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Il Regime del salario. Prefazione
di Ferruccio Gambino
Uscirà domani [4 settembre, n.d.r.] Il regime del salario, l’ebook del collettivo Lavoro insubordinato che raccoglie tutti gli interventi pubblicati sul Jobs Act e le trasformazioni che esso produrrà sull’organizzazione del lavoro in Italia. Pubblichiamo oggi in anteprima la prefazione di Ferruccio Gambino
Questa premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.
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Il male della povertà
Federico Teani
(Ricevo da Federico Teani, che lavora in Rwanda dal 2010 come missionario laico “fidei donum”, queste pagine di riflessione sulla povertà e sulla cosiddetta vita indegna di essere vissuta, che volentieri pubblico. C.B.)
Ho letto per la prima volta Lettere luterane in Italia e non è successo niente, le ho riprese quando già mi trovavo in Rwanda e il primo scritto, I giovani infelici, ha attraversato da parte a parte il mio cuore.
Leggendolo è facile intuirne la ragione. Pasolini esordisce confessando di non aver mai compreso il motivo del teatro greco che fa ricadere la colpa dei padri sui figli, questo gli è sempre parso come qualcosa di estraneo ed appartenente ad un altro tempo, ma nel momento in cui scrive, siamo agli inizi del ’75, crede che per la prima volta sia possibile per il lettore moderno fare esperienza diretta di quella verità. Lui, che ormai appartiene alla generazione dei padri, prova infatti verso i figli un sentimento di condanna che nasce da una “cessazione di amore”, ma questi figli infelici sono puniti per una colpa che è stata commessa dai padri, una colpa senza dubbio gravissima, “forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana”. Qual è questa colpa? Non è né il vecchio né il nuovo fascismo dei consumi perché si tratta di una colpa condivisa da “fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari”. Per comprenderlo occorre prima rendersi conto di un fatto nuovo, i giovani di cui si sta parlando non sono soltanto figli borghesi né soltanto figli proletari poiché per la prima volta le due storie, quella del popolo e quella della borghesia, si sono unificate sotto il segno dello sviluppo. Nessuno si è opposto veramente a questo processo, perché?
Perché c’è – ed eccoci al punto – un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante. In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
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Sotto il cielo dell’”Interregno”
Beppe Caccia e Sandro Mezzadra
Note preliminari sul metodo politico della trasformazione oggi
È ormai alle nostre spalle il luglio greco, con l’entusiasmante vittoria dell’OXI al referendum del 5 luglio e con il famigerato “accordo” di una settimana dopo. La Grecia resta comunque al centro dell’attenzione, non solo per quel che riguarda il dibattito all’interno della “sinistra” internazionale ma anche per gli scenari aperti dalle dimissioni di Tsipras, dalla scissione di Syriza e dall’annuncio di nuove elezioni a fine settembre. Sono scenari complessi, in cui in gioco sono tra l’altro la natura di Syriza e la democrazia interna al partito dopo la nascita di “Unità popolare”, le prospettive politiche ed elettorali di quest’ultima formazione, il rapporto che i movimenti intratterranno con le istituzioni nella nuova congiuntura. Nessuna scorciatoia auto-consolatoria, nessuna ricetta ideologica derivata dalle categorie e dagli schemi del passato può funzionare di fronte alle contraddizioni del reale, che qui si manifestano con inedita violenza. In questo intervento, non ci proponiamo tuttavia di affrontare direttamente questi temi e queste contraddizioni. Quel che vorremmo tentare, piuttosto, è di formulare alcuni criteri di metodo che possano orientare in questa fase, dal punto di vista di una politica che punta alla trasformazione radicale dell’esistente, il giudizio su una situazione come quella greca, e inevitabilmente su quella europea che in essa si rispecchia.
In questa fase, abbiamo detto: in una fase che continua a essere segnata dalla crisi e da una transizione dall’esito incerto, tanto in Europa quanto su scala globale. La categoria gramsciana di “interregno” è parsa a molti, negli ultimi tempi, particolarmente calzante per descrivere alcuni tratti del nostro presente.
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La «neutralità» che difende Golia
Scienza, feticismo dei “fatti” e rimozione del conflitto
di Mariano Tomatis (*)
Tra le pagine de Il regno Emmanuel Carrère rileva che in materia di fede «la neutralità non esiste. È come quando uno dice di essere apolitico: significa soltanto che è di destra.» (1) Il paradosso, già affrontato qui da Wu Ming 1, si ripresenta negli ambiti più insospettabili – perfino nella divulgazione scientifica. Con quale credibilità il giornalismo scientifico può definirsi neutrale? E più in generale, il lavoro del giornalista scientifico è compatibile con l’espressione di una chiara e argomentata posizione politica?
In Italia il dibattito sul punto è stato recentemente sollevato da Andrea Ferrero su Query N. 21 (2015), la rivista del Cicap (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze). Il suo articolo «Dai fantasmi agli OGM: affrontare la complessità» prende spunto da una trasformazione: nel 1989, quando il Cicap fu fondato da Piero Angela, l’acronimo si chiudeva con la parola «Paranormale»; nel settembre 2013 il termine venne sostituito con un più ampio riferimento alle «Pseudoscienze». Invitando colleghi e simpatizzanti “scettici” del Comitato a prendere atto delle conseguenze di una scelta del genere, Ferrero segnala la crescente complessità dei temi che ricadono nel nuovo perimetro:
«Quando ci chiedono di prendere posizione su riscaldamento globale, OGM, sperimentazione animale, rispondere diventa molto più difficile. Ci sono sempre affermazioni da controllare […] ma la grossa differenza è che, una volta verificate le affermazioni e smascherate le bufale, il problema non si esaurisce, perché rimangono degli aspetti fondamentali ai quali non può rispondere la comunità scientifica. (2)»
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Laudato si’, la ripresa del cammino nel mondo
Roberto Donini
La “Laude” di Papa Francesco, l’enciclica Laudato si’, sulla cura della casa comune ha portata epocale ma è banalizzata ad ecologia dai media e a decrescismo dai progressisti. Non nascondo il mio stato d’animo e dunque il mio preconcetto: questo “Canto di Cura” mi ha commosso, che non significa solo emozionato ma interrogato nel profondo.
La scelta della decrescita
E’ certo “L’enciclica della complessità” come dice P.L. Fagan (http://www.linterferenza.info/contributi/lenciclica-della-complessita/) ed è inevitabile laddove pone un complesso mondo com’è la cattolicità di fronte alla complessa crisi della terra; tuttavia con il rischio di semplificare e renderla parziale ritengo si possa approssimare che l’enciclica faccia con decisione la scelta della decrescita e dunque indichi una sintesi. Nelle 10 tesi dalla 189 alla 198, Francesco d’Assisi si fa Cristo (il messia): fino a quel punto del testo c’è stato il vasto canto del creato (l’ambiente) e delle creature (il popolo) ora c’è l’irruzione nel tempio e la cacciata dei mercanti. La tesi 189, quella più nota, riprende il tema della crisi finanziaria della tesi 109 ma qui c’è la potenza di un fendente perché precipita il ragionamento in una determinazione storica “la crisi finanziaria del 2007-2008” e in uno schieramento di battaglia“il salvataggio ad ogni costo delle banche”. Nella prosa del testo l’episodio invera le argomentazioni generali “critiche” (alla tecnocrazia, all’antropocentrismo, alla finanza) sin lì sostenute, giustifica decisamente la Decrescita come prospettiva forte di uscita dalla complessità e distruttività della crisi.
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Un banale “viaggiatore zaino in spalla” risponde a Giulia Innocenzi
Luigi Farrauto
Cara Giulia Innocenzi.
Che dolore, leggere il suo reportage. Come essere umano sono dispiaciuto per le disavventure che ha vissuto in Iran, paese che ho visitato due volte e in cui ritornerei altre mille. Paese che ho convinto molti miei amici — e amiche — a visitare, ma non è molto importante in questa sede raccontarle il loro giudizio, al ritorno. Parrebbe come un’inutile battaglia a colpi di “a me ha fatto innamorare”, come a voler compensare la sua esperienza negativa, che certo non si può cancellare.
Ma sono addolorato, perché la risonanza delle sue parole ha un peso molto più forte di quello che potrei direi io sul paese, o le tante persone che viaggiano in Persia ogni anno (tant’è che il Corriere della Sera ha subito pubblicato le sue disavventure, non le mie, né quelle dei tantissimi viaggiatori che raccontano l’Iran con parole magnifiche).
Come si può rispondere o commentare a ‘palpate al sedere’, ‘inseguimenti’, ‘uomini che fanno mostra del proprio pene’ o ‘aggressioni fisiche’? Riportando esperienze diametralmente opposte vissute nel medesimo paese si farebbe il gioco della bilancia, e in questo caso non è la cosa più importante.
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Quante balle sono state raccontate sull’Iran
Fabrizio Marchi
E’ ora di cominciare a smascherare un’altra delle tante menzogne che ci sono state propinate da decenni a questa parte dai media occidentali, nessuno escluso, come sempre, da “sinistra” a “destra”.
Quella in base alla quale l’Iran, una delle culle della civiltà mondiale, così come tanti altri paesi del mondo, sarebbe una sorta di inferno oscurantista e medioevale governato da fondamentalisti sanguinari e popolato da masse di esaltati, integralisti e invasati ma anche da una minoranza (ma potenziale maggioranza) di persone che, se potessero (se cioè non gli fosse impedito con la forza bruta dai “cattivi” e barbuti imam e dai loro seguaci), opterebbero senz’altro per il “way of life” occidentale; ergo, a diventare dei bravi cittadini democratici, “partecipativi”, civili e tolleranti (consumatori passivi, mercificati e precari privi di ogni coscienza e identità?…) chiamati periodicamente a ratificare i propri governanti-amministratori.
Peccato che questo “esercizio” di democrazia, pur con tutti i suoi limiti (vale anche per l’Iran ciò che vale per le democrazie occidentali) in Iran sia già ampiamente praticato, a differenza di tanti altri paesi dell’area mediorientale e non solo.
L’Iran, infatti (audite, audite!), è un paese nella sostanza più democratico rispetto a tanti paesi occidentali dove ormai la dialettica politica maggioranza/opposizione è ridotta ad una finzione, a cominciare dagli USA dove i repubblicani/conservatori e i democratici/progressisti si dividono sullo spinello libero e sul matrimonio gay ma non certo sulla natura e sulla vocazione capitalista e imperialista della loro nazione, chiamata ad assolvere ad una sorta di compito messianico, di missione escatologica che la Storia le avrebbe assegnato (“gli USA, l’unica nazione indispensabile al mondo” come ha coerentemente dichiarato lo stesso Obama).
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«Euro sì, Euro no». Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica
Carmine Fiorillo e Luca Grecchi
Il refrain “Euro sì, euro no”/L’errore dei “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”/Tre notazioni per correggere la rotta/Il limite dell’approccio monetario e geografico/Il “contingente” elude la presa in carico di una progettualità umanistica e comunitaria//Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica/Qualche minimo contenuto per affrontare il problema/Le scorciatoie non esistono
Il refrain “Euro sì, euro no”
Oramai da qualche anno il dibattito pubblico delle forze più “radicali” nel panorama politico italiano, si incentra sul tema della permanenza dell’Italia nell’euro e nella Unione Europea. Associazioni, blog, perfino trasmissioni televisive, vivono sul refrain “Euro sì, euro no”. Rispetto ad altri temi, il dibattito in questo caso è anche sostenuto da una discreta schiera di studiosi, che hanno nel tempo apportato molti contributi.
L’errore dei “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico”
Ci pare tuttavia che la doppia tesi sostenuta dai “No euro critici verso il modo di produzione capitalistico” – ossia: a) che l’uscita dall’euro e dalla UE sarebbe sicuramente benefica per le classi subalterne; b) che essa costituirebbe la principale condizione necessaria per favorire una progettualità anticapitalistica –, sia per la prima parte (a) incerta, e per la seconda parte (b) errata.
Per iniziare ad argomentare, chiariamo subito – per evitare che sussistano equivoci sul punto – di essere pienamente consapevoli che l’euro e l’Unione Europea sono strumenti del modo di produzione capitalistico, e come tali utilizzati solo in favore del capitale.
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Note sul Capitale
(Capitale e mutamento storico)
di Moishe Postone
- I -
1. L'enorme trasformazione epocale del mondo negli ultimi decenni ha indicato drammaticamente che l'attuale teoria sociale e storica dev'essere intesa come centrale rispetto alle dinamiche storiche ed ai cambiamenti strutturali su larga scale, se vuole dimostrarsi adeuata al nostro universo sociale.
2. La categoria marxiana di capitale è di importanza cruciale per quel che riguarda la costituzione di una tale teoria del mondo contemporaneo - ma solamente se essa viene riconcettualizzata in modo da distinguersi sostanzialmente dai modi nei quali la categoria di capitale è stata recentemente usata nei diversi discorsi delle scienze sociali, così come nelle interpretazioni marxiste tradizionali.
3. La categoria di capitale che presenterò, allora, ha ben poco in comune con i modi in cui "capitale" viene usato da una grande varietà di teorici, che vanno da Gary Becker, passando per Bourdieu, fino ad arrivare a molti marxisti per i quali "capitale" generalmente si riferisce ad un surplus sociale di cui ci si appropria privatamente. All'interno di quest'ultimo quadro interpretativo, capitale è essenzialmente surplus di ricchezza nelle condizioni di sfruttamento di classe astratto e non palese.
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La distruzione del tempio di Baal a Palmira. Lettura geopolitica
di Piotr
Geopolitica e arte nella crisi sistemica. Usano la narrazione del fondamentalismo islamico per distruggere le basi mitopoietiche della civiltà umana
Quando visitai il tempio di Baal a Palmira rimasi affascinato e commosso.
Era l'anno prima dell'inizio della cosiddetta (dai nostri media e intellettuali) "rivolta anti Assad", ovvero l'attacco imperiale con mercenari tagliagole alla Siria.
E tagliagole lo sono. L'ultima gola tagliata è stata quella di Khaled al-Asaad, ottuagenario direttore dei siti archeologici di Palmira.
Dopo la sua decapitazione l'ISIS ha distrutto il tempio di Baal. Me lo aspettavo da tempo. Lo hanno fatto ieri.
Chi non lo ha già visto non lo vedrà mai più.
L'impero in difficoltà, e pertanto pericolosissimo, non vuole davanti a sé nazioni, civiltà, società strutturate e potenzialmente solidali (e qui i devoti dellareligionelaicista, quella del genitore 1 e genitore 2, devono riflettere molto). Sono di ostacolo, anche quando non sono direttamente "competitor". Perché coi competitor possono allearsi o anche solo rimanere neutrali e quindi ostacolare le manovre imperiali di aggiramento, avvolgimento, conquista e minaccia.
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Stagnazione secolare o caduta tendenziale del saggio di profitto
di Vladimiro Giacchè
1. Il ritorno dello “stato stazionario”: la “stagnazione secolare”
La teoria economica ha recentemente riscoperto il concetto di «stato stazionario». È accaduto nel novembre 2013, allorché l’economista statunitense Laurence Summers ha parlato di «stagnazione secolare» (secular stagnation) in un discorso al Fondo Monetario Internazionale, per tornare sul tema pochi mesi dopo, nel febbraio del 2014, davanti agli economisti d’impresa statunitensi. In verità non si tratta di una teoria originale, ma di un revival: perché di «stagnazione secolare» aveva parlato nel 1938 l’economista Alvin Hansen rivolgendosi al presidente degli Stati Uniti1 .
Dopo Summers, l’idea è stata ripresa da altri economisti ed è attualmente al centro di un vivace dibattito, il cui contesto è stato così sintetizzato:
«Sei anni sono passati dallo scoppio della Crisi Globale e la ripresa non è ancora soddisfacente. I livelli di prodotto interno lordo sono stati superati, ma poche economie avanzate sono tornate ai tassi di crescita pre-crisi nonostante anni di tassi d’interesse praticamente a zero. Inoltre, cosa preoccupante, la crescita recente ha un vago sentore di nuove bolle finanziarie. La lunga durata della Grande Recessione, e le misure straordinarie necessarie per combatterla, hanno originato una diffusa sensazione, non meglio definita, che qualcosa sia cambiato. A questa sensazione ha dato un nome a fine 2013 Laurence Summers, reintroducendo il concetto di ‘stagnazione secolare’»2 .
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Sicurezza e guerra all’alba del XXI secolo: il grande gioco
di Aldo Giannuli
Ancora oggi, l’opinione più diffusa fa coincidere i problemi della sicurezza dello Stato con quelli di natura militare: la parola guerra è ancora associata all’idea di scontri di aerei, carri armati. Ma da oltre mezzo secolo le cose sono andate mutando.
Proprio l’impossibilità di giungere ad una guerra aperta fra i due grandi blocchi – pena un conflitto nucleare reciprocamente distruttivo - spinse a cercare altre strade per piegare la volontà dell’altro alla propria, cioè, altre forme di guerra.
Il concetto di strategia andò affrancandosi dall’ originaria pertinenza militare, diventando un concetto molto più ampio:
<<...ho voluto di proposito collocarmi sul piano della strategia totale, quella che ha per oggetto di condurre i conflitti, violenti o insidiosi, contemporaneamente nel campo politico, economico, diplomatico, militare, e che presenta pertanto un carattere generale. Infatti, la strategia diventa in genere inintelligibile se si limita al campo militare, in quanto troppi fattori decisivi sono trascurati..>>
Dal momento in cui Beaufre scrisse queste righe (1963) è passato mezzo secolo in cui il concetto di strategia è diventato sempre più onnicomprensivo, inghiottendo l’economia, la ricerca scientifica, il sistema satellitare, la finanza, la propaganda politica, le reti telematiche, ecc. e le guerre sono sempre meno guerre aperte ed a carattere militare, mentre diventano sempre più commerciali, valutarie, finanziarie ecc.
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Passioni ludiche senza desiderio
di Jean Baudrillard
“Nessun giocatore deve essere più grande del gioco stesso”. La battuta di un film a suo modo chiave, Rollerball, veniva posta da Jean Baudrillard in esergo al terzo capitolo del suo De la séduction, pubblicato nel 1979 per i tipi di Galilée, edito in Italia da Cappelli e poi da SE, per la traduzione di Pina Lalli. Proprio da questo lavoro pubblichiamo un estratto, importante per la riflessione sul “destino politico della seduzione”. Un destino che si dipana, nel suo asse centrale, proprio attraverso le dinamiche del gioco e della regola. Un gioco che “assorbe non solo il giocatore, ma il mondo”, scriveva Baudrillard e lo consegna all’infinita deriva del ludico
È quello che dice il Diario del seduttore: nella seduzione non c’è nessun soggetto padrone di una strategia, e quando questa si dispiega nella piena consapevolezza dei mezzi posseduti, è ancora sottomessa a una regola del gioco che le è superiore. Drammaturgia rituale al di là della legge, la seduzione è un gioco e un destino che conduce ineluttabilmente i protagonisti verso la propria fine, senza che la regola sia infranta, poiché è lei che li lega. E l’obbligo fondamentale è che il gioco continui, sia pure a costo di morire. Una specie di passione lega dunque i giocatori alla regola che li lega, e senza la quale non sarebbe possibile giocare.
Comunemente viviamo nell’ordine della Legge, anche e persino quando abbiamo il fantasma di abolirla. L’unico al di là della legge per noi concepibile è la trasgressione o l’eliminazione del divieto. Infatti, il modello della Legge e del divieto governa il modello inverso di trasgressione e liberazione. Ma in realtà, quel che si oppone alla legge non è affatto l’assenza di legge, è la Regola.
La regola gioca su una concatenazione immanente di segni arbitrari, mentre la Legge si fonda su una concatenazione trascendente di segni necessari. L’una è ciclo e ricorrenza di procedure convenzionali, l’altra è un’istanza fondata su una continuità irreversibile. Per l’una esistono soltanto obblighi, per l’altra costrizioni e divieti. La Legge può e deve essere trasgredita, perché instaura una linea di spartizione. Di contro, non ha alcun senso «trasgredire» una regola del gioco: nella ricorrenza di un ciclo, non c’è linea da oltrepassare (si esce dal gioco, punto e basta).
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Lenin, Lenin sempre Lenin
Introduzione a Classe partito, guerra, 2014
Emilio Quadrelli e Giulia Bausano
Il proletariato non ha altra arma che l’organizzazione nella lotta per il potere.
(V. I. Lenin, Un passo avanti due indietro)
Nell’editoriale Musica d’avanguardia del 30 luglio 2014, il Collettivo Militant constatava con non poca amarezza come, di fronte al massacro sionista perpetuato nei confronti della popolazione palestinese di Gaza e del golpe neonazista in atto in Ucraina, nel nostro Paese le mobilitazioni di solidarietà al fianco di queste popolazioni non abbiano potuto vantare iniziative di una qualche consistenza. Le retrovie dell’imperialismo, per usare un lessico forse un po’ datato, sembrano essere sostanzialmente sicure. Neppure a livello simbolico il complesso militare – industriale imperialista è stato sfiorato, le sue sedi economiche e commerciali sono rimaste intonse, mentre il personale politico – diplomatico e le sue strutture non sono stati vittime di alcuna contestazione.
I tempi del Vietnam appaiono distanti anni luce. A conti fatti, nel nostro Paese, i più attivi e incisivi sostenitori della lotta del popolo palestinese e della popolazione del Donbass si sono mostrati due gruppi musicali le 99 Posse per quanto riguarda la Palestina, la Banda Bassotti per quanto concerne gli antifascisti ucraini. La presenza attiva di queste due band al fianco delle resistenze popolari, in una condizione di normalità politica, avrebbe dovuto e potuto essere la classica ciliegina sulla torta mentre, nell’asfittico panorama politico nostrano, le due formazioni musicali sono diventate la torta tout court. Succede così che, a loro, sia destinato il compito tanto di cantare quanto di portare la croce. Di ciliegine, quindi, meglio non parlare.
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L’idea di politica dalle parti di Podemos
di Pierfranco Pellizzetti
«Fine della guerra fredda e recupero del
conflitto ottocentesco, quando gli operai
cominciavano a organizzarsi. I barbari
sono all’interno. La patria non può essere
la plebaglia. La patria è formata da quelli
che hanno un reddito»
J.C. Monedero
«Nel XX secolo i filosofi hanno cercato di
cambiare il mondo. Nel XXI è ora che si
mettano a interpretarlo in modo diverso»
Manuel Castells
Una riflessione sull’idea alternativa di politica che sta imponendosi tra le nuove generazioni spagnole, a partire dal libro “Corso urgente di politica per gente decente” di Juan Carlos Monedero, ex numero due di Podemos, edito in Italia da Feltrinelli. Un testo che è la cartina di tornasole delle profonde difficoltà a pensare l’Altrapolitica in maniera – al tempo – strutturata e strategica
Se buona parte dei giocatori del Barça sono il prodotto della “cantera” (alla lettera “cava/miniera”, significato traslato nel vocabolario della stampa sportiva come “allevamento/incubatore”), la scuola per calciatori junior della società catalana, allo stesso modo buona parte dei quadri medio-alti di Podemos provengono dal laboratorio dell’Università madrilena Complutense.
Vale per il leader – Pablo el colete Iglesias – vale anche per l’ex numero due della formazione politica emergente sulle ceneri del Movimento degli Indignados (o 15-M, da quel 15 maggio 2011 in cui la protesta si accampò alla Puerta del Sol), il professor Juan Carlos Monedero; autore del saggio sull’idea alternativa di politica che sta imponendosi tra le nuove generazioni spagnole e che – sulla scia del successo mediatico di tale parola d’ordine – è stato recentemente editato da Feltrinelli.
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Il biopotere che scorre su Amazon
di Benedetto Vecchi
Non è mai troppo tardi. E’ la frase più facile da usare per quanto è accaduto dopo la pubblicazione di un reportage del quotidiano statunitense New York Times sulle condizione dei lavoratori del più grande shopping mall telematico presente in Rete. In un articolo Amazon viene passata al setaccio a partire dalle regole alle quali i lavoratori devono attenersi. Il giornalista ha raccolto i racconti, le invettive, le analisi di dipendenti e ex-dipendenti dove il giudizio più benevolo verso lo store digitale è: una caserma. Ma è il decalogo delle regole – doveri e obblighi, più che altro, visto che di diritti non ce ne è traccia alcuna – che tutti devono seguire che ha fatto gridare allo scandalo. Dal divieto di parlare di come e di cosa accade negli enormi capannoni di Amazon, all’invito-obbligo a esprimere giudizi sul comportamento di altri lavoratori e di capi e capetti, non c’è nulla che viene omesso dal giornalista. Neppure il costante controllo al quale è sottoposto il singolo, usando i badge e un geolocalizzatore che segnala posizione e tempo di percorrenza per trovare la merce da impacchettare, viene dimenticato. Grande rilevo viene dato alla divisione tra i buoni (gli iperproduttivi) e cattivi (fanno ciò che devono senza dannarsi l’anima) lavoratori. Altrettanta enfasi è dedicata alla disponibilità “h24, sette giorni su sette” che i lavoratori devono garantire.
Il primo commento, in Rete, all’articolo ha equiparato quello di Amazon a un regime schiavistico, dove vige un comportamento inumano assieme all’assenza di compassione nelle relazioni lavorative e umane. Un imbarazzato Jeff Bezos, guru e padrone indiscusso di Amazon, ha affermato che quella non era la sua miliardaria impresa e che ogni persona di buon senso scapperebbe da quell’inferno.
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Critica dell'economia politica, oltre il marxismo tradizionale: Moishe Postone e Robert Kurz
di Jordi Maiso ed Eduardo Maura
Questo testo intende presentare due proposte di attualizzazione della critica marxiana dell'economia politica: quelle di Moishe Postone e di Robert Kurz. I loro approcci, sviluppati a partire dagli anno Ottanta, offrono delle chiavi per superare le insufficienze del marxismo tradizionale ed aprono prospettive fruttuose al fine di rendere attuale la teoria critica. Partendo da una reinterpretazione comune delle categorie di Marx, i due autori arrivano, tuttavia, a diagnosi differenti: mentre Postone insiste su come il capitalismo crei (e blocchi) la possibilità di un nuovo ordine sociale, Kurz sottolinea il fatto che il capitalismo contemporaneo abbia raggiunto il suo limite interno e sia entrato in una fase irreversibile di declino e di disintegrazione.
Negli anni successivi alla "rottura epocale" del 1989, la critica dell'economia politica in chiave marxiana era considerata un capitolo chiuso della storia del pensiero, ed ostinarsi a criticare il capitalismo era ritenuto proprio di qualche testardo che non voleva riconoscere i nuovi segni dei tempi. Erano gli anni dell'euforia della "fine della storia" e della "fine delle ideologie", e l'imposizione dell'economia di mercato su scala planetaria prometteva di concretizzare il sogno di un One World che avrebbe superato le divisioni fra i blocchi ed avrebbe dato inizio ad un'epoca di prosperità globale.
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Cos’è davvero la Cina?
F. M. Parenti intervista Domenico Losurdo
Prosegue il nostro speciale sulla Cina, volto ad indagare, al di là di facili semplificazioni e deformazioni della prospettiva occidentale, le vere caratteristiche del suo sistema politico. Vi proponiamo l’intervista al Prof. Domenico Losurdo, esperto di questioni cinesi
Perché lo sviluppo della RPC degli ultimi decenni viene frettolosamente definito come capitalistico tout court – spesso aggettivato come autoritario – sia dai media occidentali che da molti studiosi di scienze sociali?
Faccio un bilancio storico: nei primi 15 anni di vita della Russia sovietica è possibile individuare il succedersi di tre diversi modelli di sviluppo postcapitalistico. Inizialmente c’è il comunismo di guerra, poco dopo, a partire da una situazione disastrata, c’è la NEP e, infine, c’è la completa collettivizzazione, anche alla luce dei pericoli di guerra. Non c’è dubbio che il terzo modello a un certo punto è caduto in crisi, come è avvenuto negli ultimi anni della Cina maoista. I dipendenti non si presentavano al lavoro e quando lo facevano si impegnavano ben poco, continuando tuttavia a godere di un salario garantito: ciò non corrisponde affatto alla definizione marxiana di socialismo, in cui la retribuzione deve essere proporzionata al lavoro erogato.
La storia della Cina è diversa. Se prendiamo le mosse dalle aree governate dal PCC già nella seconda metà degli anni Venti, per quasi novanta anni di storia c’è stata una sostanziale continuità: un sistema a economia mista con forte controllo statale. Edgar Snow riferiva che in Cina erano presenti tutte le forme di proprietà. Mao Zedong a metà degli anni Cinquanta fa una distinzione netta tra espropriazione politica ed espropriazione economica della borghesia e sostiene che l’espropriazione economica non va portata fino in fondo, poiché la borghesia ha conoscenze imprenditoriali e capacità manageriali utili e necessarie all’instaurazione del socialismo.
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Cronache della volatilità di borsa
La guerra finanziaria serve per guadagnare
di Redazione
Sul concetto di guerra finanziaria si potrebbero dire molte cose. Per non farla lunga limitiamo a parlare di chi non lo apprezza. Prima di tutto quelli per cui la vera crisi è sempre altrove. Ok, starà pure nel giorno stesso in cui hanno inventato il primo telaio a Manchester però avviene oggi nelle reti tecnologiche delle borse. E fa effetti oggi. E se non li capisci politicamente non ci sei. Poi ci sono gli analisti di borsa, quelli cauti sulle ipotesi di guerra finanziaria. Li comprendiamo: dover consigliare ai propri clienti il comportamento durante una guerra finanziaria è uno stress da guerra vera e non garantisce risultati. Ma come ha detto un analista mainstream ma furbo “mi preoccupa più un rimbalzo in positivo così forte il giorno dopo di un indice in rosso così marcato il giorno precedente”. Segno che la guerra finanziaria c’è e che le logiche prevalenti non sono quelle del commmercio ma del conflitto.
Ma dove si combatte? Entro quella che viene chiamata, in gergo, volatilità dei mercati. Funziona, a sommi capi, in questo modo: entro uno scenario di crisi, sempre propedeutica ad una guerra, un giorno le borse scendono, un altro risalgono. Quando fai i conti delle due giornate vedi che qualcuno avrà perso di brutto mentre c’è chi avrà guadagnato sul serio. Mentre i tg hanno detto che “la borsa recupera”, c’è stato uno scontro finanziario con morti e feriti. Uno scontro a somma zero, se non negativa. Il capitale è rimasto più o meno lo stesso. Comunque, nel complesso di rialzi e ribassi, l’allocazione delle risorse finanziarie segue la logica della guerra non quella del finanziamento efficiente alle risorse produttive. Il passaggio da competizione a guerra finanziaria è semplice: nella guerra qualcuno ci lascia la pelle. Come per Lehman nel 2008.
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La ripresa Usa: una tigre di carta?
Prodromi di una nuova crisi globale
di Lorenzo Carrieri
Ultimamente sono molti gli articoli che parlano di una crescita dell’economia degli Stati Uniti, che avrebbe ripreso a crescere a ritmi costanti nel corso degli ultimi anni: negli ultimi trimestri si è addirittura sentito parlare di livelli di crescita compresi tra il 4% e il 5%.
Ma quanti di questi dati hanno un legame con l’economia reale, ergo con aumento occupazionale e produttività industriale, spesa in beni di consumo e redistribuzione della ricchezza?
A scandagliare e comparare i grafici sulla crescita si notano diverse cose interessante.
Primo, stando ai dato del Bureau of Labor Statistics il 20% delle famiglie americane è composto da tutti disoccupati: come fa dunque il tasso di disoccupazione a stare all’attuale 5,5%?
L’errore della narrativa imperante qui sta nei filtri usati per calcolare i disoccupati: calcolare solo i disoccupati ufficiali, quelli che si mettono alla ricerca di un nuovo lavoro e/o quelli che lo cercano fino a 4 settimane dopo la perdita, trascurando coloro che sono inoccupati di lungo corso.
In tal modo la descrizione della composizione della forza lavoro viene sempre più a restringersi, evitando in tal modo di approfondire la profondità reale della crisi sociale americana.
Altro cosa da sottolineare: l’aumento di posti di lavoro non considera l’aspetto contrattuale dello stesso rapporto: dai dati del BLS risulta che quasi il 90% delle nuove posizioni sono solo part-time (dai 3 ai 6 mesi di contratto, assunti per lo più nella ristorazione e nei fast-food, dove la busta paga settimanale è di 351$…), mentre quasi 250mila posizioni full-time sono andate perdute.
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Per Lukàcs
di Renato Caputo
Seguendo l’invito di La Porta a riprendere la riflessione, in occasione del centoventesimo anniversario della morte, su uno dei massimi esponenti del marxismo novecentesco: György Lukács, proviamo a fornire un breve profilo dello sviluppo del più organico tentativo di sviluppare una Weltanschauung marxista attraverso le opere maggiormente significative del filosofo ungherese
Gli scritti giovanili
Fra gli scritti giovanili di Lukács (Budapest 1885 – Budapest 1971), anteriori all’approdo al marxismo, occorre ricordare, in particolare, L’anima e le forme e Teoria del romanzo. Tali opere risentono della formazione del giovane Lukács, che ha avuto modo di studiare con alcuni dei maggiori filosofi e sociologi del tempo, come Heinrich Rickert e Georg Simmel. In esse la riflessione sull’arte e la vita si intreccia sempre più con la filosofia della storia, che diverrà un punto fermo della visione del mondo di Lukács negli anni successivi.
Per quanto riguarda la prima opera, del 1911, influenzata in particolare dalla filosofia della vita allora in voga, Lukács mostra come l’opera d’arte da una parte esprime un determinato atteggiamento nei confronti della vita, dall’altra interviene sul suo caotico corso regolandolo mediante la forma. A differenza della scienza che mira al contenuto, ovvero si occupa dei fatti e delle loro connessioni e ha, dunque, come oggetto il mondo naturale, l’arte è caratterizzata dalla forma in quanto esprime le anime e i loro destini e ha come oggetto la sfera dello spirito. In Teoria del romanzo (1916) Lukács affronta per la prima volta l’opera d’arte in una prospettiva storicistica, che sarà posta al centro dei successivi sviluppi della sua teoria estetica.
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I fatti sono stupidi (Nietzsche)
Il problema della bêtise in filosofia
Giovanni Bottiroli
1. Immaginiamo un docente universitario di filosofia che all’inizio delle lezioni si rivolge agli studenti e chiede se qualcuno ha portato con sé il manuale adottato per quel corso. Gli studenti, dando prova di particolare zelo, estraggono il testo dalle loro borse: il professore legge la frase di apertura, poi commenta: “Stupidaggini” (forse si serve di un’espressione più colorita); e invita gli studenti a strappare la prima pagina di quel testo, e a gettarla via.
Probabilmente la maggior parte dei lettori ha riconosciuto la scena che ispira la mia riflessione: è tratta da un film, L’attimo fuggente (1989), di Peter Weir. Nel mio esempio, l’analogia riguarda il fatto che il docente (come il professor Keating) si trova a utilizzare un manuale non scelto da lui; la differenza riguarda il tipo di manuale, non letterario bensì filosofico. Ebbene, qual è l’affermazione che il protagonista del mio esempio considera una stupidaggine? È la tesi di un filosofo analitico, Willard Van Orman Quine, ed è stata enunciata in un saggio del 1948 pubblicato in volume nel 1953. Suona esattamente così: «Una strana caratteristica del problema ontologico è la sua semplicità. Esso può venir posto, in inglese, con tre sole parole: 'What is there?'»1.
2. Perché quest’affermazione è stupida? E, ammettendo che lo sia, come è possibile che continui a ricevere tante adesioni? Mi limiterò a menzionare un testo piuttosto recente: “La metafisica e l’ontologia, a ben guardare, ruotano attorno a una semplice domanda: che cosa esiste?”2.
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Per una lettura materialistica delle vicende medio-orientali
L.C.
Le conquiste di Daesh (nome arabo di quello che qui da noi viene erroneamente tradotto in Stato Islamico) in Iraq e Siria sono soltanto gli ultimi avvenimenti sfruttati dai media mainstream per riproporre la storia di una (presunta) decadenza della civiltà medio-orientali legata all'Islam.
Funzionale alla riproduzione di pseudo-analisi dal carattere marcatamente orientalistico che usano come prisma di lettura quello della religione islamica, e la sua presunta incapacità ad adattarsi alla modernità, la narrazione occidentale del Vicino e del Medio Oriente ha una storia secolare come fenomeno culturale e politico.
Essa non è una vuota astrazione, ma è la risultante della cristallizzazione dei rapporti di forza costituitosi nel tempo (già la stessa definizione di Medio Oriente presenta aspetti di parzialità linguistica, dovuti alla forza di chi ha imposto questa etichetta) e il prodotto di energie materiali ed intellettuali dell'uomo.
Come ha magistralmente illustrato Edward Said nel suo “Orientalismo”, questo sapere è diventato scienza in Occidente, e la distinzione sia epistemologica che ontologica tra l'Oriente da un lato e l'Occidente dall'altro è diventata narrazione e lettura tassonomica del sapere universalmente accettata in campo accademico ed extra-accademico.
Quanto detto finora è oggi paradigmatico nella narrazione dei fatti che ci vengono riproposti sul Medio Oriente.
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I flussi mondiali di investimenti
Un’istantanea del capitalismo contemporaneo
di Ferdinando Gueli
I dati del Rapporto annuale dell’UNCTAD sui flussi di investimenti diretti esteri ci forniscono un quadro che conferma le attuali dinamiche dei sistema capitalistico, nella sua fase di globalizzazione, che comporta anche un cambiamento degli equilibri geoeconomici e, quindi, geopolitici, con tutte le contraddizioni che ne possono emergere, ma anche un peso sempre più dominante ed incontrollato delle multinazionali. Rispetto a questi fenomeni appare velleitario e forse un po’ nostalgico il richiamo ad un multilateralismo sovranazionale che aveva svolto un ruolo sicuramente importante in una fase storica differente, oggi difficilmente ripetibile, almeno nel contesto attuale
Introduzione
Il Rapporto annuale dell’UNCTAD “World Investment Report – WIR 2015” rappresenta un’utile istantanea delle attuali dinamiche del capitale mondiale. Il Rapporto non si occupa degli investimenti di portafoglio, cioè dei movimenti finanziari di natura speculativa, ma si concentra invece sui flussi internazionali di investimenti diretti esteri (IDE), cioè sostanzialmente sull’esportazione ed importazione di capitali nei vari paesi.
Da una lettura del Rapporto emergono alcuni dati interessanti che offrono spunti di riflessione dal punto di vista dell’analisi critica delle dinamiche del capitalismo contemporaneo.
Cominciamo con il dire che il volume globale di investimenti in entrata ha subito, nel 2014, una contrazione del 16% rispetto al 2013, attestandosi a 1.230 miliardi di dollari USA. Questo conferma sostanzialmente il quadro di crisi globale che, nonostante i proclami, gli annunci e le stime artificialmente ottimistiche diffuse dalle istituzioni economiche e finanziarie dominanti, non accenna a risolversi.
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Noioso ripetere, ma...obbligatorio (data l’ignoranza imperante)
Gianfranco La Grassa
1. Ancora pochi giorni fa, un amico (nemmeno proprio un semicolto, anche se, ahimé, legge “Micromega”, il concentrato della demenza di “sinistra”) mi ha contestato il fatto d’aver sostituito la lotta tra capitale e lavoro con la geopolitica. Bontà sua, mi ha risparmiato la “lotta di classe”, la lotta tra borghesia e proletariato. Tuttavia, non c’è un gran miglioramento, anzi! La “lotta di classe”, come idea intendo dire, è partita quasi due secoli fa, ha avuto poi un rigurgito un po’ nauseante (sempre come idea) con il ’68 del secolo scorso ed infine è finita in conflitto capitale/lavoro; in Italia, direi soprattutto dopo la sconfitta della “Classe Operaia” alla Fiat nel 1980.
La lotta di classe partiva da certe analisi di Marx – compiute nel suo “laboratorio” d’epoca, l’Inghilterra – che avevano un loro realismo, non avevano comunque proprio nulla dell’utopia. A metà ‘800 era appena terminata la prima “rivoluzione industriale” (grosso modo 1760-1840). Appena appena si cominciava ad intravvedere quella che verrà denominata impresa, che significa appunto iniziativa di un dato “soggetto” (non di un individuo). In definitiva, si indica una unità organizzativa attiva nella sfera economica; ma non necessariamente nel processo produttivo in senso stretto, di trasformazione di dati materiali in prodotti per soddisfare certe esigenze, trasformazione attuata in quelle che vengono più specificamente denominate fabbriche e che sono prese in considerazione da Marx quale struttura portante della società nel suo complesso. In base all’idea che per poter sopravvivere, ogni società (non solo quella capitalistica) deve produrre, nel senso di trasformare materiali forniti dalla natura in oggetti d’uso sociale; anche come mezzi di produzione per successivi processi trasformativi.
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