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Le radici storiche della fame
di Piero Bevilacqua
Se ne parla ormai con allarme da molti mesi. Agli abituali 800 milioni e passa di affamati annualmente censiti dalla FAO se ne va aggiungendo un numero imprecisato che aumenta di giorno in giorno.Analisti e commentatori hanno chiarito soprattutto le ragioni congiunturali di ciò che sta avvenendo: crescita della domanda, soprattutto di carne e quindi di mangimi nei Paesi emergenti, annate di prolungata siccità in importanti regioni cerealicole, vaste superficie di suoli convertiti ai biocarburanti, aumento del prezzo del petrolio, speculazione finanziaria sui titoli delle materie prime, ecc. E tuttavia l’attuale fase non è un congiuntura astrale, il fatale combinarsi di “fattori oggettivi”. Luciano Gallino, su Repubblica , ha ben messo in luce le responsabilità dell’Occidente nel determinare le condizioni dei nostri giorni. Ma le responsabilità non sono solo recenti, rimandano a una storia di scelte e di strategie che occorre rammentare se si vogliono trovare soluzioni durevoli a un problema di così scandalosa gravità.
La diffusione epidemica della fame nel mondo ha una origine storica ormai non più recente.Essa nasce con la rivoluzioneverde avviata dagli USA negli anni ’60 in vari Paesi a basso reddito e proseguita con crescente intensità nei decenni successivi. Quella rivoluzione venne definita verde perché essa aveva il compito strategico di contrastare, nelle campagne povere del mondo, l’onda rossa del comunismo.
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List oltre Marx: il nuovo libro di Gianfranco La Grassa
di Emiliano Brancaccio e Rosario Patalano
Dei cumuli di macerie ci si libera anche lasciandosi alle spalle i feticci di un passato recente non proprio glorioso: un’abusata “correttezza politica”, così come una spesso pelosa, ridondante “non violenza”. Un commento al nuovo libro di Gianfranco La Grassa (Finanza e poteri, manifestolibri) fa dunque esattamente al caso nostro. Con uno stile volutamente scorretto, bellicoso, talvolta gratuitamente viscerale, La Grassa è riuscito in questi mesi ad attirare una certa attenzione sul sito www.ripensaremarx.it, che raccoglie le sue ultime tesi e le sviluppa in un lavoro collettivo – a cura di Gianni Petrosillo - espressamente finalizzato alla uscita definitiva dal marxismo e alla resa dei conti finale con gli ultimi eredi politici di quella gloriosa tradizione. Diciamo subito con franchezza che sul piano teorico generale questa ambiziosa operazione a nostro avviso non riesce, per i motivi che vedremo. Ciò nonostante, come avremo modo di osservare, il contributo di La Grassa offre spunti importanti per la riflessione e per il posizionamento politico, ed è soprattutto per questo motivo che esso merita di esser letto e attentamente valutato.
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I veri nodi in gioco nell'agenda di Rifondazione
Alberto Burgio
Se Rifondazione comunista non riesce a essere sede di un «lavoro comune di indagine e proposta» per l'elaborazione di una «visione comune» alle forze della sinistra; se non riprende il cammino della Sinistra Arcobaleno, bruscamente interrotto dalla disfatta elettorale, allora il suo travaglio è sterile e insignificante. In questo caso, «che ci importa del suo congresso?». Così Rossana Rossanda chiude la sua lettera a Rifondazione (il manifesto, 17 maggio 2008). Provo a rispondere non eludendo la questione. Cruciale, ma alquanto dilemmatica.
Rossanda mette in chiaro quel che a lei, «vecchia comunista», sta più a cuore. Il problema dei problemi è il lavoro, la solitudine del lavoro dipendente. Sul piano materiale, il problema si chiama precarietà, basso salario, disoccupazione. E ancora: peggioramento delle condizioni di lavoro (ritmi, orari di fatto, carichi, ripetitività, infortuni); non riconoscimento delle prestazioni reali; aumento delle differenze normative e salariali, oggi tra segmenti della stessa filiera, domani tra singoli dipendenti della stessa impresa. Queste alcune delle questioni essenziali.
Che cosa comporta una simile impostazione? Forse che ci si disinteressi degli altri terreni di conflitto: delle questioni ambientali e istituzionali, delle differenze di genere e dei diritti civili, della guerra e dei diritti umani? Naturalmente no. Certo però porta con sé, questa impostazione, una prospettiva influente sulla lettura della realtà: una direzione dello sguardo, suggerita da un principio ordinatore. Se si ritiene cruciale un terreno di conflitto, ciò non deriva da opzioni personali di gusto o di interesse, ma dal modo in cui si leggono processi e conflitti. E questo modo rimanda a sua volta a un quadro di riferimento, a una ipotesi teorica, a una cultura politica.
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Draghi, l'ultimo ultrà del liberismo
di Emiliano Brancaccio
«I protagonisti della ripresa devono essere coloro che hanno in mano il futuro: i giovani, oggi mortificati da un'istruzione inadeguata, da un mercato del lavoro che li discrimina a favore dei più anziani, da un'organizzazione produttiva che troppo spesso non premia il merito. Il consenso sulle cose da fare è vasto, ma si infrange nell'urto con gli interessi costituiti che negli ultimi anni hanno scritto il nostro impoverimento».
Con queste parole il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi ha terminato ieri le sue Considerazioni finali. Per il governatore l'ostacolo principale allo sviluppo del paese verte dunque essenzialmente sul conflitto tra le generazioni, tra giovani lavoratori precari e vecchi lavoratori garantiti. E' questa una interpretazione non nuova, che tuttavia non può lasciarci indifferenti. Bisogna riconoscere infatti che quella tra le generazioni è una frattura reale, che del resto è solo una delle molteplici crepe che sono andate formandosi nella composita struttura della classe lavoratrice: si pensi ai conflitti più o meno latenti tra lavoratori del settore pubblico e lavoratori del settore privato, tra para-subordinati e dipendenti, tra settentrionali e meridionali, tra immigrati e nativi, tra donne e uomini. In buona parte, la crisi del movimento dei lavoratori e delle organizzazioni politiche e sindacali che facevano capo ad esso può esser fatta risalire proprio alla tendenza funesta a subire - e talvolta persino ad assecondare - anziché contrastare le voragini contrattuali e normative che hanno progressivamente diviso e isolato i singoli individui sociali, e che hanno drammaticamente compromesso l'antica ambizione dell'unità di classe.
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Vattelapesca forever
di Carlo Bertani
“Puoi raggiungere risultati altamente superiori con un team molto motivato, che dispone di macchinari vecchi e fatiscenti dislocati in un vecchio capannone, rispetto a quello che riuscirai a raggiungere con un team demotivato e privo di stimoli, che ha accesso alle migliori attrezzature e infrastrutture.”
Reinhold Würth, imprenditore tedesco che ha costruito, partendo da una ferramenta, un’azienda di levatura mondiale, che occupa 51.000 dipendenti e che spazia dai sistemi di fissaggio ai pannelli solari.
A dire il vero, non meriterebbe nemmeno d’interessarsi alle vicende della misera borghesia italiana, tanto è diafana e poco incisiva nel panorama europeo; verrebbe da dire: lasciamo questi poveri parvenu in SUV al loro misero destino, se il loro fato non intersecasse il nostro.
Era tanto tempo che non s’udiva un condensato di bugie e pessime intenzioni – di tal, miserrimo livello – in una relazione di Confindustria: anche gli imprenditori italiani confermano l’andamento “in picchiata” del Paese.
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Prima che sia troppo tardi
di Marino Badiale e Massimo Bontempelli
1. I conti tornano
Le elezioni politiche dell’aprile 2008 segnano un momento importante nella storia del nostro paese. Si tratta della fine della sinistra in Italia. Nel Parlamento italiano uscito da quelle elezioni non è presente nessun partito che si definisca, o possa essere definito, come “sinistra”. Non si tratta di un fatto congiunturale. Naturalmente continueranno ad esistere realtà politiche, sociali, culturali che si definiranno “sinistra”, e può anche darsi che tornino ad essere presenti in Parlamento. Ma si tratterà di realtà sempre più secondarie e residuali. La fine della sinistra ha infatti una radice profonda, strettamente legata ai caratteri della fase attuale e alla natura essenziale della sinistra stessa.
Come abbiamo cercato di mostrare ne "La sinistra rivelata” [1], la sinistra è stata caratterizzata, nei due secoli della sua esistenza, dal binomio “sviluppo ed emancipazione”: è stata cioè la parte politica, sociale e culturale che ha lottato per l’emancipazione dei ceti subalterni promuovendo lo sviluppo economico e tecnologico. Questa congiunzione è stata possibile perché, fino a tempi recenti, sviluppo ed emancipazione erano compatibili. Ma la situazione è completamente cambiata negli ultimi decenni. La fase storica che, utilizzando termini imprecisi ma ormai di uso comune, viene chiamata “globalizzazione” o “neoliberismo” rappresenta, fra le altre cose, il momento in cui sviluppo ed emancipazione si separano e si contrappongono.
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Rifiuti urbani e rifiuti umani
di Guido Viale
L'abbinamento tra rifiuti urbani e rifiuti umani è un dato di fatto, consolidato dal tono e sempre più anche dalle parole dei politici impegnati sul fronte della "sicurezza". I primi, i rifiuti urbani, sono lo scarto e il residuo non consumato dei nostri "consumi", cioè di quello che ciascuno di noi compra tutti i giorni. I secondi, i rifiuti umani, sono lo scarto, il residuo non assimilato, dell'ininterrotto processo di riorganizzazione e di riconfigurazione della società. Ma la "società" siamo noi e anche i rifiuti sociali sono un nostro prodotto.
Generiamo i rifiuti urbani individualmente, ciascuno per conto proprio, ma all'interno di processi di produzione-consumo-scarto in larga parte predeterminati da altri. Produciamo rifiuti sociali collettivamente e anonimamente; ma poi ciascuno di noi deve fare i conti con la propria coscienza: con il grado e la misura in cui partecipa alla formazione e alla conferma dei processi di esclusione in atto; che possono portare anche molto lontano: per esempio all'incendio di campi nomadi e al rogo di chi ci abita, riedizione plebeo-leghista ("nord e sud uniti nella lotta") del porrajmos con cui i nazisti hanno a suo tempo sterminato mezzo milione di zingari.
L'abbinamento tra rifiuti urbani e rifiuti umani non dovrebbe destare scandalo perché è una verità comprovata; e può suscitare indignazione solo se e quando questo sentimento diventa il filo conduttore per fare i conti con il problema e cercare di venirne a capo.
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Dolce stil novo
Rossana Rossanda
A che servono le imprecazioni? A niente, salvo che a dare uno sfogo ai nervi di chi vi si abbandona. Ebbene stavolta lo farò io. Ho un'età venerabile e sono fuori di me per quel che succede da tre giorni in qua. Fossero infuriati tutti, o almeno un italiano su due, capirei. Ma no, quel che manda me fuori dei gangheri scivola tranquillo su tutti o quasi. Specie sull'opposizione. Il che non è l'ultima ragione di collera. Quindi non le sole note concettose e noiosette, ma uno sfogo furibondo.
Sono tre giorni che di notizie stupefacenti ne arriva una ogni mezz'ora. Cominciamo dal metodo. Prima riunione del governo nel Palazzo reale di Napoli. So bene che aveva cominciato il governo Prodi andando a Caserta. Scopo? Essere vicini alla gente del sud. Ma non mi pare che i casertani ne fossero stati coinvolti e rapiti. Stavolta poi Napoli era blindata, Berlusconi vi è entrato come un conquistatore, e guai a chi si avvicinasse. Unici a vederlo, i giornalisti accreditati alla conferenza stampa.
Arrivo, consiglio, partenza. A ogni buon conto, popolo niente. Che senso ha avuto e quanto è costata questa esibizione, compresi viaggi, pasti, trasferte, transenne e polizia, stavo per dire carri armati e mezzi di sbarco, lucidature extra del Palazzo Reale? Spero che un deputato lo chieda. Spero che un gruppo di deputati voti coralmente una mozione che impegni i ministri a riunirsi a Palazzo Chigi, recandovisi possibilmente in autobus, limitando le forze dell'ordine alle sentinelle che ci sono sempre. E che interdica ai futuri governi della Repubblica di farsi una per una tutte le regge d'Italia che, data la storia nazionale, sono troppe.
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L'ideologia del sacro fuoco
Guido Viale
Nessuna novità di rilievo, rispetto alle anticipazioni, nelle notizie relative alla strada scelta dal governo Berlusconi per portare la Campania fuori dall'emergenza rifiuti. Si continua a ritenere che gestire i rifiuti, anche in situazioni di crisi estrema come quella campana, si riduca a costruire degli inceneritori e aprire delle discariche: la stessa idea che era alla base del Piano Regionale varato 14 anni fa dalla Giunta campana di Rastrelli - e poi confermato da Bassolino e dagli altri commissari - che prevedeva la costruzione di ben 24 inceneritori.
Che poi sono stati ridotti a 13, poi a 3, poi a uno solo - ma di dimensioni immani - mentre nel frattempo, in attesa di accendere il loro fuoco purificatore, non si è fatto altro che cercare siti vecchi e nuovi per aprire o riaprire discariche dove sotterrare la montagna crescente dei rifiuti che ogni giorno la regione produce, e che ogni giorno si accumula o riaccumula sulle strade. Di fonte a questo, la soluzione proposta dal governo si articola in quattro punti.
Più inceneritori
Quattro inceneritori, e non più solo tre: a quello mai finito di Acerra si dovrebbero aggiungere quelli già programmati di S. Maria La Fossa e di Salerno e un quarto a Napoli. Dei nuovi impianti non è stata comunicata la capacità. L'inceneritore di Acerra ha una capacità di 700.000 tonnellate all'anno di Cdr. Se i tre nuovi inceneritori fossero altrettanto grandi, si arriverebbe a quasi tre milioni di tonnellate: più di tutti i rifiuti prodotti dalla regione in un anno.
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La verità messa in scena
di Vladimiro Giacché
Giornali e televisioni ci offrono quotidianamente un'ampia fenomenologia della menzogna. La verità viene attaccata, negata e contraddetta nei modi più diversi. Può venire mutilata (come quando si parla delle foibe tacendo i precedenti crimini di guerra commessi dall'esercito italiano in Jugoslavia) o semplicemente rimossa, può venire capovolta o essere semplicemente imbellettata facendo uso di definizioni che distorcono il significato degli eventi (come quando si definisce la guerra "operazione di polizia internazionale"). Tutte queste modalità di negazione della verità sono importanti. Ma forse è la verità messa in scena quella che meglio esprime il nostro tempo.
Un tempo le verità inconfessabili del potere potevano agevolmente essere coperte dal segreto (gli arcana imperii). Oggi, nell'epoca dei mezzi di comunicazione di massa e della politica mediatizzata, il silenzio e il segreto sono armi spuntate.
Perciò, quando serve (e serve sempre più spesso), la verità deve essere occultata o neutralizzata in altro modo. In particolare sostituendo una realtà virtuale a quella reale: offrendo versioni di comodo dei fatti, dando il massimo rilievo a questioni di scarsa importanza (così da distrarre l'attenzione dai problemi reali), inventando pericoli e nemici inesistenti per eludere quelli veri.
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Incubi economici allo specchio di un fragile senso di comunità
Luigi Cavallaro
Proiettando sui «nemici» esterni le cause dell'impasse europea, Giulio Tremonti nel suo libro «La paura e la speranza» interroga implicitamente anche la sinistra sulla sua capacità di trasformare le differenze in elementi di complessità interna alla struttura sociale I timori di cui parla Tremonti nel suo pamphlet sono quelli che hanno in larga parte determinato gli esiti delle elezioni di aprile e derivano da politiche economiche sbagliate, che hanno eretto
Dell'ultimo libro di Giulio Tremonti si è parlato molto, specie da quando la vittoria del Popolo della libertà alle elezioni del 13 e 14 aprile ne ha fatto uno strumento non solo per «interpretare il mondo» ma, per continuare nella metafora, potenzialmente anche per «trasformarlo». È un libro - va detto subito - che vale la pena leggere, e con attenzione. Nel diluvio di pamphlettistica d'infima qualità, dedita pressoché esclusivamente a puntare l'indice indignato sui privilegi e le malefatte delle varie «caste», La paura e la speranza (Mondadori, pp. 112, euro 16) recupera la vocazione originaria del pamphlet come luogo in cui il chierico distilla il proprio sapere e ne fa strumento di «battaglia intellettuale e morale» per il popolo cui è organico.
Regole di navigazione
Così infatti procede Tremonti: con stile conciso, icastico, fatto di proposizioni brevi che si succedono rapide come aforismi.
Né è casuale che, ciononostante, esse riescano a descrivere nitidamente il «mondo grande e terribile» che abbiamo davanti, proprio come un lampo che squarcia l'oscurità della notte: al contrario, è una conseguenza del fatto che, per Tremonti, la realtà ha una «durezza» (vorremmo dire: un'oggettività) che non si piega alle interessate «interpretazioni» di chi è al governo o all'opposizione.
«La meteorologia non fa il tempo, non decide quando splende il sole o quando piove, ma aiuta a navigare. I marinai sanno che non si governa il mare ma la nave, che si manovrano le vele e non il vento», scrive il ministro dell'Economia: e in questa affermazione si coglie lo scarto che separa la concezione del mondo racchiusa in questo libretto da quella vagamente new age che ha ispirato (e ispira) l'intellettualità «liquida» post-sessantottina, nella sua variante modernizzatrice propria degli «integrati» come in quella millenaristica degli «antagonisti».
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Lettera a Rifondazione
di Rossana Rossanda
Si può capire che dopo la batosta la ex Sinistra arcobaleno sia in sofferenza. Dovrebbe esserlo anche il Pd, dato che il disegno di prendere voti al centro è fallito, ma il suo leader è inossidabile, fa le fusa con Berlusconi perché quel che in primo luogo preme a tutti e due è riconoscersi l'un l'altro come il solo interlocutore su piazza. Per la Sinistra arcobaleno non c'è invece conforto possibile. La scomparsa dal parlamento ha mandato a pezzi il progetto di rimescolare le sinistre residue, e il fatto che ognuna soffra e se ne vada per conto suo dimostra che era davvero fragile. Quel che non è comprensibile è che si domandino così poco il perché del fallimento. Tutti lamentano di non essere stati capiti o non essersi fatti capire; si fa la festa ai gruppi dirigenti dei quali si chiedono le dimissioni o si hanno addirittura senza chiederle. Tutti scoprono l'ombrello, cioè che la Lega è radicata nel territorio, mentre in nome della modernità ci si è affidati più alla tv che alla frequentazione di coloro cui si chiedeva il voto.
In convulsione è soprattutto Rifondazione: perché la sciagurata ha partecipato al governo? Non ci doveva andare, doveva appoggiarlo dall'esterno. Ma non vedo che cosa sarebbe cambiato: o ne votava volta per volta le leggi, rinunciando a portarvi dall'interno anche quel poco che è riuscita a introdurvi, oppure non le votava, e il governo sarebbe caduto fra gli strepiti contro la sua «irresponsabilità».
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Scopriamo le carte per la nuova rappresentanza
Tiziano Rinaldini
Dopo il disastroso risultato elettorale e le non meno disastrose dinamiche che ne sono derivate all'interno dei partiti dell'Arcobaleno, è non solo comprensibile, ma auspicabile ricercare rapporti unitari tra le forze di sinistra e costruire luoghi di relazioni (forum) tra i «movimenti» o le associazioni, le organizzazioni, ma non si può confondere questo con il problema di una nuova forza politica della sinistra. Su questo piano si pongono questioni inevitabili per chiunque se ne dichiari interessato.
La prima di queste questioni è il riconoscimento che non si può non prendere atto che al problema non è interessato chi ritiene che la prospettiva politica della sinistra vada ricercata per l'oggi e per il domani nella riproposizione pura e semplice delle identità delle esperienze con cui nel '900 è stata prevalentemente interpretata la storia del movimento operaio, né chi a fronte di questa crisi della rappresentanza ritiene che ciò sia positivo non perché apre il problema di ripensarne forme e contenuti, ma perché lo ritiene uno sbocco che finalmente ci libera da un falso problema. Sono posizioni, linee di pensiero e di pratica politica notoriamente presenti, rispettabili e con cui confrontarsi, ma non certo interessate a un processo di costruzione di una nuova rappresentanza politica della sinistra.
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«Attenti al valore del contratto»
Antonio Sciotto
Il sociologo Gallino e il testo dei sindacati: il livello nazionale è l'unico che crea una reale redistribuzione, la riforma rischia di indebolirlo. Bene la rappresentanza, ma manca una ricetta per i precari
Profondo conoscitore del mondo del lavoro e delle imprese, il sociologo Luciano Gallino ha analizzato il testo di riforma dei contratti approntato da Cgil, Cisl e Uil, e nota subito «un'importante assenza», relativa al ruolo del contratto nazionale. Dall'altro lato, ritiene poco chiari e inefficaci, concetti come l'«inflazione realisticamente prevedibile» e la contrattazione «accrescitiva» di secondo livello, basata su parametri quali la «redditività» o la «produttività».
Professore, come verrebbe ridisegnato il sistema contrattuale?
Leggendo il testo, mi pare che ci sia un'assenza importante, relativa a un ruolo incisivo del contratto nazionale: perché la funzione fondamentale del primo livello è stata, storicamente, quella di tutelare la distribuzione del reddito tra salari da un lato, e profitti e rendite dall'altro.
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Immaginario e senso comune
di Enrico Livraghi
L'alluvione ha investito tutti. Ha spazzato via la sinistra cosiddetta arcobaleno (impronuciabile sintagma), ma ha fatto franare anche la supponenza autocratica del PD di Walter Veltroni (un vero e proprio stratega da pizzicheria). E però non ha lasciato indenni neppure i movimenti, che infatti, se non hanno mai smesso di formicolare, ora sono obbligati a dirigere lo sguardo oltre le macerie.
Dunque, questo si sente dire: ripartiamo dai movimenti. Lo dicono perfino quelli che si erano distratti, e che oggi, après le déluge, intrappolati nella ritualità verticistica dei redde rationem, cercano una ben faticosa palingenesi. Riportiamo dunque in primo piano quella prassi di intercettazione del mutamento, quella capacità di percezione dei frantumi antropologici che solo chi è immerso nei pori fisici del tessuto sociale è in grado oggi di praticare. Rimettiamo almeno in gioco la ricerca sul campo, vale a dire quella lente di ingrandimento che può portare in primo piano l'origine e le conseguenze della scomposizione cosiddetta postfordista delle forme del lavoro, ossia i travestimenti e le metamorfosi odierne del processo di auto-valorizzazione del valore.
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Lo tsunami finanziario
di F. William Engdahl
I. IL DEBITO IPOTECARIO SUBPRIME E’ SOLO LA PUNTA DELL’ICEBERG
Parte 1: la dolorosa lezione della Deutsche Bank
Perfino i miei amici esperti banchieri mi assicurano che a parer loro il momento peggiore del cataclisma da cui sono state colpite le banche statunitensi è oramai superato, e che la situazione sta lentamente tornando alla normalità. Ma nel loro roseo ottimismo manca la percezione dell'ampiezza del deterioramento in atto sul mercato mondiale del credito, che ruota attorno al mercato americano dei titoli garantiti, e in particolare a quello delle COD (Collateralized Debt Obligations) e delle CMO (Collateralized Mortgage Obligations). Ogni attento lettore ha senz'altro sentito dire "Si tratta di una crisi del mercato statunitense del debito ipotecario subprime". Ma quasi nessuno di quelli che conosco ha capito che il problema dei subprime è solo la punta di un colossale iceberg, ora in lento scioglimento. Vi faccio un esempio recente per spiegarvi la mia convinzione che lo "tsunami finanziario" stia solo cominciando.
Pochi giorni orsono la Deutsche Bank ha subito un rude colpo quando un giudice dell'Ohio (USA) ha emesso
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L'economia keynestana oggi (1977)
di Lorenzo Rampa
ISEDI - Istituto Editoriale Internazionale
Su gentile segnalazione di Lino RossiIl successo di una teoria si misura sulla sua capacità di spiegare alcuni fatti e risolvere alcuni problemi che le teorie precedenti avevano lasciato inspiegati ed irrisolti. Da questo punto di vista quella keynesiana è stata una teoria di grande successo, in quanto ha messo a disposizione strumenti di analisi capaci di spiegare e strumenti di intervento capaci di risolvere le crisi e la disoccupazione.
Per tutti i trent'anni successivi alla pubblicazione della Teoria Generale i Governi dei paesi capitalistici riuscirono a mantenere una situazione di (quasi) piena occupazione mediante politiche keynesiane (spesa pubblica in deficit, stimolo e sostegno degli investimenti, ecc.).
Per gli economisti divenne inevitabile essere "keynesiani": anche per coloro che continuarono ad ispirarsi alla teoria neoclassicache Keynes aveva così puntigliosamente attaccato.
Probabilmente ciò è stato reso possibile, oltre che dal successo pratico delle sue raccomandazioni, anche dalla sua fiducia che, una volta ristabilita la piena occupazione, la teoria neoclassica si sarebbe di nuovo affermata "da quel punto in avanti".
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Così l’Occidente produce la fame nel mondo
di Luciano Gallino
Tempo fa l´allora presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ebbe a dire che quando la metà del mondo guarda in tv l´altra metà che muore di fame, la civiltà è giunta alla fine. Ai nostri giorni la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi potrebbe far salire il totale delle persone che muoiono di fame a oltre un miliardo. La battuta citata è così diventata ancor più realistica. Con una precisazione: la nostra metà del mondo non si limita a guardare quel che succede. Si adopera per produrre materialmente lo scenario reale che poi la tv le presenta.
Sebbene varie cause contingenti – i mutamenti climatici, la speculazione, cinesi e indiani che mangiano più carne, i milioni di ettari destinati non all´alimentazione bensì agli agrocarburanti, ecc. – l´abbiano in qualche misura aggravata, la fame nel mondo di oggi non è affatto un ciclo recessivo del circuito produzione alimentare-mercati-consumo. Si può anzi dire che per oltre due decenni sia stata precisamente la fame a venir prodotta con criteri industriali dalle politiche americane ed europee.
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L’accumulazione è precaria?
A cura di Andrea Fumagalli*
Il meccanismo di accumulazione e produzione di ricchezza di oggi si basa sempre più sulla produzione a rete, sia diffusa sul territorio (esterna), che nei singoli luoghi di lavoro (interna). Una produzione reticolare che, a differenza del taylorismo, non viene mediata esclusivamente dalla macchina, ma richiede anche coordinamento e cooperazione umana.
Non si tratta cioè di una produzione rigidamente meccanica, ma “umanamene e linguistamente flessibile”.
Alcuni esempi: il funzionamento e organizzazione di un supermercato nel ciclo di produzione che va dal trasporto merci, ordini di subfornitura, scaffalatura, e servizi di vendita diretta al cliente (banco e casse). Oppure, l‘organizzazione di una rete di trasporto o, ancora, il funzionamento di una redazione giornalistica. Lo stesso funzionamento dei servizi di terra di un aeroporto richiede coordinamento flessibile (non meccanico né automatico) tra le varie fasi. Lo stesso dicasi per la strutturatemporale di un call-center e le varie specializzazione di risposta (tasto 1, 2, 3, 4, 5 ecc. a seconda del tipo di richiesta).
Nel lavoro di cura, poi, la struttura a rete diventa struttura relazionale.
Il primo risultato che consegue da queste nuove modalità organizzative è che scompare una figura lavoratrice egemone, ma piuttosto si mettono a sfruttamento differenti soggettività del lavoro. Sono proprio queste differenze, rese molecolari e individuali, spesso fra loro artificialmente messe in contrapposizione, a consentire la produzione di ricchezza. Tra queste, i fenomeni più importanti del mondo del lavoro oggi sono costituiti dalla diffusione del lavoro migrante e dal processo di femminilizzazione del lavoro.
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Uno scandalo bipartisan: i ricchi, gli arricchiti
di Goffredo Fofi
Gli economisti sanno bene che le disuguaglianze tra i ceti sociali e le persone vanno crescendo a vista d’occhio (cominciano a rendersene conto anche in Italia, anche se i più, e non importa di che schieramento, fingono di non vedere o elaborano effimere ricette destinate a scontrarsi con l’avidità e la amoralità della classe dirigente, di cui peraltro sono parte integrante). Per consolarsi, dicono che però diminuiscono quelle tra i popoli, e fanno l’esempio della Cina e dell’India ma tacciono di tanti altri paesi e del continente africano. Nel quadro complessivo il peso centrale dell’impoverimento dei più è dato certamente dal predominio della finanza sulla produzione: la dimensione finanzaria sopravanza quella prettamente economica e cioè la realtà, ed è questo a permettere gli arricchimenti più facili e improvvisi di chi con la finanza sa giocare e di chi sta loro attorno.
Se aggiungiamo a questo quadro l’assenza di una funzione ridimensionante del sistema fiscale, di cui la politica si serve con molta disinvoltura, attentissima a farsi amici coloro che i soldi sanno farli e maneggiarli, non c’è da stare allegri e certamente non si può essere ottimisti sul nostro futuro. Sul futuro delle maggioranze.
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E’ saltato il tappo
Diciamocelo con grande franchezza: con le elezioni e i ballottaggi del 13 e 18 aprile e la dissoluzione della sinistra storica, almeno così come l’abbiamo conosciuta in Italia negli ultimi venti anni….è saltato il tappo. Questo non può essere ritenuto un risultato negativo, al contrario.
Fatta eccezione per qualche lettore del Manifesto e per i molti che perderanno il loro status sociale acquisito negli anni, non si avverte in giro alcuno psicodramma, tutt’altro. Si avverte invece con una certa razionalità (in alcuni casi fredda, in altri euforica) come sia stata salutare questa dovuta e attesa sconfitta storica di un ceto politico autoconservativo oltre ogni limite e oggi ridotto ad una imprevista dimensione extraparlamentare. Una dimensione decisamente innovativa per chi fino a qualche mese fa aveva accusato di “essere fuori dalla comunità politica” i movimenti che si sono opposti alla politica militarista e antisociale del governo Prodi nonostante che il governo potesse contare sulla partecipazione piena ed attiva di tutti i partiti della sinistra “radicale”.
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Memorie di una classe da sempre irriducibile
Sergio Bologna
Operai e lavoratori in carne e ossa, in tutta la loro realtà. È stato il cinema italiano, e in parte la televisione, a «sbirciare» dentro le industrie. Francesca Comencini, con il suo «In fabbrica» ha fatto un film proprio su quello «sguardo», non sulla storia, restituendo così una dignità perduta
Dobbiamo essere grati a Francesca Comencini. Ha riportato gli operai nello spazio pubblico. Quelli che lottavano intendo, quelli degli anni Settanta, quando l'Italia era ancora un paese civile, malgrado le stragi di stato e la guerriglia urbana. Un paese con salari decenti, che permettevano di vivere, potevi ammalarti e far figli, senza che questo fosse considerato un autolicenziamento. Era un paese di passioni civili e di conflitti sociali. Oggi lo guardano con commiserazione o con orrore (il terrorismo!). Lo guardano «loro», quelli che hanno ridotto il nostro paese in un territorio dove il culo di una «velina» vale assai più del cervello del miglior ricercatore.
Sono ben distribuiti tra Destra e Sinistra questi «loro», forse più di là che di qua ma quelli di qua più nefasti, più miserabili.
Sono in parte quei «loro» che ci hanno restituito Berlusconi dopo un anno e mezzo di ottuso malgoverno e in parte quelli che hanno esercitato il loro sporco mestiere e da tempo si sono ritirati o sono morti. Lasciamoli stare, a godersi la pensione, ma non lasciamo perdere l'occasione che Francesca Comencini ci offre per tornare con la memoria agli anni Sessanta e Settanta, per provare a ragionare di nuovo di quel tema così a lungo dimenticato, trascurato: le condizioni di lavoro e il conflitto sociale.
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Il Riformismo che non c'è
Intervista a Carlo Donolo
Una sinistra che non affronta le grandi questioni nazionali irrisolte difficilmente può dichiararsi riformista; la tendenza a chiamare riforme i tentativi di adeguarsi alla globalizzazione tramite la flessibilizzazione del lavoro; le grandi questioni del divario fra nord e sud, della centralità del lavoro, della sostenibilità ambientale dello sviluppo; un sistema di potere abbastanza impermeabile che vede l’alleanza fra rendita immobiliarista e pubbliche amministrazioni. Intervista a Carlo Donolo, docente di Sociologia Economica all’Università di Roma “La Sapienza”, ha pubblicato, tra l’altro, Sostenere lo sviluppo. Ragioni e speranze oltre la crescita, Bruno Mondadori 2007. L’intervista è stata realizzata prima delle elezioni.
La domanda riguarda i destini della sinistra in Italia…
Già, l’eterna interrogazione sulla sinistra che oggi, nel contesto europeo, forse si può declinare in un’interrogazione sul destino del riformismo. E parto col dire che il riformismo oggi fa parte di uno scenario in disuso. A mio avviso il riformismo è tale se va a toccare alcuni nodi cruciali, che una volta chiamavamo le grandi questioni nazionali.
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L'egemonia proprietaria dell'«uomo nuovo»
di Roberto Ciccarelli
Dalla critica alle società del welfare state alla retorica di una libertà individuale incardinata su dispositivi securitari. Un percorso di lettura per mettere a fuoco le caratteristiche del pensiero «neoliberale»
La scomparsa della sinistra italiana dalla rappresentanza parlamentare non è solo l'ultimo colpo di coda dell'insensato cupio dissolvi che l'ha accompagnata dal 1989, ma il sintomo plateale della sua inadeguatezza rispetto alla trasformazione dell'ormai trentennale ciclo politico neoliberale in cui ci troviamo. Di questo ciclo, delle sue contraddizioni politiche e delle sue rotture storiche, questa sinistra nulla o quasi ha compreso, se non quando ha denunciato con qualche approssimazione e genericità l'«americanizzazione» della società italiana. La tonalità penitenziale che hanno assunto le analisi del voto convergono in gran parte su questo punto. È un gigantesco passo in avanti per chi non ha quasi mai praticato la virtù del dubbio, preferendo attribuire gli errori della propria proposta politica all'incapacità della società di coglierne il senso. Ammettere tuttavia di non avere compreso nulla della «realtà» è una conclusione imbarazzante che assomiglia ad una penosa autoassoluzione e non spiega la ragione per cui questo processo si è consolidato al punto da avere raggiunto conseguenze così imprevedibili.
Vittoria senza partito
È una salutare novità che alcuni protagonisti della sinistra politica abbiano invitato ad analizzare la sua disfatta politica a partire dai suoi presupposti culturali. Solo che non ci si può accontentare di pensare che le «culture della destra» si siano impadronite della società e che per questo motivo la sinistra non riesce più a capirla. Applicare lo schema «destra/sinistra» al ciclo politico neo-liberale può forse appagare l'istinto di conservazione di una cultura penalizzata dal suo originario storicismo, ma non spiega come una battaglia culturale potrebbe intervenire nella costruzione di un'identità politica alternativa. In un'intervista intitolata significativamente Building a New Left (Costruire una nuova sinistra), rilasciata addirittura alla fine degli anni Ottanta nell'Inghilterra di Margaret Thatcher, il filosofo (gramsciano) Ernesto Laclau ha spiegato che l'egemonia attribuita alla «destra» neo-liberista è un artefatto complesso che unisce tutti i livelli nei quali gli uomini condividono l'identità collettiva e le loro relazioni con il mondo (la sessualità, il privato, l'intrattenimento, il potere). L'egemonia non è dunque mai un partito, o un soggetto, ma l'espressione di molteplici operazioni che si cristallizzano in una configurazione, quella che Michel Foucault ha definito «dispositivo».
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Nel mondo post-global il «mercatismo» non incanta più
Vittorio Bonanni intervista Christian Marazzi
Professore, come valuta questo nuovo scenario? E' veramente l'inizio della crisi di una tendenza estrema, quella appunto del neoliberismo, oppure si tratta soltanto di alcuni aggiustamenti necessari?
Direi che siamo arrivati al punto in cui le società sentono di doversi difendere dalla finanza, la quale si è autonomizzata in un modo assolutamente spropositato, del tutto autoreferenziale e sta creando dei seri problemi di governabilità.E' proprio a partire da questa autonomizzazione che la stessa economia reale, che pure non sta attraversando un particolare periodo di crisi, rischia di entrare in una lunga recessione. C'è dunque questa prima consapevolezza e una conseguente alzata di scudi. Resta il fatto che la globalizzazione da questo punto di vista mi sembra che stia dando sicuramente dei segnali di crisi proprio per quanto riguarda il suo tratto originario, ovvero le liberalizzazioni, la deregolamentazione e la crescita transnazionale. E questo porta anche ad un rafforzamento di una configurazione policentrica del globo.
Insomma più potenze economiche...
Ci sarà un'Europa, che ricerca una sua autonomia e una sua identità, l'Asia, anche se al suo interno possono essere presenti poli che si possono contrapporre l'uno con l'altro, e anche l'America latina.
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