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lavoro culturale

Basaglia tra le righe: per un’analisi del lavoro cognitivo

di Maurizio Busacca

Pubblichiamo un estratto da “Lavoro totale. Il precariato cognitivo nell’età dell’auto imprenditorialità e della Social Innovation” di Maurizio Busacca (CheFare / Doppiozero)

15491717 Industry cooperation and partnershipLavoro – Improduttività e i loro doppi

L’analisi che viene proposta in questo lavoro si fonda principalmente sulla produzione culturale, politica e tecnica di Franco Basaglia e Franca Ongaro perché la loro risposta operativa al governo della follia li rende soggetti e oggetti ideali dell’analisi che mi propongo di svolgere sui processi di soggettivizzazione dei knowledge workers nell’ambito della dialettica Lavoro totaleImproduttività malata.

La vocazione personale e il desiderio di esprimere il proprio talento spingono i lavoratori a costruire processi di identizzazione complessi, che rimescolano tra loro passioni, diritti e aspettative fino a rendere frastagliati i confini delle tradizionali sfere di definizione sociale. È proprio in seno alla volontà di autorealizzazione che si apre lo spazio soggettivo, e ambivalente, del lavoro cognitivo: da un lato spazio di auto-realizzazione, dall’altro spazio di umiliazione del lavoro (Chicchi, 2014). Il lavoro cognitivo mette così all’opera soggettività per la produzione di soggettività (Masiero, 2014) attraverso pratiche discorsive e non discorsive che generano comportamenti psichici di nuovo tipo (Dardot-Lavall, 2009) e analizzabili mediante la serie di “attrezzi” che Basaglia e Ongaro hanno utilizzato per tentare di comprendere la psicologia del colonizzato e la carriera sociale del malato.

Fin dalle sue origini il lavoro di Basaglia e Ongaro è fortemente influenzato dal lavoro sulla carriera sociale del malato e l’etichettamento di malattia di Goffman (1961). In Che cos’è la psichiatria? (Basaglia, 1967) è già esplicita l’opposizione tra “un’interpretazione ideologica della malattia … ottenuta attraverso l’incasellamento dei diversi sintomi in uno schema sindromico precostituito” e “l’approccio al malato mentale” e alle sue contingenze di carriera (Goffman, 1961). Per Basaglia “Una comunità che vuol essere terapeutica deve tener conto di questa duplice realtà – la malattia e la stigmatizzazione – per poter ricostruire gradualmente il volto del malato così come doveva essere prima che la società, con i suoi numerosi atti di esclusione, e l’istituto da lei inventato, agissero su di lui con la loro forza negativa”. Nel lavoro di Basaglia e Ongaro la malattia non viene mai negata (Basaglia, 1968) ma viene messa tra parentesi per concentrarsi sul malato e smascherare così il doppio della malattia come costruzione sociale e istituzionale (Basaglia, 1971a e 1971b). Nel racconto dell’esperienza goriziana[1] (Basaglia, 1979) emerge chiaramente come lo svuotamento dell’istituzione manicomiale sia stata la persecuzione dell’obiettivo di “eliminare il manicomio e di sostituirlo con un’organizzazione molto più agile, per poter affrontare la malattia dove essa si produceva, dove nasceva”, cioè la società stessa. Di fronte ad un tale dispositivo di governo “il malato si trova a vivere la sua malattia come qualcosa di estraneo alla vita, per affrontare il quale deve affidarsi alla “scienza” diventando tutto malato. Il che gli impedisce di vivere la malattia come un’esperienza personale che non spezzi il continuum della vita e alla quale potrebbe soggettivamente partecipare con l’aiuto della scienza” (Basaglia, 1982).

Fin dall’origine dell’analisi sulle istituzioni totali il tema del lavoro viene posto al centro di un articolato insieme di pratiche che sono al tempo stesso analitiche e operative (Goffman, 1961). Se la malattia come doppio è sociale nella sua individuazione ed etichettamento lo è anche nella sua gestione come forma di promozione del benessere, che è messa in sicurezza del fenomeno, attivazione di pratiche tecniche di cura e governo dell’improduttività che è prima di tutto lavoro non produttivo. Sul piano della tecnica psichiatrica, per Basaglia e Ongaro il lavoro non deve avere una funzione riempitiva ma deve assumere un “valore terapeutico, come occasione di incontri, di rapporti interpersonali spontanei e come stimolo all’attuazione di una spontaneità creativa distrutta” (Basaglia, 1971a). Ma da loro il lavoro non è analizzato solo nella sua funzione terapeutica, è messo al centro anche del suo rapporto con la salute a partire dalla constatazione che la divisione del lavoro è un elemento fondamentale per capire le condizioni di chi lavora (Basaglia, 1979) e di chi non lavora, io aggiungerei. La questione del lavoro, allora, diventa una questione politica e ciò richiede di prendere coscienza di questi meccanismi, analizzarli e capirli malgrado la tendenza all’accettazione acritica e “c’è quindi un fondamentale significato politico nella nostra azione, che va oltre la divisione del lavoro fra tecnica e politica”. Nel lavoro si costruisce allora una dialettica tra ideologia e pratica, nella quale i tecnici iniziano a riconoscere il loro ruolo di commessi e funzionari del gruppo dominante: “Nel momento in cui ci si accingeva a costruire qualcosa che tenesse conto dei bisogni e dei diritti di tutti i cittadini, ci si riscontrava con la realtà della lotta di classe e con la conferma della divisione del lavoro che manteneva intatti i ruoli e le regole del gioco” (Basaglia, 1971b).

Basaglia e Ongaro incontrano lungo il proprio percorso gli studi postcoloniali e in modo particolare gli studi sulla psicologia del colonizzato[2]. Il processo di colonizzazione viene analizzato come processo di governo e quindi di potere che soggettivizza gli individui, i quali per liberarsi devono necessariamente lottare per il cambiamento: “In un certo senso, viviamo in una società che sembra un manicomio e siamo dentro questo manicomio, internati che lottano per la libertà. Ma non possiamo sperare nei liberatori, perché se speriamo in loro saremo ancora una volta imprigionati e oppressi. E’ la stessa storia dell’operaio che non può sperare che la direzione del sindacato lo liberi. E’ lui stesso che deve lottare e dare ai dirigenti del sindacato gli elementi per liberarlo. E’ questa la nostra funzione di leader in una società in cambiamento. Dobbiamo capire insieme con gli altri quello che dobbiamo fare e non dirigere gli altri in un modo o nell’altro, perché facendo così saremmo noi stessi nuovi padroni” (Basaglia, 1979).

La costruzione di una diversa soggettività del malato così come del lavoratore, allora, non può che passare attraverso una prima fase di disvelamento delle dinamiche di potere che vengono instaurate su di lui e una seconda fase di conflitto per rivendicare i pieni diritti per la sua soggettività. Il rapporto tra alterità (come sragione), malattia e lavoro è al centro di una riflessione sulle cause di esclusione del folle già in Che cos’è la pischiatria?, dove si esplicita che “il nostro sistema sociale – ben lontano dall’essere un regime economico di pieno impiego – non può essere interessato alla riabilitazione del malato mentale che non potrebbe essere recepito da una società, dove non è risolto il problema del lavoro dei suoi membri sani”. In realtà è lo stesso Basaglia (1969) che pochi anni più tardi coglie la limitatezza di questa analisi in relazione ad un sistema che non si accontenta più di internare gli improduttivi ma si spinge a mettere a valore anche la loro stessa improduttività attraverso una ramificazione sociale del welfare. Questo passaggio è centrale per cogliere la caratteristica del neoliberismo come dispositivo di produzione e cura della malattia attraverso processi di soggettivizzazione del lavoratore[3]. Per Basaglia è il gioco delle contraddizioni che continua a rompere una situazione che altrimenti potrebbe facilmente portare ad una cristallizzazione dei ruoli (Basaglia, 1971a). Ma questo per il neoliberismo, sistema che si nutre proprio di alterità conflittuale, è inaccettabile e allora, nel suo manifestare una conflittualità originaria tra normalità e follia, rende inaccettabile la sragione.

Uso quindi la lente del doppio per analizzare il rapporto dialettico Lavorototale-Improduttivitàmalata proprio perché fenomeno e doppio che nella loro dicotomia sono struttura primaria del modello di sviluppo contemporaneo e ne diventano così potenziali rivelatori delle sue contraddizioni e deformazioni. Secondo i parametri pratico-ideologici contemporanei il Lavorototale, all’opposto dell’Improduttvitàmalata, è non-malato perché conduce a quella crescita e a quello sviluppo fondamentali per il benessere collettivo e la realizzazione individuale. Gli stessi lavoratori cognitivi producono questa nuova organizzazione del lavoro come dimostrato dal fatto che la continuità lavorativa e la regolarità nei pagamenti prevalgono su tutte le altre “richieste” di sostegno e tutela rispetto alla condizione occupazionale[4]. Al tempo stesso, però, le politiche per l’adattabilità, la formazione continua e nuovi servizi di welfare aziendale non possono non apparire come gli strumenti di cura di un lavoro malato che va curato perché, in quanto spazio di un forte investimento e attaccamento personale all’esperienza produttiva, è intimamente connesso alla salute dei soggetti che lo producono.

Finora il lavoro cognitivo è stato ampiamente indagato lungo le dimensioni dell’incertezza, delle competenze e della creatività-innovazione per stratificare una categoria non omogenea di esseri umani. Questi approcci ci aiutano a fotografare la condizione contingente del lavoro cognitivo ma ci aiutano meno a comprendere quali forze la stanno producendo e ancora meno quali direzioni stanno imboccando. È invece perlopiù trascurato, anche se continuamente citato, il tempo come spazio permeabile tra vita e lavoro. In questo lavoro, invece, il tempo è identificato come archè del lavoro cognitivo perché elemento fondamentale per favorire il processo di soggettivizzazione del lavoratore cognitivo. Il tempo dilatato e il conseguente lavoro gratuito sono cioè all’origine del dualismo Lavorototale-Improduttivitàmalata che fonda il capitalismo cognitivo nel neoliberismo, aiutandoci così a comprendere la portata e la rilevanza di quell’agitazione del fare che caratterizza il nostro tempo.

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Note
[1] Gorizia è la città nella quale Franco Basaglia inaugura il suo tumutltuoso rapporto con l’istituzione manicomiale diventandone direttore nel 1961.
[2] Nella formazione del pensiero dei due autori è fondamentale l’incontro con Frantz Fanon e in modo particolare con il suo I dannati della terra (1961), nel quale analizza il fenomeno della colonizzazione attraverso lo studio del processo di decolonizzazione.
[3] È interessante notare come il punto di osservazione di Basaglia e Ongaro sia sincronico rispetto al tessuto sociale e culturale nel quale il neoliberismo è sorto e si è affermato. Lo stesso concetto di flessibilità si è originato in seno ai movimenti sociali degli anni ’70 come espressione di un’esigenza di libertà dalla gerarchia e dalla disciplina del lavoro salariato (Chicchi, 2012). È anche questo aspetto sincronico che rende il lavoro di Basaglia e Ongaro un framework concettuale particolarmente interessante per analizzare l’impatto dei fenomeni neoliberali sulla condizione del lavoro immateriale: la loro critica istituzionale affonda le radici nello stesso libertarismo che il liberismo conduce poi verso direzioni differenti e opposte?
[4]Lavoro conoscenza sindacato. Una ricerca tra i lavoratori cognitivi” (pagina 62).

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