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Uccidere un popolo
di Chris Hedges per scheerpost.com
I decantati valori democratici, la moralità e il rispetto dei diritti umani, rivendicati da Israele e dagli USA, sono sempre stati una bugia. Il vero credo è questo: abbiamo tutto e se provi a togliercelo ti uccideremo
Quello che segue è il discorso principale che ho tenuto il 1° novembre alla conferenza, La fine dell’impero, presso l’Università della California di Santa Barbara [prima delle elezioni negli Stati Uniti]. La conferenza è stata organizzata dal professor Butch Ware, che era anche il candidato vicepresidente del Partito Verde. Gli amministratori dell’università hanno vietato la pubblicità anticipata del discorso sugli account dei social media dell’università.
* * * *
Trascrizione
Lo sterminio funziona. All’inizio. Questa è la terribile lezione della storia. Se Israele non viene fermato, e nessuna potenza esterna sembra disposta a fermare il genocidio a Gaza o la distruzione del Libano, raggiungerà i suoi obiettivi di spopolamento e annessione della parte settentrionale di Gaza.
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Damasco come Kabul. La fuga di Assad è il “capolavoro” di Hakan Fidan
di Gianandrea Gaiani
Il repentino crollo, quasi senza combattere, dell’esercito Arabo Siriano e l’altrettanti rapido collasso delle strutture di governo siriane, subito dichiaratesi pronte a cooperare con gli insorti, impongono di porsi molti interrogativi circa le origini, le cause e i mandanti del blitz che in una dozzina di giorni ha portato alla caduta del regime di Bashar Assad a Damasco.
Mancano molti elementi necessari a compiere analisi e valutazioni esaustive, altri sono vagamente intuibili dalle prime dichiarazioni e prese di posizione mentre alcuni aspetti sono palesemente evidenti in un contesto siriano in cui oggi non è possibile dare nulla per scontato.
Quello che è accaduto tra il 27 novembre e l’8 dicembre in Siria assomiglia molto a quanto accadde in Afghanistan nell’estate 2021, quando le milizie talebane avanzarono repentinamente in tutta il territorio nazionale mentre i reparti governativi gettavano le armi e i governatori regionali aprivano le sedi governative ai capi talebani. Solo in seguito emerse che dopo gli accordi di Doha e l’inizio del ritiro statunitense e degli altri alleati occidentali emissari talebani ben supportati, anche finanziariamente, dall’intelligence pakistana si assicurarono il supporto di tutte le autorità civili e militari solo teoricamente fedeli al presidente Ashraf Ghani.
Il sistema di potere caratterizzato da forte corruzione e la fuga di Ghani da Kabul negli Emirati Arabi Uniti, il 15 agosto 2021, aggiungono un ulteriore parallelismo tra le vicende afghane di tre anni or sono e quelle siriane di oggi, non ultimo le congratulazioni dei talebani al popolo e ai ribelli siriani con l’auspicio di “una transizione condotta secondo le aspirazioni del popolo siriano” oltre che nella fine delle ingerenze straniere.
Ghani fuggì ad Abu Dhabi, Bashar Assad ha raggiunto prima la base area russa di Hmeymin (Latakya) a bordo di un cargo russo Il-76 (che con ogni probabilità ha imbarcato anche familiari e i più stretti collaboratori) e successivamente la Russia dove sarebbero stati trasferiti la moglie e i figli già la scorsa settimana.
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Ordinare il caos
di Enrico Tomaselli
C’è un passaggio, nell’intervista rilasciata da Lavrov a Tucker Carlson, che mi ha colpito [1], ed è quando dice che gli Stati Uniti creano il caos e poi vedono come utilizzarlo. Effettivamente, e soprattutto a partire dalla caduta dell’URSS, la politica estera statunitense sembra assolutamente uniformata a questo principio base, creare il caos (nella più assoluta indifferenza per ciò che poi significa per milioni di persone), e solo successivamente porsi il problema di come trarne concretamente vantaggio. Naturalmente si potrebbe aprire un’ampia riflessione su ciò, sulle ragioni profonde che lo determinano, ma non è ovviamente questa la sede opportuna. Vale qui semplicemente il tenere a mente questa caratteristica della politica imperiale americana, poiché spesso si tende ad attribuirvi una progettualità strategica che semplicemente non c’è, laddove – appunto – c’è invece la convinzione che il caos sia sempre e comunque foriero di opportunità, e che in linea di massima avvantaggi sempre gli USA più che i suoi avversari.
Se guardiamo adesso a quanto sta accadendo in Siria, tenendo presente questo assunto, possiamo provare – in linea puramente teorica e astratta – a ordinare il caos, ovvero a cercare di identificare il senso degli avvenimenti.
La premessa necessaria (ma che non implica alcuna spiegazione complottista) è che negli accadimenti di questi giorni c’è, sotto molti aspetti, un margine di inspiegabile – o meglio, di non spiegato, non chiarito.
Guardando ai fatti in ordine cronologico, il primo gap è: come è stato possibile che l’intelligence di tre paesi (Russia, Iran e Siria) non abbia avuto alcuna contezza di ciò che si stava preparando nella provincia di Idlib? O ancora meglio, come è stato possibile che siano stati sottovalutati a tal punto i segnali che, sicuramente, erano stati rilevati? In questo – e sottolineo ancora una volta, senza alcun suggerimento complottista – c’è in fondo una certa similitudine con il 7 ottobre e l’operazione Al Aqsa Flood. Probabilmente un mix di sottovalutazione del nemico e sopravvalutazione di sé stessi.
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Per una teoria del conflitto: la nuova edizione del Capitale di Marx
di Francesco Ravelli
Tanto spesso, in questi ultimi anni, abbiamo affermato di essere di fronte a una nuova fase storica, nella quale le contraddizioni sistemiche sono in rapido sviluppo e in costante accrescimento: crisi del modo di produzione capitalistico, costante innalzamento della tensione bellica, genocidio del popolo palestinese, crisi ambientale, violenza sistemica (dallo sfruttamento di classe senza quartiere alla violenza di genere).
Davanti a questi processi, nei quali svolge un ruolo regressivo, un Occidente in crisi di egemonia cerca disperatamente di rilanciarsi a livello ideologico, rappresentando sé stesso come la civiltà più avanzata, un armonico «giardino» posto sotto assedio da parte della «giungla» (la barbarie, le autocrazie, i popoli passivi e arretrati).
In questo contesto, e proprio per la necessità di dare sostanza a un’ipotesi di fuoriuscita da questa crisi così grave e profonda e di combattere efficacemente le armi ideologiche dell’avversario, assumono una rinnovata centralità teorica e politica lo studio e l’elaborazione del marxismo, ossia di una visione del mondo ancora capace di spiegare i processi in atto e indicare una prospettiva alternativa di società.
Giunge dunque particolarmente opportuna la nuova edizione del testo fondativo, del pilastro fondamentale del marxismo, il primo libro de Il Capitale di Karl Marx, curata per Einaudi (nella prestigiosa collana I millenni) da Roberto Fineschi, che ha coordinato una squadra di traduttori composta da, oltre a sé stesso, anche da Stefano Breda, Gabriele Schimmenti e Giovanni Sgro’.
Questa edizione è frutto del lavoro aperto da decenni intorno ai testi marxiani nell’ambito del progetto della nuova edizione storico-critica delle opere di Marx e di Engels, la MEGA2 di cui Fineschi, studioso e compagno con cui abbiamo il piacere di collaborare da anni, è uno dei protagonisti.
Sulla fisionomia e sulle acquisizioni di questo lavoro filologico, che sta consentendo di portare alla luce nuovi testi e soprattutto di chiarire alcuni snodi fondamentali della riflessione di Marx, rimandiamo ai lavori di Roberto e intanto all’intervento di Francesco Ravelli, più sotto pubblicato, alla presentazione del Capitale tenuta il 21 novembre presso il circolo OST Barriera a Torino.
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Un Marx del ritorno al futuro
di Marco Bertorello
Kohei Saito individua la battaglia ecologista e quella egualitaria come necessarie a rendere l’ambientalismo socialmente sostenibile, ma fatica a individuare nella decrescita una prospettiva credibile
La crisi climatica è tema indubbiamente complesso, ma come suggerisce John Maeda occorre trovare un equilibrio tra complessità e semplicità attraverso una graduale riduzione della prima pur senza avere l’obiettivo di liberarsene. Se semplificare rischia di condurre alla semplificazione, l’eccesso di complessità, al contrario, fa scivolare verso l’inconcludenza, il disorientamento e di conseguenza l’inazione. Da qui la necessità di trovare un equilibrio tra le due polarità.
Fatta questa un po’ pedante precisazione provo a misurarmi con il tema a partire dall’ultimo testo del filosofo marxista giapponese Kohei Saito [Il Capitale nell’antropocene, Einaudi, 2024]. Un testo di un autore che, come dice Salvatore Cannavò in un’intervista [Saito Kohei: quell’ecologista di Marx, in «Millennium», novembre 2024], ha «il dono della chiarezza» e forse anche per questo sta diventando un fenomeno editoriale mondiale a partire dalle 500 mila copie vendute proprio in Giappone. Un numero esorbitante, un fenomeno editoriale che non è detto possa tradursi in cambiamenti concreti. Questo successo tuttavia suggerisce come i contenuti del testo abbiano intercettato un sentire comune grazie a un modo parzialmente inedito di fare critica alla contemporaneità, nonostante si parli di Marx, anticapitalismo, comunismo coniugato alla decrescita. Temi che se presi uno a uno non sono certo nuovi e che vengono considerati spinosi e controversi, anche in campo democratico-progressista e persino alternativo. Ma nel loro esser messi in relazione in modo eclettico recuperano una forza epistemologica.
Perché la decrescita?
Il cambiamento climatico, come affermava Ulrich Beck già dieci anni fa [Come il cambiamento climatico potrebbe cambiare il mondo, Castelvecchi, 2024], attraverso la forse infelice formula del «catastrofismo emancipatorio», potenzialmente contiene una spinta per porre «fine alla fine della politica», dando vita a una svolta cosmopolita che di fronte alle sfide globali metta al centro nuove «preoccupazioni pubbliche transnazionali».
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Quando la Terra diventò piatta
di Giovanni Iozzoli
Sembra passato un secolo, vero? I virologi onnipresenti a reti unificate. I grafici con l’andamento della mortalità. Le mascherine, gli elicotteri in spiaggia e i droni sui tetti dei palazzi. Il divieto di uscire di casa, ma l’obbligo sostanziale di andare a lavorare. Un tizio con aria solenne che si affaccia sulle reti tv e fa un elenco di cosa “è consentito”. Un paio d’anni di follia, ma anche di ardite sperimentazioni sociali e inedite tecniche di governance. In quella stagione Milano conobbe il più alto numero di manifestazioni consecutive, mai viste dopo il ’77. Quasi in tutta Italia si coagularono aggregati sociali (e social) nel cui caos poteva nuotare di tutto: nazisti e anarchici, fautori della Costituzione e complottisti estremi. Tutti uniti non da una visione comune – sui vaccini o sul mondo – ma da una diffidenza ostile e irredimibile verso “il potere” o una qualche sua rappresentazione immaginaria.
L’unica cosa che teneva davvero insieme quei mondi, era lo stigma – potentissimo e unanime – che veniva riversato su di essi dai media mainstream e dalle forze politiche. Come se una parte del paese fosse stata dichiarata fuori dal consesso civile. Non c’era programmino tv, dalla satira ai tg e perfino le trasmissioni sportive, in cui quelle persone non venissero impunemente insultate da giornalisti, esperti, soubrette e sottosegretari: terrapiattisti era l’epiteto più gentile. Chi di noi non aveva un parente o un collega o un vicino di casa “renitente” al vaccino o semplicemente ostile al green pass? Questa normale condizione critica venne trasformata in ostracismo civile. La massa informe e anonima dei renitenti non aveva diritto di replica. Solo con i “putiniani” si sarebbe riprodotto lo stesso scenario di conformismo di regime: chi non si fida, chi mostra dubbi, chi è riottoso – in quel caso rispetto alle politiche Nato – va bastonato e censurato. Perché la post-modernità (o quel che diavolo siamo) si fonda essenzialmente sulla fede, proprio come il Medioevo. Cambiano solo gli idoli e i profeti.
Che tutto quel travaglio sociale che spaccò le opinioni pubbliche occidentali, potesse semplicemente dissolversi senza lasciare tracce, era una pia illusione.
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Ucraina: l’Occidente e la strategia verso il precipizio
di Pino Cabras
Allora dobbiamo chiedercelo: perché l’Occidente collettivo ha scommesso così tanto – praticamente tutto – su un cavallo palesemente zoppo? Qualcuno risponda. Mainstream e gran parte dei governanti offrono sempre due risposte, per forza false
Le false narrazioni del conflitto
Nella guerra ucraina, finora combattuta con armi non nucleari, i rapporti di forza sul campo ci rivelavano fin dall’inizio un forte divario di mezzi e tecnologie in favore della Federazione Russa. Quella disparità non poteva che portare all’inevitabile sconfitta di Kiev, anche ipotizzando, come in effetti poi c’è stato, un enorme dispendio di mezzi economici e militari delle potenze occidentali per tenere in piedi il blocco ipernazionalista che aveva preso il potere nel 2014.
Per avere un ordine di idee, le spese di Washington e dei suoi vassalli (europei e non solo) in favore di Zelensky & C. sono largamente superiori alle spese militari dell’intera Federazione Russa (che sono dedicate solo in quota minoritaria all’operazione militare in Ucraina). Aggiungiamo che le decine di tornate di nuove sanzioni, presentate come un mezzo per strangolare Mosca, si sono scontrate con una realtà opposta in cui la Russia ha riassorbito il colpo (al netto di certi inevitabili squilibri finanziari) e ha un’economia in espansione, laddove l’Europa soffre un repentino processo di deindustrializzazione, particolarmente drammatico e sconcertante in Germania.
Allora dobbiamo chiedercelo: perché l’Occidente collettivo ha scommesso così tanto – praticamente tutto – su un cavallo palesemente zoppo? Qualcuno risponda.
La corrente principale dei media e gran parte dei governanti in proposito offre sempre due risposte. Per come abbiamo imparato a conoscere i loro comportamenti, sono per forza risposte false.
La guerra per procura: strategia e limiti
La prima risposta è che si vuole difendere a tutti i costi la “democrazia ucraina” contro “l’autocrazia che attacca un paese sovrano”.
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Tachipirina e vigile attesa? Solo un consiglio
di Alessandro Bartoloni
Prosegue il nostro dibattito sulla gestione sanitaria durante la pandemia da SARS-CoV-2, utile a riflettere sulla più generale situazione della sanità nel nostro paese. In questo terzo articolo, si evidenzia alla luce dei fatti l’inconsistenza e la contraddittorietà di alcune delle indicazioni terapeutiche “ufficiali”, molte delle quali si sono rivelate successivamente infondate.
L’occasione per tornare a parlare di un grande tormentone pandemico ce la fornisce proprio il presidente della FNOMCeO (Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri) Filippo Anelli che, accompagnato dal segretario generale Roberto Monaco, ha dichiarato alla Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dell’emergenza sanitaria causata dal SARS-CoV-2 che, per quanto riguarda la gestione domiciliare dei pazienti, “la federazione non è mai intervenuta per limitare la libertà prescrittiva del medico. Anche perché, in quel periodo, il ministero più della Tachipirina poteva dire ben poco perché non c’erano linee guida, quindi non c’erano evidenze che potessero sostenere indicazioni di carattere diverso”. Per capire la portata orwelliana di tali affermazioni ripercorriamo quei tragici giorni.
Tutto comincia il 25 marzo 2020, quando il ministero della Salute emette la circolare n. 7865 nella quale si stabilisce che, “per individuare possibili opzioni terapeutiche efficaci nei confronti dell’infezione da COVID-19 è necessario condurre studi clinici in grado di dimostrare che i benefici superino i rischi. Per questa ragione, tenuto conto della straordinarietà della situazione, la Commissione tecnico scientifica dell’AIFA ha il compito di valutare tutti i possibili protocolli di studio con la massima rapidità (entro pochissimi giorni dal momento della sottomissione). La stessa tempestività è garantita per la successiva valutazione condotta dal Comitato Etico Unico a livello nazionale che ha sede presso l’INMI Lazzaro Spallanzani.
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L’inchiesta operaia per analizzare Industria 4.0
La lezione di Matteo Gaddi
di Collettivo Le Gauche
1. Fare il punto su Industria 4.0
Industria 4.0 è un termine che viene dalla Germania e nasce all’interno dei progetti sviluppati da questo paese per mantenere e rafforzare la competitività del suo sistema produttivo. Queste iniziative sono state adottate inizialmente nel novembre 2011 con il Piano di Azione della strategia High Tech 2020. Tuttavia è dal 2006 che la Germania prova a costruire e portare avanti una strategia sull’High Tech per difendere la competitività della sua industria. Il progetto si regge, dice Matteo Gaddi nel suo Sfruttamento 4.0. Nuove tecnologie e lavoro, su una strategia duale, ovvero, da una parte l’utilizzo delle nuove tecnologie nelle fabbriche tedesche per rafforzare l’efficienza della produzione domestica e dall’altra la produzione per la vendita e l’esportazione di queste nuove tecnologie. Il primo obiettivo è raggiungibile unicamente mettendo a rete le diverse fasi della stessa catena produttiva per mezzo dell’integrazione digitale. Questo spiega le strategie di ingegnerizzazione digitale dell’intera catena del valore, di sviluppo di catene e reti tra diverse aziende attraverso l’integrazione in maniera orizzontale e l’integrazione verticale di sistemi manifatturieri flessibili e riconfigurabili. Il secondo obiettivo riguarda il tentativo tedesco di diventare leader mondiale nella fornitura di soluzioni Industria 4.0 attraverso gli sforzi dei costruttori di macchinari e impiantistica che dovranno combinare le nuove tecnologie ICT con le tradizionali strategie nell’high tech. Le tecnologie ICT svelano nuove dettagli su cos’è Industria 4.0. Si tratta di un’organizzazione dei processi produttivi a partire da tecnologie e dispositivi che comunicano gli uni con gli altri tramite computer o modelli virtuali lungo tutta la catena del valore. Emerge, quindi, una fabbrica “intelligente” con sistemi guidati da computer capaci di monitorare i processi produttivi con cui creare riproduzioni virtuali del mondo reale e decentrare le decisioni sulla base di meccanismi di autoregolazione. Tutto ciò è pensabile perché nell’industria gli oggetti fisici sono sempre più integrati con le reti di informazione e comunicazione, dice Matteo Gaddi. Nelle fabbriche troviamo tre modalità di integrazione.
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Turchia, Russia, USA, Israele in campo, nella scacchiera strategica siriana
di Enrico Vigna*
Dopo aver occupato in poche ore la città di Aleppo, la seconda più grande del paese e aver travolto le difese dell’Esercito arabo siriano, stanno cercando di arrivare all’altra grande città di Hama. Ma qui hanno trovato una forte resistenza e risposta militare, dovendo abbandonare molte posizioni nelle aree circostanti. Ma come è potuto accadere, cosa comporta e può cambiare negli equilibri geopolitici e militari dell’area.
Premetto che questa è una sintesi, da me curata, di documentazioni, analisi, letture, di istituti, esperti, analisti geopolitici e militari, mediorientali, arabi e dei paesi eurasiatici, oltre che contatti e testimonianze sul posto, che hanno una valenza e conoscenza strategica interne alle dinamiche in corso, che può contribuire a conoscere e appropriarsi di elementi di comprensione profondi e spesso non svelati, che vanno al di là di opinioni, valutazioni o previsioni soggettive.
Una tragica e dolorosa partita a scacchi geopolitica si è riaperta nella martoriata terra siriana.
I cosiddetti ribelli siriani hanno attaccato e conquistato in poche ore, quella che era la città più grande del Paese, Aleppo, L’attacco è stato il primo da parte delle forze ribelli, così potente dal 2016, quando furono cacciate dai quartieri orientali della città dopo un’estenuante campagna militare condotta dall’Esercito Arabo Siriano, dalle milizie locali lealiste e palestinesi, con il sostegno di Russia e Iran. Il 27 novembre migliaia di combattenti si sono diretti verso Aleppo con un attacco a sorpresa contro l’esercito governativo, sorprendendolo nettamente.
Nello stesso tempo, i terroristi di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), i gruppi filo-turchi e i loro alleati del cosiddetto Esercito Siriano Libero (ELS), hanno lanciato un’offensiva su larga scala nel nord della Siria, i terroristi hanno catturato dozzine di insediamenti e sono entrati ad Aleppo, una città che aveva una popolazione di oltre 2 milioni di abitanti. Inoltre, i terroristi minacciano l’autostrada M-5, che collega Aleppo con la capitale Damasco e altre grandi città siriane.
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La scuola tradizionale non esiste. Il falso conflitto tra destra sovranista e ultrapedagogia di sinistra
di Marco Maurizi
Il punto cieco
L’annuncio del governo Meloni di voler introdurre i voucher scolastici, permettendo alle famiglie di scegliere tra scuola pubblica e privata, si inserisce in una narrazione ben precisa: la destra sovranista e postfascista accusa le politiche scolastiche della sinistra di essere la causa del degrado della scuola pubblica. Rispetto ai classici temi neoliberisti sullo “spreco” delle risorse pubbliche, FdI ha seguito la linea populista introdotta da Ricolfi e Mastracola nel saggio Il danno scolastico. Secondo questa retorica, il modello progressista, centrato sull’inclusione, avrebbe sacrificato il merito e l’eccellenza, lasciando paradossalmente le classi lavoratrici intrappolate in un sistema scolastico inefficiente e incapace di offrire strumenti di mobilità sociale[1].
La pedagogia di sinistra, come noto, tende invece a negare l’idea stessa di un abbassamento del livello della scuola, interpretandolo come un attacco ideologico volto a giustificare modelli selettivi ed escludenti. Il problema, semmai, è che la scuola non è abbastanza inclusiva, confermando in modo speculare le chiacchiere interessate della destra sulla scuola e proponendo una falsa dicotomia tra nostalgici di Gentile e apostoli di Dewey. Questa negazione è infatti del tutto funzionale a una proposta moralistica di segno opposto: la scuola si riforma riformando l’insegnamento. È diventata quasi una barzelletta che la risposta a ogni problema della scuola si traduca sempre in “più formazione per i docenti!”.
È uno scontro tra ciechi. La crisi della scuola è profondamente legata alla natura iper-capitalistica della società in cui opera, una società segnata da conflitti di classe che determinano le sue istituzioni e ne modellano i limiti strutturali. La centralità delle dinamiche di mercato nelle scelte politiche degli ultimi decenni ha portato a un disinvestimento sistematico nella scuola pubblica, sia in termini di risorse economiche che di riconoscimento sociale. Il declino della scuola pubblica non è infatti un fenomeno contingente legato a cattive scelte pedagogiche o politiche.
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Lo spettro della sovrapproduzione nell’industria automobilistica internazionale
di Eugenio Donnici
La divisione sociale del lavoro nell’industria automobilistica, a livello internazionale, è in subbuglio, non solo per la questione della transizione dal motore endotermico a quello elettrico, ma è costellata dallo spettro della sovra-capacità produttiva.
Se in Italia gli impianti produttivi del gruppo Stellantis lavorano, ormai da tempo, a singhiozzo (1), la situazione non è nemmeno tanto rosea in Germania: il colosso di Wolfsburg, per la prima volta nella sua storia, nel mese d’ottobre dell’anno corrente, ha annunciato la chiusura di tre stabilimenti, con la conseguente perdita di miglia di posti di lavoro e la riduzione del salario del 10%.
Per chi ha scarsa memoria storica, vale la pena ricordargli che stiamo parlando del marchio Volkswagen che, nei primi anni 90 del secolo scorso, ha avuto il coraggio di adottare la soluzione che mirava a salvaguardare i posti di lavoro, con uno storico accordo che prevedeva la riduzione dell’orario di lavoro a 30 ore settimanali, a parità di salario.
Le ripercussioni della crisi automobilistica tedesca creano un effetto domino su quella italiana, in quanto in questo comparto, l’Italia ha ridotto notevolmente la produzione di automobili (prodotti finiti), mentre ha incrementato le quote di mercato dei pezzi di automobili, i quali vengono assemblati in altri contesti produttivi. In altri termini, ci siamo specializzati nella componentistica per i marchi francesi e tedeschi.
Se in Europa si respira un’aria asfittica, negli USA, sebbene il settore sia in ripresa, non è stata ancora raggiunta la produzione del periodo prima della pandemia. Tuttavia, nonostante la produzione di auto elettriche non sia decollata, anche per la difficoltà di approvvigionamento dei semiconduttori, le rivendicazioni degli operai sono più frizzanti.
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In Siria il punto di congiunzione tra le guerre in Ucraina e Medio Oriente
di Gianandrea Gaiani
L’offensiva scatenata nel nord della Siria il 27 novembre dalle milizie jihadiste guidate dal gruppo Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un tempo noto come Fronte al-Nusra e inserito nella rete di al-Qaeda, finora sostenute o protette dalla Turchia nella provincia di Idlib, non può essere valutata solo per il suo aspetto di conflitto regionale.
La situazione in cui ha ripreso il via su vasta scala il conflitto siriano deve infatti venire collocato nel più ampio contesto conflittuale e di destabilizzazione che si estende dall’Ucraina alla Georgia, da Gaza alla Siria, da Israele all’Iran.
I miliziani raccolti intorno all’HTS con le diverse fazioni filo-turche, hanno lanciato un’offensiva-lampo contro le forze governative siriane, conquistando decine di villaggi nelle province di Aleppo, Idlib e Hama, l’aeroporto militare di Abu Dhuhur (tra Hama e Aleppo), ed espugnando gran parte della città di Aleppo anche se in quella città sono ancora presenti forze governative e nei sobborghi e nell’aeroporto si sono schierate le milizie curde.
Le forze di autoprotezione curde (YPG – nella foto qui sopra), che con alcune milizie tribali sunnite costituirono le Forze Democratiche Siriane (FDS), sostenute dagli Stati Uniti, con l’obiettivo di combattere l’ISIS e controllare i territori orientali, sono oggi impegnate a evacuare circa 200 mila cittadini curdi dai territori e dai quartieri della città caduti nelle mani dei jihadisti che hanno riconquistato anche Tal Rifaat, a nord di Aleppo, da anni in mano alle milizie curde.
Il comandante delle FDS, Mazloum Abdi ha detto il 1° dicembre che “gli eventi nella Siria nord-occidentale si sono sviluppati rapidamente e all’improvviso, mentre le nostre forze hanno dovuto affrontare attacchi intensi da più parti. Con il crollo e il ritiro dell’esercito siriano e dei suoi alleati, siamo intervenuti per aprire un corridoio umanitario tra le nostre regioni orientali, Aleppo e la regione di Tal Rifaat per proteggere la nostra gente dai massacri. Ma gli attacchi dei gruppi armati appoggiati dall’occupazione turca hanno interrotto questo corridoio”, ha affermato Abdi. “Continuiamo a resistere per proteggere la nostra gente nei quartieri curdi di Aleppo“, ha aggiunto.
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Tutela dei diritti umani e divieto di ingerenza: il caso del Sudan
di Giovanni Tosi
L’11 settembre 2024 il Consiglio di Sicurezza ONU ha adottato la terza risoluzione riguardante il Sudan dallo scoppio della guerra civile, nell’aprile 2023. Come per le due risoluzioni precedenti, tuttavia, anche questa non ha prodotto alcun effetto significativo. La risoluzione ha confermato sanzioni, esteso l’embargo sulle armi e ricordato alle parti belligeranti l’importanza di “assicurare la protezione dei civili”. Nel preambolo si richiamano numerose risoluzioni adottate in precedenza sul Sudan, risalendo fino al 2005. Si nota, tuttavia, l’assenza della risoluzione 1706 del 2006, che molto avrebbe a che fare con la situazione odierna. E non è la prima volta, tanto che questa delibera si è guadagnata il soprannome di “risoluzione dimenticata”.[1] Nonostante alcuni difetti, la 1706 è stata la prima risoluzione country-specific a contenere un riferimento alla dottrina di intervento umanitario detta Responsibility to Protect (R2P), adottata proprio per autorizzare una missione di pace nella guerra civile di allora, in Darfur (uno dei numerosi conflitti interni che hanno afflitto il Sudan fin dall’indipendenza). Ma perché la R2P non compare nei dibattiti del Consiglio di Sicurezza sulla questione sudanese?
La R2P e la situazione sudanese
La R2P, approvata dal World Summit dell’ONU nel settembre 2005, legittima l’intervento del Consiglio di Sicurezza (se necessario, anche con la forza) per sopperire a un governo che abbia “manifestamente fallito” nella propria responsabilità di proteggere la popolazione da crimini atroci. La R2P era stata ideata alla fine degli anni ’90 per risolvere il dilemma tra difesa della sovranità e difesa dei diritti umani, permettendo alla comunità internazionale, in casi gravi, di intervenire a scopo umanitario negli affari interni di Stati sovrani.[2]
L’origine dell’attuale guerra civile in Sudan è da ricercarsi nei contrasti sorti tra le due fazioni militari che da cinque anni determinano le sorti del paese: le Sudan Armed Forces (SAF), esercito governativo guidato dal generale e attuale presidente Abdel Fattah al-Burhan; e le Rapid Support Forces (RSF), milizia collaterale dell’esercito, ma autonoma, con a capo il generale Mohamed Dagalo “Hemedti”.
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Il marxismo e l'era multipolare - Quarta parte
di Leonardo Sinigaglia
4- La questione nazionale, seconda parte
La sempre più profonda saldatura tra il movimento comunista internazionale e la lotta antimperialista dei popoli oppressi diede un intenso sviluppo alla riflessione sulla questione nazionale e sul patriottismo all’interno del mondo comunista, e anche in relazione al diffondersi del fascismo, che proprio sul recupero retorico dei temi patriottici e nazionali costruiva i propri progetti imperiali ed egemonici.
Come sottolineato dal dirigente comunista bulgaro Georgi Dimitrov in occasione del VII Congresso dell’Internazionale Comunista, l’avvento al potere di partiti e formazioni fasciste era stato reso possibile anche da errori dei locali partiti comunisti, che non erano efficacemente riusciti a opporsi ai fascisti, permettendo a questi di egemonizzare i temi patriottici e nazionali, facendo riferimento in particolare alla Germania: “I nostri compagni in Germania, per molto tempo non tennero nella dovuta considerazione il sentimento nazionale offeso e l'indignazione delle masse contro Versailles”[1]. Il riferimento è ai tentativi del KPD sotto la dirigenza di Ernst Thälmann di riportare il partito su una linea leninista rifiutando il compromesso con le forze socialdemocratiche, accusate di essere “socialfasciste” e di “tradire il paese”, e attaccando il crescente partito nazista mettendo in risalto le sue ipocrisie e la sua vuota demagogia sul terreno della questione nazionale.
Sotto Thälmann il partito si oppose al Piano Young e al Trattato di Versailles, al pagamento delle riparazioni di guerra e del debito internazionale, mentre aprì alla volontaria unione di tutte le popolazioni di lingua tedesca in un solo Stato, nella consapevolezza che “[s]olo il martello della dittatura del proletariato può spezzare le catene del Piano Young e dell’oppressione nazionale”, e che “[s]olo la rivoluzione sociale della classe operaia può risolvere la questione nazionale della Germania”[2].
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Dopo il cessate il fuoco in Libano, Netanyahu è a corto di carte da giocare
di David Hearst* - Middle East Eye
Impantanato a Gaza, fermato in Libano, Netanyahu ha già iniziato a spostare l'attenzione di Trump sulla necessità di attaccare l'Iran
Quando il defunto segretario generale di Hezbollah, Hasan Nasrallah, è stato ucciso da 10 bombe che hanno distrutto un bunker a 60 metri di profondità, le strade di Israele hanno esultato.
“Oh Nasrallah, ti distruggeremo, a Dio piacendo, e ti rimanderemo a Dio insieme a tutti gli Hezbollah”, erano le parole di una canzone diffusa da un condominio di Tel Aviv.
Un bagnino annunciò ai bagnanti: “Con felicità, gioia e allegria, annunciamo ufficialmente che il ratto Hassan Nasrallah è stato assassinato ieri. Il popolo di Israele è vivo”. E, in linea con la saggezza diffusa all'epoca, The Spectator proclamò: “Nasrallah è morto e Hezbollah è distrutto”.
Solo due mesi dopo, l'umore in Israele è molto diverso. Solo 11 giorni fa, il ministro della Difesa, Israel Katz, aveva dichiarato che l'obiettivo era disarmare Hezbollah e creare una zona cuscinetto nel sud del Libano.
L'esercito non ha garantito nessuna delle due cose e gli israeliani lo sapevano.
Alla domanda su chi avesse vinto dopo quasi 14 mesi di combattimenti, il 20% degli israeliani intervistati ha dichiarato di ritenere che Israele abbia vinto, mentre il 19% ha detto che è stato Hezbollah. Il 50% delle persone ha dichiarato che i combattimenti si concluderanno senza un chiaro vincitore, mentre l'11% ha detto di non saperlo.
L'operazione che ha ucciso Nasrallah è stata denominata: “Nuovo Ordine”. E per stabilire una narrativa di vittoria, oggi persiste il mito che Hezbollah sia stato “battuto e sminuito” da 13 mesi di guerra. Indebolito e isolato, era alla disperata ricerca di un cessate il fuoco, ha commentato con sicurezza il New York Times.
Fughe di notizie letali
La prima e la seconda fila di leader di Hezbollah sono state effettivamente decimate.
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Ucraina, i giorni dell’incertezza
di Roberto Iannuzzi
Kiev sta perdendo la guerra. Il lancio russo del missile Oreshnik è un “game changer”. Ma, in attesa di Trump, USA e Gran Bretagna sembrano non voler cogliere gli ammonimenti di Mosca
A partire dalla fine di ottobre, e ancor più dopo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali americane, l’amministrazione Biden ha cominciato ad alzare la posta in gioco in Ucraina.
Il 22 ottobre ha approvato un finanziamento di 800 milioni di dollari a favore dell’industria bellica di Kiev per la costruzione di droni a lungo raggio in grado di colpire in profondità il territorio russo.
L’8 novembre ha autorizzato il Pentagono a schierare ufficialmente contractor USA in Ucraina per mantenere in efficienza i sistemi d’arma americani in dotazione all’esercito di Kiev.
Nove giorni dopo, ha autorizzato l’impiego di missili USA a lungo raggio per colpire obiettivi in territorio russo.
E il 19 novembre ha annunciato che avrebbe fornito all’esercito ucraino mine antiuomo per rallentare l’avanzata delle truppe di Mosca, sebbene nel 2022 si fosse impegnata a limitarne l’impiego.
Biden ha anche cancellato 5 miliardi di debito al governo di Kiev, ed in generale sta compiendo ogni sforzo per rafforzare il più possibile l’Ucraina prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca.
Missili NATO contro la Russia
L’episodio che ha fatto più scalpore, in ogni caso, è costituito dall’autorizzazione a colpire il territorio russo con missili americani a lunga gittata.
Due giorni dopo, sei missili ATACMS sono stati lanciati contro un deposito di armi nella regione russa di Bryansk (cinque sarebbero stati intercettati).
A stretto giro di posta, è arrivato l’annuncio che Gran Bretagna e (seppur con meno convinzione) Francia avrebbero seguito l’esempio americano mettendo a disposizione i propri missili cruise (Storm Shadow e Scalp, rispettivamente) per colpire obiettivi in territorio russo.
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Sì, è un genocidio
Interventi di Amos Goldberg e Silvia Federici
Riceviamo dai compagni Tiziano L. e Paolo B., e volentieri pubblichiamo questi due interventi contro il genocidio sionista in corso in Palestina che hanno un loro valore e una loro forza in sé, al di là della nostra concordanza o meno con le posizioni prese da questi due studiosi su altre questioni. (Red.)
Dichiarazione di Amos Goldberg, storico israeliano, Professore di Storia dell’Olocausto al Dipartimento di Storia Ebraica dell’Università Ebraica di Gerusalemme:
“Sì, è un genocidio. È difficile e doloroso ammetterlo, ma non possiamo più evitare questa conclusione. La storia ebraica sarà d’ora in poi macchiata dal marchio di Caino per il “più orribile dei crimini”, che non potrà essere cancellato. È così che sarà considerata nel giudizio della Storia per le generazioni a venire. Gli obiettivi militari sono quasi obiettivi incidentali mentre uccidono civili, e ogni palestinese a Gaza è un obiettivo da uccidere. Questa è la logica del genocidio. Sì, lo so, quelli che lo dicono «Sono tutti antisemiti o ebrei che odiano se stessi». Solo noi israeliani, con la mente alimentata dagli annunci del portavoce dell’IDF ed esposta solo alle immagini selezionate per noi dai media israeliani, vediamo la realtà com’è. Come se non ci fosse una letteratura interminabile sui meccanismi di negazione sociale e culturale delle società che commettono gravi crimini di guerra. Israele è davvero un caso paradigmatico di tali società. Ciò che sta accadendo a Gaza è un genocidio perché livello e ritmo di uccisioni indiscriminate, distruzione, espulsioni di massa, sfollamenti, carestia, esecuzioni, cancellazione delle istituzioni culturali e religiose, disumanizzazione generalizzata dei palestinesi creano un quadro complessivo di genocidio, di un deliberato e consapevole annientamento dell’esistenza palestinese a Gaza.
La Gaza palestinese come complesso geografico-politico-culturale-umano non esiste più.
Il genocidio è l’annientamento deliberato di una collettività o di una parte di essa, non di tutti i suoi individui. Ed è ciò che sta accadendo a Gaza. Il risultato è senza dubbio un genocidio. Le numerose dichiarazioni di sterminio da parte di alti funzionari del Governo israeliano e il tono generale di sterminio del discorso pubblico indicano che questa era anche l’intenzione”.
* * * *
Capitalismo e guerra alla riproduzione sociale
di Silvia Federici
23 Novembre 2024 – https://comune-info.net/sviluppo-capitalistico-e-guerra-alla-riproduzione-sociale/
Ciò che è chiaro è che Israele sta conducendo una guerra totale contro tutto ciò di cui i palestinesi hanno bisogno per la loro riproduzione.
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Dialettica dell’economia cinese. Per Cheng Enfu i cinesi ricostruiscono il loro percorso
di Giovanni Di Fronzo
Il testo “Dialettica dell’economia cinese. L’aspirazione originale della riforma”, edito in Italia da Marx XXI, è una raccolta di saggi scritti dal professor Cheng Enfu e da alcuni suoi collaboratori nell’arco di molti anni, dall’inizio degli anni ‘90, fino alla fine degli anni ‘10 del 2000. Cheng Enfu fa parte della prestigiosissima Accademia Cinese delle Scienze Sociali, molto ascoltata ai piani alti del Partito Comunista Cinese, ed è membro dell’Assemblea Nazionale del Popolo.
Il Volume, non sempre di facilissima lettura e fruizione, mira a dare una sistematizzazione teorica, basata sul marxismo, all’economia “socialista di mercato” inaugurata dal Partito Comunista Cinese con la politica di “Riforme e Apertura” del 1978, e proseguita successivamente con la “Nuova Era”, a partire dal 2012.
Quando si parla di marxismo, nel caso dei teorici cinesi, bisogna entrare nell’ottica di quella che loro chiamano “concezione olistica del marxismo”, ovvero una visione del corpus teorico marxista in termini di “sviluppo organico”, come si diceva da noi in Occidente, da Marx in poi. In pratica, fra Marx, Engels, Lenin e chi li ha seguiti, compresi i leader cinesi, non vi è distinzione fra coloro che hanno teorizzato il marxismo e coloro che lo hanno applicato, come siamo abituati a pensare in occidente negli ultimi 40 anni: fa parte tutto di un corpus unico in continuo sviluppo.
Così, ad esempio, s’invita a non considerare dogmaticamente le affermazioni di Marx secondo cui nuovi e più avanzati rapporti di produzione non emergono mai finché le condizioni non saranno maturate all’interno della vecchia società, altrimenti non si può concepire l’emergere e l’affermarsi della rivoluzione in Cina, avvenuta in un paese arretrato e che vede tutt’oggi la compresenza di forme di produzione e distribuzione diverse.
Inoltre, in luogo della classica definizione della contraddizione fra la natura privata della proprietà dei mezzi di produzione e la natura sociale dello delle forze produttive, viene data la seguente definizione della contraddizione che attanaglia i paesi a capitalismo maturo:
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Sul libro di Sahra Wagenknecht
di Giulio Maria Bonali
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Ho finalmente letto il libro di Sara Wagenknecht e provo a esporre il più brevemente possibile le mie critiche, argomentandole piuttosto sommariamente, dati i limiti di tempo e di spazio inevitabili in un articolo che è comunque diventato, contro le mie intenzioni, fin troppo lungo; soprattutto ci tengo a segnalare alcuni aspetti importanti (e secondo me per lo più preoccupanti) delle sue affermazioni, un po’ a mo’ di “sottolineature”, cioè enfatizzandoli e sperando di contribuire alla riflessione in corso su L’ Interferenza (e altrove).
Dalla lettura emerge immediatamente un atteggiamento sostanzialmente riformistico, socialdemocratico “vecchio stampo”, con grande enfasi e preoccupazione per la mobilità sociale in via di avanzato e vieppiù ingravescente impedimento e forte interesse per la possibilità di accesso individuale a buoni posti di lavoro ed elevate condizioni di “prestigio” sociale per i figli dei modesti lavoratori e della piccola borghesia (accesso che oggi destra e “””sinistra””” alla moda ostacolano); e invece sostanziale disinteresse per una lotta collettiva volta all’ indebolimento e auspicabile estromissione dal potere delle classi dominanti e smodatamente privilegiate. Ma a mio parere oggi di terreno per il riformismo non ne esiste più, essendo stato spazzato via da due fatti che hanno completamente eliminato le indispensabili conditiones sine qua non che consentivano di praticarlo, almeno in una certa misura, nella seconda metà del XX° secolo. E cioè la terribile sconfitta del “socialismo reale” e la correlata riduzione ai minimi termini dei Comunisti (per quanto molto limitatamente e incoerentemente tali siano stati) anche in quasi tutto il mondo occidentale capitalistico; e inoltre il tendenziale mutamento in corso nei rapporti di forza politici, economici e militari e fra “centri” e “periferie” del sistema imperialistico mondiale che tende a ostacolare oggettivamente sempre di più la possibile concessione ai lavoratori di elementi di relativo benessere, fino alla creazione di aristocrazie operaie e di “ceti medi benestanti”, nei centri del sistema stesso; sistema imperialistico mondiale che trova scarsissima attenzione, se non proprio nulla, da parte della Wagenknecht.
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Bye bye Grande Israele. Libano, inizio della fine per chi?
di Fulvio Grimaldi
Byoblu, Arianna Graziato intervista Fulvio Grimaldi
Avete presente quel pugile, Tyson, a 58 anni vecchio come il cucco, ma con una carriera di sfracelli alle spalle? Ci riprova, è chiuso all’angolo, mena colpi all’impazzata senza cogliere il bersaglio, barcolla, si aggrappa alle corde, crollerà. Qualcuno getta l’asciugamano, si chiama Amos Hochstein, israelo-americano dell’IDF.
E’ andata così a Beirut nei giorni scorsi, ma, a dispetto della complicità delle varie mafiosità predatrici dell’Occidente politico, neanche la tregua di 60 giorni salverà Israele dall’abominio universale con cui lo vede e tratta la parte migliore dell’umanità.
Contro il Libano, obiettivo da distruggere per far spazio alla Grande Israele, colpo fallito nel 2000 e nel 2006 col naso rotto da Hezbollah, Israele, che già non riesce a domare Hamas in una striscia di 60km x 10 bombardata e genocidata da 14 mesi, doveva:
- - mettere in sicurezza 150.000 esasperati cittadini cacciati dalle loro colonie nel Nord e nel Sud della Palestina occupata e che ora arrivano a prendere a pugni i propri soldati, in gran parte riservisti che non gliela fanno più.
- - Sollecitare al ritorno i 700.000 occupanti della Palestina che, a causa dei casini in corso, dentro Israele e tutt’intorno, hanno abbandonato Israele e da paese dell’immigrazione (indispensabile per contenere la prolificità palestinese) lo hanno ridotto a paese della gente in fuga.
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Il fondamentale contributo di Mao al pensiero comunista
di Eros Barone
1. Una carenza della cultura politica italiana
L’anno scorso ricorreva il centotrentesimo anniversario della nascita di Mao Zedong, noto alla mia generazione come Mao Tse-tung (1893-1976). Era facile prevedere che su quell’anniversario sarebbe calato, come infatti è calato, il totale silenzio non solo dei ‘mass media’ borghesi, ma anche, tranne poche eccezioni, delle stesse organizzazioni della sinistra comunista. Sennonché, tralasciando i primi che, in quanto ‘armi di distrazione di massa’, si limitano a fare il loro mestiere, sarebbe invece opportuno interrogarsi sul comportamento delle seconde per capire le ragioni della debolezza manifestata dalla cultura politica italiana (e dalla cultura ‘tout court’) nei confronti dell’esponente di una delle maggiori esperienze, sia politiche che filosofiche, del Novecento. In effetti, nonostante per alcuni versi la Cina sia ormai così vicina all’Italia da poter essere considerata (che si aderisca alla “Via della Seta” o che se ne esca) una delle componenti più rilevanti dell’economia del nostro paese, per altri versi, come dimostra la debolezza or ora menzionata, la Cina resta lontana.
Eppure, è difficile negare che se il pensiero di Mao non ha influito a sufficienza sulla cultura politica del nostro paese e non è stato a sufficienza assimilato e discusso dal fragile marxismo italiano, ciò si è risolto in un danno per quest’ultimo. È infatti sorprendente che le pagine, pur verbalmente celebrate, del magistrale saggio di Mao Sulla contraddizione 1 non abbiano trovato l’attenzione e l’approfondimento che ancor oggi esse attendono. Gli stessi comunisti di orientamento marxista avrebbero tutto l’interesse a condurre un’analisi delle classi della società italiana che fosse altrettanto rigorosa e perspicua quanto l’Analisi delle classi nella società cinese, che, quasi un secolo fa (e nello stesso anno in cui in Italia apparivano le Tesi di Lione del Partito comunista d’Italia), fu in grado di sviluppare Mao.2 Né serve come alibi, essendo un simile postulato del tutto falso, affermare, come spesso si sente dire da parte dei sociologi, che la nostra società è più complessa e articolata, poiché chi reitera questo ‘mantra’ adopera in realtà la complessità, cui si appella, non come un concetto teorico ma come una strategia politica, e quindi mente sapendo di mentire.
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BITCOIN. Un'alternativa digitale?
di Tony Norfield[1]
All'inizio ho prestato poca attenzione ai Bitcoin, pensando che probabilmente ci fossero più imitatori di Elvis Presley di quante persone al mondo lo abbiano scambiato o posseduto. Ma visto che le banche centrali hanno rilasciato dichiarazioni politiche sui Bitcoin, che l'FBI ha sequestrato asset Bitcoin utilizzati dagli spacciatori di droga e che le autorità fiscali hanno fornito indicazioni sulle passività per plusvalenze, mentre i gruppi finanziari stanno progettando di offrire fondi negoziati in borsa denominati in Bitcoin, ho deciso di dargli una seconda occhiata. Questo articolo fornisce la mia valutazione di questa valuta digitale alternativa. Il Bitcoin è emerso dalle macerie del sistema monetario internazionale nel 2008, quando numerose banche hanno avuto un'esperienza di pre-morte e alcune sono state effettivamente sepolte. È stato ideato da un team di specialisti del software, guidati da un certo Satoshi Nakamoto. A marzo, Newsweek ha affermato di aver smascherato questo misterioso uomo internazionale come un modesto ingegnere giapponese-americano in pensione, ma quest'ultimo lo nega e sono in corso cause legali. Tuttavia, è possibile analizzare i Bitcoin senza entrare nei dettagli delle personalità coinvolte. Ci sono due aspetti chiave dei Bitcoin: un sistema di pagamenti basato su Internet e un'unità di valuta speciale per il pagamento tra diversi account Internet. Il primo è ragionevolmente innovativo; il secondo è bizzarro. Sebbene siano strettamente collegati, è utile considerarli separatamente.
Il sistema
Con i Bitcoin puoi effettuare pagamenti tra singoli conti su Internet in un modo che non utilizza il sistema bancario. Ciò solleva una serie di domande sull'accesso all'account, l'identità e la sicurezza che gli sviluppatori di software hanno cercato di risolvere e, per lo più, hanno risolto (vedi Wikipedia su Bitcoin per una discussione estesa su aspetti tecnici, insidie e truffe).
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Qualche appunto sul 30 novembre di questo 2024 e dintorni
di Algamica*
Come sempre cerchiamo di essere chiari a qualunque costo, e ci riferiamo alla contraddizione palesatasi in piazza Vittorio su chi avrebbe dovuto tenere la testa del corteo. Che si sia trattato di una ingiustificabile bagarre è fuori discussione, ma chi ragiona di cose sociali non si può accontentare di una presa d’atto e magari condannare, no, perché si impone di ragionare sulle cause che generano certi comportamenti sia individuali che di gruppi.
Che vuol dire prendere la testa di un corteo come quello di sabato 30 novembre 2024 a Roma? Stabilire chi aveva per primo prenotato la piazza o la data? Suvvia, non scherziamo, non ci nascondiamo dietro i formalismi per nascondere le ragioni teoriche e politiche che marciano fin dal 7 ottobre 2023 all’interno delle formazioni politiche di sinistra italiane (più o meno estremiste) per un verso e dei gruppi dei palestinesi che in Italia, in Europa, negli Usa e nel mondo intero cercano faticosamente di far valere le loro ragioni.
Entriamo perciò nel merito della contraddizione che in Italia si va sempre di più aggrovigliando e sabato 30/11 ha rischiato qualcosa di molto sgradevole. Mettiamo senza pudore i piedi nel piatto e diciamo che è ragione di buon senso rispettare l’ospite, anzi in Italia (ma crediamo un po’ dappertutto) è abitudine ripetere che l’ospite è sacro, un principio di buona educazione, di civiltà, di galateo o di bon ton come si usa dire nei tempi moderni.
Se quel principio è valido in generale, a maggior ragione dovrebbe essere valido per un ospite di riguardo che sta subendo un genocidio da parte di un nemico cui il nostro paese, cioè il paese ospitante ha qualche responsabilità in maniera diretta e indiretta perché sta sostenendo senza condizione il genocidio sia attraverso il proprio governo che con gran parte dell’opposizione parlamentare democratica.
Quale occasione migliore per separare le nostre responsabilità genocide tanto del governo che della sua opposizione democratica se non quella di dimostrare in piazza il rispetto per chi sta subendo il genocidio e che a testa alta resiste? Dunque non c’è ragione che tenga che ci si dimeni a voler contendere la testa del corteo: andrebbe data senza nessuna esitazione ai palestinesi.
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Prove tecniche di tempesta perfetta
di Fabio Vighi
‘Noi siamo’ egli disse ‘pensieri nichilisti, pensieri di suicidio, che affiorano nella mente di Dio’ (Max Brod da una conversazione con Kafka).
In una delle scene più spesso citate del film Night Moves (Bersaglio di notte, 1975) di Arthur Penn,troviamo Gene Hackman (l’investigatore privato Harry Moseby) seduto nel suo studio davanti a un piccolo televisore in bianco e nero, mentre guarda svogliatamente una partita di football americano. Quando la moglie entra e gli chiede “Chi sta vincendo?”, lui borbotta, “Nessuno. Una squadra perde più lentamente dell’altra”. Il merito di Night Moves, e di altri film della New Hollywood, è stato l’aver intuito che la crisi degli anni ’70 era integrale al crollo terminale del modello di socializzazione capitalista: una debacle insieme socioeconomica, culturale e psicologica che da qualche anno è entrata nella sua fase più calda (che questa volta Hollywood ha deciso di rimuovere).
Dopo un paio di decenni di collasso al rallentatore, la turbo-accelerata implosiva degli ultimi anni prevede ora una condizione di destabilizzazione permanente – le forever wars. Si tratta, innanzitutto, di un cambio di narrazione che assomiglia al disturbo delirante-paranoico di chi vede ovunque un “nemico alle porte” e un’“invasione imminente”. In realtà, è banale e vigliacca ideologia. Quando i burocrati della Fortezza Europa sostituiscono decenni di promesse di eterno benessere con il kit di sopravvivenza per giovani marmotte (il patetico invito a prepararsi a “72 ore di autosufficienza”), i sudditi dovrebbero ribellarsi, in primis, contro la solenne presa per i fondelli.
Ora che la pantomima elettorale USA è finalmente terminata (con la vittoria del candidato preselezionato da Wall Street) probabilmente cominceranno i fuochi d’artificio – magari innescati da qualche missile occidentale a lungo raggio fatto lanciare su territorio russo. Nel frattempo, continua l’estasi speculativa: i mercati USA stracciano record su record, trainando Bitcoin e tutto il cripto-spazio sponsorizzato da Trump; che, ricordiamolo, è l’uomo dei tassi negativi, e che dunque farà qualsiasi cosa pur di inondare le banche di easy money e spingere la ricchezza sempre più in alto, alla faccia di quella working class impoverita che lo ha votato al grido di MAGA.
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