione due stati e hanno, nelle sedi internazionali, aspramente criticato il presunto diritto di Israele di legittima difesa e propugnato il pieno diritto dei palestinesi, Hamas compresa, di difendersi dall’occupazione con tutti i mezzi, anche quelli armati;

- una schiacciante maggioranza di paesi (143 contro 9 e 25 astenuti) ha riconosciuto alla Palestina alcuni diritti di partecipazione all’Assemblea Generale dell’Onu e raccomandato al Consiglio di Sicurezza di approvarne la totale partecipazione all’Onu come stato (bloccata dal solo veto Usa).

Fino al 6 ottobre la questione palestinese era completamente ignorata sul piano internazionale, oggi è divenuta centrale, non solo, ma è divenuto centrale il riconoscimento dei diritti dei palestinesi e la correlata opposizione a Israele, o almeno a una parte delle sue politiche.

Questo semplicemente dando uno sguardo agli eventi più noti, che emergono nell’informazione dei media. Diamo uno sguardo ad altri elementi meno noti, ma, forse, persino più significativi.

L’isolamento di Israele sul piano internazionale non sta creando danni, ora e in prospettiva, solo a esso, ma sta creando problemi anche allo schieramento imperialista che lo sostiene e di cui fa parte. Sette mesi di guerra e di sterminio hanno dimostrato, infatti, a tutto il mondo che Israele può dominare sui palestinesi solo con la violenza spietata, ma per sostenerne il livello dipende totalmente dal supporto di Usa, Gb ed Ue. L’opposizione a Israele, perciò, sta aumentando l’opposizione anche a questi soggetti, le cui politiche, non solo in Palestina, vengono sempre più frequentemente definite, nel resto del mondo, come coloniali o neo-coloniali.

- la crisi della deterrenza israeliana rischia di trascinare con sé anche la deterrenza Usa-Nato, già incrinata in Ucraina. Hezbollah non si spaventò minimamente quando, all’inizio delle sue operazioni in solidarietà con Gaza, gli Usa schierarono due porta-aerei con l’esplicita minaccia di intervenire contro chiunque avrebbe dato supporto alla resistenza palestinese. Le due porta-aerei si sono ritirate dalle acque prospicienti Palestina e Libano. Gli Houthi non sono minimamente arretrati difronte allo schieramento Usa-Ue nel mar Rosso e i ripetuti bombardamenti alle città dello Yemen, e, anzi, oggi estendono le loro azioni anche ai porti israeliani del Mediterraneo. L’Iran, sia pure in modo soft, ha lasciato intendere di non volere un’escalation nell’area, ma di non averne paura;

- sul piano geo-economico e geo-politico gli Usa avevano progettato il corridoio Imec, come alternativa alle Vie della Seta della Cina con itinerari terrestri e marittimi che dall’India proseguivano nella penisola araba, da qui in Giordania e Israele per raggiungere l’Europa, tramite la Grecia. Questo corridoio sarebbe stato il logico corollario degli Accordi di Abramo, trasformando Israele anche in un decisivo hub delle rotte commerciali Asia-Europa (nel quale inserire anche il canale Eilat-Gaza per escludere dal traffico Suez). Questo progetto è fermo alle intenzioni, l’instabilità crescente in Palestina, gli Houthi nel mar Rosso, il blocco del Golfo Persico da parte dell’Iran in caso di escalation, inducono gli investitori a tenersene alla larga per tutto il tempo in cui la situazione locale non sia tornata alla piena stabilità. Nel frattempo, però, è stato sottoscritto un accordo tra Eau, Qatar, Iraq e Turchia per un corridoio alternativo che passi nei loro paesi, escludendo completamente Israele. E, ancora più preoccupante per Usa ed Ue, l’India (che pure ha con Israele rapporti intensi) ha rotto gli indugi, e sfidando le sanzioni Usa contro l’Iran, ha deciso di trasformare in operativo l’accordo con l’Iran per un corridoio di transito che dall’India raggiunga i porti dell’Iran, da qui prosegua via terra per l’Azerbaigian e raggiunga la Russia, e, potenzialmente, l’Europa (se e quando riprendesse rapporti normali con la Russia). Inutile dire che Usa ed Ue stanno cercando di rispondere a tali progetti con ogni tipo di minaccia e ricatto e con il tentativo di infiammare il Caucaso soprattutto con la manipolazione di Armenia e Georgia in funzione anti-russa. Risposte, tuttavia, che rischiano di essere vanificate proprio dalla crisi della deterrenza.

- in ultimo, la resistenza palestinese all’aggressione israeliana sta aumentando il consenso per le piattaforme internazionali consensuali, quelle cioè che si oppongono al dominio unilaterale degli Usa e della Ue, come i Brics. L’estensione dell’autorevolezza dei Brics e l’adesione di sempre più paesi suscita turbinii di preoccupazione nelle cancellerie occidentali. In particolare brucia l’adesione dell’As, i rapporti di buon vicinato che questa ha stabilito con l’Iran, e, soprattutto, la sua disponibilità a commerciare con la Cina con le reciproche valute invece del dollaro. Se questo progetto andasse in porto, gli enormi volumi di petrolio che la Cina importa dall’As non sarebbero più scambiati in dollari, aggiungendosi a quelli del commercio russo-cinese, già quasi totalmente allontanato dal dollaro, e a molti altri scambi della Russia che già non sono in dollari (p.e. quelli crescenti con l’India). Ciò non provocherebbe all’immediato la morte del dollaro come moneta mondiale di scambio e riserva, ma costituirebbe un significativo passo verso questa possibilità, in un momento in cui gli Usa hanno già enormi difficoltà a sostenere il valore del dollaro e i valori della loro enorme bolla borsistica e finanziaria e, quindi, il privilegio della loro economia di sfruttare l’utilizzo del dollaro come moneta mondiale. Se, poi, i Brics riusciranno davvero a varare un’unità di conto (non moneta) per gli scambi digitali tra Banche Centrali, favorendo la compensazione in valute proprie o in oro, il predominio del dollaro sarebbe ancora più minacciato. Aleggia la possibilità che potrebbe accadere già con il vertice Brics di ottobre a Kazan, in Russia.

Da qualunque parte la si guardi, il 7 ottobre (e la successiva resistenza del popolo e dei gruppi armati palestinesi!) ha provocato una vera tempesta in Palestina, in Asia Occidentale e nel mondo intero. Se si provasse a mettersi empaticamente dal lato dei palestinesi e si provasse a fare un bilancio di quell’azione e del seguito fino a oggi, quali conclusioni si dovrebbero trarre? Il confronto della loro situazione tra il 6 ottobre e oggi si può raccogliere in poche parole: da una situazione di totale oblio internazionale e di completa sottomissione alla violenta repressione e lenta espulsione, sono passati al centro della scena mondiale, hanno visto crescere solidarietà e simpatia verso di loro, e veduto indebolirsi tutti i loro nemici, Israele e lo schieramento imperialista che lo protegge. Non sono ancora usciti dal tunnel, né si può dire che l’uscita sia prossima e sicura, ma, diavolo!, tale uscita è finalmente nell’ordine almeno delle possibilità. Poco, vero. Ma rispetto alle zero possibilità precedenti, è enorme. Da una prospettiva certa di oppressione e lenta morte, a una realtà che gli dimostra di avere ancora la possibilità di combattere e, persino, quella, magari non immediata, di far saltare il banco della loro schiavitù.

Come detto, inutile sperare che un complottista sia capace di una tale empatia. La sua unica preoccupazione è dare ragione a sé stesso. Quindi, una volta stabilito che Hamas è nato col supporto di Israele, ne deduce che ogni sua azione è direttamente manovrata da Israele. Punto. Tutto il resto semplicemente non conta, anzi nemmeno esiste.

Ma, lasciamo il complottista alla sua coperta di Linus intessuta di fantasticherie infantilistiche, e cerchiamo di concludere. Il che comporta un ulteriore prolungamento che non renderà felice l’unico lettore (se ce ne sarà uno…) che sia arrivato a questo punto.

 

Conclusioni

I palestinesi hanno, dunque, aperto uno spiraglio di riscatto dalla loro disumana condizione. Grazie alle capacità politico-strategiche-militari dell’intero Asse della Resistenza, grazie al coraggio dei combattenti, al loro sprezzo della morte in battaglia, ma anche, se non soprattutto, alla resistenza dell’intero popolo nonostante le enormi perdite fisiche e umane. L’apertura dello spiraglio e l’emergere di condizioni che rendono possibile la vittoria, non significa che sia certa e a portata di mano. Quella in atto in Palestina da 100 anni è guerra vera, e, in più, fortemente asimmetrica. Come tutte le guerre non si può dichiarare vinta prima della sua conclusione. Fino all’ultimo secondo, le sorti del conflitto possano mutare. Inoltre, spesso, anche la conclusione si rivela precaria. Non sempre una vittoria militare corrisponde a una vittoria strategica di lungo periodo. Ciò vale per i palestinesi e per chi sta dalla loro stessa parte, in Palestina e non solo. Ma vale anche per Israele, e per coloro che l’appoggiano e proteggono per rinsaldare il dominio sulla regione e sul mondo.

La risposta di Israele al 7 ottobre è stata, dunque, una carneficina dei gazawi, mentre sul piano strettamente militare non è riuscita, in sette mesi, a ottenere una vittoria spendibile. Più passa il tempo, più a Israele risulta chiaro che la vittoria militare, intesa come completo smantellamento dei combattenti, non è possibile o, per lo meno, non è conseguibile se non in tempi lunghi, molti mesi o anni. Questa difficoltà militare ha accresciuto lo sterminio dei gazawi. L’unico modo per vincere è per Israele terrorizzarli per fare terra bruciata intorno alla resistenza armata. Alle pressioni internazionali, reali o verbali, Israele ha risposto con dinieghi arroganti, ma, nel frattempo, ha ridotto un pochino la quantità di assassini di massa, ma ha elevato il livello di terrore. Se con il prolungamento della guerra Israele ha, in teoria, la certezza di vincere, facendo pesare la sua dotazione militare, economica, ecc., a fronte di una resistenza con mezzi molto più limitati, il prolungamento rischia anche di risolversi contro Israele stesso, sia per la tenuta interna, sia per il crescere dell’isolamento internazionale e dei conseguenti problemi per i protettori. Come diceva il mullah Omar agli americani “voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo”. Lui è morto, ma gli Usa hanno dovuto lasciare l’Afghanistan ai Talebani. Gli orologi di Israele e dell’imperialismo hanno scadenze, interne e internazionali, ravvicinate e pressanti. I palestinesi hanno tutto il tempo. Per Israele, perciò, si pone il problema di fare presto. Sul piano militare, finora, non riesce. Come visto sta incontrando problemi anche nell’occupazione di Rafah, mentre si sono riaperti gli scontri anche nelle zone dichiarate liberate. Non gli rimane che continuare a terrorizzare i gazawi. In questo modo persegue due obiettivi: fare terra bruciata intorno alla resistenza e provocare una fuori-uscita in massa da Gaza, per riprenderne il totale controllo, magari condividendolo con soggetti arabi disponibili, e ristabilirvi proprie colonie. Per terrorizzare i gazawi, però, non può più procedere, causa pressioni internazionali, al loro sterminio per mano militare. Non resta, perciò, che la possibilità di affamarli, cioè costringerli per fame a premere su Rafah per uscire da Gaza, o ad approfittare del molo costruito dagli Usa sulle spiagge di Gaza ufficialmente per rifornire aiuti ai palestinesi. L’esclusione dell’Unrwa, la chiusura del valico di Rafah, i coloni che impediscono ai viveri di entrare a Gaza, sono tasselli di una strategia di affamamento di massa, che si somma alla distruzione dell’apparato di assistenza sanitaria, case e strutture igieniche, idriche, ecc.

Può questa strategia andare in porto? Di sicuro ha il tacito consenso dei soliti noti. Come reagirà il resto del mondo? Continuerà ad accontentarsi di dichiarazioni, ricorsi legali, appelli all’Onu, o passerà a vie di fatto più efficaci? La Turchia, per dire, qualche passo più concreto è stata costretta a farlo, dichiarando sospesi i commerci con Israele, ma guardandosi bene dal fermare il flusso di petrolio dall’Azerbaigian a Israele. Quasi nulla, ma difronte all’esplodere di una carestia di massa, potrebbe la Turchia, e non solo, rimanere inerme? Domande alle quali non si può rispondere dando per scontata una reazione più dura contro Israele da parte degli stati del resto del mondo. Tuttavia, una reazione di maggiore condanna di Israele ci sarebbe sicuramente da parte delle masse di tutto il mondo, e ciò creerebbe a tutti gli stati ulteriori problemi, anche futuri, a tornare al business as usual con un Israele che avesse prevalso in questo terribile modo. Ciò non preoccupa Israele, consapevole di condurre una guerra davvero esistenziale. Ma creerebbe problemi ai protettori.

Una vittoria con queste caratteristiche renderebbe, infatti, problematico per i paesi arabi portare a compimento entro breve tempo gli accordi di Abramo e unirsi in un’alleanza guidata da Israele. I progetti imperialisti nella regione dovrebbero essere ulteriormente rimandati, ma lo scorrimento del tempo rischia di lasciare il terreno al consolidamento di altri equilibri, come si intravede già a proposito dell’Imec, che non solo procrastinerebbe l’isolamento di Israele, ma renderebbe molto complicati i progetti di ordine imperialista nella regione. Un grande rischio, insomma.

Gli Usa, infatti, mentre ufficialmente moderano Israele, lo lasciano agire nei suoi progetti nella speranza che, appunto, il resto del mondo non alzi il livello di opposizione. Ma, nel caso in cui questa opposizione dovesse passare a mezzi più efficaci, gli Usa cercano di delineare una soluzione alternativa. Questa si sostanzia nel conseguimento di un risultato che si possa qualificare come vittoria (p.e. uccidere Sinwar o qualche altro capo di Hamas), dopo del quale la pressione militare di Israele dovrebbe tornare a livelli di minore intensità (azioni mirate), per lasciare la possibilità di un accordo di gestione di Gaza, con l’esclusione di Hamas, l’instaurazione di un’autorità palestinese, supportata da altri paesi arabi, che assuma il controllo politico e reprima ogni opposizione. Questa gestione di Gaza dovrebbe, nei piani Usa, avere come corollario la ratifica dell’accordo tra Israele e As. Questo è, in realtà, lo scopo principale degli Usa e della Ue: infliggere una sconfitta ai palestinesi e portare a compimento i progetti del Nuovo Medio Oriente, con gli accordi israelo-arabi in funzione anti-Iran. Questo piano dell’imperialismo è, in verità, lo stesso anche nel caso in cui Israele riuscisse a conseguire la sua vittoria, che, si ripete, è la sconfitta militare della resistenza in combinazione con una dura lezione a tutti i gazawi, meglio se accompagnata dall’espulsione di buona parte di essi al di fuori della Striscia.

Se il disegno di Nuovo Medio Oriente era antecedente al 7 ottobre, oggi ha assunto per l’imperialismo un significato persino più importante. Infatti, alcuni paesi, inclusa l’As, manifestano concrete tendenze a coinvolgersi nella piattaforma Brics. Eua e As vi sono entrati dall’inizio del 2024, assieme, peraltro, all’Iran. Inoltre, già prima dell’adesione avevano ri-allacciato i rapporti con l’Iran, manifestando l’intenzione di mantenere rapporti pacifici e di incrementare anche la cooperazione commerciale, economica e finanziaria. Come se non bastasse, le preoccupazioni imperialiste sono aumentate anche dal fatto che i paesi arabi che avevano contribuito a distruggere la Siria, si sono tirati fuori da questa guerra per procura e hanno ri-accolto la Siria nella Lega Araba. L’As, con sommo scorno Usa, si è tirata indietro anche dalla guerra in Yemen, col quale ricerca un accordo di pacificazione, bloccato finora solo dagli Usa. Insomma, quei paesi che sembravano burattini completamente manipolabili dall’imperialismo, iniziano a manifestare evidenti disagi a continuare a obbedire ciecamente e tentano di costruire nuovi rapporti, a livello locale e internazionale, più autonomi dai comandi imperialisti. Questo percorso di autonomia ha ragioni profonde, che non è possibile approfondire qui. Richiamiamo solo un aspetto, comunque centrale.

Questi paesi hanno prosperato sulla rendita petrolifera ed hanno accumulato enormi riserve finanziarie, che sono state dirottate interamente verso i circuiti finanziari occidentali. Ciò, da un lato ha contribuito a rafforzare il potere della finanza occidentale, dall’altro ha reso a loro una quota di profitti che la finanza occidentale spreme da tutto il mondo. Questo grande castello finanziario è entrato, però, in crisi dal 2008 e non riesce a uscirne. La continua creazione di moneta non ha risolto la crisi, e, anzi, sta creando le condizioni per una crisi maggiore. Inoltre, la stessa stabilità del dollaro come moneta mondiale di scambio e riserva è vieppiù minacciata da una serie di fattori: crescita irrefrenabile del debito pubblico e privato negli Usa, fuga dal dollaro con l’aumento degli scambi in valute diverse, riduzione della detenzione e dell’acquisto dei titoli del debito Usa da parte di un numero crescente di paesi, crescita dell’oro come riserva di molte Banche Centrali, a un ritmo che rischia di accelerare la crisi del dollaro come moneta mondiale. Tutto ciò rende il Grande Reset finanziario sempre più incombente. Sia che riesca il tentativo in atto di pilotarlo, sia che esploda in modo incontrollato, quali sono i capitali a rischio di essere bruciati? Quelli Usa, Gb ed Ue? Una parte di essi necessariamente soccomberà o subirà pesanti svalorizzazioni. Ma con assoluta certezza saranno destinati a bruciare molto di più i capitali altrui, compresi quelli arabi. Fosse solo per il motivo di cercare di preservare i propri capitali, già sarebbero comprensibili i tentativi di maggiore autonomia di tali paesi. Ma a questi se ne aggiungono molti altri, che tralasciamo di considerare qui.

Il percorso verso questa autonomia è, perciò, necessario, da un punto di vista genuinamente capitalista, ma, non per questo, agevole. Infatti, tutti i regimi di questi paesi stanno in piedi per la protezione ricevuta finora da Usa e Ue, e, inoltre, i cospicui capitali investiti nelle piazze occidentali sono anche ostaggio di tali piazze. Non li si può disinvestire da un giorno all’altro. Il potere di minaccia alla stabilità politica e quello di ricatto finanziario è, perciò, ancora enorme nelle mani dell’imperialismo. Il che si traduce, appunto, in politiche di lenta affermazione della propria autonomia, suscettibili, però, anche di essere, più o meno violentemente, interrotte dall’azione dell’imperialismo. Un terreno molto scivoloso.

Tenuto presente ciò, cosa sta succedendo? L’As, dopo il 7 ottobre, ha solo sospeso le trattative con Israele. Gli Usa insistono per una loro rapida conclusione in contemporanea con la chiusura della guerra di Gaza, offrendo per Gaza un dominio condiviso anche con l’As, purché ci metta i capitali per la ricostruzione. L’As ha rinnovato la disponibilità all’accordo, ma pone la condizione di una cessazione immediata della guerra e una chiara procedura per la costituzione di uno stato palestinese. Gli Usa si dichiarano concordi con la costituzione dello stato palestinese, ma si rifiutano di precisarne i confini, lasciando intendere che possano essere persino inferiori a quelli pre-67 (quindi, ancora meno del 21% della Palestina storica). Israele si rifiuta di prendere persino in considerazione la costituzione di uno stato palestinese. Questo rifiuto non è dovuto a motivi elettoraleschi o giudiziari di Netanyhau, ma a un motivo molto più drammatico per Israele. Infatti, costituire uno stato palestinese anche in confini minori di quelli pre-67 significherebbe porre il blocco a ulteriori espansioni di colonie e, quasi sicuramente, anche la restituzione di territori occupati dai coloni in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Insomma, comporterebbe la fine dell’espansionismo costante, per non dire dei sogni della Grande Israele. Questo sarebbe un colpo molto duro ai movimenti politici dei coloni, ma sarebbe anche la rinuncia a uno dei capisaldi per attirare in Israele ebrei, con o senza virgolette, prospettandogli terre e case gratis o a costi infimi. La crescita demografica israeliana subirebbe un duro freno, e gli israeliani sarebbero destinati a essere minoranza permanente rispetto al totale dei palestinesi. Se una parte degli israeliani, più benestante e legata ai circuiti tecnologici e finanziari, potrebbe anche accettare una pace con tali rinunce, l’altra parte non potrebbe in nessun caso rinunciare né a quello di cui si è appropriata, e neanche all’incremento costante delle terre da appropriare. Potrebbe aprirsi in Israele una vera e propria guerra civile tra queste due fazioni, che, in parte, si era manifestata già prima del 7 ottobre sulla questione della riforma giudiziaria.

Il piano Usa, di conseguenza, incontra ostacoli reali. Israele è disposto a sottoscrivere l’accordo con l’As alla sola condizione che questa lo lasci andare avanti nell’espansionismo permanente contro i palestinesi e anche oltre. L’As, dopo il 7 ottobre e i massacri israeliani, non può aderire a un patto del genere senza incontrare un’opposizione delle masse arabe e, più in generale, delle masse islamiche, considerato che si fregia del titolo di custode della Mecca e Medina. Gli Usa dovrebbero cercare una quadra, distribuendo minacce e concessioni all’uno e all’altro. E, al contempo, ottenere che l’As rinunci all’adesione ai Brics. Per superare l’empasse gli Usa stanno offrendo all’As un primo patto solo con loro, in cui promettono molte concessioni all’As purché rinunci ai Brics. Tra ricatti e concessioni, l’As potrebbe anche finire con l’accettare. Ma potrebbe, con ciò, rinunciare anche a una pace regionale e tornare in modalità scontro con l’Iran?

Per Israele la soluzione è una sola: comminare ai palestinesi una sconfitta devastante delle forze combattenti e della coesione come popolo. Qualunque risultato diverso da questo, contiene in sé molteplici contraddizioni in grado di esplodere dopo la chiusura della guerra, subito dopo o in una prospettiva non lontana da essa. Il guaio per Israele è che anche una vittoria schiacciante non è esente da problemi, in quanto accrescerebbe la repulsione delle masse di tutto il mondo, accrescendo le difficoltà di tutti i governi a sviluppare rapporti con Israele. Potrebbe ritornare al suo espansionismo perpetuo nel silenzio totale del mondo? E senza espansionismo perpetuo di territori e crescita demografica quanto tempo Israele potrebbe ancora durare?

A differenza delle aspettative prevalenti, vista la narrazione dominante sulla potenza dell’Idf, la vittoria schiacciante non è avvenuta in tempi brevi, e neanche dopo sette mesi. Israele ha dovuto, gioco forza, adeguarsi a una modalità di guerra che, finora aveva combattuto solo in Libano nel 2006, uscendone sconfitto con l’abbandono dei territori conquistati, lasciando Hezbollah intatta e in grado di continuare a rinforzarsi. Una guerra di lunga durata che assume i caratteri di una guerra di logoramento. Perde chi si logora per primo, sul piano militare, politico, sociale, economico, di supporto internazionale, ecc. La resistenza si era preparata a questo tipo di guerra, contando sulla capacità di resistere fino a far esplodere le contraddizioni interne ed esterne di Israele. Pare evidente, tuttavia, che se Israele riesce a contenerle, la sproporzione di forze lo mette in condizione di prevalere sulla resistenza, per lo meno sulla resistenza di Gaza. Dinanzi a una tale evenienza, però, secondo le parole che Nasrallah, capo di Hezbollah, continua a ripetere fin dal primo discorso dell’ottobre 23, tutto l’Asse della Resistenza incrementerebbe i suoi attacchi a Israele. E anche la Siria si è dichiarata, più di una volta, pronta a intervenire contro Israele quando le necessità dovessero richiederlo. Usa, Gb e Francia stanno cercando in tutti i modi di raggiungere accordi separati con il Libano, le milizie iraqene e persino con gli Houthi, mentre contro la Siria hanno riattizzato le bande terroristiche, che, finora, l’Asse è riuscito a contenere. Da ultimo è emersa la notizia che gli Usa stiano tentando, attraverso l’Oman, di tastare il polso di qualche compromesso anche con l’Iran. Questo è un ulteriore segnale che la loro protezione di Israele avrebbe molte difficoltà a trasformarsi, qui e ora, nella disponibilità a ingaggiare un intervento armato che, a quel punto diventerebbe necessario, in quanto Israele non riuscirebbe da solo a prevalere se la guerra dovesse aumentare di intensità su tutti questi fronti. Meno ancora se vi fosse trascinato anche l’Iran. Potranno le varie componenti dell’Asse cedere alle lusinghe? E, se si, in cambio di quali concessioni? Anche con l’abbandono dei palestinesi? Il discorso si farebbe ancora più lungo. Di sicuro, finora hanno tutti resistito alle avances e continuato le azioni contro Israele. La morte di Raisi e di Amir-Abdollahian, per incidente o attentato, è stata accolta nelle cancellerie e nei media occidentali come possibilità per riaprire una crisi in Iran, capace di scatenare una nuova rivoluzione colorata o di mutare gli equilibri di potere interno a favore di un ritorno a politiche filo-occidentali. Ma, ci sono molte buone ragioni per credere che l’indirizzo “guardare a est (Russia, Cina e India), impegnarsi con i vicini e unificare il Sud del mondo” non sia stata solo un’iniziativa delle due vittime, ma abbia ormai solide basi nello stato e nella società iraniana.

Quanto detto dovrebbe essere sufficiente per dimostrare che il 7 ottobre non è stata una false flag orchestrata da Israele muovendo le sue pedine, ma un’operazione che sta creando molti problemi a Israele e ai suoi tutori e che possa essere ritenuta a pieno titolo, da parte dei palestinesi, un’azione che ha dato una scossa fenomenale alle loro ragioni, mettendo finalmente all’ordine del giorno, se non la possibilità immediata di soluzione definitiva della loro situazione di oppressione, certo una dinamica che rende, oggi, possibile finalmente coltivare di nuovo questa speranza che sembrava fino al 6 ottobre definitivamente frustrata.

Ma anche per dimostrare che i palestinesi hanno compreso a pieno due cose fondamentali:

1. come dicevano le Madri di Piazza di Maggio, l’unica battaglia persa è quella che non si combatte;

2. quando si combatte una dura guerra, bisogna affrontarla non solo con l’ardore della propria rabbia, ma anche con una meticolosa preparazione che tenga conto di tutti gli aspetti in gioco.

Ultima nota. Perché l’Asse lascia che i palestinesi vengano uccisi a migliaia e che Gaza sia sistematicamente distrutta? Perché aspettano che i combattenti di Gaza manifestino la difficoltà a resistere o che i gazawi siano al limite della fame, prima di incrementare gli attacchi a Israele? Non c’è del cinismo in questo?

Il calcolo strategico dell’Asse tiene conto del complesso delle proprie forze e conduce le proprie operazioni con la logica di ridurre al minimo il danno a esse, con il massimo danno per l’avversario. Se ci fosse stata fin da subito, o ci fosse oggi, l’incremento delle operazioni, con una escalation della guerra su tutti i fronti, le vittime diventerebbero complessivamente molte, molte di più di quelle avute finora dai soli palestinesi. Inoltre, la resistenza di Gaza e tutto l’Asse è ben consapevole di avere due opzioni: la piena vittoria militare o una sconfitta militare che sia, al contempo, una vittoria strategica per i problemi che lascia all’avversario Allo stato delle cose entrambe queste opzioni sono ancora plausibili. Non certe. Come in ogni guerra le sorti non sono decise fino alla sua conclusione. È, perciò, della massima importanza cercare di conservare quanto più possibile le proprie forze ed esercitare una lucida pazienza strategica.

Sulle insanabili contraddizioni che solcano la società israeliana è uscito un recente articolo di Hareetz che sintetizza i risultati di un rapporto commissionato dal governo dal titolo significativo Di questo passo, Israele non arriverà al suo 100° compleanno. Conferma molti degli spunti di analisi precedenti, e conferma anche che Israele e l’imperialismo ne sono consapevoli, e ciò spiega molte delle diatribe interne a Israele e tra questo e gli Usa. Ciò che non dice (e non può dire!) è che queste contraddizioni potrebbero trovare una qualche soluzione di compromesso a condizione che non ci fosse la variabile palestinese. La resistenza di questo popolo è la sola leva che può fare esplodere quelle contraddizioni e impedire a Israele di festeggiare molti altri compleanni.

Per i palestinesi è di valore inestimabile il solo fatto di essere riusciti a riaprire uno scontro che pareva ormai definitivamente perso. Non è poco, assolutamente non poco. È di straordinario valore per questo popolo e, come è visibile, per tutto il mondo oppresso, che, infatti, ne appoggia vivamente la lotta.

Dove si riesce a fare poco è, purtroppo, nelle metropoli imperialiste che tutelano e usano Israele per il proprio dominio. Anche qui, in verità, si sono mosse molte cose in sostegno alla Palestina Libera, che qualche ricaduta la stanno avendo sullo scontro in atto, ma ancora non è sufficiente per fermare le mani assassine di governi e stati. Ciò che sarebbe davvero decisivo per fermare Israele.

Le sorti della guerra non sono certe fino alla sua conclusione. E la guerra in atto, con la Palestina al centro, è intrecciata con un groviglio di altre materie esplosive per la sopravvivenza degli assetti mondiali dell’imperialismo, e, in ultima istanza, dello stesso capitalismo.

Siamo solo alle prime battute.

 

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Comments

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Nicolai
Saturday, 01 June 2024 20:54
E' sconfortante constatare che le definizioni dei media del potere possano sconfinare nella mente di persone che criticano il sistema. La definizione di complottasti e' stata introdotta dalla intellettualita' asservita al potere occidentale per calunniare chiunque osasse avere una opinione diversa da quella prescritta dal potere. Definire Thierry Meissan "complottaste" e' indice di arroganza e distrazione nei confronti della propaganda del potere.
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Alessio Galluppi
Saturday, 01 June 2024 07:30
Sarebbe bastato scrivere che chi avanza la tesi che Hamas è in combutta con Israele è il frutto dell’individualismo e dell’interesse privato esasperato e nutrito dalla democrazia e 500 anni di colonialismo e imperialismo. In sostanza uno schieramento antropologico a difesa della mammella coloniale da cui ciuccia il latte.

Inoltre abbiamo il brutto vizio di leggere la storia a partire da quando gli europei vi abbiano messo piede. La FM non è spiegabile in assenza di una analisi su come l’impero Ottomano lungo l’800 e il suo eclissarsi, scomporsi, frantumarsi e scomparire con la prima guerrà mondiale, fu costretto a confrontarsi con la capacità e la produttività delle merci europee e a sviluppare/accompagnare i processi di industrializzazione durante il xix secolo in deficit di capitali di credito crescenti e dunque con uno stato unitario ottomano sempre più indebitato.
Uno dei primi contraccolpi, mentre l’intero impero era collegato da una vasta rete ferroviaria da Istanbul al Cairo (nel 1905 venne inaugurata l’estensione della rete ferroviaria a Gerusalemme che connetteva il Cairo in Egitto con la rete Istanbul, Bagdad, Damasco, Haifa, Jaffa), gli investimenti in infrastrutture per l’agricoltura in Palestina furono penalizzati. Cosa che nel seguito favorì la compera delle terre da parte dei colonizzatori europei con i soldi della banche britanniche, aggravato dalle imposte coloniali britanniche negli anni ‘20, ‘30 e ‘40. Di fronte alla crescente scomposizione determinata anche dagli interessi endogeni privatistici in seno alla società ottomana le politiche di riforma da parte dello stato ottomano accompagnarono una ripresa dei caratteri comuni musulmani per contenere le spinte centrifughe interne sollecitate dal mercato. Vedere la relazione occidente e oriente sempre come arrivano gli occidentali che “fabbricano trame” è un modo da superiori di vedere la storia anche volendo criticare l’occidente.
Poi frantumatosi la realtà ottomana e ridotta a spezzatino coloniale, nel 1936/1939 la grande rivolta araba in Palestina venne annientata e con essa il movimento politico nazionale - sicuramente laico ma con il Mufti di Gerusalemme come figura politica rappresentativa. Non è possibile quindi nell’intera storia del mondo arabo musulmano tracciare una linea di separazione tra i due caratteri generali, laico e religioso. Chi lo fa finisce per peccare di eurocentrismo e di “suprematismo” tipico del colonizzatore. Chi lo fa è perchè pretende l’applicazione dello schema materiale degli europei della storia.

Anche perchè la questione della religione non è in assoluto quell’oppio dei popoli, bensì la fenomenologia di rapporti materiali che promanano dal mercato e dagli scambi.

Israele è giunto al suo tempo storico finito ed è destinato a crollare. Si tratta di capire in che modo e lungo quali passaggi.

https://lacausalitadelmoto.blog/2024/05/27/la-corrosione-di-israele-e-il-genocidio-dei-palestinesi/
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Giovanni Nicola De M
Friday, 31 May 2024 18:44
Che dire? Un'analisi completa, esaustiva e quasi straripante per la ricchezza degli aspetti esaminati. È un piacere leggerla
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