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Educazione neotelevisiva
Formazione mediatizzata dei cittadini ed egemonia televisiva negli anni 80 e oggi
di Federico Repetto
Il problema
“La televisiùn la g’ha una forsa de leùn… la televisiùn la t’endormenta cume un cuiùn” – cantava Jannacci agli albori della neotelevisione. Nel 1999 Mario Morcellini, studioso dei media e dell’educazione, invece avrebbe pubblicato, in polemica con vari pedagogisti e psicologi, un volumetto dal titolo provocatorio: La televisione fa bene ai bambini. La questione oggi può parere superata, come la stessa televisione generalista “calata dall’alto”: alla fine –a causa soprattutto dei canali tematici e di Internet- anche in Italia sono sostanzialmente diminuiti quanti la considerano piatto unico della loro dieta mediatica. Ma per capire il nostro presente –la situazione attuale della nostra cultura popolare- la questione televisiva resta molto importante. Tanto più che la pubblicità, che è diventata un fenomeno sociale veramente pervasivo da noi a partire dai tempi del boom delle tivù private, lo è a ancora oggi e si è prontamente trasferita nei nuovi media, mettendo sotto assedio anche quelli vecchi (si pensi alla pubblicità per telefono) e avvolgendoci letteralmente perfino sui mezzi di trasporto (ci sono autobus e treni la cui carrozzeria è fasciata dalla pubblicità anche all’esterno, finestrini compresi).
Per questo è importante comprendere il ruolo della neotelevisione commerciale egemonizzata dalla pubblicità nella formazione dei cittadini all’epoca della nascita della cosiddetta “Seconda Repubblica”.
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Gli orfani di Nizza
di Joe Vannelli
Proprio quando avevo terminato la lettura del saggio pubblicato presso DeriveApprodi da Peppe Allegri e Papi Bronzini (Libertà e lavoro dopo il Jobs Act. Per un garantismo sociale oltre la subordinazione) mi sono imbattuto in una sentenza del Tribunale di Potenza che merita menzione e commento.
La motivazione è stringata. Sostiene il Giudice del Lavoro, dottoressa Isabella Tedone, che non esiste nel lavoro autonomo alcuna presunzione di onerosità della prestazione richiamando un (per la verità solo preteso) precedente di Cassazione in tal senso (2769/2014, basta scorrerla in motivazione per capire che in realtà parla d’altro). Pacifico, comunque, che il nostro fosse un collaboratore non subordinato e che avesse fornito ad un quotidiano on line (La Nuova del Sud) una serie numerosa di servizi giornalistici, nell’arco di un biennio, mai retribuiti. Ma il Giudice nega l’esistenza di un diritto al pagamento, chiarendo le ragioni che avevano rafforzato tale convincimento: all’epoca dei fatti il ricorrente aveva trent’anni e, come noto, nel settore in questione è tutt’altro che infrequente, magari nelle more del conseguimento del titolo di pubblicista, che il giornalista si presti a consentire, anche gratuitamente, la pubblicazione dei propri articoli, anche solo allo scopo di acquisire notorietà ed esperienza. Per rivendicare un compenso non basta, secondo il Tribunale di Potenza, dimostrare lo svolgimento di attività lavorativa in favore di un’impresa operante nel settore della comunicazione; il collaboratore autonomo deve farsi carico di provare anche un accordo con chi utilizza le sue prestazioni circa la retribuzione pattuita. In conclusione il povero cococo non ha preso un centesimo ed ha pure pagato tremila euro di spese processuali.
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Gramsci e la “Rivoluzione in Occidente”
di Renato Caputo
Nato 125 anni fa, Gramsci è il pensatore italiano più letto e studiato al mondo dopo Machiavelli. Il suo pensiero è infatti ancora attuale per chi non intende limitarsi a comprendere la realtà, ma mira a trasformare radicalmente un mondo nel quale l’1% della popolazione si accaparra più ricchezze del 99%, in cui le 62 persone più ricche si appropriano di maggiori risorse del 50% più povero, ossia di 3,6 miliardi di persone
L’opera di Gramsci può essere interpretata come un trait d’union fra il marxismo della Terza Internazionale e i successivi sviluppi che ha avuto la riflessione marxista nel mondo occidentale. Gramsci, infatti, si pone il compito di tradurre il pensiero di Lenin, adattandolo alle peculiari condizioni delle società a capitalismo avanzato.
Antonio Gramsci nasce ad Ales (Cagliari) nel 1891. Terminate le scuole elementari, è costretto a lavorare, ma continua a studiare e, nonostante la difficile situazione economica della famiglia, riesce a iscriversi all’Università di Torino. Sono anni molto duri per la condizione di povertà, l’isolamento e un grave esaurimento nervoso.
Rimessosi, si iscrive al Partito Socialista e decide di lasciare l’università per dedicarsi all’attività pubblicistica sui giornali del partito. Il crescente impegno politico non lo porta ad abbandonare gli interessi culturali: diventato direttore di un piccolo settimanale di propaganda di partito, “Il grido del popolo”, lo trasforma in una rivista di cultura. In seguito fonda «Ordine Nuovo», di cui è direttore. La rivista ha un ruolo di direzione nel movimento dei consigli, durante l’occupazione delle fabbriche del 1920. La sconfitta del movimento, scarsamente appoggiato dal Partito Socialista, porta Gramsci a seguire Amedeo Bordiga nella costruzione del Partito Comunista d’Italia (1921).
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Pierre Dardot e Christian Laval, Del Comune
di Antonino Infranca
Come ogni buon libro di filosofia, anche Del Comune parte dalla etimologia della parola. Munus in latino è “dono”; da munus viene mutuum, che indica la “reciprocità” (cfr. p. 22). Aggiungo io che risalendo all’indoeuropeo si scopre che mit, da cui proviene mutuum, indica “mettere un limite (mi)tra due punti (t)”, “formare una coppia”, “alternare”, “unire”, “capire”, “comprendere”. D’altronde il greco μάθησις è apprendimento e μάθος è conoscenza. La congiunzione tedesca mit mantiene molti di questi significati o permette, unita a verbi o sostantivi, di dare il senso dell’unità o della comprensione; ancora in tedesco rimane una presenza del munus nel gemein, “comune”, ad evidenziare che anche le lingue germaniche mantengono la stessa radice indoeuropea del latino. Ritornando a Dardot e Laval, essi concludono rilevando che cum e munus formano la parole communis e, quindi: «Il termine “comune” è particolarmente adatto a designare il principio politico di una co-obbligazione per tutti coloro che sono impegnati in una stessa attività» (p. 22) e proprio in questo senso lo usava Kant. Se c’è una co-obbligazione, questa si fonda su una co-partecipazione, quindi il comune è compartecipazione, se non si partecipa insieme non si è obbligati. Nella Rivoluzione ungherese del 1956, i due autori, riprendendo una suggestione di Castoriadis, vedono la prima rivoluzione, cioè il superamento della divisione tra la politica professionalizzata, il Partito comunista ungherese, e la società civile (cfr. p. 70). In quei giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre 1956, la società civile ungherese instaurò una “politicizzazione universale della società”, che esercitava una democrazia diretta, fondata sulla vera eguaglianza politica, radicata in collettività concrete ed autogestite, i Consigli, o, per dirla in russo, i Soviet.
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Italia 2016: la speculazione sulla fame
di Pasquale Cicalese
«Vogliamo essere certi che il fondo abbia un fondamento stabile. Non siamo contrari, in linea di principio, ma è importante che si rispetti ogni passaggio per arrivarci. In primo luogo bisogna far convergere i diversi quadri legislativi dei Paesi, che influenzano enormemente sulla solvibilità di una banca e la solidità di un sistema bancario. Abbiamo bisogno di un diritto fallimentare unico. Inoltre dobbiamo rendere più solide le banche al livello nazionale, dunque adeguare il capitale delle banche alla presenza di bond sovrani». (Dombrert, Ecco le condizioni per il fondo europeo salva-risparmio. Intervista a Alfred Dombrert, Vice Presidente Bundesbank, Vice Presidente Vigilanza Bce, La Stampa 23 gennaio 2016).
“Di fondamentale rilievo la modifica al codice civile, nel quale, dopo l'art. 2929 è inserita la Sezione I-bis riguardante l'espropriazione di beni oggetto di vincoli d'indisponibilità o di alienazioni a titolo gratuito. In proposito, l'art. 2929-bis c.c. introduce una tutela rafforzata per il creditore in caso di pignoramento, grazie alla revocatoria semplificata. L'istituto introdotto dal d.l. in esame fa sì che il creditore ove si ritenga pregiudicato da una donazione, da un fondo patrimoniale, da un trust ovvero da un vincolo di destinazione in genere, possa iniziare l'esecuzione forzata indipendentemente dall'ottenimento di una sentenza dichiarativa d'inefficacia del trasferimento (cd. revocatoria)”. (www.altalex.com)
“Ma non dimentichiamo gli interventi importanti già fatti dal Governo per accelerare il recupero del credito. Perché alla fine il salto di qualità è proprio questo. Il recupero svelto è la condizione necessaria per lo smaltimento dei credit non performing, un veicolo ad hoc in grado di fare incontrare domanda e offerta sarebbe la classica ciliegina sulla torta”. (Giù le mani dalle banche italiane, Intervista a Carlo Messina, Amministratore delegato Intesa SanPaolo, MilanoFinanza 23 gennaio 2016).
***
Di questi tempi ti accorgi che ci vorrebbe Sbancor. Lui, che dall’ufficio studi della fu Capitalia seguiva i movimenti di capitale e scriveva note sugli indici borsistici. Peccato, sarebbe stato di fondamentale utilità di questi tempi.
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La “Questione d’Oriente”, l’”Infelicità araba” e il Daesh
di Fabio Alberti
“Oriente, questione d’ Complesso dei problemi politici internazionali aperti dalla progressiva decadenza dell’impero ottomano. La questione d’O. interessò le cancellerie europee dalla fine del sec. 17°, dopo la sconfitta dell’esercito turco a Vienna (1683). L’impero ottomano divenne oggetto delle ambizioni delle potenze occidentali.”(Dizionario di storia, Enciclopedia Treccani)
“L’infelicità araba ha questo di particolare: la provano quelli che altrove parrebbero risparmiati, e ha a che fare, più che con i dati, con le percezioni e con i sentimenti”. (Samir Kassir)
Il modo in cui funziona l’occhio umano dà luogo al quel fenomeno per il quale l’illuminazione di un oggetto impedisce la vista di ciò che vi sta intorno. E’ così che la luna nasconde il firmamento e che i fari dell’automobile impediscono di vedere ciò che sta ai lati della strada. Così vale anche per la cronaca, che nasconde la storia ed impedisce di comprendere i fatti. Per questo, prima di ricostruire i minuti, i giorni, o gli anni che precedono gli attentati di Parigi (e del Sinai, di Beirut, di Bamako, di Tunisi…) occorrerebbe volgere lo sguardo ai secoli che li precedono.
Verso la fine del 17° secolo quella vasta area geopolitica che va dal Maghreb all’Azerbaigian, dai Balcani allo Yemen[1], allora controllata dall’impero ottomano, comincia ad andare in crisi. Con la perdita di centralità nel commercio mondiale, dovuto all’apertura delle rotte marittime ed il ritardo tecnologico rispetto all’area europea, si avvia un declino economico che favorisce l’emergere di spinte centrifughe dal variegato mosaico di popoli che la componevano.
E’ da allora che tra le cancellerie europee si discute la “Questione d’Oriente” come modalità di spartizione delle sue future spoglie. Se ne parlerà già al Congresso di Vienna, a latere dei negoziati sul ripristino dell’ordine monarchico seguito all’avventura napoleonica, e terrà impegnate le cancellerie europee per tutto il XIX secolo.
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Che ne è dello Stato?
di Alfio Mastropaolo
Dal racconto del “racket originario” all’analisi del tentativo di governare il disordine da parte dei moderni regimi democratici, Mastropaolo si sofferma sui limiti di un’entità la cui autorità è senza sosta contesa e negoziata
Né monopolio, né ordine
Uscito di scena il marxismo, una questione è stata spesso trascurata. Lo Stato è un’istituzione di dominio, fatta di esseri umani in carne e ossa. Aiutano a riprenderla tre autorevoli scienziati sociali di estrazione tutt’altro che marxista: Charles Tilly, Norbert Elias e Pierre Bourdieu.
Punto di partenza ideale per rileggere questi tre autori è l’incipit a dir poco irriverente di Charles Tilly. «Se il racket costituisce la forma più raffinata di crimine organizzato, allora la minaccia della guerra e la costruzione degli Stati – classiche forme di racket col vantaggio della legittimità – costituiscono il più grande esempio possibile di crimine organizzato». Così esordisce, sulle orme dello stesso Weber e su quelle molto più antiche di Agostino d’Ippona, un brillante saggio contenuto in un volume che nel 1985 reinscriveva lo Stato nell’agenda di ricerca della political science d’oltre oceano, refrattaria, dai primi anni Cinquanta, alla parola e all’argomento.[1]
Raffigurare coloro che le scienze sociali chiamano gli State-builders come imprenditori violenti di successo, protesi a accumulare a spese d’altri ricchezze, territori, popolazione, prestigio, vendendo protezione da minacce da essi stessi suscitate, è molto realistico. Nessuno dei cosiddetti State-builders intendeva edificare lo Stato. Ancor meno nessuno tra loro aveva in mente che ciò che costruivano dovesse essere moderno, altro dalle forme preesistenti d’organizzazione e dominio politici.
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Orientarsi nel labirinto della lotta di classe
A proposito di un libro di Domenico Losurdo
Elena Maria Fabrizio
Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è stato il mondo che è rimasto colpito - e duramente colpito - dall’Occidente
A. Toynbee, Il mondo e l’Occidente
Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 387
L’assenza cronica di visioni globali della storia è il più grave colpo inflitto dall’umore postmoderno alla contemporaneità. Di questa assenza soffre anche certa cultura marxista, spesso retrocessa a visioni che hanno rimosso dall’orizzonte storico la portata universalistica del conflitto di classe, qualche volta ridotto a semplice stagione del più ampio processo moderno di emancipazione, qualche altra a progetto fallimentare di cui solo la tradizione liberal-riformista avrebbe saputo tesaurizzare gli aspetti propulsivi.
In questa situazione culturale e politica analizzare i processi storici attraverso la categoria della lotta di classe è un’operazione coraggiosa perché tocca questioni ideologiche e etico-politiche che dal crollo del comunismo sovietico è politicamente scorretto, se non scandaloso, evocare. La critica dell’ideologia però resiste, in uno studioso che ne è tra i più illustri e forse ortodossi rappresentanti e di cui ci sono noti i meticolosi controcanti all’edificante apologia di quella storia che l’Occidente proclama come progressiva e propria. Con questo libro, Losurdo riprende il filo di una ben nota narrazione che si vuole far passare per fallita o passé, ma che forse non si conosce ancora abbastanza. Ne scandaglia l’interna complessità e senza riduzionismi di sorta ci restituisce una visione globale della storia nella quale la lotta di classe riceve il ruolo di spinta che le spetta nel processo di emancipazione e costruzione di unità del genere umano.
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Rivoluzione industriale 4.0 e Medioevo insorgente
di Riccardo Achilli
Il dibattito sull’automazione ed i suoi effetti lavoristici e sociali sta avendo una rinascita, in corrispondenza con quella che sembra prospettarsi come una nuova rivoluzione tecnologica pervasiva, fatta essenzialmente di sviluppi nei settori della intelligenza artificiale, della produzione, uso e distribuzione sostenibile dell’energia, delle biotecnologie e della progettazione digitalizzata in 3D. Qualcuno chiama “Rivoluzione Industriale 4.0” questa ondata tecnologica imminente, che riconfigurerà completamente gli assetti produttivi, occupazionali, sociali e politici del mondo.
Naturalmente non mancano i cantori dell’ottimismo, appositamente convocati per preparare il campo a questi sconvolgimenti che saranno, per chi dovrà viverne la fase di transizione (cioè noi) devastanti non meno di quelli che hanno accompagnato la prima Rivoluzione industriale. Nel campo della green economy, si va da chi, come Jeremy Rifkin, immagina un futuro di “produzione democratica” di energia da parte di autoproduttori individuali proudhoniani, che si scambiano energia fra loro in una rete in cui nessuno può assumere una posizione oligopolistica, all’idea che l’innovazione tecnologica in materia energetica possa risolvere il riscaldamento globale (quando probabilmente il problema è quello, da un lato, di preparare le contromisure nei confronti di un fenomeno già in atto e non reversibile, e dall’altro di preoccuparsi di problemi ambientali altrettanto se non più gravi, come l’eccessiva impronta idrica ed alimentare).
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Che dirò ai miei studenti nel giorno della memoria?
Franco Berardi Bifo
Dopo la guerra che Israele scatenò contro la popolazione di Gaza nel 2008, Stefano Nahmad (la cui famiglia subì le persecuzioni naziste) scrisse queste parole: «hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame […] li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».
La guerra che Israele conduce contro il popolo palestinese non è finita, non finisce mai. Continua ogni giorno, e ogni giorno uccide, distrugge, depreda. Negli ultimi mesi è esplosa una povera Intifada, chiamata l’Intifada dei coltelli. Si manifesta con azioni suicidarie compiute da uomini donne, anziani e giovani che il razzismo quotidiano del gruppo dirigente di Israele ha reso a tal punto disperati da cercare la morte per strada, nel tentativo generalmente fallimentare di accoltellare uno dei superarmati agenti dell’esercito di Israele.
Come ogni anno si avvicina il giorno della Memoria, e come ogni anno mi preparo a parlarne con gli studenti della scuola in cui insegno. Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri. È un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo. Qualche anno fa, in occasione di questa ricorrenza, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato.
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Aspettare l’Alba?
Viaggio nella crisi. Parte IX
di Ascanio Bernardeschi
Quali possono essere gli interlocutori internazionali di un'alternativa al capitalismo? Dopo aver esaminato i paesi cosiddetti Brics, giungendo a conclusioni problematiche e non definitive, parliamo – con viva preoccupazione – dell'Alleanza Bolivariana per le Americhe (Alba) che negli ultimi anni si è opposta alla supremazia Usa nel continente latinoamericano
Un po' di storia
La quasi totalità dei paesi dell'America latina è integrata in vario grado nel Mercato Comune dell'America Latina, Mercosur, (per approfondimenti v. sotto Rif. 1) istituito nel 1991. Ancora più ampia è l'Unione delle Nazioni Sudamericane, Unasur (per approfondimenti v. sotto Rif. 2), che costituisce una comunità non solo economica ma anche politica.
Tradizionalmente l'America Latina costituiva il “cortile di casa” degli Usa ai quali sono legati Canada e Messico, attraverso l'Accordo nordamericano per il libero scambio, Nafta (per approfondimenti v. sotto Rif. 3), accordo che venne subito contestato dall'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale della regione del Chiapas (Ezln), perché molto favorevole agli USA.
Includendo le maggiori economie nordamericane, il livello degli scambi all'interno del Nafta è nettamente superiore a quello del Mercosur (vedi grafico n. 1). Ma il livello di integrazione delle economie latinoamericane tra di loro e con la Cina è andato crescendo negli ultimi anni.
Per consolidare la propria egemonia nell'area, gli Stati Uniti, ai tempi di George W. Bush, proposero la costituzione dell'Area di Libero Commercio delle Americhe, Alca (per approfondimenti v. sotto Rif. 4), ma nel 2004, con l'ascesa al potere di Hugo Chàvez in Venezuela, si realizzò un asse tra quel paese e Cuba, quale primo impianto di un disegno alternativo a quello statunitense.
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Alcuni appunti sulla riproduzione sociale*
di Alisa Del Re
Attraverso alcuni “appunti” vorrei connettere la necessità di riformulare e chiarire il concetto di riproduzione sociale degli individui associandolo alla necessità di produrre nelle città dello spazio comune perché questo si possa realizzare. Pensare ad uno spazio veramente pubblico e veramente relazionale in cui si possa attivare una visione di genere dei rapporti sociali, associando i saperi “alti” alle pratiche di resistenza sperimentate nella crisi
1) Cosa si intende per “riproduzione sociale”? La riproduzione degli individui è sociale perché comandata o controllata, in un continuo scivolamento tra pubblico e privato.
Intendo parlare della riproduzione degli individui in una società data. Riproduzione sociale contrapposta a individuale, pubblica contrapposta a privata, comandata e sottoposta a regole piuttosto che libera nelle scelte, produttrice di solitudini e frustrazioni al posto di gioiose cooperazioni.
Nelle società occidentali1 la riproduzione degli individui è sottoposta ad un’oscillazione costante tra il sociale e il privato, con il sociale che si presenta sotto forma di comando diretto, organizzato da leggi, dalla spesa pubblica, da costumi, da regole morali, che appiattiscono i desideri e un privato volgarmente idealizzato come spazio di libertà, ma che si svela essere nella gran parte dei casi abbandono, miseria, frustrazione, impotenza, solitudine.
La forma sociale della riproduzione degli individui non è solo il welfare (che nella fase fordista ha funzionato come controllo sulla riproduzione della forza lavoro e oggi è solo l’ombra di una spesa statale ormai ridotta a poca cosa) ma è anche l’insieme delle visioni che le società hanno del rapporto sociale tra i sessi e dello sviluppo, della crescita e della formazione delle persone.
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Le nuove servitù e il lavoro intellettuale
di Carlo Formenti
Quella che segue è la trascrizione dell'intervento tenuto nello scorso aprile a Pistoia all'interno del seminario "La cultura di massa dall'emancipazione all'alienazione". Sui numeri 182-183 e 184 abbiamo pubblicato le altre relazioni
In poco più di trent'anni, dall'inizio degli anni ottanta a oggi, le conquiste di secoli di lotta delle classi subordinate - salari, condizioni di lavoro e di vita dignitose, diritto all'assistenza sanitaria, e alla pensione, ampliamento degli spazi democratici - sono stati spazzati via senza incontrare praticamente resistenza. Voi vivete letteralmente in un altro mondo, rispetto a quello in cui è vissuta la mia generazione.
Forse vi può essere utile apprendere qualche cenno biografico su chi vi sta parlando per aiutarvi a capire. Ho sessantasette anni, non ho visto la guerra, ma ho vissuto altre grandi mutazioni. Quando insegnavo all'università di Lecce, ora sono in pensione, iniziavo sempre il corso con questa breve nota autobiografica, perché sono convinto che non esista alcun sapere, alcuna conoscenza, anche quelle che si pretendono scientifiche, che non sia situata. Parliamo sempre da un punto di vista: appartenenza di genere, di classe, appartenenza a un'epoca storica e alla sua cultura, eccetera... E quindi il mio punto di vista - per quanto io possa essere dotato di autoconsapevolezza critica, capacità di auto-distanziamento o di autoironia - è determinato da tutti questi fattori.
L'età ve l'ho già detta. Ho fatto diversi mestieri perché ho sempre avuto l'abitudine - quando non mi sentivo più a mio agio in un determinato ruolo - di cambiare vita, buttando via quello che oggi si chiama il mio "capitale sociale" per ricominciare da zero. Mio padre era un artigiano di origini contadine nato nel 1903, quindi ha fatto in tempo a vedere la ritirata di Caporetto, i disertori che venivano accolti nei fienili dai contadini del suo paese e, quando venivano trovati dai carabinieri, fucilati sul posto.
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Riprendiamoci il lato oscuro della forza
di Fabio Ciabatti
Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, traduzione e cura di Laura Boella, Mimesis, 2015, pp. 482, € 32,00.
In un’epoca dominata rassegnazione e passioni tristi può essere di grande utilità recuperare il pensiero di Ernest Bloch, un autore che rivendica al marxismo la forza dell’utopia concreta, della speranza e della fantasia, anche nelle loro dimensioni apparentemente anacronistiche, oscure e irrazionali. Tra il serio e il faceto potremmo dire che Bloch, preso atto della potenza del lato oscuro della forza, ci esorta a sottrarre il suo potere al nemico, convinto che si possano diradare le tenebre solo percorrendo fino in fondo il sentiero oscuro senza rimanerne dominati e consumati, checché ne pensino il maestro Joda e tutti gli altri cavalieri Jedi.
Non può che fare piacere, dunque, la ripubblicazione di Eredità di questo tempo, libro dato alle stampe a Zurigo nel 1935, ora disponibile per il pubblico italiano con una nuova introduzione e una nuova traduzione a cura di Laura Boella, traduttrice e curatrice anche della prima edizione italiana del 1992 (uscita con il titolo Eredità del nostro tempo).
In questa recensione ci concentreremo soprattutto sul concetto di non contemporaneità che Bloch utilizza per analizzare il nazismo, ma che può essere utilmente impiegato per comprendere alcuni fenomeni contemporanei come il fondamentalismo e i movimenti sociali sudamericani. Non sorprenda il riferimento a due fenomeni dalle valenze politiche opposte: secondo Bloch, infatti, la capacità o meno di occupare il territorio della non contemporaneità può dare luogo a esiti politici completamente differenti.
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Il continente delle piccole patrie
Marco Bascetta
L’indipendentismo ha assunto i tratti dell’autodeterminazione dei popoli o, all’opposto, quelli xenofobi e populisti. Ma viene altresì declinato, nella prospettiva dell’autogoverno delle risorse, come mezzo per rilanciare il welfare state e per definire in senso democratico i rapporti tra stati a livello europeo
Nel più prossimo futuro dell’Unione europea, la questione delle autonomie, o delle indipendenze, sembra destinata a occupare una posizione centrale e decisamente complicata. Nel senso che non riguarderà più solamente il rapporto tra le regioni che rivendicano l’autonomia e lo stato nazionale da cui aspirano a separarsi, ma porrà problemi politici di carattere generale tali da investire l’assetto stesso dell’Unione. La quale, nei suoi trattati e nelle sue politiche, ha completamente eluso la questione, adottando implicitamente quella posizione che nel diritto internazionale è raccomandata come principio di «non ingerenza». Insomma, soprattutto dopo l’esito delle elezioni catalane e spagnole, le indipendenze non potranno più restare affare esclusivo dei catalani, dei baschi, degli scozzesi o dei corsi, ma lo diventano di tutti gli europei e dell’idea di democrazia che vorranno affermare.
Oligarchie regionali
Converrà, tuttavia, definire chiaramente una premessa. Chi non ama, come chi scrive, gli stati nazionali, non può certo vedere di buon occhio la loro moltiplicazione. Ciò che è accaduto dopo il 1989 non ha fatto che confermare questa decisa avversione.
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Tesi sulle radici del male
di Anselm Jappe
1. Il sistema capitalista è entrato in una grave crisi. Non si tratta di una crisi ciclica ma di una crisi terminale, non nel senso di un collasso istantaneo bensì come un processo che segna la fine di un sistema plurisecolare. Non si tratta di profetizzare un evento futuro, ma di constatare un processo che ha cominciato a rendersi visibile all'inizio degli anni 1970 e le cui radici risalgono all'origine stessa del capitalismo.
2. Non stiamo assistendo ad una transizione verso un altro regime di accumulazione (come avvenne con il fordismo) o a nuove tecnologie (come avvenne con l'automobile), né tanto meno allo spostamento del centro del sistema verso altre regioni del mondo, ma all'esaurimento di ciò che è la fonte stessa del capitalismo: la trasformazione del lavoro in valore.
3. Le categorie fondamentali del capitalismo, così come sono state analizzate da Karl Marx nella sua critica dell'economia politica, sono il lavoro astratto ed il valore, la merce ed il denaro, che si riassumono nel concetto di "feticismo della merce".
4. Una critica morale, basata sulla denuncia della "avidità" di alcuni individui o gruppi, perderebbe di vista ciò che è essenziale.
5. Non si tratta di definirsi marxisti o post-marxisti, né di interpretare l'opera di Marx o di completarla per mezzo di altri contributi teorici.
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Antonio Gramsci e la concezione del partito comunista
di Andrea Catone
Questo 95° anniversario della fondazione del Pcdi a Livorno cade in un momento particolare, in cui i comunisti in Italia si cimentano nuovamente con l’impresa “grande e terribile” di ricostruire in Italia un partito comunista “degno di questo nome”. Impresa grande e terribile perché i comunisti, che hanno contribuito in modo determinante a scrivere la storia d’Italia nel ‘900 – dalla Resistenza antifascista alla stesura della Carta costituzionale, alle lotte politiche e sociali del secondo dopoguerra condotte lungo il filo rosso della strategia della “democrazia progressiva” – sono oggi ridotti ai minimi termini, dispersi e frammentati in piccoli rivoli. Eredi di una storia gloriosa, ma anche di errori teorici e di pratiche politiche rovinose, dovuti in gran parte a subalternità ideologica e politica alle classi dominanti e ai loro partiti di riferimento, ci proponiamo di consegnare alle nuove generazioni uno strumento – il partito comunista – che riteniamo, oggi come ieri, indispensabile per resistere al capitalismo finanziario e all’imperialismo sempre più aggressivi, e accumulare forze per la trasformazione rivoluzionaria della società.
Impresa resa ancor più difficile dal fatto che oggi è abbastanza diffusa anche nella cultura di “sinistra” la messa in discussione del partito politico tout court, in quanto tale. Questo attacco alla “partitocrazia”, apparentemente anarchico e libertario, è funzionale allo stadio oggi raggiunto dal dominio del capitale finanziario, che privilegia una società “liquida”, il più possibile atomizzata e incapace di esprimere strutture e corpi organizzati, resistenti e duraturi, alla quale far pervenire messaggi dall’alto, senza il filtro e l’elaborazione di un organismo critico e strutturato.
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In nome del popolo lontano
di Luca Baiada
Una democrazia già fragile, uscita incrinata dalla guerra fredda e entrata fiacca nella globalizzazione, adesso rischia il peggio.
La legge elettorale truffaldina del 2005 – proprio uno dei suoi confezionatori la chiamò «porcata» – è stata spazzata via dalla Corte costituzionale, ma ecco che la maggioranza parlamentare eletta proprio con quelle norme, una maggioranza che a sua volta si regge su un voto minoritario, su una parte della magra fetta dell’elettorato che è andata a votare, vuole cambiare di nuovo proprio la legge elettorale, e senza seguire i principi dettati dalla stessa Corte costituzionale.
Un governo sostenuto dalla fiducia di pochi spinge una modifica della Costituzione che riduce la partecipazione democratica. Propongono un ibrido furbo, un esile guscio di rappresentanza popolare con una polpa oscura: due camere, ma solo una è elettiva, benché figlia di un voto distante dalla partecipazione della cittadinanza. L’altra si chiama ancora Senato, ma i componenti non sono più elettivi; vengono individuati dagli enti locali, sulla base di logiche che in questo momento non sono esplicitate, ma che fanno indovinare basse manovre e stretti interessi delle segreterie di partito, o delle segreterie senza neppure un partito.
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Crisi dell'Unione Europea: il «fronte italiano» è ormai aperto
di Leonardo Mazzei
A proposito della crisi bancaria, del conflitto Renzi-Juncker e del gigantesco scontro di interessi in atto. In coda un breve commento sulle dichiarazioni di Draghi
«Le banche vengano dunque salvate (evitando il bail-in e mandando a quel paese l'UE), ma nello stesso tempo nazionalizzate»
Rassicurare. L'ordine di giornata è questo, e non potrebbe essere altrimenti. Crollano i valori borsistici delle banche italiane? Per Renzi e Padoan il sistema bancario italiano è il più solido d'Europa. Il Monte dei Paschi di Siena (Mps) perde oltre il 50% della propria capitalizzazione dall'inizio dell'anno? La soluzione "arriverà dal mercato", dice il presidente del consiglio in una mega intervista (prima, seconda e terza pagina) sul Sole 24 Ore di stamane.
Rassicurano ovviamente i banchieri - e cos'altro dovrebbero fare! -, rassicurano gli speculatori professionali (uno su tutti: il "leopoldino" Davide Serra: “ci pensiamo noi”) e rassicura perfino la Bce: la lettera alle banche sulle sofferenze? Una comunicazione di routine di ben poca rilevanza... Strano era sembrato a tutti il contrario...
Ma mentre lorsignori "rassicurano", segno evidente che non hanno al momento idee chiare sul da farsi, sarà bene fare mente locale sui cosiddetti "fondamentali". Oggi, come prevedibile, le borse europee hanno realizzato il più classico dei rimbalzi, e naturalmente chi più aveva perso nei giorni scorsi (vedi Mps e Carige) più è “rimbalzato”, senza però recuperare le perdite precedenti. Ma le borse sono solo un sintomo di una malattia che ha ben altre cause. E che richiederebbe ben altre medicine, esattamente quelle che non si trovano nelle farmacie del sistema neoliberista.
Cerchiamo perciò di risalire ai "fondamentali" per tentare di capire, pur tra tante incertezze, come potrà svilupparsi la situazione. Per farlo bisognerà però tener conto che i "fondamentali" non sono soltanto quelli di natura economica, ma pure quelli di matrice politica.
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Lo sgombero della politica
di Militant
Il minacciato sgombero di Esc, a cui diamo comunque la nostra solidarietà, non può certo definirsi un fulmine a ciel sereno. È invece l’ennesimo tassello di una stagione segnata dal commissariamento della politica. Il problema non è la difesa di questo o quel centro sociale, sebbene ovviamente necessaria (come Esc, si trovano sotto sgombero il Corto Circuito, Casale Falchetti, l’Auro e Marco, mentre per la Casa della Pace e Degage già si è provveduto in estate; per non parlare delle decine di occupazioni abitative perennemente in bilico). Il problema è che non è possibile alcuna resistenza “militare” che non passi per un riequilibrio dei rapporti di forza politici. Oggi questi sono al punto zero. Se Prefetto o Commissario decidessero di sgomberare tutto, la resistenza che potremmo mettere in campo sarebbe, in tutta onestà, ininfluente. Per ripartire dovremmo allora capire perché oggi la nostra capacità d’influenza politica è azzerata. È questa la domanda che ci pone la minaccia di Tronca: non “come faremo a resistere”, ma: come siamo arrivati a questo punto?
Anche perché, alla prima domanda, non c’è risposta: in queste condizioni non si può resistere. Questo non vuol dire arrendersi, chiaramente, ma dovremmo operare un salto di sincerità almeno fra compagni: immaginare una nostra capacità di invertire la rotta confrontandoci militarmente con il potere, come se fosse l’uso della forza la discriminante capace di fermare la volontà di pacificazione, significherebbe raccontarci una favola che ha davvero fatto il suo tempo.
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Democrazia cercasi
di Carla Maria Fabiani
Stefano G. Azzarà, Dalla caduta del muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra, bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia, Imprimatur editore, Reggio Emilia 2014
Vogliamo presentare il testo di Azzarà sintetizzandolo con alcune parole chiave, che certo non esauriscono l'analisi assai accurata e al tempo stesso spietata che l'Autore restituisce in merito alla crisi culturale e politica che investe l'Italia ormai da tempo, almeno dagli anni Novanta, ancora oggi decisamente in corso. Una crisi che paradossalmente sprovincializza il nostro paese - per ragioni legate innanzitutto alle relazioni economiche e geopolitiche globalizzate che lo investono - rendendo l'Italia quasi un paradigma, soprattutto nelle sue manifestazioni patologiche. Il testo di Azzarà andrebbe letto nelle aule scolastiche (oltre che universitarie, s'intende) nell'ora di educazione civica, oggi derubricata a mezz'oretta di cittadinanza e costituzione strappata alle ore - assai ridotte anch'esse - di storia. Perché è un quadro completo di riferimenti culturali e politici della storia italiana più recente. Ma è anche un attacco frontale senza mezzi termini alle responsabilità oggettive che hanno coinvolto la sinistra, di opposizione e di governo, comunque la si voglia considerare, nell'aggravamento di una sconfitta che risulta adesso molto complicato recuperare. Impossibile da recuperare? Qui la prospettiva è radicalmente realistica, se non pessimistica.
Meritevole di segnalazione poi è la bibliografia: una mappa di interpretazioni, letture filosofiche e non solo, della più recente storia culturale italiana e internazionale. Per chi volesse approfondire il tema del postmoderno ad esempio, qui c'è pressoché tutto, spesso anche commentato in nota a piè di pagina nel testo. Una sorta di guida allo studio. Ma veniamo al contenuto tematico. In sintesi.
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L’identità della sinistra come patologia politica
Andrea Zhok
1. Anamnesi
Il tema della perduta, fragile, confusa e smarrita identità della sinistra italiana rappresenta da tempo un luogo comune, del pensiero politico non meno che della satira. L’afasia politica del funzionario del PCI Michele Apicella in Palombella Rossa (1989) è attuale oggi quanto un quarto di secolo fa.
Per ribadire tale condizione patologica, divenuta oramai seconda natura, possiamo ricordare la recente riunione, tenutasi quasi clandestinamente tra i quattro partiti/movimenti che oggi si muovono alla sinistra del PD (Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, i civatiani di Possibile e SEL). Questi gruppi, riunitisi il 14 dicembre scorso per ‘trovare una sintesi’ in vista delle prossime elezioni amministrative, nella migliore tradizione della sinistra italiana non sono giunti ad alcun accordo. E per apprezzare appieno lo spirito tragicomico di questo fallimento è utile ricordare che questi quattro gruppi non rappresentano neppure la totalità del panorama politico alla sinistra del PD: andrebbero infatti aggiunti diversi gruppi a tutt’oggi non disciolti, anche se dallo statuto ontologico incerto, come i Verdi, l’Italia dei Valori, l’Altra Europa con Tsipras, e gli arancioni (De Magistris).
Tutto ciò ha un aspetto ovviamente comico, ma ha anche un lato tragico ben visibile se si pensa a cosa ciò significhi in termini di domanda politica priva di riferimenti credibili.
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L’esercito europeo di riserva
di Agenor
Le grandi strategie sono sempre composte da una sequenza di piccole iniziative e il quadro finale diventa visibile solo quando tutti i singoli pezzi del puzzle sono stati inseriti al posto giusto. La divisione in singole iniziative permette di focalizzare le discussioni su aspetti minori, senza sottoporre la grande strategia al vaglio dell’opinione pubblica o del dibattito parlamentare. Le grandi strategie sovranazionali, poi, hanno anche il vantaggio di limitare il dibattito oltre che alle singole misure anche a specifiche questioni locali, interne ai singoli paesi. Il disegno strategico di fondo non può essere contestato perché non è reso esplicito, non è sottoposto a dibattito e supera i confini delle competenze nazionali. Esso rimane quindi perfettamente al riparo dal processo democratico.
Uno di questi grandi disegni strategici che si sta realizzando in questi anni è la trasformazione dello stato sociale e del mercato del lavoro in Europa. Il cambio di paradigma fu dichiarato vent’anni fa dall’OCSE: passare dall’attivismo dello stato in economia per promuovere la piena “occupazione” alle politiche liberiste e mercantiliste per promuovere la piena “occupabilità”. Destra e sinistra in tutti i paesi si sono egualmente spese senza grandi distinzioni, in Italia come in Europa, per applicare il nuovo paradigma. Come tutte le grandi strategie, anche questa è composta da una sequenza di misure specifiche e ha un preciso modello di riferimento.
Il primo punto è il contenimento dei salari. È fondamentale che livello dei salari sia basso per mantenere competitivo il sistema produttivo.
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Finanza globale e politiche monetarie
Un azzardo morale?
Mauro Magatti
1. È oramai largamente condivisa l'idea secondo cui se dal 2008 ad oggi – negli USA prima e più di recente nella UE – le cose non sono andate troppo male è grazie alle politiche monetarie super-espansive – che ancora qualche anno fa venivano chiamate "non convenzionali". Politiche che hanno permesso di respirare a economie anemiche.
In effetti, l' obiettivo fondamentale di tale intervento è stato quello di ricostituire un livello minimo di fiducia al di sotto del quale le imprese non investono, i consumatori non spendono, le banche non prestano. Da questo punto di vista, quanto hanno fatto le autorità monetarie in questi ultimi anni è stato fondamentale, anche se non esente da rischi. Il problema è che, come i critici hanno sostenuto, la sovraesposizione finanziaria dell'economia globale dal 2008 ad oggi non solo non si è ridotta, ma è addirittura aumentata. Il che significa che quello che Keynes chiamava il "feticcio della liquidità" – e cioè la patologia dei mercati finanziari interessati solo ai rendimenti di breve periodo – è tutt'altro che debellato: in un sistema globale in cui fluttuano enormi quantità finanziarie, ritrovare un sentiero di crescita è molto difficile dato che vi sono contemporaneamente problemi di distribuzione del reddito, di disallocazione delle risorse e di instabilità cronica.
Quel che è chiaro è che la fiducia costruita solo sull'azione della Banche centrali non basta. Le politiche espansive adottate dalla FED (e più di recente della BCE) vanno intese solo come un modo per guadagnare tempo. Il tempo necessario alla politica e alla società per far ripartire l'economia reale e delineare un nuovo modello di crescita.
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Narcisismo e feticismo della merce
Qualche osservazione a partire da Cartesio, Kant e Marx
di Anselm Jappe
Feticismo della merce e narcisismo: è intorno a questi due concetti, ed alle loro conseguenze, che si articola questo testo. Il suo retroterra teorico è dato dalla critica del valore, del lavoro astratto, del denaro e del feticismo della merce, così come è stata sviluppata soprattutto da Robert Kurz e dalle riviste Krisis ed Exit!, in Germania, e da Moishe Postone, negli Stati Uniti, dopo la fine degli anni 1980.
Feticismo della merce, è un concetto introdotto da Karl Marx nel primo capitolo del Capitale. Lo si è spesso voluto intendere come una forma di falsa coscienza, o di una semplice mistificazione. Tuttavia, un'analisi più approfondita [*1] dimostra che si tratta di una forma di esistenza sociale totale che si situa a monte di ogni separazione fra riproduzione materiale e fattori mentali: essa determina le forme stesse del pensiero e dell'agire. Il feticismo della merce condivide questi tratti con altre forme di feticismo, come la coscienza religiosa. Potrebbe così essere caratterizzato come una forma a priori.
Il concetto di forma a priori evoca evidentemente la filosofia di Immanuel Kant. Tuttavia, lo schema formale che precede ogni esperienza concreta e che a sua volta la modella, che è qui in questione, non è affatto ontologico, come lo è in Kant, ma storico e soggetto ad evoluzione.
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