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La violenza torna sempre a casa
Intervista ad Arun Kundnani
A seguito degli attacchi di Parigi, quali sono le tragiche e più logiche conseguenze di una guerra senza confini fisici? Arun Kundnani, autore di The Muslims are coming! edito da Verso, si occupa di terrorismo e di politiche di contrasto all’estremismo nel Regno Unito e negli Stati Uniti. In questa intervista spiega e critica le ramificazioni della guerra al terrore, partendo dalla retorica – liberale o conservatrice – utilizzata da intellettuali e commentatori, e arrivando alle teorie sul radicalismo che hanno alimentato i programmi antiterrorismo in Occidente. Secondo Kundnani, l’unica vera alternativa al jihadismo è rappresentata da una politica anti-razzista, anti-imperialista e anti-capitalista.
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Il mondo intero è adesso una zona di guerra? E come si relaziona questa idea con la retorica della guerra al terrore?
La promessa della guerra al terrore era che noi saremmo andati ad ammazzarli “laggiù” così che loro non ci avrebbero ucciso “quaggiù”: la violenza di massa in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Palestina, Yemen e Somalia – è stata compiuta in nome della pace in Occidente. “L’autorizzazione a utilizzare la forza militare”, approvata dal Parlamento americano dopo l’undici settembre, aveva già identificato nell’intero globo il campo di battaglia per la guerra al terrore; e Obama continua a farsi forte di ciò per conferire una parvenza di legalità al suo programma di uccisione tramite droni.
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Il fondatore di Pirate Bay: "Mi sono arreso"
J. Mollen intervista Peter Sunde
“Oggi giorno internet fa schifo. È un progetto fallito. Probabilmente lo è sempre stato, ma oggi è più fallito che mai.”
La mia conversazione con Peter Sunde, uno dei fondatori e portavoce di The Pirate Bay, non è cominciata con toni particolarmente ottimistici. E c’è un buon motivo: nell’ultima manciata di mesi, la cultura contemporanea del download ha mostrato gli evidenti segni di una sconfitta nella battaglia per la libertà di internet.
Lo scorso mese abbiamo visto scomparire Demonii. Era il più grande torrent tracker presente su internet, responsabile di oltre 50 milioni di tracker all’anno. Inoltre, l’MPAA ha oscurato YIFY e Popcorn Time. Dopodiché si è venuto a sapere che il Dutch Release Team, un grosso collettivo di uploader, era invischiato in una battaglia legale con il gruppo anti-pirateria BREIN.
Anche se sembra che gli utenti del protocollo torrent stiano ancora combattendo questa battaglia, per Sunde la realtà è molto più dura: “Abbiamo già perso.”
Nel 2003 Peter Sunde, assieme a Fredrik Neij e Gottfrid Svartholm, ha aperto The Pirate Bay, un sito internet che sarebbe diventato il più grande e famoso nucleo di file sharing del mondo. Nel 2009, i tre fondatori furono condannati per avere “assistito [altre persone] nell’infrazione del diritto d’autore” in un processo molto discusso.
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Le operazioni militari che si stanno preparando in Siria e dintorni*
di Thierry Meyssan
La stampa occidentale parla poco delle operazioni militari in Siria se non per dire senza alcuna prova che la Coalizione avrebbe bombardato con successo i jihadisti dell'Isis (Daesh), mentre la Russia avrebbe ucciso dei civili innocenti. È davvero difficile farsi un'idea della situazione attuale, tanto più che ogni parte prepara le sue armi in vista di un confronto più ampio. Thierry Meyssan descrive qui lo scenario che si sta profilando
Il silenzio che circonda le operazioni militari in Iraq e in Siria non vuol dire che la guerra si sia interrotta, ma che i diversi protagonisti si stanno preparando a un nuovo round.
Le forze della Coalizione
Sul versante imperiale rimane la più grande confusione. Sulla base delle contraddittorie dichiarazioni dei leader americani è impossibile comprendere gli obiettivi di Washington, se ce ne sono. Al massimo risulta che gli Stati Uniti lasciano che la Francia prenda l'iniziativa a capo di una parte della Coalizione, ma ancora se ne ignorano gli obiettivi reali.
Certo, la Francia dichiara di voler distruggere l'Isis (Daesh) per rappresaglia dopo gli attacchi del 13 novembre a Parigi, ma l'aveva già affermato prima degli attentati. Le dichiarazioni precedenti rientravano nella comunicazione, non nella realtà. Così la petroliera Mecid Aslanov, proprietà della società BMZ Group di Bilal Erdoğan (figlio del presidente turco), il 9 novembre 2015 ha lasciato il porto francese di Fos-sur-Mer dopo aver impunemente consegnato del petrolio che si garantiva essere stato estratto in Israele, ma che in realtà era stato trafugato dall'Isis in Siria. Nulla autorizza a pensare che oggi le cose siano cambiate e che si dovrebbero prendere sul serio le ultime dichiarazioni ufficiali.
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Dormire meglio, dormire tutti!
Nota sul sonno, il neoliberismo e l'immaginazione
Nicolas Martino
Nel suo visionario They Live del 1988 John Carpenter raccontava di alieni che tenevano il nostro mondo sotto controllo colonizzando il desiderio e l'immaginario di milioni di americani: comprate, obbedite e, soprattutto, dormite! erano queste le ingiunzioni trasmesse da un flusso ininterrotto di informazioni e persuasioni occulte diffuse nella metropoli e che solo occhiali forniti di lenti speciali riuscivano a disvelare. Eravamo in piena epoca reaganiana e thatcheriana, la controrivoluzione neoliberista andava all'assalto dei cuori e delle anime delle persone (bisognava farlo, questo era il vero e autentico obiettivo della controrivoluzione neoliberista, così sosteneva esplicitamente la lady di ferro Margaret Thatcher), una controrivoluzione che voleva cambiare radicalmente le anime e i cuori colonizzando appunto il desiderio e l'immaginario delle persone (quella neoliberista, è bene sottolinearlo, è stata una vera e propria rivoluzione antropologica, magnificamente restituita nella sua radicalità e violenza estirpatrice da un altro film più recente, Tony Manero, del 2008, opera del cileno Pablo Larraín). Lo spettacolo della merce era allora un'ideologia potente che solo un visionario come Carpenter poteva restituire in tutta la sua radicalità e violenza extra-mondana. E benché la resistenza, come quella del protagonista del film l'operaio disoccupato John Nada, sia sempre possibile, perché ricordiamolo il capitale non è un Moloch totalitario ma sempre una relazione conflittuale, è anche vero che la colonizzazione è andata avanti, gli zombi dell'altro mondo vivono ancora tra noi e hanno infranto da tempo un'altra barriera, quella del sonno. Dicevamo prima che una delle ingiunzioni trasmesse ossessivamente dagli alieni, la più importante probabilmente, era quella che invitava a dormire, «dormite!» e non pensate appunto, e qui è allora opportuno ricordare anche le straordinarie righe con cui si apre un romanzo italiano pubblicato nel 1989, Le mosche del capitale di Paolo Volponi:
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La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/prima parte
di Militant
Subito dopo gli attacchi del 13 novembre abbiamo pensato di prenderci un po’ di tempo per provare a scrivere qualcosa di più “ragionato” su quello che era accaduto a Parigi. Man mano che buttavamo giù gli appunti ci siamo accorti, però, che era impossibile provare a smontare il meccanismo bellico che si era attivato senza provare a spiegare la funzione di “mostro provvidenziale” che svolge oggi lo Stato Islamico in medioriente. Però non si possono comprendere le peculiarità del Califfato senza tener conto della guerra siriana, semplicemente perchè senza il conflitto in Siria l’IS non esisterebbe. E a sua volta non si possono individuare le ragioni profonde della guerra che dal 2011 ha mietuto più di 200 mila morti, senza aver chiare le mire e le ambizioni di potenze regionali e globali che in quella guerra giocano un ruolo decisivo. E poi c’è anche il fallimento dei processi di decolonizzazione, la globalizzazione liberista, la crisi… insomma quello che doveva essere un post è diventato una cosa troppo lunga per essere proposto tutto in una volta. Per cui abbiamo deciso di pubblicarlo a puntate e farlo diventare, alla fine del percorso, un “documentino” scaricabile che (speriamo) possa aiutare a contestualizzare i fatti.
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I. Le radici del disordine mediorientale
Nello spiegare un evento passato o presente le argomentazioni addotte dai media non seguono mai un filo logico o una ricostruzione fedele di quanto accaduto, ma preferiscono fornire versioni che fanno sempre più leva sull’emotività degli spettatori, seguendo lo schema di quello che Losurdo, in un suo recente lavoro, definisce giustamente “il terrorismo multimediale dell’indignazione”. L’opinione pubblica viene “bombardata” (nemmeno troppo metaforicamente) di immagini e informazioni che non forniscono alcun apporto nella comprensione dei fatti e il cui unico scopo risulta essere quello di incanalare questa indignazione nei confronti del nemico di turno, innalzato per l’occasione al rango di “male assoluto”.
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Un mese dopo gli attentati a Parigi...
Il silenzio perdura
Patrick Boylan
Ieri, ad un mese dagli attentati a Parigi, l'elettorato francese ha punito il governo Hollande per le falle nella sicurezza nazionale – ma solo relativamente. Ha concesso il 27% dei voti alla destra securitaria di Marie Le Pen alla prima tornata (un record), ma non abbastanza voti alla seconda per vincere in nessuna delle 12 regioni in ballo. Il partito di Hollande ha vinto in cinque, quello di Sarkozy in sette.
Eppure il tandem Sarkozy/Hollande è direttamente responsabile per le orrendi uccisioni compiute al Club Bataclan e in altri quattro luoghi a Parigi il 13 novembre 2015.
Infatti, i due Presidenti francesi, insieme agli USA, alla Turchia e ai paesi del Golfo, hanno creato e armato i jihadisti operanti prima in Libia e poi in Siria, i quali poi hanno addestrato e foraggiato gli attentatori di Parigi. Non solo, ma hanno importato in Libia e in Siria questi loro orrendi mercenari per rovesciare con la violenza i governi dei due paesi, seviziando o tagliando la testa a chiunque – militare o civile – sostenesse Gheddafi o Assad. Il che vuol dire gran parte della popolazione: infatti, malgrado quanto asseriscono i mass media occidentali, nel 2011 gli anti-Gheddafi risultavano maggioritari solo nelle piazze delle grandi città; e oggi gli anti-Assad non sono più maggioritari nemmeno lì.
Le azioni di Sarkozy e di Hollande, dunque, sono un crimine secondo tutte le norme internazionali. Non si coltivano la democrazia e il rispetto per i diritti umani in una società giudicata oppressa, importando tagliagole e fomentando la guerra.
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La paralisi araba
di Pierluigi Fagan
Note a margine della lettura di “L’infelicità araba” di Samir Kassir, Einaudi, Torino, 2006
Il mondo arabo consta di una ventina di stati per una popolazione di poco superiore a quella degli Stati Uniti d’America (più di 350 milioni), per il 60% posti nel Nord Africa e per il 40% nel Medio Oriente. Non sono “arabi” ovviamente i turchi, gli iranici, gli israeliani ebrei. Gli arabi sono solo il poco più del 20% dell’islam. Questo vasto mondo dal glorioso passato, vive uno scabroso presente connotato in particolare da una sorta di paralisi socio – politico – culturale che Kassir compendia nello stato d’anima dell’infelicità. Questa infelicità è triplicemente determinata. C’è l’infelicità della condizione, una condizione oggettivamente marginale, paralizzata, regredita. C’è l’infelicità dell’inazione, dell’impotenza. Nulla sembra politicamente possibile in un mondo sclerotizzato in mafie al potere, quasi sempre protette dai poteri del neocolonialismo occidentale la cui alternativa è data dal “sogno” del ritorno all’islam puro di più di mille anni fa, “sogno-incubo” a sua volta sponsorizzato dalle potenze petrolifere del Golfo anch’esse protette dai poteri neocoloniali. Infine, l’infelicità stessa del pensiero a cui è vietata ogni evasione, ogni ricerca, ogni sperimentazione, quindi, ogni libertà.
L’elenco dell’immediato passato storico di questo mondo è agghiacciante: la prima questione palestinese e l’umiliante conflitto arabo israeliano, la crisi di Suez, la guerra d’Algeria, la guerra libanese, la continua diaspora palestinese, il lago di sangue della guerra tra Iraq ed Iran, il massacro di Sabra e Chatila, la prima e seconda guerra civile in Sudan, la guerra civile in Algeria,
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Le stesse cose che ritornano
L’Europa e il nostro sciopero contro la miseria del presente
Insieme a molti altri abbiamo ripetuto che l’Europa è il terreno minimo di lotta. Di fronte agli stati di emergenza, al terrorismo di Daesh, alle guerre dichiarate o semplicemente praticate, dopo le recenti elezioni francesi sembra di essere catturati in un’infinita involuzione europea. Sembra che le stesse cose continuino a ritornare per minacciarci con la loro miseria. Eppure proprio di fronte a tutto questo noi siamo quanto mai convinti che l’unica scelta praticabile sia fare dell’Europa un terreno di scontro diverso da quello che ci vogliono imporre. La scala di tutti i processi nei quali siamo coinvolti è quanto meno europea: la cupa oppressione che grava su di noi non rispetta i confini nazionali, i movimenti sui quali possiamo fare affidamento ci attraversano senza pace. La difficoltà del momento risiede nell’essere all’altezza di queste dimensioni transnazionali. Nessuno oggi può difendere l’Europa realmente esistente, possiamo solo utilizzare questo spazio mobile, solcato da profonde differenze, per costruire un progetto politico di liberazione dal regime globale di sfruttamento, guerra e terrore. Solo dentro l’Europa e contro l’Europa rivela il suo senso politico la proposta lanciata a Póznan di una giornata di scioperi e iniziative coordinate a partire dalla centralità politica del lavoro migrante. Il primo marzo 2016 deve essere l’esperimento su scala europea del nostro sciopero contro la paura. In gioco c’è molto di più di una giornata di solidarietà con i migranti. In gioco c’è la nostra capacità collettiva di rovesciare le miserie del presente.
Lo diciamo chiaramente: dentro alla presente condizione dell’Europa, il lavoro migrante non solo può rendere realmente sociale e transnazionale lo sciopero, ma può anche lanciare un segnale di insubordinazione nei confronti di un regime fatto di xenofobia, razzismo e precarietà.
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Compiti dello Stato nella fase transnazionale
di Maurizio Brignoli
La creazione delle grandi istituzioni sovranazionali del capitale si può far partire dalla fondazione nel 1944 del Fmi e della Bm espressione di quel processo di perdita progressiva di una parte della sovranità degli stati
Finita la seconda guerra mondiale, quindi nella fase multinazionale, lo stato (del capitale) non svolge più un intervento diretto, attraverso la partecipazione alla proprietà e alla produzione industriale, per realizzare la socializzazione delle perdite come nella precedente fase di crisi, ma non per questo riduce la sua attività economica che ora è indirizzata a un aumento della spesa collegato al processo di accumulazione del capitale e funzionale al processo di produzione e circolazione del plusvalore. Attraverso il finanziamento della ricerca scientifica e tramite l’istruzione pubblica, che fornisce forza-lavoro sempre più qualificata, lo stato favorisce le premesse per la realizzazione di forme sempre più intensive di lavoro. Lo stato sviluppa poi il welfare che non trasforma certo lo stato in un organismo neutrale nella lotta di classe, ma ha lo scopo di creare un moderno neocorporativismo.
Nella fase transnazionale il rapporto di esclusività fra capitale nazionale e stato è superato. Compito dello Stato diventa quello di svolgere un’opera di mediazione fra i diversi capitali in lotta, appoggiare il capitale finanziario dominante che opera sul suo territorio e porre in atto le direttive che vengono da Fmi e Bm. Terminata la fase espansiva e iniziata l’ultima crisi muta anche il ruolo dello stato borghese che non deve più utilizzare gli strumenti “keynesiani” e il mantenimento del welfare per moderare il conflitto di classe (pratica del resto non più perseguibile data la fine della fase espansiva).
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V. Putin: missili contro ISIS armabili con testate nucleari
Ash Carter: siamo in guerra con l’ISIS. Il messaggio tra le righe
di Federico Dezzani
“I moderni missili impiegati dalla forze armate russe in Siria possono essere armati con testate nucleari, sebbene non sia ovviamente necessario”, afferma Vladimir Putin: l’evanescente stampa occidentale non ha colto un lapalissiano avvertimento che durante la Guerra Fredda avrebbe allertato qualsiasi “cremlinologo”. Non è l’impegno a non usare armi nucleari contro l’ISIS, bensì l’evocazione stessa delle testate atomiche, il messaggio che Putin lancia all’Occidente: aumentate il tono dello scontro in Siria ed Iraq e sarà guerra. La situazione militare del Califfato volge infatti al peggio e gli angloamericani con i vari alleati NATO raddoppiano gli sforzi per evitare che Mosca e Teheran li espellano dalla regione. La Turchia di Recep Erdogan è impiegata da Washington e Londra per il lavoro sporco e ricopre lo stesso ruolo che ebbe la Serbia nel 1914.
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Quando il contesto è più importante del testo
L’occasione del discorso è l’incontro al Cremlino tra il presidente russo Vladimir Putin ed il ministro della Difesa Sergey Shoigu per discutere degli sviluppi militari in Siria: la mattina dell’8 dicembre il sottomarino “Rostov sul Don”, un moderno esemplare della categoria Kilo-class a propulsione diesel-elettrica, è emerso dalla acque del Mediterraneo orientale per il lancio 1 dei missili Kalibr che, dopo aver sorvolato i cieli della Siria, esplodono in riva all’Eufrate, a Raqqa, distruggendo due postazioni dell’ISIS.
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Sicurezza per chi?
Valerio Romitelli
Riflessioni intorno al libro (In) sicurezze. Sguardi sul mondo neoliberale fra antropologia, sociologia e studi politici ( a cura di Javier Gonzalez Diez, Stefano Pratesi , Ana Cristina Vargas), Novalogos, Aprilia, 2014
Dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso Michel Foucault ha quasi profeticamente cominciato a studiare il tema della “sicurezza” come categoria preminente delle dottrine e strategie di governo in occidente. L’avvenire doveva poi confermare questa preminenza oggi più che mai trionfante. La cosiddetta terza guerra mondiale in corso non è infatti che una tra le maggiori conseguenze dell’imporsi a livello mondiale di tali strategie occidentali all’insegna della “sicurezza”.
Per capire come si è potuti giungere a tanto vale la pena di provare a ricordarsi di quando tutto ciò ha cominciato a emergere come una tendenza irrefrenabile. Vale la pena di provare di ricordarsi della seconda metà degli anni ’70, appunto.
Cosa è dunque successo di così clamoroso in questo tempo? Qualcosa che l’informazione oggi dominante tenta in ogni modo di rimuovere. Qualcosa che non si lascia omologare dalle ossessive litanie divenute praticamente obbligatorie sul ’900 come “secolo buio”, della violenza e dei totalitarismi. Qualcosa che deve essere rimosso per far dimenticare quell’epoca incredibilmente diversa dall’attuale, quando la prima dichiarata preoccupazione degli Stati occidentali non era la “sicurezza”, ma il “benessere”, e ciò su scala non solo nazionale, ma anche globale . Ad esaurirsi in questa seconda metà degli anni ’70 sono infatti quei “trent’anni gloriosi” (1945/75 ) durante i quali si era assistito al trionfo in Europa, ma anche altrove, dello “Stato sociale”, del “Welfare State”, con tutte le conseguenze del caso in termini di accrescimento globale della giustizia sociale.
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Di cosa si occupano gli economisti?
di Guglielmo Forges Davanzati *
La riforma dell’Università italiana, e il suo sottofinanziamento, hanno accentuato l’egemonia del mainstream liberista e contribuito al proliferare di studi caratterizzati dall’espulsione di qualunque elemento politico dal discorso economico e dalla sostanziale irrilevanza dell’oggetto di studio. Una galassia di teorie che spesso si traducono in esercizi autoreferenziali o bizzarri, nella convinzione che l’Economia sia una scienza nell’accezione della Fisica Teorica.
L’Economia è una disciplina che orienta le decisioni politiche e che, per questo tramite, influisce in modo significativo sulle nostre condizioni di vita e di lavoro. Chiedersi di cosa si occupano gli economisti, in Italia e non solo, non è dunque una domanda oziosa.
Il punto di partenza è dato dalla constatazione che questo non è un periodo particolarmente fecondo di nuove idee. È quello che Alessandro Roncaglia, nel suo testo La ricchezza delle idee, ha definito l’età della disgregazione. La ricerca in Economia, non solo in Italia, è sempre più frammentata e specialistica, e soprattutto sempre più ‘autistica’: gli economisti tendono a dialogare esclusivamente fra loro, spesso coprendo di sofisticati tecnicismi o montagne di matematica pure banalità, tautologie o, nella migliore delle ipotesi, teorie che non “spiegano” nulla, né hanno l’ambizione di farlo[1].
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Comunisti, oggi. Il Partito e la sua visione del mondo
Hans Heinz Holz
Prefazione di Stefano Garroni
Già a partire dal 1968, chi avesse detto <sono comunista>, avrebbe detto qualcosa dal significato non chiaro, ma sì equivoco.
Voglio dire, restando nel confine di casa nostra, che il dichiarante avrebbe potuto essere, indifferentemente, un militante di Potere operaio o del Pc d’I, della Quarta Internazionale o di Lotta continua e così via; avrebbe potuto essere, dunque, portatore di analisi, lotte e prospettive sensibilmente diverse tra di loro ed anche opposte, per certi versi.
Gli anni successivi, fino a giungere allo sciagurato 1989 e seguenti, non hanno certo semplificato la situazione, al contrario: oggi più che mai dire <sono comunista> risulta dare un’informazione pressocché incomprensibile.
Un merito del libro di Holz è invertire questa tendenza e dare, invece, un preciso contributo al restituire un senso determinato al nostro asserto, <sono comunista>.
A tutta prima, l’operazione di Holz sembra un esempio del classico ‘uovo di Colombo’: comunista, egli dice, è chi si riconosce nell’intera storia del movimento comunista, appunto.
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I limiti di un processo politico antimperialista
Riflessioni sulla sconfitta elettorale in Venezuela
di Militant
La vittoria delle destre golpiste in Venezuela è un problema che riguarda soprattutto la sinistra latinoamericana, ma offre diversi spunti di riflessione anche per ragionare sui limiti della sinistra in quanto tale, per sinistra intendendo qui ovviamente quella di classe e non le propaggini liberiste oggi al potere in Italia e nel resto d’Europa. Insomma il (grandioso) processo bolivariano antimperialista soffriva di limiti politici già evidenti prima della sconfitta elettorale, dei limiti che niente hanno a che fare con le critiche che le sinistre “euroimperiali” muovevano ad esso, ma su cui pure toccherà ragionare per il futuro e in vista della riconquista del potere in Venezuela. L’unica premessa a tale discorso è che noi, come sinistra europea, niente possiamo insegnare a quella latinoamericana oggi al potere, e anzi avremmo dovuto in questi anni umilmente prendere esempio di un processo popolare, partecipato e di classe capace di partire dalle masse diseredate delle periferie metropolitane e dalle campagne contadine per giungere al governo e da lì incrinare l’egemonia imperialista nella regione. Se pure delle criticità sono presenti e vanno giustamente evidenziate, quello che invece non va fatto è spiegare “come si fa” a una sinistra che in un ventennio ha guidato un intero continente, nella sua veste socialdemocratica o più schiettamente socialista (ad eccezione della Colombia terrorista).
La sinistra bolivariana è stata sconfitta elettoralmente, e proprio il dato elettorale rappresenta la principale contraddizione interna ad un processo rivoluzionario.
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I territori perduti della République
di Marco Assennato
«Il Front National è il solo fronte davvero repubblicano, perché è il solo a difendere la nazione e la sua sovranità. È anche il solo fronte che potrà riconquistare i territori perduti della République, a partire da Calais o dalle nostre banlieues».
Il primo commento di Marine Le Pen ai risultati delle elezioni regionali francesi del 6 dicembre 2015 è un capolavoro di chiarezza e di logica politica. Addirittura perfido, nel riprendere quell’espressione marziale, tanto cara al primo ministro Manuel Valls – Riconquistare i territori perduti della République! – il quale ne aveva fatto una bandiera già dopo l’attacco stragista del gennaio 2015. Se questo è il programma fondamentale del governo socialista, dice la Le Pen, allora il popolo francese sa scegliere chi può coerentemente interpretarlo. Poi ne individua i luoghi simbolici: le banlieues, tane di quel popolo altro che si nasconde tra le folle di Francia, territori perciò di riconquista della guerra civile proclamata dal duo Hollande-Valls; e Calais, giungla di profughi, immigrati, invasori, da ripulire una volta e per tutte dalla peste straniera. Stato d’emergenza, divieto di manifestare e di riunirsi in assemblea, guerra interna ed esterna: chi meglio dei neofascisti blumarine può ambire a suonare su tale spartito?
La destra e la sinistra paiono confondersi, indistinguibili. In verità l’espressione di Manuel Valls ha una storia precisa e relativamente recente. Les Territoires perdus de la République, infatti, è il titolo di una raccolta di saggi pubblicati nel 2002 da Mille et une Nuit, sotto la direzione di Emmannuel Brenner.
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Microfisica della bêtise
Come distruggere l’università e vivere felici
di Federico Bertoni
Non amo affatto Michel Houellebecq, mi irrita da morire. Segno forse che è un vero scrittore, perché lo scopo primario della sua scrittura sembra proprio quello di irritare il lettore (e ancor più la lettrice). Ma c’è un dettaglio che mi ha colpito molto in Sottomissione, a parte gli astuti e tendenziosi richiami alla situazione che sta sgretolando il nostro (?) mondo. Qualunque cosa accada, nota a più riprese Houellebecq, l’Amministrazione non ti lascia in pace: ti bracca, ti raggiunge ovunque. Può esserci il panico, la rivoluzione, la guerra civile o lo stato di emergenza, ma a un certo punto torni a casa e trovi una bolletta delle tasse o una multa non pagata. Mi viene anche in mente, su un registro molto diverso, un capitolo esilarante del Pensatore solitario di Ermanno Cavazzoni, in cui si descrivono le peripezie di un ipotetico eremita dei nostri giorni, che prima di potersi dare a una vita di sacrosanta solitudine e ascetiche meditazioni nel deserto dovrebbe fare i conti con Equitalia, il commercialista, la tassa dei rifiuti, l’avvocato dell’ex-moglie e via dicendo.
Figurarsi uno come me, che non pensa (più) a fare il rivoluzionario o l’eremita ma ha un posto ben integrato nel sistema universitario del nostro Paese, e che vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace, pretese ormai velleitarie e antisociali in un mondo che regolamenta anche il dissenso e che pretende di misurare tutto,
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Magari fosse truffa
Qualche punto fermo sulla crisi del sistema bancario italiano
nique la police
Non ci vuole molto a capire che questo paese è stato rovinato da Tangentopoli. Ma in un preciso senso: l’impatto mediatico delle inchieste della magistratura milanese dell’epoca ha fatto credere che i problemi italiani fossero risolvibili insistendo sulla sfera morale. Da allora si sono susseguiti, e continuano a farlo, movimenti di moralizzazione della vita pubblica anche molto diversi tra loro. Legati più o meno dallo stesso mito: l’idea che la moralizzazione fattasi regime, e processi con tanto di condanna, avrebbe riportato il paese in equilibrio. E si parla di movimenti spesso legati tra loro, ovviamente, dalla stessa modalità di fallimento non di rado risoltasi in parodia (la Lega di Bossi tra gioielli e titoli della Tanzania; il Prc di Bertinotti, genere moralizzazione di sinistra, col leader imprigionato nei pigiama party dell’alta società; l’Idv di Di Pietro affondata in pochi giorni dopo l’inchiesta di una trasmissione televisiva). Per entrare nelle criticità reali della società italiana molto più di Marco Travaglio, la politica di questo paese avrebbe dovuto affrontare Marc Abèles. Autore che ci spiega le complesse modalità a rete della dissipazione delle risorse comuni come avvengono dagli stati africani alla governance europea (mentre i movimenti di moralizzazione sono fermi all’idea generica della “casta”, a quella che non spiega niente delle “mafie” o, peggio, alla categoria banale dei “corrotti con i complici”). Già perchè il sovrapporsi di crisi sistemiche della società italiana, che ne vive diverse dalla caduta del muro di Berlino, genera complesse e aggressive reti di appropriazione di beni pubblici assai voraci, che si giocano la propria sopravvivenza, e capaci di infiltrarsi ampiamente dei movimenti legati ai processi di moralizzazione.
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La fase superiore dell’imperialismo
Dalla fase multinazionale a quella transnazionale
di Maurizio Brignoli
Le mutazioni strutturali che caratterizzano il passaggio dalla fase multinazionale a quella transnazionale dell’imperialismo, insieme all’ultima crisi di sovrapproduzione, hanno comportato una modificazione dei processi produttivi volta a scardinare la resistenza di classe, la trasformazione dello stato nazionale e la sua subordinazione agli organi sovranazionali del capitale transnazionale e un riacutizzarsi dello scontro interimperialistico
Il passaggio all’attuale fase transnazionale dell’imperialismo, che incomincia
agli inizi degli anni ‘70 con l’esplosione dell’ultima crisi di sovrapproduzione, è caratterizzata da importanti trasformazioni strutturali rispetto a quella precedente. La fase multinazionale (1945-1971) si distingue per la realizzazione di forme di
integrazione sovranazionale del capitale monopolistico finanziario (Fmi, Bm, Gatt), capaci di garantire stabilità nella lotta fra i concorrenti e di subordinare le istituzionali nazionali rendendo il capitale finanziario autonomo dalle economie nazionali.
Direzione e proprietà del capitale multinazionale sono in una nazione, ma gli investimenti sono fatti in molti paesi differenti. Il capitale statunitense impone la sua forza sul mercato mondiale grazie agli investimenti diretti all’estero (ide) delle
sue multinazionali e domina, attraverso i suddetti organismi sovranazionali, la comunità finanziaria internazionale, mentre la ricostruzione post-bellica gli garantisce un’egemonia sul mercato mondiale.
La forma multinazionale permette al capitale produttivo, attraverso anche un controllo finanziario centralizzato, di superare i limiti del mercato nazionale tramite un’integrazione delle fasi produttive, di circolazione e di realizzazione del plusvalore; è così possibile una localizzazione più adeguata degli impianti e il superamento della frammentazione della produzione mondiale. La ristrutturazione del sistema capitalistico basata su un’integrazione del mercato mondiale, determina il grande sviluppo dell’economia mondiale (fra il 1948 e il 1971 la produzione annua mondiale mantiene una crescita media del 5,6%), siamo in quella che Eric Hobsbawm chiama “età dell’oro” del capitalismo. Grazie a questa fase espansiva di accumulazione del capitale è possibile realizzare, tramite i sistemi di welfare state, una strategia che punta a integrare il proletariato cercando di favorire un compromesso fra le classi.
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Investimenti e Frugalità
Il Paese al bivio tra sviluppo e declino
di Gustavo Piga
Dei dati Istat recentemente pubblicati due cose da ricordare: 1) la crisi nazionale crescente, dimostrata dal fatto che il PIL dell’area euro cresce del doppio del nostro, 1,6% contro lo 0,8%, e 2) la più forte delle determinanti di questo nostro ritardo: gli investimenti delle nostre imprese, cha calano ancora, dello 0,4%.
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Perché le nostre imprese non investono più, è evidente, è una combinazione perversa dei due mali che ci affliggono: il pessimismo endemico dovuto alla carenza di domanda interna nel Paese, causato dall’austerità europea imposta all’Italia, e la mancanza di riforme nella Pubblica Amministrazione. Il primo porta le imprese a non sostenere scommesse di investimento visto che sono costi certi da sostenere oggi a fronte di ricavi futuri altamente incerti per carenza di clienti potenziali; la seconda rende costosissimo operare in Italia e fa prediligere la stasi in attesa di tempi migliori o la delocalizzazione.
A questa carenza di investimenti privati ovviamente si aggiunge quella di investimenti pubblici. Anch’essa causata dall’austerità europea, ovviamente, con le sue restrizioni a perseverare nei tagli di spesa pubblica. Ma anche dalla carenza di riforme nella P.A., che porta l’Europa a non credere che eventuali investimenti pubblici in Italia genererebbero vera produzione, ma piuttosto fantomatiche cattedrali nel deserto.
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Una teoria che non fa scuola
Stefano Petrucciani
Dopo anni di ricerca ai margini dell’industria culturale e in piena egemonia neoliberale, «Una storia del marxismo» è l’importante iniziativa editoriale in tre volumi della Carocci. Pubblichiamo un brano dell’introduzione del curatore
L’impatto che Karl Marx ha avuto sulla storia del XIX e del XX secolo è stato così forte da non poter essere paragonato a quello di nessun altro pensatore. Solo i fondatori delle grandi religioni hanno lasciato alla storia del mondo una eredità più grande, influente e persistente di quella che si deve al pensatore di Treviri. Ma per capire che tipo di influenza ha avuto la figura di Marx sulla storia del suo tempo e di quello successivo, bisogna mettere a fuoco un aspetto che concorre con altri a determinarne la singolarità: l’attività di Marx si è caratterizzata per il fatto che Marx è stato al tempo stesso un pensatore e un organizzatore/leader politico, e di statura straordinaria in entrambi i campi. Notevolissima è stata la ricaduta che le sue teorie hanno avuto sul pensiero sociale, filosofico e storico, ma ancor più grande, anche se non immediato, è stato l’impatto che la sua attività di dirigente politico (dalla stesura del Manifesto del Partito Comunista alla fondazione della Prima Internazionale) ha lasciato alla storia successiva.
Certo, una duplice dimensione di questo tipo non appartiene solo a Marx: la si può anche ritrovare in grandi leader che furono suoi antagonisti, da Proudhon a Mazzini a Bakunin. Ma in Marx entrambe le dimensioni, quella della costruzione teorica e quella della visione politica, attingono una potenza che manca a questi suoi pur importanti antagonisti. Sul piano della organizzazione politica dall’attività di Marx sono infatti derivati, nel tempo e attraverso complesse mediazioni, i partiti socialdemocratici e poi quelli comunisti che hanno inciso così largamente nella storia del Novecento. Sul piano teorico, invece, Marx ha influenzato, e continua a segnare ancora oggi, una parte non trascurabile della cultura che dopo di lui si è sviluppata.
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Il primo turno. Il misterioso caso "italico" di Marine Le Pen
di Quarantotto
1. Tutti coloro che sono in grado di ragionare su una minima conoscenza dei fatti, rimangono sconcertati della "spiegazione" che, specialmente nelle estenuanti e sussiegose cronache televisive, è stata data relativamente alla forte affermazione del Front National alle ultime elezioni regionali in Francia.
Al primo impatto, infatti, ci è stato ossessivamente detto che l'ondata terroristica avrebbe favorito un partito xenofobo e che coltiva i più bassi istinti anti-immigrati (musulmani e non), oltreche pericoloso, per la democrazia, perchè di "estrema destra". Con punte di incomprensione che risultano logicamente paradossali e ostinatamente irreali.
E' pur vero che, poi, dai più alti vertici si è poi aggiustato il tiro, mettendo l'accento sulle politiche imposte dall'UE come principale alleato della Le Pen; ma questo aggiustamento è stato fatto rivendicando le riforme effettuate in Italia come "giuste" e contrapponibili alla linea dettata dalle istituzioni europee.
Il che appare obiettivamente contraddittorio, visto che sono state proprio queste riforme a giustificare la "flessibilità" concessa in sede di applicazione del fiscal compact all'Italia e, dunque, in quanto sono state ritenute particolarmente conformi alle linee di politica economica e del lavoro propugnate dal paradigma dell'eurozona (in cui, appunto, le politiche economico-fiscali sono rigidamente dettate dall'obiettivo del pareggio di bilancio e dalle relative eccezioni discrezionalmente ravvisate dalla Commissione).
2. Il che ci porta a dire che se probabilmente è vero che, rispetto al fenomeno MLP-Front National, in Italia, non si possono nutrire equivalenti "preoccupazioni", ciò, certamente, non è dovuto al fatto che qui da noi non si seguano le politiche rese inevitabili dalla volontà di conservare la moneta unica (in Francia, peraltro, le si è seguite molto meno); ma a ben altre ragioni.
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Sulla ricezione italiana di Günther Anders
di Devis Colombo
Gli stimoli, le critiche e le riflessioni filosofiche di Günther Anders1 (1902-1992) sulla natura contingente dell’uomo, sulla perdita dell’esperienza, sulla società tecnologica e consumistica contemporanea, espresse in un insolito stile a metà tra la riflessione teoretica e la rappresentazione letteraria, hanno avuto una discreta ricezione del nostro paese, seppure in modo parziale, in fasi alterne e da punti di vista e approcci differenti.
La prima fase è quella degli anni ’60, quando con le due opere tradotte in italiano da Renato Solmi per l’editore Einaudi, Essere o non essere nel 1961 – il diario di viaggio in un Giappone devastato dalla guerra atomica –, e La coscienza al bando nel 1962 – ossia il carteggio con il pilota Claude Eatherly corresponsabile dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima –, Anders si afferma in Italia2 e a livello internazionale come icona teorica del movimento pacifista e antinucleare3.
Poco dopo la sua pubblicazione, Essere o non essere viene recensito sulla rivista Tempo presente da Nicola Chiaromonte, il quale, oltre a delle «pagine efficaci»4, ne rileva alcune in cui Anders verrebbe meno all’impegno – da lui stesso professato –, di voler ubbidire al precetto «non ti farai nessuna immagine»5, ossia di voler lottare «contro tutti gli “assoluti” fabbricati dall’uomo». Infatti nel tentativo di contrastare la possibilità che da un momento all’altro il mondo intero si trasformarmi in una seconda Hiroshima, per Chiaromonte è evidente il ricorso di Anders ad alcune «immagini concettuali», sulla cui efficacia si dimostra dubbioso: «si vorrebbe chiedere a Günther Anders se è proprio sicuro che fare appello a immagini come la bomba atomica, l’annientamento dell’umanità, la distruzione della Terra […], non sia invitare i contemporanei a distrarsi con immagini sensazionali piuttosto che fare attenzione e a riflettere»6, ossia se «predicare» l’Apocalisse non significhi nient’altro che eccitare l’uomo medio contemporaneo attraverso il «sensazionale», dunque «invitarlo a guardare se stesso al cinematografo anziché in realtà»7.
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Salvate le banche di famiglia (con i soldi della Bce)
di Andrea Fumagalli
Due fatti rilevanti hanno caratterizzato le ultime due settimane. Due fatti apparentemente distanti e decisamente di diverso spessore, ma accomunati, nella loro diversità, dalla stessa logica di potere e di dominio.
Nel CdM del 22 novembre, il governo del premier Renzi e della ministra Boschi ha dato il via libera al decreto, denominato “Disposizioni urgenti per il settore creditizio”, con l’unico scopo di salverà quattro istituti di credito già posti in amministrazione straordinaria: Cassa di risparmio di Ferrara, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio (il cui direttore era il padre della ministra Boschi), Banca delle Marche e Cassa di Risparmio della provincia di Chieti (cd. Decreto “Salvabanche”).
CariFerrara era stata la prima a essere commissariata, nel maggio 2013, dopo aver perso poco meno di 105 milioni di euro. Poi è stato il turno di Banca Marche, il cui commissariamento è arrivato ad agosto dello stesso anno, dopo due bilanci che hanno registrato perdite per 232 e 526 milioni di euro. Ma è con il fallimento di Banca Etruria e CariChieti (commissariate nel 2015 per “gravi perdite di patrimonio”) che si decide di intervenire a salvaguardia degli interessi del credito (e della famiglia Boschi?). Secondo gli analisti, il costo dell’operazione è pari a circa 730 milioni di euro e sarà a carico degli azionisti e dei possessori di obbligazioni subordinate delle quattro banche, cioè dei risparmiatori: coloro che avevano incautamente acquistato i titoli emessi dall’ente creditizio, consapevoli o meno che a fronte di rendimenti maggiori non avrebbero avuto alcuna tutela in caso di fallimento dell’istituto, essendone il rimborso subordinato a quello dei creditori ordinari (da qui la dizione di “obbligazioni subordinate”, a maggior intensità di rischio).
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Punk Islam
Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre
Il lato cattivo
«Homo sum, humani nihil a me alienum puto»1
Il «minimo sindacale» e... il resto
Difficile, in queste ore, sfuggire alle banalità e alle petizioni di principio. Molte cose, dal giorno degli attentati di Parigi del 13 novembre, sono state dette e scritte. Per fortuna non sono mancati coloro che, con parole forti, sisono sollevati contro l'asfissiante cantilena del clash of civilisations. E non solo fra i «radicali». Con buona pace tanto di Hollande che di Al-Baghdādī, nessuno scontro fra civiltà eterogenee e irriducibili l'una all'altra è in corso, ma nient'altro che uno scontro intestino, che mostra una volta di più la plasticità di un modo di produzione – quello capitalistico – che sebbene trovi nella democrazia parlamentare la sua traduzione politica più adeguata, è capace di adagiarsi, almeno in via contingente, su quasi tutte le forme di governo, di organizzazione politica e di ideologia, masticando, digerendo e rimettendo in circolazione ogni tipo di materiale o sedimentazione storico-sociali. La brutalità dello Stato Islamico (Daesh) è il segreto il Pulcinella di tutte le avanguardie della nostra «grandiosa, non commestibile civiltà» (Bordiga), di cui esso mette in spettacolo un buon compendio fatto di scheletri nell'armadio: fa cadere le teste sulla pubblica piazza come il Terrore giacobino del 1794; distrugge monumenti storico-artistici come la Gran Bretagna, nel febbraio 1945, devastò Dresda2, capitale del barocco mitteleuropeo; cerca di piegare nemici e detrattori colpendo sul loro suolo patrio la popolazione civile (gli esempi analoghi sarebbero infiniti, ma per farne uno poco citato, si pensi ai numerosi attentati realizzati dall'Irgun Zvai Leumi3).
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Dentro e contro la normalità della guerra
Antonio Alia e Anna Curcio intervistano Christian Marazzi
Un anno fa prevedevi l’apertura di uno scenario di guerra. Ora la guerra sembra una realtà, per quanto dai confini incerti e sfuggenti, in cui anche la metropoli diventa fronte bellico. Come si riconfigura o si sta riconfigurando la guerra, anche rispetto alle analisi sull’impero degli ultimi 15 anni?
Vorrei innanzitutto dire che, a mio modo di vedere, assistiamo oggi alla dissoluzione di quello che è l’impero, così come era stato descritto nel 2000 da Michael Hardt e Toni Negri, come superamento dell’imperialismo legato a una modalità di accumulazione di capitale che (nel corso degli ultimi trent’anni) aveva oltrepassato la dialettica tra centro e periferia. Aveva esteso le periferie al centro e il centro alle periferie, sotto un comando articolato e gerarchizzato che faceva perno sui mercati finanziari e gli interessi delle grandi multinazionali su scala planetaria. A me sembra di aver intravisto negli ultimi mesi alcuni primi segnali di superamento di questa forma-impero, come esito del completamento della crisi economico finanziaria iniziata negli Stati Uniti nel 2007/2008, della una sua estensione ai paesi emergenti. Parlo in particolare della Cina ma anche dei Brics, con riferimento agli smottamenti borsistici valutari nel corso del mese di agosto scorso. Quindi, un primo ipotetico tentativo di rispondere alla domanda sul come si sta riconfigurando la guerra, deve tener presente uno scenario di dissoluzione dell’impero.
Già da tempo abbiamo compreso, all’interno del pensiero critico e militante, quanto sia importante l’analisi geopolitica dei fenomeni sui quali cerchiamo di far leva per definire le nostre forme di lotta, di mobilitazione e di soggettività.
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