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Nessuna de-escalation a Gaza e in Medio Oriente
di Roberto Iannuzzi
La guerra nella Striscia prosegue senza sosta, mentre l’inconcludente diplomazia USA nella regione consente di fatto a Israele di andare avanti con le operazioni militari
Le ultime settimane sono state caratterizzate da una specie di sanguinoso limbo in Medio Oriente.
Le operazioni militari israeliane sono proseguite in tutta la loro violenza, provocando fra i 100 e i 200 morti al giorno a Gaza (sebbene il verdetto della Corte Internazionale di Giustizia avesse ordinato a Tel Aviv di adottare tutte le misure necessarie per prevenire un genocidio contro i palestinesi nella Striscia).
Ma un laborioso negoziato era sembrato decollare, sotto la spinta di Stati Uniti, Qatar ed Egitto, per giungere a un cessate il fuoco che portasse alla liberazione degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, e che potesse eventualmente trasformarsi in una tregua permanente.
L’iniziale decisione americana di rispondere in maniera relativamente contenuta a un attacco con droni, che il 28 gennaio aveva portato all’uccisione di tre soldati statunitensi in una base al confine tra Giordania e Siria, aveva spinto alcuni a ipotizzare che Washington intendesse non esacerbare le tensioni regionali, sperando nel successo di un negoziato che potenzialmente avrebbe aperto la strada alla fase successiva del suo aleatorio piano per la Palestina.
Quest’ultimo, in tutta la sua problematicità, era così articolato: riabilitare una delegittimata Autorità Nazionale Palestinese (ANP), imporre una nuova amministrazione palestinese da essa guidata a Gaza, eventualmente sotto il controllo di una missione araba capeggiata dai sauditi, i quali avrebbero accettato una riconciliazione con Israele in cambio di un accordo di sicurezza con gli USA e della creazione, in prospettiva, di uno Stato palestinese demilitarizzato, e sotto ogni aspetto fittizio.
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Guerra e pace. Intervista a Carlo Rovelli
Luca Busca intervista Carlo Rovelli
Carlo Rovelli è un fisico, un professore, un instancabile ricercatore e un fine pensatore. È divenuto famoso nel mondo come divulgatore scientifico grazie ad una serie di libri, tradotti in quarantadue lingue, in grado di spiegare gli arcani della meccanica quantistica anche a tutti coloro che, come il sottoscritto, non sanno neanche di non sapere.
Il suo ultimo libro, “Lo sapevo, qui, sopra il fiume Hao” edito da Solferino, è invece una raccolta di articoli in cui vengono riassunti i grandi temi che caratterizzano il suo pensiero: la Pace, con le sue implicazioni sociali e politiche, e la Scienza, o meglio la Scienza pura, il suo settore di ricerca e di studio con le relative connessioni filosofiche, e le scienze applicate.
Questa intervista si concentra in particolar modo sul pensiero politico di Rovelli e sulle inevitabili riflessioni sul difficile momento che l’essere umano sta attraversando. Perso come è tra guerre, crisi ambientale e disuguaglianze mai raggiunte prima.
* * * *
In un'intervista rilasciata a Piazza Pulita il 9 marzo scorso parlando della guerra in Ucraina, lei ha affermato che la Comunità Internazionale Occidentale racconta una storia in cui il resto del mondo, che costituisce la stragrande maggioranza, non crede più. Quello che vede il resto del mondo è l’Occidente che prevarica per mezzo del dominio militare e non più con quello economico. In quest’ottica come valuta il nuovo conflitto israelo-palestinese?
C.R.: Il conflitto fra Israele e Palestina mette bene in luce la disparità di vedute in corso. Una vasta maggioranza globale giudica criminale e immorale l’attuale comportamento dello stato israeliano, anche quando condanna passate azioni di Hamas. Basta leggere la stampa non occidentale, o contare i voti all’assemblea delle Nazioni Uniti, dove le condanne per Israele sono continue, e non diventano politica ufficiale dell’ONU solo perché gli Stati Uniti, in barba alla democrazia, pongono continuamente il veto.
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La deriva dell’Occidente nell’intervista di Tucker Carlson a Vladimir Putin
di Giacomo Gabellini
Oggi, a mezzanotte (ora italiana; 18.00 a Washington, 2.00 di notte a Mosca), verrà diffusa l’intervista rilasciata nei giorni scorsi dal presidente russo Vladimir Putin a Tucker Carlson, popolarissimo giornalista licenziato mesi addietro da «Fox News» per via della sua incontrollabilità. La conversazione andrà in onda simultaneamente sul sito di Carlson e su Twitter/X, in seguito alla promessa strappata dal noto conduttore a Elon Musk, proprietario del social network, di non interrompere né censurare in alcun modo la trasmissione.
Che il noto conduttore si trovasse in Russia per questioni di lavoro era evidente, vista l’imponenza della squadra di tecnici e dell’equipaggiamento che aveva portato con sé, ma che si fosse recato a Mosca per intervistare un personaggio del calibro di Putin era tutt’altro che scontato, sia in virtù dell’elevatissima conflittualità internazionale tra Occidente e Russia, sia per le potenziali ripercussioni su Carlson stesso. Il quale è stato puntualmente bollato come “traditore” dall’ex deputato repubblicano Adam Kinzinger, e bersagliato dagli strali più o meno sarcastici di Bill Kristol, redattore della pubblicazione «The Bulwark» secondo cui «avremmo forse bisogno di un blocco totale e completo del rientro di Tucker Carlson negli Stati Uniti finché i dirigenti del nostro Paese non capiranno cosa sta succedendo».
Guy Verhofstadt, già primo ministro belga, ex presidente del Consiglio Europeo e attuale capogruppo dei Liberali al Parlamento Europeo, ha addirittura invocato l’intervento dell’Unione Europea, esortandola a valutare l’imposizione di restrizioni sui viaggi nel “vecchio continente” nei confronti di Carlson, definito come «un portavoce di Donald Trump e di Putin», sulla base della seguente argomentazione:
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Il Sud Africa e il dovere di prevenire il genocidio
di Stefano Bellucci*
Se le parole hanno un senso, gli stati non sono i governi e le nazioni non sono gli stati. Israele è uno stato ma la nazione israeliana non è il governo che guida il suo stato. Le accuse del Sud Africa al governo israeliano non sono un atto contro gli ebrei o contro lo stato di Israele, che anch’essi non sono la stessa cosa. La richiesta del governo del Sud Africa alla Corte internazionale di giustizia di adottare misure cautelari nei confronti di Israele affinché il suo governo non attui un genocidio a Gaza è stata accolta favorevolmente dalla Corte stessa.
L’ANC, razzismo e genocidio
Il procedimento per evitare un genocidio istituito dal governo del Sud Africa a guida African National Congress (ANC) è rivolto al governo di emergenza nazionale guidato da Benjamin Netanyahu e non contro gli ebrei, come afferma qualche scellerato. Proprio come Hamas non è il volto di tutto il popolo palestinese, il governo israeliano non riflette il volere di tutta la nazione, che comprende anche arabi, musulmani e cristiani, non ce lo dimentichiamo. Il governo d’emergenza israeliano, infatti, comprende tutta una serie di piccoli partiti espressione di una galassia di destre religiose invasate e pericolose per gli israeliani stessi oltre che per i palestinesi. L’opposizione di sinistra è piccola ma esiste in Israele ed è formata dai laburisti e dai comunisti di Hadash.
Il Sud Africa ha un governo guidato dall’ANC, il partito di Nelson Mandela, ovvero dell’africano più popolare del ventesimo secolo. L’ANC è un partito di sinistra, anche se lo è solo sul piano sociale e non più su quello economico, dato che dopo trent’anni al potere il Sud Africa è uno dei paesi africani con i più alti tassi di disuguaglianza e criminalità del continente.
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Lo scontro valutario dietro la guerra russo-ucraina
di Alessandro Bartoloni
Riceviamo e pubblichiamo uno scritto di Alessandro Bartoloni che alimenta il dibattito su un importante tema - le cause finanziarie e valutarie dietro il conflitto contro la Russia - affrontato con un pregevole lavoro scientifico dal titolo "Le radici valutarie del conflitto in Ucraina", edito dalla rivista "Materialismo Storico", che come l'AntiDiplomatico vi abbiamo riproposto la settimana scorsa. Degli stessi argomenti, il Prof. Giulio Palermo ha offerto un pregevole contributo in "Il conflitto russo-ucraino: l'imperialismo Usa alla conquista dell'UE" (LAD Edizioni 2022)
L’ispirazione per questo articolo mi è venuta dalla lettura del saggio del compagno, nonché professore, F. S. pubblicato su Materialismo Storico. Per spiegare la guerra in Ucraina, l’Autore adopera lo schema già utilizzato nel caso degli attacchi all’Iraq e alla Libia, rasi al suolo per aver osato mettere in discussione l’egemonia del dollaro nel commercio dei prodotti petroliferi. In sintesi, «quello russo-ucraino ci appare come l’ennesimo conflitto per interposta persona in cui, attraverso la NATO, il capitale legato al dollaro cerca di indebolire l’area valutaria legata allo yuan che, nel frattempo, sta crescendo economicamente in maniera straordinaria, contendendo esplicitamente l’egemonia sull’intero sistema di capitale».
Di fronte a una tale tesi mi sarei aspettato che la divisa cinese fosse cresciuta negli scambi internazionali di merci, negli investimenti diretti esteri e di portafoglio, nonché nei forzieri delle banche centrali quale valuta di riserva. Al contrario, i dati riportati sembrano suffragare che la guerra in corso non costituisce una conseguenza della potenza dell’area valutaria legata alla “moneta del popolo” (renminbi) bensì uno dei fattori che ne accelerano l’espansione. Come si vede dalla figura 1 tratta da un articolo di Bloomberg, prima della guerra l’importanza della valuta cinese è sì cresciuta, ma non così tanto da rappresentare un effettivo e imminente pericolo per l’egemonia del biglietto verde.
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Intervista Putin-Carlson: tutti i punti salienti sintetizzati
di La Redazione de l'AntiDiplomatico
La tanto attesa intervista di Tucker Carlson a Vladimir Putin è andata in onda nella mezzanotte italiana e nonostante i maldestri tentativi delle lobby mediatiche e politiche filo Nato di impedire la visione ai cittadini del mondo libero si sta diffondendo a una velocità incredibile.
Questi i principali temi toccati dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin.
Storia della Russia e dell’Ucraina
All'inizio dell'intervista, Putin ha fornito "una breve panoramica storica" della creazione e dello sviluppo della Russia e dell'Ucraina e delle loro relazioni. Ha detto che la Russia ha iniziato a formarsi come Stato centralizzato nell'862 e successivamente si è sviluppata come uno Stato con due centri: uno a Kiev e l'altro a Novgorod.
Dopo la frammentazione della Rus', iniziò a formarsi uno Stato centralizzato con capitale a Mosca, mentre i territori meridionali, che comprendevano Kiev, tendevano verso il centro dell'Europa, verso il Granducato di Lituania, che in seguito si unì al Regno di Polonia. “I polacchi esercitavano la loro influenza in questi territori meridionali e trattavano la popolazione con durezza”. Per questo motivo gli abitanti di queste terre iniziarono a lottare per i loro diritti e si rivolsero a Mosca per prenderli sotto il loro controllo. Nel corso della storia, i territori sulla riva sinistra del fiume Dnepr, compresa Kiev, divennero parte della Russia, mentre le terre sulla riva destra del Dnepr divennero parte dello Stato polacco. "Durante il regno di Caterina II, la Russia riconquistò tutte le sue terre storiche, comprese quelle a sud e a ovest", ha osservato Putin.
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Palestina: le responsabilità dell’Europa
Alba Vastano intervista Luisa Morgantini
Luisa Morgantini, una vita spesa per la pace e contro ogni violenza. Una compagna di cui si va fieri, conoscendo il suo lunghissimo impegno per la difesa dei diritti umani. Un impegno senza soste e senza indugi quello di Luisa, laddove e soprattutto c’è un’umanità deprivata dei basilari diritti per la sopravvivenza e per la dignità della persona. Diritti rinnegati da troppo tempo per i soprusi dei lorsignori del potere capitalista che regnano impavidi e impuniti in Occidente, complici dell’imperialismo Usa.
Con lei, nell’intervista che segue, ripercorriamo il lungo e doloroso calvario del popolo palestinese che a detta dei media e dei governi fascisti inizia il 7 ottobre con l’attacco di Hamas. Non è così. La storia di soprusi sul popolo palestinese risale agli albori del secolo scorso. E’ necessario fare un’opera di smaltimento severo delle fake news di cui si servono i media mainstream per generare consensi verso Israele, il cui leader Netanyahu è responsabile pienamente del genocidio che si sta perpetrando sul popolo palestinese.
Affermare che le responsabilità del conflitto in corso sono da addebitare unicamente all’attacco di Hamas, su cui di certo non volgiamo uno sguardo clemente, è rinnegare la storia precedente a quella data, facendo revisionismo tossico e strumentale, mirato a seppellire la verità.
* * * *
Alba Vastano: La tua vita da attivista dei diritti umani s’intreccia da molto tempo con la storia annosa dei soprusi sul popolo palestinese. Ci racconti il tuo excursus politico e le tue personali lotte, tramite le associazioni che presiedi, per il riconoscimento dello stato della Palestina?
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La disabilità del male
di Stefania Fusero
Un’illustre cittadina tedesca, ebrea polacca di nascita, scriveva all’inizio dell’anno 1917:
“Che cosa intendevi parlando delle sofferenze particolari degli ebrei? Sento altrettanto vicini gli sfruttati delle piantagioni di gomma a Putumayo o i neri dell’Africa con i cui cadaveri gli europei giocano a palla. Hai forse dimenticato le parole del capo di stato maggiore sulla spedizione von Trotha nel Kalahari? ‘E il rantolo dei moribondi, il grido impazzito degli assetati echeggiavano nel sublime silenzio dell’infinito.’ Ecco, questo ’sublime silenzio dell’infinito’, in cui echeggiano senza essere udite tante grida, risuona in me così forte che non mi resta nel cuore nemmeno un angolino riservato esclusivamente al ghetto. […]”.
Rosa Luxemburg in una lettera a Mathilde Wurm, 16 febbraio 1917
Durante il XIX e l’inizio del XX secolo, la Germania partecipò con gli altri Paesi europei alla brutale spartizione dell’Africa, colonizzando le terre che oggi chiamiamo Togo, Camerun, Burundi, Ruanda, Tanzania continentale e Namibia. La campagna fu particolarmente crudele in Namibia, dove nell’agosto del 1904 il generale von Trotha mise a punto un nuovo piano di battaglia per porre fine alla rivolta degli Herero. Nella battaglia di Waterberg diede l’ordine di accerchiare gli Herero su tre lati, in modo che l’unica via di fuga fosse verso l’arida steppa di Omaheke, propaggine occidentale del deserto del Kalahari. Gli Herero fuggirono nel deserto e von Trotha ordinò alle sue truppe di avvelenare i pochi pozzi d’acqua, di erigere posti di guardia lungo una linea di 150 miglia e di sparare a vista su ogni Herero, che si trattasse di uomo, donna o bambino. Molti morirono di disidratazione e di fame.
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L’arma segreta degli eurocrati. Nel suo 25° compleanno l’euro ha consegnato a loro la vittoria
di Thomas Fazi
Il fatto che la Germania sia caduta in disgrazia in questo processo, passando da egemone europeo incontrastato a vassallo americano in capo, è una delle grandi ironie dell’ultimo decennio
Il 1° gennaio, mentre l’Unione Europea inaugurava un altro anno di caos economico e di guerre non troppo lontane, nessuno era dell’umore giusto per festeggiare il 25° compleanno dell’euro. Nessuno, se non gli eurocrati.
Come sempre, i vertici dell’UE hanno sciorinato liriche sulla moneta unica, ma quest’anno le loro riflessioni sono sembrate più deliranti che mai. In un articolo pubblicato in tutta l’eurozona, i presidenti della Banca centrale europea, della Commissione, del Consiglio, dell’Eurogruppo e del Parlamento hanno elogiato l’euro per aver dato all’UE “stabilità”, “crescita”, “posti di lavoro”, “unità” e persino “maggiore sovranità”, e per essere stato un “successo” complessivo.
Questa autocelebrazione è comune tra gli eurocrati. Nel 2016, ad esempio, mentre l’Europa si stava ancora riprendendo dalle conseguenze disastrose della crisi dell’euro, Jean-Claude Juncker, allora Presidente della Commissione, affermò che l’euro porta “enormi” anche se “spesso invisibili benefici economici”. La dichiarazione di quest’anno, tuttavia, aveva un sapore particolarmente orwelliano. L’euro non ha portato nulla di tutto ciò all’Europa: oggi l’UE è più debole, più frammentata e meno “sovrana” di 25 anni fa.
Dal 2008, l’area dell’euro è essenzialmente stagnante e la sua crescita complessiva a lungo termine è stata negativa. Questo ha portato a una drammatica divergenza tra le sue fortune economiche e quelle degli Stati Uniti: depurata dalle differenze nel costo della vita, l’economia di questi ultimi era solo del 15% più grande di quella dell’area dell’euro nel 2008; oggi è del 31%.
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Perché l’intelligenza artificiale ha rilanciato il reddito universale di base
di Federico Nejrotti
Quella tra tecnologia, lavoro e profitto è un triangolo burrascoso che risale alla rivoluzione industriale, quando le macchine hanno iniziato a riconfigurare sistematicamente la relazione fra questi tre fattori.
Da allora, la tecnologia si è evoluta a enorme velocità facendoci passare dalla macchina a vapore a complicatissimi algoritmi in grado di migliorare automaticamente le loro capacità. Il comune denominatore di queste trasformazioni è sempre stato uno: la lotta senza quartiere per il valore generato da queste macchine.
La crescita dell’AI ha riproposto il dibattito sul Reddito di Base Universale
Da sempre, gli interessi economici hanno trainato lo sviluppo e l’implementazione delle tecnologie di automazione, e da sempre la società civile ha cercato di partecipare alla conversazione sulle politiche relative al loro uso.
Chi beneficia dell’introduzione di una tecnologia nel processo lavorativo? Come riconfigura i rapporti con la forza lavoro? Cosa faranno i lavoratori che verranno rimpiazzati? Sarà possibile formarli nuovamente? O questi sviluppi tecnologici sono il preludio di una spirale di precarizzazione sistemica?
Tutte queste domande (e molte, molte altre) giocano un ruolo politico decisivo nelle economie di tutto il mondo. L’opinione pubblica che si genera attorno a esse rappresenta un equilibrio fondamentale, e la stessa idea sulle capacità effettive di una tecnologia, su come si possa sviluppare e come sia in grado di riconfigurare i rapporti di forza condiziona le scelte politiche, per cui diventa un tema delicato anche dal punto di vista propagandistico (come nel caso del cosiddetto AI doomerism).
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La convergenza impossibile. Pandemia, classe operaia e movimenti ecologisti
di Erasmo Sossich
Sono seduto a una lunga tavolata natalizia, circondato dal ramo materno dei miei familiari. Alla mia destra siede mio zio, il primogenito. Alla mia sinistra, a capotavola, mia zia, terza e ultima venuta, ormai oltre una cinquantina di anni fa. Mia madre, nata nel mezzo, sta all’altro capo del tavolo, e come molti altri familiari rimarrà sullo sfondo di questo racconto.
A questa tavola sta per verificarsi, per causa mia, un’accesa discussione.
Mio zio, da tempi non sospetti, cerca di sensibilizzare la famiglia, il pubblico, le aziende, gli anziani, le istituzioni e la società civile sul tema del cambiamento climatico. Lavora per un ente di ricerca, spesso in smart working, e ha potuto frequentare la Bocconi grazie agli sforzi dei genitori, immigrati meridionali in bilico tra la classe operaia e una borghesia piccola piccola, così piccola che il salario di mia nonna, per anni, è stato destinato interamente a sostenere il suo percorso formativo.
Mia zia, in tempi ben più sospetti, ha cominciato a sensibilizzare la famiglia, il pubblico, le aziende, gli anziani, le istituzioni e la società civile sul pericolo delle reti 5G, del vaccino, della digitalizzazione, del Nuovo Ordine Mondiale. Lavora come operatrice socio-sanitaria in un ospedale di Trieste dopo aver rinunciato a portare a termine un percorso di formazione professionale più qualificante segnato da diverse interruzioni e tortuosi nuovi inizi.
Il primo è parte dell’esecutivo nazionale della Rete per la decrescita in Italia, non ha profili social e da anni mi segnala i nuovi articoli pubblicati su riviste ambientaliste e decresciste.
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Il fascismo prima e dopo il fascismo
di Fabio Ciabatti
Alberto Toscano, Late Fascism: Race, Capitalism and the Politics of Crisis, Verso, London-New York 2023, € 22,36
Il fascismo contemporaneo può ancora rappresentare una concreta minaccia dal momento che si presenta privo di alcuni degli elementi essenziali che ne hanno determinato l’affermazione negli anni Venti e Trenta del secolo scorso? Senza un movimento di massa, una spinta utopistica per quanto pervertita e un incombente pericolo rivoluzionario cui contrapporsi, può di nuovo sovvertire l’ordine liberale e democratico?
In effetti, sostiene Alberto Toscano nel suo libro Late Fascism, le soluzioni elaborate dai movimenti di Mussolini e di Hitler appaiono “fuori tempo” dato il loro intimo legame con la crisi capitalistica successiva alla Prima guerra mondiale, con l’era del lavoro manuale di massa, della coscrizione universale maschile in vista della guerra totale e dell’imperialismo esplicitamente razzista. Possiamo allora dormire sonni sereni, fiduciosi nel carattere straordinario dei regimi fascisti?
Non proprio, sostiene sempre Toscano, perché il quadro cambia se abbandoniamo una concettualizzazione meramente analogica del fascismo. In altri termini, se lasciamo da parte l’idea che per parlare di questo fenomeno politico la cosa essenziale sia raffrontare gli epigoni contemporanei con il loro modello originale, stilando una sorta di checklist dei sintomi in grado di diagnosticare lo stato di avanzamento della malattia.
Abbandonare il piano analogico significa concepire il fascismo come un fenomeno di lunga durata e storicamente mutevole. Vuol dire intenderlo come una dinamica che precede la sua stessa denominazione, sempre strettamente legata ai prerequisiti della dominazione capitalistica, anch’essa diversificata nel tempo. Utilizzando la definizione di W. E. B. Du Bois, si può parlare di “controrivoluzione della proprietà”.
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Venezuela: il 2 di febbraio inizia il sogno bolivariano
di Geraldina Colotti
“Nel centenario della morte di Lenin, si può intendere, seguire e apprezzare lo sforzo per richiamare la storia, come maestra di lotta e di vita, che compie costantemente la rivoluzione bolivariana, e prima ancora la rivoluzione cubana.”
Se la storia non viene ridotta a museo, date e ricorrenze ricordano la lotta delle classi subalterne, che ne hanno costruito o subito i corsi e ricorsi. Se la storia non viene ridotta a parodia, celebrare momenti e figure che ne hanno interpretato il senso, anticipandone salti e rotture, aggiunge nuove pagine al libro del futuro. Innalza nuove bandiere.
Se la storia non viene consegnata ai tribunali o agli specialisti in complotti e dietrologie, come accade nella “civilissima” Europa, anche dalle sconfitte i giovani possono innalzare nuove bandiere.
È così che, nel centenario della morte di Lenin, si può intendere, seguire e apprezzare, lo sforzo per richiamare la storia, come maestra di lotta e di vita, che compie costantemente la rivoluzione bolivariana, e prima ancora la rivoluzione cubana, che si è inserita nel corso di quelle venute prima. È così che si può intendere, come ogni anno, l’omaggio a un febbraio punteggiato di rivolte, di orgoglio e di vittorie. Un omaggio non rituale, ma una guida per l’azione, un monito a non dimenticare il 2, il 4 e il 27 di febbraio.
Il calendario degli anni imporrebbe di leggerle al contrario, a partire da quel 27 febbraio del 1989 in cui dalla rivolta del Caracazo si levò il primo grido del popolo contro il neoliberismo, autoproclamatosi allora come unica via dopo la caduta del Muro di Berlino – che anticipava la fine dei 70 anni di grande paura provati dalla borghesia.
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Piano Mattei: cooperazione o neocolonialismo?
di Domenico Moro
Tra il 28 e il 29 gennaio si è tenuto a Roma il vertice Italia-Africa che ha visto la presenza di 25 tra capi di governo e di stato africani e che ha posto le basi del cosiddetto Piano Mattei. Tra le iniziative politiche promosse dal governo Meloni in questa prima fase della legislatura, il Piano Mattei ricopre un ruolo importante, in quanto mira a ritagliare un ruolo specifico e di primo piano all’Italia nel rapporto tra Ue e Africa. Infatti, il continente africano ricopre una importanza fondamentale per la sua ricchezza di materie prime e per la sua demografia. Infatti, l’Africa nei prossimi decenni registrerà una crescita demografica consistente a fronte del calo demografico che caratterizza e caratterizzerà anche in futuro i paesi avanzati del cosiddetto Occidente collettivo, in particolare l’Europa occidentale e il Giappone.
Sul rapporto tra l’Europa e l’Africa, però, pesa come un macigno l’eredità di cinque secoli di storia in cui l’Europa ha esercitato sul continente nero un ferreo dominio coloniale. Tale dominio si è mantenuto anche più di recente in una forma nuova, neocoloniale appunto, dopo che tra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo scorso i Paesi africani si erano liberati del dominio coloniale formale dei Paesi Europei, che era stato sostituito da una dipendenza diretta, sul piano economico, e indiretta, sul piano politico, da quelle stesse potenze ex coloniali, come ad esempio la Francia.
Per quanto riguarda l’Italia, l’iniziativa della Meloni si innesta in un Paese che è abituato a nascondere le parti scomode della sua storia sotto il tappeto.
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Per la critica del cibo in forma di merce
A proposito del pamphlet di Wolf Bukowski
di Afshin Kaveh
Si intitola La merce che ci mangia. Il cibo, il capitalismo e la doppia natura delle cose (Einaudi 2023, pp. 50, 2,99 euro) ed è l’ultimo libricino – purtroppo non disponibile in formato cartaceo ma edito esclusivamente in ebook – di Wolf Bukowski. L’autore ruota attorno al blog Giap della Wu Ming Foundation, è collaboratore della rivista Internazionale e in passato aveva già dedicato alcuni sforzi riflessivi al medesimo argomento, per esempio nei volumi Il grano e la malerba (Ortica Editrice 2012) e La danza delle mozzarelle (Edizioni Alegre 2015), oltre ad essersi impegnato nella critica alle narrazioni dell’organizzazione urbanistica del “decoro” nel libro La buona educazione degli oppressi (Edizioni Alegre 2018) di cui conservo un piacevole ricordo personale: la sua presentazione a Sassari nel 2020, immersi, alla sera, nella cornice di Piazza Santa Caterina ai piedi della scalinata della facciata della chiesa monumentale.
Da allora non mi sarei mai aspettato che, a distanza di pochi anni, mi sarebbe capitato tra le mani un testo come La merce che ci mangia, una breve ma intensa riflessione critica che prende avvio da una costruzione teorica profondamente diversa dalle precedenti stesure di Bukowski. L’autore, infatti, fin dalle prime battute si domanda: «il cibo è una merce?». Potrebbe sembrare un quesito di poco conto, di frivola importanza, soprattutto di fronte «alle navi cariche di cereali che attraversano gli oceani, alle grigie fabbriche di conserva che divorano pomodori, ma anche alle colorate corsie d’un ipermercato, tra le quali ci smarriremmo se i marchi, le etichette, non ci prendessero per mano», esempi che condurrebbero chiunque a rispondere affermativamente al quesito.
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La questione Taiwan, all’inizio del 2024
di Alberto Bradanini
In un incontro dell’American Enterprise Institute tenutosi il 2 novembre 2021 in Florida – alla presenza di personalità politiche del fronte trumpista, tra cui H. Brands, D. Blumenthal, G. Schmitt, M. Mazza, J. Bolton e altri – la destra repubblicana era giunta alla conclusione che la strategia cinese di riassorbimento dell’isola non ha nulla di eccentrico o ideologico. Persino un immaginario governo amico degli Stati Uniti metterebbe in cima all’agenda politica il recupero di Taiwan, territorio storicamente cinese, che però si scontra con la maggioranza dei taiwanesi, per ora contraria.
Per la dirigenza del paese, ça va sans dire, la via preferibile dovrebbe essere quella pacifica, consapevole che un ipotetico conflitto con Taiwan avrebbe pesanti riflessi sulla stabilità e la crescita economica, senza contare che le forze armate di Taipei (a prescindere dal possibile intervento americano) renderebbero assai costosa sotto ogni punto di vista un’ipotetica invasione dell’isola.
Le elezioni presidenziali tenutesi a Taiwan il 13 gennaio scorso hanno decretato la vittoria di Lai Ching-te (William Lai), vicepresidente uscente della Repubblica di Cina (è questa la denominazione ufficiale dell’isola). Lai, il cui insediamento è previsto per il 20 maggio, è oggi l’esponente di punta del Partito Democratico Progressista (DPP) che ha governato negli ultimi otto anni.
La presidente uscente, Tsai Ing-wen, prima donna a vincere le elezioni, per di più per due volte consecutive (2016 e 2020), si era dimessa da presidente del partito lo scorso autunno dopo la sconfitta alle elezioni amministrative. La Tsai non era comunque rieleggibile per limiti di mandato.
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Le radici valutarie del conflitto in Ucraina
di Francesco Schettino (Università della Campania L. Vanvitelli, Napoli/Caserta)
1. L’ultima grande crisi e la conflittualità valutaria
Anche il più grande sostenitore delle logiche dell’attuale modo di produzione, se mosso da onestà, non potrebbe negare che da almeno 25 anni il capitale mondiale, nella sua interezza, versa in uno stato di difficoltà, come mostrato dalla Figura 1, seguendo una tendenza ribassista già emersa almeno dalla fine degli anni sessanta, come avremo modo di spiegare più avanti.
Il denominatore comune di questa tendenza di medio-lungo periodo può essere individuato nell’eccesso patologico di sovrapproduzione1 che impedisce a tutto il valore prodotto di essere collocato adeguatamente o, in altre parole al plusvalore complessivo di tradursi in profitto a causa della limitatezza del mercato mondiale e della domanda pagante in grado di assorbire tale sistematico eccesso. In questo capitolo tenteremo di focalizzare il nostro campo di indagine sulle evoluzioni del ritmo di accumulazione delle ultime due decadi, ossia a partire dal biennio 2007/2008, periodo ricordato da molti come quello della “crisi finanziaria”. Già l’adozione diffusa di questa limitativa definizione, ormai ampiamente acquisita e sussunta, descrive adeguatamente la natura e l’entità del tentativo di nascondere le vere peculiarità della crisi emersa nel 2008 come epifenomeno di un problema che, come abbiamo già iniziato a vedere è più antico ed endemico al sistema.
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La Germania in crisi è il futuro dell’Europa
di Thomas Fazi
Le proteste degli agricoltori hanno messo in luce la debolezza di Berlino
Per gran parte dell’era Merkel, la Germania è stata un’isola di stabilità economica e politica in mezzo alle acque perennemente tempestose dell’Europa. Quei giorni, tuttavia, sembrano un lontano ricordo. L’Europa è ancora in crisi, ma ora la Germania ne è l’epicentro. È ancora una volta il malato d’Europa.
Le manifestazioni antigovernative sono rare in Germania. Così, quando a metà dicembre centinaia di agricoltori arrabbiati e i loro trattori sono scesi a Berlino per protestare contro il previsto taglio dei sussidi per il gasolio e delle agevolazioni fiscali per i veicoli agricoli nell’ambito di una nuova ondata di misure di austerità, è stato chiaro che c’era qualcosa in ballo. Il governo, evidentemente preoccupato, ha fatto immediatamente marcia indietro, annunciando che lo sconto sarebbe rimasto in vigore e che le sovvenzioni per il diesel sarebbero state eliminate gradualmente nell’arco di diversi anni, invece di essere abolite immediatamente. Gli agricoltori, tuttavia, hanno detto che non era abbastanza e hanno minacciato di intensificare le proteste a meno che il governo non si riservasse completamente i suoi piani.
E sono stati di parola: nelle settimane successive, migliaia di agricoltori hanno inscenato proteste di massa, non solo a Berlino ma in diverse città, bloccando persino le arterie autostradali e portando di fatto il Paese alla paralisi. Il governo, a sua volta, ha fatto ricorso a uno dei trucchi più vecchi ed efficaci del manuale politico: affermare che dietro le proteste c’era l’estrema destra, nel tentativo di delegittimare gli agricoltori e spaventare la gente. Ma questa volta non ha funzionato. Le proteste non solo sono continuate, ma sono cresciute e hanno attirato anche lavoratori di altri settori — pesca, logistica, ospitalità, trasporto su strada, supermercati — e comuni cittadini.
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Il primo giudice a Gaza
di Micaela Frulli
Con una storica ordinanza la CIG obbliga Israele a prendere tutte le misure necessarie per evitare un genocidio. Sebbene poco vincolante la decisione può innescare azioni politiche in sede ONU e dei singoli Stati, in attesa della sentenza definitiva
La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) con sede all’Aja è il massimo organo giudiziario delle Nazioni Unite, con competenza a dirimere le controversie tra Stati. Si tratta di un organo che fa parte delle Nazioni Unite, lo Statuto della CIG è allegato alla Carta dell’ONU e gli Stati lo sottoscrivono nel momento in cui aderiscono all’organizzazione, pur non accettando automaticamente la giurisdizione della Corte per ogni controversia che li riguarda. Il collegio è composto da 15 giudici, in rappresentanza di tutte le principali aree geografiche e culture giuridiche, che vengono eletti dall’Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. Le sentenze e le ordinanze emesse dalla CIG sono vincolanti per le parti in causa. È importante distinguere la CIG da un altro importante tribunale internazionale con sede all’Aja, la Corte penale internazionale, che esercita la propria giurisdizione nei confronti degli individui sospettati di avere compiuto crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione.
È proprio di fronte alla CIG che il 29 dicembre 2023 il Sudafrica ha citato in giudizio lo Stato di Israele per una serie di atti compiuti nel contesto delle operazioni militari condotte nella striscia di Gaza a seguito degli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023: tali atti infatti sono contestati come potenziali violazioni della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. Nella storia della CIG, ci sono state altre controversie tra Stati relativamente alla violazione della Convenzione sul genocidio. Due di questi casi sono ancora pendenti (Gambia c. Myanmar e Ucraina c. Russia) mentre, tra i casi meno recenti, il più importante è sicuramente quello che ha visto contrapposte la Bosnia-Erzegovina e la Serbia (all’epoca Serbia-Montenegro), nel quale la CIG nel 2007 ha condannato la Serbia per mancata prevenzione del genocidio di Srebrenica.
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Il silenzio dei dannati
di Chris Hedges – The Chris Hedges Report
Le nostre principali istituzioni umanitarie e civili, comprese le più importanti istituzioni mediche, si rifiutano di denunciare il genocidio di Israele a Gaza. Questo smaschera la loro ipocrisia e complicità
A Gaza non c’è più un sistema sanitario efficace. I neonati muoiono. Ai bambini vengono amputati gli arti senza anestesia. Migliaia di malati di cancro e di persone che hanno bisogno di dialisi non vengono curati. L’ultimo ospedale oncologico di Gaza ha cessato di funzionare. Si stima che 50.000 donne incinte non abbiano un luogo sicuro dove partorire. Vengono sottoposte a parti cesarei senza anestesia. I tassi di aborto spontaneo sono aumentati del 300% dall’inizio dell’assalto israeliano. I feriti muoiono dissanguati. Non ci sono servizi igienici né acqua pulita. Gli ospedali sono stati bombardati e bombardati. L’ospedale Nasser, uno degli ultimi funzionanti a Gaza, è “prossimo al collasso“. Le cliniche e le ambulanze – 79 a Gaza e oltre 212 in Cisgiordania – sono state distrutte. Sono stati uccisi circa 400 medici, infermieri, operatori sanitari e operatori sanitari – più del totale di tutti gli operatori sanitari uccisi nei conflitti di tutto il mondo messi insieme dal 2016. Altri 100 sono stati detenuti, interrogati, picchiati e torturati o sono scomparsi ad opera dei soldati israeliani.
I soldati israeliani entrano abitualmente negli ospedali per effettuare evacuazioni forzate – mercoledì le truppe sono entrate nell’ospedale al-Amal di Khan Younis e hanno chiesto ai medici e ai palestinesi sfollati di andarsene – e per rastrellare i detenuti, compresi i feriti, i malati e il personale medico. Martedì, travestiti da operatori ospedalieri e civili, i soldati israeliani sono entrati nell’ospedale Ibn Sina di Jenin, in Cisgiordania, e hanno assassinato tre palestinesi mentre dormivano.
I tagli ai finanziamenti per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) – punizione collettiva per il preteso coinvolgimento nell’attacco del 7 ottobre di 12 dei 13.000 operatori dell’UNRWA – accelereranno l’orrore, trasformando gli attacchi, la fame, la mancanza di assistenza sanitaria e la diffusione di malattie infettive a Gaza in un’ondata di morte.
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La macchina della dipendenza
di Diego Viarengo
Lo smartphone è stato progettato per rubarci l'attenzione, e il tempo: esiste un modo per disintossicarsi?
“You don’t get cured”. In una battuta di The West Wing, scritta da Aaron Sorkin, c’è una lezione sulle dipendenze. Leo è il capo gabinetto del Presidente degli Stati Uniti, il personaggio che risolve problemi: affronta crisi di stato con incrollabile senso di giustizia, prima di fare colazione segnala al New York Times un errore nelle parole crociate e – in segreto – partecipa alle riunioni degli alcolisti anonimi. La cura non c’è. Le persone dipendenti sono in trattativa perenne con l’oggetto della loro dipendenza. Non si guarisce. Ci sono periodi di astinenza più o meno lunghi. È la situazione in cui ci troviamo con il nostro smartphone.
Scrive Juan Carlos De Martin nel libro-manifesto Contro lo smartphone (add, 2023): “lo smartphone è una macchina che è stata esplicitamente progettata, anche con l’apporto di neuroscienziati e di psicologi, per creare dipendenza”. Nel 2014 l’iPhone era più redditizio delle sigarette Marlboro, un prodotto incessantemente pubblicizzato che contiene una sostanza in grado di dare assuefazione fisica. Le applicazioni dello smartphone sono costruite per non essere abbandonate e, a differenza delle sostanze, si adattano alle modalità d’uso creando un percorso di rafforzamento basato sulle abitudini individuali, osserva lo psicologo Matthias Brand su Science, in un articolo sulla dipendenza da internet. Siamo dipendenti dal telefono e non c’è cura, solo periodi più o meno lunghi di astinenza.
Torno nelle aule in cui seguivo le lezioni all’università con più curiosità che nostalgia: sto andando al Laboratorio di disconnessione digitale, primo piano, aula 22, Palazzo Nuovo, Torino. È la terza sessione del seminario, si discutono le regole dell’esperimento di auto-etnografia condotto da Simone Natale, professore di storia e teoria dei media oltre che autore di Macchine ingannevoli (Einaudi, 2022).
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I kulaki di ieri e la tosse dei contadini di oggi
di Algamica*
Il giornale la Repubblica del 3 febbraio in un articolo di Massimo Giannini dedicato alla generalizzata e composita rivolta dei contadini europei titolava «le proteste degli agricoltori: il doppio schiaffo dei nuovi kulaki». L’uso spregiudicato del termine “kulako” per definire l’agricoltore in sommossa di questi giorni è suggestivo. Sappiamo che il termine origina dal “turco-tataro” e che divenne comune nel gergo popolare tra i russi delle campagne nel suo senso figurato di “arraffatore”. Questo sostantivo andò poi a definire quello strato sociale delle campagne che risultò dalla riforma agraria del 1906 nella Russia zarista e che prevedeva l’assegnazione delle terre ai contadini attraverso il pagamento in denaro. Un passaggio che si rendeva necessario per velocizzare l’accumulazione nella estesa campagna russa, che per una serie di circostanze storiche materiali arrivò in ritardo a sviluppare quei rapporti di mezzadria nonostante la riforma della servitù del 1861, che viceversa si era sviluppata in maniera più marcata nelle regioni più occidentali dell’odierna Ucraina, nelle quali già sotto il possedimento della Confederazione Polacco-Lituana e fin dal 1500 gli investitori di capitali e ricchi mercanti tedeschi, olandesi e francesi favorivano la produzione delle derrate agricole per l’esportazione nell’Europa continentale e dunque alimentando aspettative di maggiori guadagni. Un fattore materiale che andò a comporre il quadro generale della relazione storica conflittuale tra città e campagna, che sarebbe divenuto successivamente nella Russia bolscevica l’elemento sociale endogeno cavallo di troia del processo storico impersonale della penetrazione finanziaria dei paesi imperialisti occidentali e anche l’anello reale della aggressione militare contro la rivoluzione bolscevica, negli anni venti e in quelli a seguire.
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L'attualità della rivoluzione. Il Lenin del giovane Lukács
di Mario Tronti
A cent’anni dalla morte del grande rivoluzionario, un estratto di un testo inedito di Mario Tronti sul Lenin del giovane Lukács. Il saggio completo farà parte di «Che fare con Lenin? Appunti sull’attualità della rivoluzione», a cura di Andrea Rinaldi, con contributi di Guido Carpi, Rita di Leo, Maurizio Lazzarato, Damiano Palano, Gigi Roggero, di prossima pubblicazione per DeriveApprodi.
«Il politico è portato a proseguire sulla stessa strada che ha dato il via alla rivoluzione; il teorico della politica è capace di vedere la necessità di passare a una fase ulteriore, che in qualche misura smentisce anche i presupposti della Rivoluzione stessa».
* * * *
Il primo capitolo di Lenin. Teoria e prassi nella personalità del rivoluzionario porta il titolo «L’attualità della rivoluzione».
Quali sono gli elementi per cui una rivoluzione operaia di stampo marxista si può considerare attuale? Ci sono due condizioni che si devono incontrare, ma storicamente succede molto raramente: una crisi di sistema di fondo, che non si può più gestire, che non si può più risolvere, quindi un dato oggettivo che favorisce evidentemente l’iniziativa rivoluzionaria; una soggettività rivoluzionaria già pronta, che sta lì, già organizzata, pronta a cogliere il momento e portare a termine l’evento rivoluzionario. Quella di Lukács era l’epoca in cui queste due condizioni si erano incontrate proprio in Russia, paese sconfitto nella Seconda guerra mondiale e allo sbando, tra guerra e miseria. Lì era presente un nucleo bolscevico, un’organizzazione che aveva già attraversato un momento rivoluzionario – dal carattere cosiddetto «democratico», non ancora socialista – nel 1905, che vede l’occasione di sfruttare questa situazione di crisi.
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Cosa attendersi da Hamas1
di Alessandro Mantovani
Le voci di un imminente cessate il fuoco a Gaza e di uno scambio di prigionieri-ostaggi fra Hamas e Israele si rincorrono da giorni2 e, con le dichiarazioni di Londra e Washington di un possibile riconoscimento dello Stato palestinese, non si può escludere una prossima fine delle operazioni militari. Cosa avverrà dopo? Una parte di questa risposta si trova nella natura e nella storia dell’organizzazione che più delle altre ha lasciato il suo segno sullo storico attacco a Israele del 7 ottobre 2023: Hamas, che in arabo significa “zelo”, ed è l’acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (“Movimento di resistenza islamica”).
I Fratelli musulmani
Nel 1928 in Egitto, allora sotto mandato britannico, nasce un movimento islamista chiamato Fratellanza musulmana. Fondatore Hassan Al-Banna, il quale predica un ritorno all’Islam originario, non conseguibile senza fine del dominio straniero. Il rigorismo dei Fratelli musulmani respinge tanto il conservatorismo delle gerarchie quanto la secolarizzazione sul modello occidentale (per Al-Banna l’Islam contiene in sé la dimensione politica).
Inizialmente i “Fratelli” si limitano al terreno religioso e culturale. Presto Al-Banna realizza che per il suo progetto è necessario permeare la società. Si rivolge allora agli ulema, ai capi delle confraternite religiose, ai notabili, ai funzionari dello Stato, ma anche agli studenti, ai contadini, ai lavoratori. Mano mano che la “Fratellanza” cresce, e cresce rapidamente (siamo negli anni ‘20 del secolo scorso e l’Egitto è in ebollizione), essa non solo penetra nelle istituzioni caritative e di assistenza, bensì ne fonda e sviluppa una rete capillare. Prassi che diventerà il suo marchio distintivo. Dalla metà degli anni ‘30, pur non costituendo un partito, i Fratelli entrano anche nell’agone politico.
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Cento volte Lenin
di Gianmarco Pisa
Il contributo di Lenin, nella storia del movimento operaio e democratico, in tutta la sua profondità e attualità
Movimenti democratici, lotte partigiane, resistenze antifasciste e antiautoritarie, lotte di liberazione dei popoli, scalate al cielo rivoluzionarie, tutte devono qualcosa a Lenin, ai contenuti dei suoi scritti, alle iniziative della sua direzione politica, alle realizzazioni dell’esperienza sovietica.
Tra i più grandi, se non il più grande, dei prosecutori e innovatori del pensiero dei fondatori, Karl Marx e Friedrich Engels, Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov: Simbirsk, 1870 – Gorki, Mosca, 1924) ha fornito un impulso formidabile, essenziale, allo sviluppo del marxismo e, in generale, del pensiero e della prassi del movimento operaio, e ha rappresentato un’ispirazione luminosa, prospettica, per generazioni di comunisti, partigiani, rivoluzionari, per l’oggi e per il domani, letteralmente ai quattro angoli del pianeta.
Organizzatore della frazione bolscevica in seno al marxismo russo; principale protagonista dell’Ottobre rosso, la vittoriosa rivoluzione d’Ottobre del 1917; capo del primo governo della Russia sovietica, il primo compiuto Stato socialista della storia, e poi, dal 1922, dell’Unione sovietica; teorico e costruttore della democrazia consiliare attraverso il sistema dei Soviet, della programmazione economica, della Nuova Politica Economica, delle grandi conquiste sociali da lui inaugurate e quindi proseguite dalla successiva direzione politica dell’Unione sovietica; e ancora, ispiratore della moderna teoria dell’imperialismo e teorico del moderno diritto dei popoli all’autodeterminazione, è impossibile sintetizzare grandezza e attualità del contributo di Lenin, sul piano politico e filosofico, alla storia e al pensiero del movimento operaio.
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