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“Il capitale mondo”: sguardo su globalizzazione, complottismi e dintorni
di Joe Galaxy
È uscito, per le edizioni Meltemi, un importante libro di Robert Kurz, Il capitale mondo. Per una sintetica presentazione del testo e della sua storia, rimandiamo all’introduzione, dove vengono tratteggiati velocemente anche temi e motivi di fondo.
In questo articolo vorrei invece sottolineare come, in un periodo travagliato quale quello che stiamo attraversando, il libro di Kurz rappresenti un raro tentativo, a mio avviso riuscito, di spiegare la crisi mondiale in modo lucido e ben argomentato, evitando derive cospirazioniste o destrorse, oggi così di moda.
Kurz, sulla scorta della teoria critica del valore, corrente di pensiero di cui ha rappresentato e rappresenta ancora la mente più brillante, riesce infatti a dare un quadro coerente di una serie di fenomeni che nei nostri tempi affranti sconcertano i più, fenomeni che scombinano le coordinate e provocano spesso grande confusione, anche teorica (solo per fare un esempio, la difficoltà di riconoscere oggi cosa sia sinistra e cosa destra, addirittura se questa distinzione abbia ancora senso).
Questo caos non creativo confluisce spesso in interpretazioni del reale che hanno un che di surreale, letture che immaginano grandi complotti e grandi manovratori i quali, da qualche luogo non ben definito ma immancabilmente sinistro e cupo, decidono delle sorti del mondo e dei suoi abitanti.
Sia chiaro: non mancano luoghi e organizzazioni, spesso statuali, dove effettivamente si decide su questioni o aspetti rilevanti per la sorte di ognuno di noi.
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“Holodomor”: il PD e l’invenzione del “crimine contro l’umanità” bolscevico in Ucraina
di Fabrizio Poggi
Nel 1983 Ronald Reagan, in piene “guerre stellari”, lanciava la campagna sul “50° anniversario della carestia-genocidio in Ucraina”, chiamata dai nazionalisti di Kiev “holodomor”.
A settembre del 2018, la Commissione esteri del Senato USA approvava una risoluzione che riconosceva la carestia del 1932-1933 in Ucraina come un genocidio del popolo ucraino.
Nel maggio del 2022, per non esser da meno dei maestri yankee, quella consorteria amministrativo-affaristica denominata PD – simbiosi tra la più oscurantista e reazionaria DC scelbiano-tambroniana e i più retrivi settori euro-atlantisti del tardo PCI – per affiancare all’invio di armi alla junta golpista di Kiev anche un‘arma ideologica, intende far approvare anche dal Parlamento italiano una mozione per chiedere al governo di «riconoscere l’holodomor come crimine contro l’umanità».
Questo perché, dicono i presunti demo-studiosi “di storia russa”, «quando il capo del Cremlino parla di de-nazificazione dell’Ucraina in realtà vuole dire che va cancellata l’identità nazionale ucraina».
Il che, con una costruzione sintattica suicida sul piano logico, dovrebbe significare che “l’identità nazionale ucraina” sia davvero integralmente nazista. E probabilmente l’intento dei promotori della mozione, è sdoganare il nazismo come parte costitutiva dell’identità europea “democratica”.
Su questo giornale, si è accennato in varie occasioni alla questione del “holodomor” (“golodomor” in russo) e alla diffusione del relativo mito, a partire dalla propaganda goebbelsiana sui “milioni di ucraini deliberatamente sterminati dal governo sovietico“.
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Costruire un movimento per la giustizia climatica anti-imperialista
Kai Heron intervista Max Ajl
Nel suo nuovo libro, A People's Green New Deal [Pluto Press 2021, ancora inedito in italiano, NdT], Max Ajl presenta una valutazione approfondita, che prende spesso la forma di una denuncia schiacciante, dei limitati tentativi del Nord globale di mitigare e adattarsi al riscaldamento globale.
L'eco-nazionalismo, l'eco-modernismo, la socialdemocrazia verde e le declinazioni socialiste democratiche del Green New Deal sono tutte esaminate e tutte sono trovate carenti. Tutte, sostiene Max, a loro modo sono troppo attaccate a quello che Ulrich Brand e Markus Wissen chiamano "lo stile di vita imperiale". Un modo di vivere basato sulla subordinazione del Sud globale ai bisogni, ai desideri e alle esigenze del Nord globale. E ognuna, a modo suo, nega l'ampiezza della crisi sociale ed economica che abbiamo di fronte.
In risposta Max si rivolge alle lotte del Sud globale. Lì trova i contorni di una risposta alternativa al collasso climatico, radicata nelle pratiche agricole agroecologiche, nei risarcimenti climatici e nelle lotte per l'autodeterminazione. Il libro di Max è quindi molto più di una critica, è un appello stimolante rivolto a noi cittadini del Nord globale per riconsiderare il modo in cui lottiamo per la giustizia sociale e climatica.
In questa intervista Kai Heron parla con Max del suo libro e dell'importanza di mettere l'agricoltura e le lotte del terzo mondo per l'autodeterminazione al centro delle politiche ambientali.
* * * *
Kai Heron: Forse possiamo iniziare con una semplice domanda. Ci sono già almeno cinque libri disponibili che immaginano come potrebbe essere un Green New Deal (GND). Cosa ti ha spinto a scriverne un altro?
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“Scontro di civiltà e fine della storia”. Conservatori contro Liberal
di Gerardo Lisco
Per affrontare la questione del conflitto Ucraino – Russo bisogna andare indietro negli anni. La fine della Guerra fredda , la vittoria degli USA e il crollo dell’URSS hanno aperto, negli anni 90, un dibattito culturale e politico che oggi ritorna di attualità. Possiamo riassumere quel dibattito avendo come coordinate i seguenti saggi : “La fine della storia e l’ultimo uomo” di F. Fukuyama, “ Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale” di S. Huntington e “ La quarta Teoria Politica” di A. Dugin. A differenza dei primi due, i quali risalgono il primo al 1992 e il secondo al 1996, il saggio di Dugin è del 2007. Pur essendo quest’ultimo relativamente recente richiama i primi due. Il contesto storico e politico nel quale vengono elaborate le teorie politiche dei tre autori racchiudono l’inizio di un quarto di secolo che con il conflitto ucraino – russo si è avviato alla fine. Fukuyama in più di una occasione ha avuto dei ripensamenti, su ciò che ha scritto nel saggio che lo ha reso noto, sostenendo di essere stato capito e interpretato in modo erroneo. Come vedremo da alcuni dei passaggi più significativi, ai fini dell’economia del mio ragionamento, quella di Fukuyama è per molti versi una filosofia “determinista” per cui la Storia a causa una serie di “meccanismi” tende ad un solo fine e cioè la realizzazione della Libertà da intendersi come trionfo del Liberalismo e del sistema Capitalista. Scrive Fukuyama ne “La fine della storia” << L’attuale crisi dell’autoritarismo non è cominciata né con la perestrojka di Gorbaciov né con la caduta del muro di Berlino. Essa ha avuto inizio un decennio e mezzo prima con la caduta, nell’Europa del sud, di una serie di governi autoritari di destra. Nel 1974 in Portogallo le forze armate rovesciarono con un colpo di stato il regime di Caetano. In quello stesso anno in Grecia vennero rovesciati i colonnelli che avevano governato il paese fin dal 1967, e ad essi successe il governo democratico di Karamanlis.
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Il grande scisma ortodosso e la guerra in Ucraina
di Francesco Galofaro*
E’ inevitabile che il quotidiano racconto mediatico del conflitto in Ucraina pecchi di recentismo: in primo piano si pongono i movimenti delle truppe e le sanguinose contumelie che scambiate tra Zelensky e Putin; le radici del conflitto in atto finiscono in secondo piano e finiscono per perdersi. Ad esempio, vorrei far notare che la guerra si inserisce entro il più grave scisma che abbia colpito le Chiese ortodosse dopo quello monofisita del V secolo, e che coinvolge il Patriarcato di Mosca e quello di Costantinopoli. Questo scisma precede la guerra; le sue radici risalgono agli anni immediatamente successivi alla caduta di Berlino. Non coinvolge solo il “perfido” Kirill, ma anche il suo predecessore Alessio II; non solo Kiev, ma anche la metropolìa di Tallinn. Lo scopo di questo mio articolo è spostare l’attenzione dagli eroi e i cattivi del racconto propagandistico alle dinamiche di lungo periodo e alle strutture del conflitto geopolitico, nell’interesse della comprensione e – se Dio vuole – della pace.
Fede e crociate – Di questi tempi è prassi associare il nome di Kirill a quello di Vladimir Putin negli anatemi quotidiani di politici e giornalisti. Qualche giorno fa, la Commissione europea ha proposto di includere il patriarca di Mosca nella sesta tornata di sanzioni contro la Russia, trasformando il conflitto ucraino in guerra di religione. Prescindendo dal giudizio sulle convinzioni di Kirill e dalle notizie sul suo patrimonio pubblicate da Forbes, trattiamo pur sempre del leader spirituale di una comunità che conta 110 milioni di fedeli nel mondo. Reagiranno approvando le sanzioni o difendendolo, sentendosi nel mirino di un disegno persecutorio? Franco Cardini, insigne storico delle religioni, ha commentato:
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Lo spettro della stagflazione, con o senza stretta monetaria
di Roberto Tamborini
Mentre il mondo sta cercando di lasciarsi alle spalle la tragedia della pandemia, l’intreccio tra economia e crisi politico-militari sembra riportarci, come un crudele gioco dell’oca, agli anni Settanta del secolo scorso, il decennio della “Grande inflazione”. Era l’ottobre 1973, e a supporto della guerra del Kippur di Siria ed Egitto contro Israele, i paesi arabi membri dell’Opec (l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio) decisero di colpire i paesi filo-israeliani con un embargo delle esportazioni di greggio, e poi un aumento unilaterale del suo prezzo da circa 3 dollari al barile a oltre 11. Pochi anni dopo, nel 1979, arrivò il secondo shock petrolifero, in seguito alla rivoluzione islamica in Iran e a un’altra guerra, tra il gigante Sciita e l’Iraq. Il prezzo del greggio triplicò di nuovo e superò i 30 dollari al barile.
Siamo ancora lontani, per ora, dal vertiginoso aumento del costo della vita che prese piede in quel periodo, ma le previsioni, o auspici, di uno shock inflazionistico di breve durata, dovuto a fattori transitori legati al rimbalzo post-pandemia dell’economia mondiale, si stanno rivelando fallaci. Lo spettro della “stagflazione” degli anni Settanta, alta inflazione accompagnata da economia stagnante, si aggira per il mondo e sta mettendo in allarme i vertici delle banche centrali (BCE, Decisioni di politica monetaria, 14-4-2022). Le pressioni dei “falchi” della stabilità dei prezzi s’intensificano, in particolare in Europa, chiedendo azioni risolute. Sappiamo che la Storia non si ripete mai uguale, ma ci sono alcune analogie con gli anni Settanta che è utile considerare per il presente.
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Sylos Labini su Marx: implicazioni per la politica economica
di Massimo Cingolani*
Su Moneta e Credito, vol. 68 n. 269 (marzo 2015), 81-147
Questo contributo si propone di inquadrare “Carlo Marx: è tempo di un bilancio” (Sylos Labini, [1991] 1994), nell’opera di Paolo Sylos Labini e di ripercorrere il dibattito lanciato da Sylos su Marx nel 1991. L’analisi critica della posizione di Sylos offre anche lo spunto per approfondire alcune questioni teoriche fondamentali, spesso trascurate, nonostante le loro importanti implicazioni per la politica economica.
Il testo che Sylos scrisse nel 1991 su Marx è oggi in gran parte dimenticato. Quando apparve, suscitò critiche e perplessità, specie a sinistra. Alcuni pensarono, forse senza osare dirlo troppo apertamente, che anche i grandi sbagliano. Altri, e in particolare i partecipanti al dibattito sul Ponte, hanno discusso le poste del bilancio di Sylos, contestandone alcune e confermandone altre. La tesi che si presenta è che questo bilancio, stilato poco dopo la caduta del muro di Berlino, è stato un momento di riflessione doveroso per un intellettuale fortemente influenzato da Marx, forse scritto in maniera un po’ troppo sbrigativa, ma che se fosse stato letto con maggiore attenzione, sarebbe stato utile per contrastare la deriva liberista degli ultimi decenni.
Infatti, la caduta del muro del muro di Berlino, oltre a segnare la fine del socialismo reale in Europa orientale, ha coinciso con l’affermarsi nell’intero continente di una forma di liberismo dai tratti caricaturali. Il declino dell’egemonia culturale progressista era cominciato già negli anni settanta con le crisi petrolifere e lo sgretolarsi dell’ordine internazionale di Bretton Woods, ma è solo dopo il 1989 che ha avuto inizio un venticinquennio di dominio pressoché incontrastato del neoliberismo nelle scelte di politica economica.
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Immanuel Wallerstein, “Dopo il liberalismo”
di Alessandro Visalli
In questa agile raccolta di interventi che è stata pubblicata[1] da Wallerstein nel 1995 a New York e poi tradotta da Jaca Book tre anni dopo, sono sostenute alcune tesi radicali che, tuttavia, hanno una precisa collocazione storica. Si tratta in effetti di un potente esercizio di astrazione e semplificazione, per il quale tutti i movimenti politici dell’otto-novecento, sotto il profilo delle fondamenta ideologiche, sono ricondotti a varianti di un’unica pervasiva tradizione: quella liberale. A ben vedere è un riverbero, quasi trenta anni dopo, della critica al mondo ‘adulto’ della rivolta giovanile del ’68, accusato ‘in blocco’ di essere riformista ed un unico ‘sistema’. Riflettendo sulle conseguenze dell’89 l’autore diagnostica il declino del liberalismo (ovvero di quella che chiama l’unica ideologia politica della modernità), e con esso della complessiva idea di sviluppo, progresso, modernità come destino e speranza. Il declino della speranza induce a ripiegarsi nella protezione di gruppi identitari; infatti, se non ci può essere collettivamente una via di sviluppo e progresso allora occorre salvarsi da soli. Ma in questa fuga è presente sia il rischio di balcanizzazione della politica, che precipita nella lotta di tutti verso tutti, sia la speranza di una nuova politica plurale e decentrata, questa volta senza progetto definito, capace di montare e rimontare indefinitamente i gruppi intorno ad un vago ideale di eguaglianza delle diverse identità e rivendicazioni. Vaghezza rivendicata nell’ultima frase del libro. Una prospettiva che ebbe un certo successo in quegli anni e che oggi si presenta come fantasma in ogni tentativo di riaggregazione (sempre condotto nella forma della federazione aleatoria) nella sinistra radicale.
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La parabola dell’economia politica
II. Marx, il processo di circolazione del capitale
di Ascanio Bernardeschi
I presupposti dell'accumulazione del singolo capitale non coincidono con i presupposti dell'accumulazione per l'intera società. Questi ultimi non possono essere assicurati dalla mano invisibile del mercato ma vengono realizzati solo al prezzo di crisi e fallimenti. Qui la parte I
La rotazione del capitale
Il secondo libro del Capitale tratta del processo di circolazione. Parlando della metamorfosi del capitale, D-M-D’, abbiamo visto che la circolazione, per esteso D-M(Fl,Mp)...P...M’-D’, è interrotta dal tempo di produzione, P. Tale tempo a sua volta si suddivide in tempo di lavoro, tempo di pausa (le notti, le festività, le interruzioni ecc.) e tempo occorrente perché si sviluppino processi naturali, come nel caso delle colture agricole, delle fermentazioni, delle trasformazioni chimiche ecc. Il tempo di circolazione a sua volta si suddivide in tempo d’ordine, tempo di consegna e tempo di pagamento e si riferisce sia alla fase D-M, l'acquisto di mezzi di produzione e forza-lavoro che alla fase M'-D', la vendita del prodotto.
La sommatoria di tutti questi tempi costituisce il tempo di rotazione del capitale, cioè il tempo che trascorre dall'anticipazione del denaro per acquistare i fattori produttivi D-M(Fl,Mp) fino al ritorno, con la vendita del prodotto, di una somma di denaro maggiore di quello anticipato, M'-D’. In uno stesso capitale tuttavia i tempi di rotazione delle singole componenti differiscono. La materia prima “ritorna” come denaro dopo l'unico solo ciclo di circolazione in cui viene acquistata, trasformata e venduta; invece una macchina che cede gradualmente il suo valore al prodotto, via via che si logora, viene in genere interamente rimpiazzata dopo un certo numero di cicli produttivi e per ognuno se ne determina, sotto la voce “ammortamento” l’entità della sua perdita di valore, coincidente con il valore trasferito al prodotto. Astraendo per semplicità dal capitale fisso, quanto più breve è il tempo di rotazione, tante più rotazioni effettua un determinato capitale nel corso dell’anno.
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Guerra alla Russia ed emergenza permanente
di Nicola Casale
L’emergenza della pandemia non è finita. È tenuta in caldo, pronta per essere ripresa in autunno, con l’obiettivo di estendere a tutti, bambini compresi, l’obbligo vaccinale e il green pass (GP). Contro la sua ripresa militano alcuni fattori importanti.
Interni a ogni singolo paese: riluttanza delle popolazioni, stanche delle restrizioni e sfiduciate nei vaccini, emergere di una crisi economica che potrebbe riaprire il conflitto sociale su vasta scala, indebolendo la disponibilità della gente a mettere al primo posto la pandemia, soprattutto se dovesse continuare l’evidenza di provocare malattie non gravi e con scarso rischio di ricovero e decesso.
Internazionali: molti paesi potrebbero sottrarsi a un’ulteriore allarme mondiale. In ciascuno di essi la gestione della pandemia ha fatto passi indietro grazie alle reazioni popolari. L’India è il caso più evidente: la lotta dei contadini non s’è fatta condizionare dai lockdown, con oltre un anno di mobilitazione ha vinto costringendo il governo a recedere dalla contro-riforma agraria e ha smantellato la narrazione pandemica, inducendo il governo a diffondere l’ivermectina che ha drasticamente ridotto ricoveri e decessi. In Russia non ci sono state mobilitazione di piazza, ma la popolazione ha semplicemente sabotato vaccini e GP. Rifiuti analoghi in molti paesi asiatici, africani, latinoamericani e dei Balcani (non solo i soliti serbi...).
La stessa Cina presenta caratteri diversi dalla gestione occidentale: fa lockdown rigidi, ma limitati nello spazio e nel tempo, perché avverte il pericolo di attacchi biologici (la scoperta dei laboratori in Ucraina la dice lunga sulla pratica Usa/occidentale di diffondere patogeni soprattutto verso Russia e Cina). Ciò non toglie che i lockdown siano ugualmente inutili a eradicare il virus e molto utili, invece, a operazioni di disciplinamento sociale. La Cina, comunque, non usa vaccini occidentali, non impone obbligo vaccinale e non usa il GP.
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Un libro di Bellocchio
di Luca Lenzini
Per ricordare Piergiorgio Bellocchio, scomparso il 18 aprile, «L’ospite ingrato» pubblica una serie di interventi sulla sua figura e la sua opera, così come una breve scelta di suoi testi poco noti
I.
Molti anni sono passati da quando, nel 1984, «quaderni piacentini» cessò le pubblicazioni, mezzo secolo dal momento della sua maggiore diffusione, quel Sessantotto di cui fu parte attiva e di cui anticipò non pochi temi culturali e politici. E quali anni, ci separano da quel tempo: tali da cambiare lo scenario (sociale, culturale, economico) così in profondità, nel nostro paese come altrove, al punto che non solo le persone ma tutto un insieme di categorie, nozioni acquisite, schemi e elaborazioni di ordine intellettuale sembrano ormai non tanto invecchiati quanto irriconoscibili, come quei convitati alla matinée dei Guermantes di cui parla l’ultimo tornante della Recherche; eppure, ancora oggi, se qualcuno nomina Bellocchio non c’è scampo, è immediata l’associazione con i «quaderni piacentini».
Perché stupirsi, si dirà. La rivista non l’ha fondata e diretta lui, insieme a Grazia Cherchi? Non ne è indiscutibile l’importanza per la formazione della “nuova sinistra”, e più in generale per il rinnovamento della cultura italiana in quegli anni? E non lo è anche la sua indipendenza da partiti e conventicole, notabile eccezione tra le pubblicazioni italiane di cultura? Non vi hanno collaborato, infine, i migliori ingegni del periodo?… Tutto vero, certo: il “mito” dei «Quaderni» ha solide fondamenta, e solo chi è prevenuto può disconoscerlo; e nondimeno, quando l’intervistatore o il recensore di Bellocchio attaccano la solfa, ogni volta con la storia della rivista, con le rievocazioni di maniera, gli episodi e le polemiche e gli slogan del tempo che fu, è difficile ignorare che così facendo si prepara il lettore a consumare un “personaggio”, e che a sua volta questa operazione, con l’annesso e comodo (ora) elogio dell'”eretico”, dell'”irregolare” e “anticonformista”, è la premessa per falsare, o meglio ridurre e infine addomesticare il nucleo più vivo e urticante della scrittura di Bellocchio, la cui ironia non vuol essere né un gioco intellettuale, né un esercizio di disincanto per cinici a corto di battute, bensì una forma di denuncia e insieme un tratto intrinseco alla scrittura.
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Guerra, inflazione e conferma della "stagnazione secolare”
di Domenico Moro
Nel 2013 Laurence H. Summers, uno dei più importanti economisti statunitensi e già ministro del Tesoro di Clinton, definì la fase economica contemporanea come “stagnazione secolare”. Con questa definizione Summers voleva intendere che l’economia mondiale – a partire da quella dei paesi più sviluppati, come Usa, Europa occidentale e Giappone – era entrata in una fase di crisi permanente. Summers aggiunse che, guerra a parte, non si vedeva alcuna possibile soluzione a tale crisi.
Nell’analisi dell’economista statunitense si tracciava una analogia tra la fase attuale e quella seguita alla grande crisi del 1929, che fu risolta dalla Seconda guerra mondiale. Infatti, fu solamente a seguito delle enormi spese statali per la produzione militare che gli Usa si ripresero dalla crisi e solamente a seguito delle enormi distruzioni della guerra mondiale e degli investimenti americani successivi che l’Europa, il Giappone e l’intero occidente poterono dare avvio a una fase economica espansiva che durò alcuni decenni.
L’economia capitalistica è entrata dal 2007-2008 in una crisi ininterrotta che, a parte brevi riprese, permane tutt’ora. Il contenuto della crisi, dovuta a una sovrapproduzione assoluta di capitale, permane nonostante le forme in cui si manifesta mutino di volta in volta: crisi dei mutui subprime nel 2007, crisi del debito sovrano nel 2013, crisi pandemica nel 2020 e, infine, la crisi attuale che si manifesta nella forma della stagflazione e della guerra.
La breve ripresa del 2021 non ha consentito alle economie dei Paesi avanzati di recuperare interamente quanto era stato perso nell’anno precedente, durante la pandemia.
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Le ripercussioni economiche della guerra
di Ascanio Bernardeschi
L'Europa sarà la vittima sacrificale di questa guerra per procura fra Stati Uniti e Russia-Cina. Lo sarà in particolare il mondo del lavoro. Per questo urge costruire un fronte che vi si opponga
Buona parte delle forze di sinistra, anche anticapitaliste, non scorge la centralità dell'imperialismo per leggere le vicende quotidiane e le cause di guerre, colonialismo, povertà, razzismo, distruzione dell'ambiente, pandemie ecc. In tal modo può capitare che queste forze siano portate a sostenere guerre che, motivate con principi etici di per sé condivisibili, hanno in realtà le loro radici più profonde nell'imperialismo. Così facendo si autocondannano all'irrilevanza o, peggio, si fanno involontariamente strumento dell'imperialismo.
Se la sua configurazione classica, descritta nei primi decenni del secolo scorso da Lenin – e cioè la presenza con un ruolo decisivo dei grandi monopoli e il loro intreccio con il potere politico, l'intreccio strettissimo fra capitale finanziario e industriale e la grande rilevanza dell'esportazione di capitali alla ricerca di maggiori opportunità di profitto –, è ancora di grande attualità – forse ora più di allora – esiste oggi almeno un elemento importante di novità: non prevalgono più i blocchi imperialistici nazionali, almeno per quanto riguarda gli Stati di dimensioni non paragonabili a quelle continentali, ma grandi blocchi transnazionali che rispecchiano il carattere transnazionale delle grandi imprese monopolistiche.
È per questo motivo che la nostra lotta antimperialista deve essere in primo luogo lotta contro il polo imperialista europeo edificato non per il “sogno” di una pace in Europa, come vuole la retorica europeista, ma fin dalle origini progettato in chiave chiaramente antisovietica.
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Il gesto dell’intellettuale, da Zola a oggi
di Pierluigi Pellini
Esce in questi giorni per il Saggiatore E. Zola, J’Accuse…!, a cura di Pierluigi Pellini, con un saggio di Daniele Giglioli. Il volume offre una traduzione finalmente attendibile della celebre lettera di Zola (e della Dichiarazione alla Corte pronunciata dallo scrittore alla fine del processo che lo ha visto imputato per diffamazione); e comprende due saggi: uno di Pellini, che precisa la specificità storica del gesto di Zola nella longue durée (da Voltaire a oggi) dei rapporti fra uomini di cultura e potere; e uno di Daniele Giglioli, che prende spunto da un romanzo di Philip Roth, La macchia umana, per impostare una genealogia e una critica dell’accusa nella nostra contemporaneità. Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, pubblichiamo qui un estratto dei paragrafi centrali dello scritto di Pierluigi Pellini.
* * * *
L’intellettuale moderno denuncia e accusa in nome di un gruppo (gli altri intellettuali, i repubblicani) e soprattutto in nome di valori universali condivisi: giustizia, verità, diritti dell’uomo. In questo senso, l’intellettuale moderno non parla mai in nome dell’io: come invece fanno, oggi, quasi tutti i fabbricanti seriali di j’accuse più o meno interessati o pretestuosi.
La realtà storica sfugge quasi sempre alle semplificazioni: anche a quelle di segno opposto, tentate da intellettuali importanti come Alain Badiou. S’è visto, ed è innegabile, che l’affaire Dreyfus è anche “guerra civile”: lo è in figura e a tratti rischia di diventarlo anche realmente. Altrettanto innegabile è che la polarizzazione fra progresso e reazione, fra democrazia repubblicana e nazionalismo del sangue e della terra, rimarrà attiva, sottotraccia, nella società francese, e tornerà a manifestarsi con furibonde recrudescenze.
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Opposizione fittizia e nuovo soggetto politico in Italia
La lezione francese
di Emanuele Montagna e Franco Soldani
Conoscere è distinguere.
(H. von Foerster)
Il caso francese
La recente rielezione politica di Emmanuel Macron a presidente della Francia (con un 28% circa di astenuti tra gli aventi diritto al voto), se da un lato ci dimostra l’enorme e incontrastato (finora) potere dei media, nel manipolare l’opinione pubblica a favore dell’élite al governo (cosa resa possibile dal loro monopolio dell’informazione e della disinformazione, quest’ultima particolarmente grave in Italia), dall’altro porta nuovamente alla ribalta anche un fenomeno relativamente recente, che conviene prendere in considerazione.
Mai come oggi, infatti, l’opposizione fittizia (d’ora in poi: OFI) ha fatto così tanti danni come la, e anzi più della, grandine. Milioni di persone per mesi e mesi nelle strade e nelle piazze di Francia e nessuna formazione, spontanea o organizzata, di un nuovo soggetto politico: un partito, un movimento di massa, una coalizione, un fronte unito ecc. Come è stato possibile? Un recente articolo di Claude Janvier ci aiuta a capire meglio la realtà[1].
A dispetto del fatto che la politica economico-sociale di Macron sia stata, nei passati 5 anni della sua presidenza, dice Janvier, «una catastrofe» per i suoi effetti sulla popolazione civile (aumento della disoccupazione, diminuzione del PIL, aumento dell’inflazione, crisi degli alloggi ecc.), una parte consistente dell’elettorato ha votato per lui. Come si spiega questo fatto?
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Genuflessa agli Usa e senza identità: l'Ue è un destino storicamente inevitabile?
di Fosco Giannini*
Il progetto scientifico di mitizzazione dell'Unione europea, in Italia e negli altri Paesi Ue, si è avvalso sia di uno spazio temporale lunghissmo che di mezzi propagandistici e volti all'organizzazione del consenso di massa di inedita e spregiudicata potenza. Dalle liturgie parlamentari ed istituzionali ai testi scolastici, dalla letteratura al cinema, dalla pubblicità all'arte, dalla politica ai media, ogni cassa di risonanza con capacità di propagazione di massa è stata accesa e resa funzionale alla costruzione della mitologia dell'Europa unita, alla trasformazione di un progetto unitario tanto artificioso e avulso dalla dialettica storica quanto feroce e antioperaio nella concreta proposta sociale, un progetto uscito come un coniglio dal cilindro del grande capitale e venduto sul mercato politico come spinta storica destinale e irreversibile, una pulsione (positivista) inarginabile.
Per gli interessi del movimento operaio complessivo europeo vi è sempre stata l'estrema necessità di smontare il Moloch ideologico vetero capitalista e pan liberista dell'Ue. Ora che l'Ue è servilmente allineata con gli Usa e con la NATO nella guerra contro la Russia tale necessità si fa ancor più stringente ed importante.
Abbiamo un estremo bisogno di decodificare i moti, tanto artificiali quanto malsani, che sovraintendono la costruzione dell'Ue, sia nell'intento di consegnare una coscienza di classe alla vasta area sociale che "dubita" della bontà dell' "operazione Ue", che nell'intento di costruire una vasta resistenza di massa al titanico tentativo che porta avanti il potere capitalistico sovranazionale europeo diretto a "razionalizzare" la costruzione dell'Ue, rendendo tale processo un "dato di natura" immodificabile, al quale ci si possa genuflettere come i primi esemplari del genere Homo si genuflettevano al fuoco.
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Il tradimento. L’ America e noi
di Galliano Rotelli
Di questa tragedia che sta attraversando l’Europa ciò che più mi affligge è la frustrazione dovuta al tradimento, si il tradimento!!! Ma come??? Da tutta una vita sono un suddito fedele dell’impero americano, ho consumato tutto quello che dovevo: coca cola, chewing gum, blue jeans, rock and roll, pop art, cowboy, John Ford, Hemingway, Bob Dylan, Marlon Brando,Kennedy, Luther King, Ginsberg, P.C., Internet… e sì lo ammetto ho anche pianto quando John Kennedy è stato assassinato, e viaggiando parecchio, mi sono convinto che alla fine l’impero del bene era il migliore dei mondi possibili. Unica pecca nel mio, peraltro, immacolato curriculum, in gioventù ho portato l’eskimo sopra i jeans ma si tratta di poca cosa, qualche manifestazione “yankee go home” e robetta così tutto poi riscattato con una vita da capitalista convinto.
Ora quasi alla fine del mio percorso gli “amici” americani, prima mi mandano “a fare in culo” via Victoria Nuland, poi oggi mi danno due possibilità per finire i miei giorni: 1) arrostito da un missile russo a media gittata; 2) annichilito da una crisi economica, di portata epocale, in cui potrebbe sprofondare tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi 50 anni.
Ebbene, triste dirlo, ma quello che sta succedendo oggi in Europa era purtroppo prevedibile, forse persino inevitabile.
Le cause che stanno dietro a questo avvitamento americano nei confronti dell’Europa e la conseguente guerra in Ucraina sono parecchie, in questo articolo ne accennerò alcune di cui in questi giorni si parla poco.
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La campagna vaccinale anti-covid-19 in Italia ha evitato milioni di eventi sanitari negativi?
di Marco Mamone Capria
Introduzione
Lo scopo di questo articolo è cercare di dare, con l’esame di un caso particolare, una risposta al problema: come si può reinterpretare il disastroso fallimento di una politica sanitaria come se fosse stato uno straordinario successo?
Non entro in dettaglio nelle motivazioni per tentare una tale reinterpretazione – anche perché in sostanza sono ovvie: a nessuno piacerebbe essere identificato come responsabile, o corresponsabile, di un disastro, e il costo di circuire, corrompere, comprare chi dovrebbe identificare, accusare, perseguire i responsabili è tanto inferiore a quello di sopportare le conseguenze della pubblica colpevolezza, quanto maggiore è stato il disastro e più alta la posizione dei colpevoli.
Non ripeterò nemmeno quanto ormai riconosciuto da sempre più commentatori, e cioè l’importanza cruciale dell’asservimento dei principali media, in particolare, al governo italiano, cosa indubbiamente facilitata dalla convergenza tra le politiche di questo e gli interessi degli oligarchi che controllano o addirittura possiedono i principali media.
Intendo invece soffermarmi sulle tecniche utilizzate per “ristrutturare” i dati attestanti il fallimento in modo che questo appaia come un successo. Per farlo, un buon punto di partenza è offerto dal rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e del Ministero della Salute (MS) intitolato: Infezioni da SARS-CoV-2, ricoveri e decessi associati a COVID-19 direttamente evitati dalla vaccinazione - Italia, 27 dicembre 2020-31 gennaio 2022 - NOTA TECNICA e apparso nella settimana di Pasqua, il 13 aprile 2022 (d’ora in poi: Rapporto).
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L’economia di guerra nello stato d’emergenza
di Visconte Grisi
1. Capitalismo, pandemia, controllo sociale
In un libro uscito subito dopo il primo lockdown pandemico del 2020, dal titolo Lo spillover del profitto, denunciavamo “il linguaggio da tempo di guerra diventato subito virale nei mass media di regime (…) insieme al ritorno di una retorica patriottarda fuori tempo”, prendendo poi in considerazione alcuni fenomeni che potevano far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra. Citavamo, ad esempio, “la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori (…) la limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico (…) l’aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento che delle emissioni dei titoli di stato”.[1] A tutto ciò si sarebbe aggiunto, poco tempo dopo, la speculazione sui prezzi dei generi di prima necessità, il coprifuoco di fatto, abbellito con il termine esotico di lockdown e l’introduzione di un lasciapassare per accedere a quasi tutte le attività, compresa quella lavorativa, anche qui camuffato con un termine falsamente ecologico, cioè il green pass.
L’origine della pandemia è da ricercarsi nel modello di sviluppo capitalistico, che comporta deforestazioni, grandi monoculture, allevamenti intensivi e distruzione dell’ambiente naturale e che ha così provocato lo “spillover”, cioè il salto di specie del virus. Il capitalismo quindi non può rimuovere le cause di questa pandemia o di altre che seguiranno. L’arrivo di questa pandemia era, inoltre, largamente prevedibile in anticipo solo osservando la catena di epidemie che si sono succedute dall’inizio del secolo, dalla SARS1 del 2003 alle influenze suina, aviaria, Mers ecc.
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La via fantastica al comunismo
di Luca Cangianti
Valerio Evangelisti, scomparso a settant'anni, era convinto della necessità di un immaginario alternativo per contrastare le forze della reazione
In un piccolo cimitero nascosto nelle vallate dell’Appennino emiliano affluiscono un centinaio di persone di tutte le età. La pioggia incessante inzuppa quattro bandiere rosse prive di simboli. Un uomo visibilmente commosso dispone amorevolmente una quinta bandiera sul feretro: è quella rossa e nera della Cnt, il sindacato anarchico che tra il 1936 e il 1939 animò la resistenza repubblicana al franchismo. Da sotto gli ombrelli si alza il canto dell’Internazionale, poi qualcuno seleziona un brano da Spotify e mette il volume dello smarthphone al massimo. Mi sembra di riconoscere i Sepultura, un gruppo death-metal brasiliano.
Lo scorso 18 aprile si è spento all’età di settant’anni Valerio Evangelisti, autore di oltre trenta romanzi tradotti in più di venti paesi, oltre che di un’infinità di racconti, saggi, articoli e prefazioni. Nella stessa giornata del funerale i sindacati di base avevano indetto a Roma una manifestazione con la parola d’ordine: «Abbassate le armi, alzate i salari». Su uno striscione portato da decine di lavoratori e lavoratrici si legge: «Dalle fabbriche ai porti, noi saremo tutto! Ciao Valerio!». Lo slogan «Noi saremo tutto» appartiene agli Industrial Worker of the World e dà il titolo a uno dei romanzi che lo scrittore bolognese ha dedicato all’eroica lotta di questo sindacato rivoluzionario negli Stati uniti.
Non è la prima volta che i movimenti sociali si appropriano dei libri di Evangelisti: una decina d’anni fa gli studenti del Book Bloc scesero in piazza con dei grandi scudi a forma di libro per difendersi dalle cariche della polizia.
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Alla festa degli oppressi e degli sfruttati
di Gigi Roggero
Recensione a Rivoluzione. 1789-1989: un'altra storia, di Enzo Traverso
Il recente libro di Enzo Traverso Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, si candida a diventare punto di riferimento del dibattito sul tema. In questo articolo Gigi Roggero discute in modo approfondito un volume che si assume un compito politico e non solo teorico. Non è vero, infatti, che di rivoluzione non se ne parla più, come uno di quei celebri spettri che la classe dominante è terrorizzata anche solo a evocare. All’opposto, ed è assai peggio, di rivoluzione se ne parla in continuazione. A partire dagli anni Ottanta, nell’epoca della controrivoluzione capitalistica, rivoluzione è diventato uno dei vocaboli più utilizzati per indicare qualsiasi gattopardesco cambiamento fatto con l’obiettivo che nulla cambi. L’innovazione si è mangiata la rivoluzione, o come scritto altrove: il contrario di innovazione non è conservazione, ma appunto rivoluzione.
* * * *
Nel 1543 viene pubblicato per la prima volta De revolutionibus orbium coelestium di Niccolò Copernico, destinato a mandare gambe all’aria il sistema tolemaico e a crearne uno nuovo. Nel 2011 muore Steve Jobs, trasversalmente assurto a icona globale della cosiddetta «rivoluzione» informatica. In questo lasso di tempo si svolge la storia della rivoluzione. Un concetto che nell’età moderna è stato radicalmente trasformato dai processi e dagli eventi di sovversione politica e sociale: non più, in senso astronomico, il moto di un corpo intorno a un altro; non ancora l’innovazione delle forme di produzione, affinché restino immutati il modo di produzione e i rapporti di sfruttamento. Ci riferiamo, invece, al concetto politico di rivoluzione, come rottura dell’ordine costituito, «interruzione improvvisa – e quasi sempre violenta – del continuum storico».
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Il Nome del Padre: da primo(-rdiale) finisce coll’arrivare sempre per ultimo
di Roberto Finelli
1. Leggenda o inizio reale della storia?
Rileggere Psicologia delle masse e analisi dell’Io, il testo di cui si celebra quest’anno il centenario, insieme agli altri tre grandi saggi freudiani di psicologia sociale, quali Totem e Tabù (1912-13), Il disagio della civiltà (1929), L’uomo Mosè e la religione monoteistica (1934-38), non può non significare rilevare il motivo di fondo del “nome del padre” che li attraversa tutti e in qualche modo li unifica. E sollecitarci alla domanda se la continuità della costellazione edipica, come motivo dominante della teoria della cultura e della società, non rischi di compromettere la teoria psicoanalitica di Freud, nel suo transito dalla psicologia individuale alla psicologia collettiva, curvandola da psicologia scientifica della storia in una filosofia della storia, gravata da troppo facili e semplicistiche presupposizioni, otrechè dal loro troppo lineare e persistente operare.
A tutti è ben noto quale accadimento reale Freud abbia posto in Totem e Tabù a fondamento della storia umana e del passaggio da natura a cultura. La condizione primordiale della vita associata, ancora in una condizione di natura, sarebbe stata quella di un’orda primordiale in cui un maschio padre, prepotente e geloso, aveva il monopolio di tutte le femmine, escludendo dal loro possesso, tutti i figli maschi. Con la conseguenza che, come scrive Freud in quel testo: «Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo fine così all’orda paterna. […] Ciò che prima egli aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente nella situazione psichica dell’’obbedienza posteriore’, che conosciamo così bene attraverso la psicoanalisi. Revocarono il loro atto dichiarando proibita l’uccisione del sostituto paterno, il totem, e rinunciarono ai suoi frutti, interdicendosi le donne che erano diventate disponibili»1.
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La parabola dell’economia politica dalla scienza all’ideologia
Marx, il salario e l'accumulazione
di Ascanio Bernardeschi
Il salario appare come il compenso per il lavoro ma è la forma fenomenica con cui si manifesta il valore della forza-lavoro. Il capitale e la sua accumulazione poggiano interamente sullo sfruttamento del lavoro. La legge fondamentale dell'accumulazione capitalistica prevede la presenza di un esercito industriale di riserva. L'accumulazione originaria è basata sulla rapina. Qui la prima parte
La funzione della teoria del valore in Marx
La teoria del valore, nell’analisi di Marx, è uno strumento per indagare i rapporti sociali e le caratteristiche specifiche delle società contemporanee e le sue “leggi di movimento”.
Nelle comunità primitive, così come avviene all'interno di una famiglia, gli uomini organizzavano il lavoro e lo ripartivano fra i vari obiettivi (per la produzione dei beni di consumo ritenuti maggiormente utili, per realizzare degli strumenti di lavoro, per la cura della prole ecc.) in base a una pianificazione, sia pur elementare, così come nella futura società comunista il lavoro verrà distribuito in base a un piano consapevole dei “produttori associati”. Nella società capitalistica, invece, l’allocazione del lavoro e la sua ripartizione fra i vari rami produttivi avviene in base alla legge del valore e al criterio di massimizzazione dei risultati individuali da parte dei singoli capitalisti. Il risultato complessivo è dato dalla somma di queste azioni non coordinate a priori e la smithiana “mano invisibile del mercato” non sempre funziona al meglio.
Caratteristica di questo modo di produzione, in cui predomina l’accumulazione di valore astratto, è che il processo lavorativo con cui si producono oggetti utili non è altro che il mezzo per tale accumulazione, mentre il fine è il processo di valorizzazione del capitale. La produzione, la realizzazione e l'accumulazione di plusvalore divengono fine a sé stessi. Vengono prodotti beni utili solo in quanto ciò è un mezzo per valorizzare il capitale. Il lavoro interessa solo come produttore di plusvalore, sorgente unica della valorizzazione del capitale, e la sua attitudine a produrre determinati beni utili, di valori d’uso, è solo una necessità per raggiungere lo scopo della valorizzazione del capitale.
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Big-tech e guerra
di Pier Paolo Caserta
Bisogna a questo punto mettere in luce un nesso fondamentale: che la concentrazione di ricchezza senza precedenti nella storia fatta registrare dal capitalismo digitale (Big-tech), unitamente al suo modello imprenditoriale completamente parassitario (capitalismo della sorveglianza) sfocia in modo deterministico: 1) in un sistema informativo apparentemente pluralistico ma in realtà orwelliano e 2) nell’ipertrofia espansionistica anche sul piano militare.
Una delle premesse del ragionamento che vado ad articolare è la vicinanza del capitalismo digitale statunitense al Partito democratico, diversamente dalle connessioni di Trump, legato al “vecchio” capitalismo solido. Ovviamente un aspetto rilevante della questione è lo scontro in corso tra il capitalismo “fordista” e quello digitale. La nota rivalità Bezos / Trump vale ad esemplificare sinteticamente l’assunto.
La caratteristica principale dell’odierno “capitalismo della sorveglianza”, o se si preferisce delle piattaforme, è di realizzare, grazie alle inserzioni pubblicitarie, utili stratosferici a partire dalla semplice presenza online degli utenti, catturando continuamente la loro attenzione attraverso la costante profilazione della loro identità digitale e la conseguente proposta di contenuti sempre più adatti all’utente, avvalendosi di algoritmi sofisticati. L’intero processo è sempre più sottratto alla componente umana e delegato a intelligenze artificiali complesse e capaci di apprendere (capitalismo magico), mentre gli essere umani si comportano sempre più come macchine (transumanesimo). Secondo la sintesi offerta da S. Zuboff, autrice del saggio “Capitalismo della sorveglianza” (2019):
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Ucraina, le colpe di Zelensky, le ragioni di Putin
Pino Nicotri intervista Enrico Vigna
Intervista anti Nato: un Paese sempre più povero, con troppi nazisti, una tragedia che dura da 8 anni, parla Enrico Vigna. Sulla Ucraina e i suoi tragici lunghi conflitti Enrico Vigna ha scritto tre libri. Giornalista e saggista, nella vita di tutti i giorni lavora in una cooperativa di distribuzione e consegne libri.
Ma la sua passione sono la testimonianza e documentazione dei fatti e misfatti delle guerre dei nostri tempi non solo in Europa.
Guerre sulle quali ha scritto molti libri e dossier. Sulla ex Jugoslavia, Palestina, Tibet, Libia, Siria, Priednestrovie, Abkhazia, Krajina, Ucraina, Scozia, NovoRossya, Chavez, Mandela, Siria, Saharawi, NagornoKarabakh.
Che lo hanno portato ad essere l’attivissimo Coordinatore dei Progetti di Solidarietà Concreta di SOS Yugoslavia-SOS Kosovo Metohija, di SOS Donbass–Ucraina Resistente, di SOS Siria, di SOS Afghanistan e di SOS Palestina.
Nel 2012 per l’attività umanitaria in Serbia/Kosovo ha ricevuto il Premio Novosti di Belgrado assieme al regista Emir Kusturica e al sacerdote Padre Irinei.
I suoi libri sull’Ucraina si intitolano
– Ucraina, tra golpe e neonazismo;
– Ucraina, Donbass – I crimini di guerra della Giunta di Kiev;
– Noi sotto le bombe in Donbass, scritto assieme a N. Popova e V. Shilova.
L’intervista che segue è la sintesi di un testo lungo quasi il doppio. La ritengo molto interessante perché, nel quadro delle informazioni e opinioni disponibili, essa riporta un importante complemento sulla realtà ucraina. Visto da Mosca, si potrebbe dire, ma un importante complemento di verità.
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