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sinistra

Guido Quazza, storico e militante

di Francesco Racco

Recensione del volume Diego Giachetti, Guido Quazza, storico eretico, Centro di documentazione Pistoia Editrice, 2015

F.Racco Quazza html 304bef5aLa ricostruzione della biografia politico-intellettuale di Guido Quazza trova opportuna collocazione nella collana “I quaderni dell’Italia antimoderata” che presenta figure significative per gli strumenti di orientamento critico e consapevole, utili nell’analisi del presente e nella progettazione del futuro. Nell’editoriale del primo numero della «Rivista di storia contemporanea» del 1972, di cui Guido Quazza è stato promotore e primus inter pares tra gli storici che la pubblicarono fino al 1995,viene esplicitato lo sforzo di interpretazione della storia italiana, nelle sue continuità e nelle sue rotture, assumendo come punto di vista privilegiato il lungo periodo, non solo delle strutture economiche ma anche di quelle statuali e istituzionali.

 

Come si fa la storia contemporanea

La rivendicazione della scientificità della storia contemporanea respinge la paura che essa si presentasse nella forma come storia e fosse nella sostanza tout court politica, e l’ideale di “una scienza storica disinteressata”, argomenti e istanze sempre avanzati come giustificazioni del suo mancato insegnamento nella scuola. La caduta di questo pregiudizio è ricondotta alla pressione sempre più forte del bisogno che la società contemporanea ha “di conoscere se stessa non solo nelle sue radici ma anche nel suo modo più prossimo e attuale di essere”. Questa prospettiva nega il pregiudizio storiografico che fa risiedere la scientificità storiografica nel disimpegno politico e civile verso le contraddizioni del presente, per cui oggetto della “vera” storiografia verrebbero ad essere solo i processi che abbiano avuto la possibilità di decantarsi e concludersi compiutamente.

Al contrario l’obbiettività storiografica viene fatta derivare, quale testimonianza di scientificità, dalla indicazione della metodologia e delle tecniche di ricerca, delle sue motivazioni e finalità in modo tale che sia resa possibile la verifica critica, in cui si sostanzia tale obbiettività. Poiché si respinge la coincidenza dell’obbiettività con la cosiddetta “serenità di giudizio”, il cui abuso molto spesso maschera “l’apologia dei valori della classe dominante e cioè un aspetto della politica con cui questa stessa classe cerca di costruire la propria egemonia sociale”, la Rivista sarà dunque una rivista politica?

Non c’è alcuna timidezza nel caratterizzarne la politicità, che viene associata alla logica della ricerca e cioè i problemi trattati, la maniera della trattazione, il tipo di coerenza entro cui sono collocati e gli interlocutori scelti. Si giustificano così due direzioni fondamentali: “una che rispecchi un interesse culturale e politico; l’altra che risponda all’esigenza di non chiudere il proprio discorso in un ambito puramente professionistico”. Senza limitazione geografica né di settore, la ricerca e la discussione, lo studio del corso storico della società, si identifica con l’analisi delle motivazioni, delle forme e dei comportamenti tipici delle forze sociali, degli individui e dei gruppi che operano al loro interno, con il fine di “misurare l’ azione delle forze sociali nei suoi concreti nessi, che nell’ età contemporanea tendono ad acquistare una dimensione sempre più internazionale”. La prospettiva così delineata intende finalizzare lo studio delle strutture economiche, del diritto e delle istituzioni giuridiche, del modo politico di regolare la società, della cultura e la sua nascita entro la struttura che intende perpetuare, delle ideologie come condizionamento dei comportamenti pratici, dell’organizzazione politica complessiva della società, all’oggetto generale della ricerca: il problema del potere nella società contemporanea, cioè della determinazione storiografica del modo in cui nelle varie forme di società si concretizzino le lotte tra governanti e governati. Questa impostazione scaturisce dall’esigenza dei promotori della rivista di partecipare al dibattito cruciale sulla realtà e l’apparenza della democrazia: infatti essa, dal punto di vista dei movimenti sociali e politici, rappresenta una delle istanze maggiormente sentite, mentre al tempo stesso dal punto di vista dei detentori del potere sociale assume sovente la forma mistificante di una maschera ideologica “di cui si avvalgono minoranze dispotiche per ridurre nella realtà dei fatti le maggioranze ad oggetto passivo di governo”.

La necessità di partecipare a questo dibattito con l’uso di strumenti scientifici comporta un confronto di posizioni, risultati, metodi, e ipotesi non solo degli storici ma anche di sociologi, economisti, giuristi, filosofi, data la rilevanza del tema testimoniata dalle implicazioni, sul piano storico-mondiale, di due fenomeni concomitanti “dall’ irruzione sulla scena delle masse e dalle immense trasformazioni che hanno subito i sistemi e le tecniche di governo che sempre più sostituiscono quali fonte di norme per il comportamento collettivo i valori religiosi tradizionali e rendono più che mai indispensabile un contributo di indagine da parte di tutti gli studiosi di scienze sociali”.

Ciò non autorizza una concezione che assegna all’intellettuale un ruolo privilegiato nella determinazione di un’astratta verità ma un richiamo alla sua responsabilità politica, al dovere di produrre un lavoro che si sottragga da un lato all’illusione di essere al di sopra delle parti e dall’ altro prospetti la possibilità di giudizio sui modi di uso dei propri strumenti e sulla loro scelta. Questo approccio è finalizzato a stabilire un fecondo dialogo con quanti si pongono il problema della funzione della storia contemporanea, oltre che nell’ Università, anche nella scuola secondaria contrastando la separazione tra studiosi di storia e insegnanti, promuovendo l’innovazione didattica, che consente allo studente la conoscenza diretta della metodologia critica attraverso la ricerca storica, assieme all’organizzazione degli archivi e delle biblioteche, alla struttura degli istituti storici nazionali, degli orientamenti del C.N.R. fino alla politica dell’editoria in campo storiografico.

 

Storico, educatore e militante politico

Questa esposizione dei filoni e dei temi portanti della rivista trova la sua giustificazione nel fatto che individua un tessuto in cui si intrecciano i fili della complessa e fertile attività di Guido Quazza, la cui cifra si può rinvenire in queste righe poste in exergo all’introduzione che indicano la sua opzione per la storiografia contemporanea rispetto a quella moderna: “L’esercizio della storiografia contemporanea è assai drammatico. Debbo confessare che quando scrivo di storia contemporanea mi sento un’ angoscia che non provo quando scrivo di storia moderna”. L’autore ricostruisce gli anni di formazione nell’ambiente familiare fortemente stimolante per l’ ampiezza e la precocità dell’ interesse per la storia che induce il giovane Quazza all’impossibilità “a staccarsi, anche in situazioni difficili, dal “vizio” di legger ed annotare, passione contratta fin dalle elementari e che lo condurrà a percorrere tutti i ruoli della docenza fino all’Università.

L’intensità elevata dello sforzo nella costruzione della carriera accademica non ostacolerà lo sviluppo dell’altra grande passione della sua vita: la partecipazione politica. Entrato nella Resistenza con simpatie azioniste, appena dismessi i panni del partigiano ed essersi laureato aderì al Partito socialista perché in esso vedeva la possibilità di un “campo d’azione per un credente nel cristianesimo evangelico e nell’ umanesimo marxista”. L’ impegno politico serrato si associa a un’attitudine critica sia nei confronti dell’ antifascismo al potere, sia della “Grande Patria Russia , dell’imperialismo sovietico”. Partecipa con incarichi direttivi alla scissione di Palazzo Barberini, alle elezioni del 18 aprile 1948 come candidato alla Camera nelle file del PSLI e, sebbene si augurasse la sconfitta del Fronte Popolare, quando il PSLI votò a favore del Patto Atlantico, vide in quella scelta la conferma della svolta a destra del partito. Negli anni seguenti si rifiuta di partecipare ad incarichi direttivi di partito, per un decennio circa la passione politica scorre sotterraneamente e riemerge pubblicamente negli anni Sessanta, mentre prende il sopravvento la passione per la storia accompagnata da una particolare sensibilità per la funzione educativa della didattica nella scuola che, dall’esperienza della Normale di Pisa, al ’68 torinese, alle ultime vicende degli anni Novanta, sarà una costante che percorrerà proficuamente la sua intera carriera accademica: dall’ episodio in cui Togliatti a Pisa viene contestato da Adriano Sofri, a quando oggetto della contestazione studentesca sarà lui stesso, al ruolo avuto nella trasformazione della Facoltà di Magistero nella nuova Facoltà di Scienze della Formazione.

Intensa e costante è la perseveranza del Preside Quazza nella capacità di ricoprire sinergicamente il ruolo istituzionale e il ruolo di animatore e Presidente di organismi legati alla Resistenza e all’antifascismo, a partire dall’Associazione per la Storia della Resistenza in Piemonte dell’ aprile 1947, alla Presidenza dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione del 1972, alla Presidenza del Circolo della Resistenza del 1966, alla Presidenza del Comitato Unitario Antifascista Torinese. Queste vicende, minuziosamente analizzate, sono anche sottilmente interpretate come ad esempio la polemica contro la posizione a-fascista di Renzo De Felice ricondotta al suo intento apologetico e il privilegiamento della continuità dello Stato nel nesso continuità-rottura a proposito di Resistenza e storia d’Italia. La resistenza, lungi dall’essere ristretta al 1943-45, era indagata da un lato relativamente al rapporto tra regime liberale e fascismo e dall’ altro con la consapevolezza che l’origine e la genesi dei problemi più gravi dell’Italia di oggi sono da cercare nelle origini della Repubblica tra 1945 e 1948. Certamente non viene ignorata la differenza tra regime liberale, fascista e repubblicano: notevole sul piano sociale, ridotta sul piano politico, difficile da cogliere “nelle forze di comando e nelle strutture dell’economia”. L’ originalità di questa interpretazione consiste nella ripresa della tesi gobettiana sull’origine del fascismo e nell’apertura alle critiche provenienti dalla nuova sinistra alla retorica della Repubblica nata dalla Resistenza.

Il culmine del ritorno nell’agone politico si verifica nel cuore degli anni Settanta quando emerge un nuovo antifascismo anticapitalista con il compito di fronteggiare e sconfiggere l’insorgenza neofascista a cui si connette la strategia della tensione che ha una sponda “dentro l’apparato dello Stato e nel sistema di potere capitalistico”. Per contrastare il pericolo della svolta a destra, Quazza e il Circolo della Resistenza agirono per unire vecchia e nuova sinistra nel Comitato Unitario Antifascista Torinese, una struttura elastica, indipendente dai partiti con un radicamento esteso sul piano cittadino: nei quartieri, nelle scuole e nell’Università, che tuttavia non supera la prova del fuoco del 1975-76. Nella seconda metà dei Settanta l’esperienza si consuma tra le contraddizioni della politica del compromesso storico, di un antifascismo senza la DC, dell’insufficienza politica delle organizzazioni della nuova sinistra e l’irrompere tragico del terrorismo rosso.

“La nuova narrazione antifascista, supportata dalla politica di ‘solidarietà nazionale’, quale risposta unitaria al terrorismo, prevalse rispetto a quella delle formazioni della nuova sinistra, caratterizzata da una critica alla celebrazione monumentale e retorica della Resistenza”, cosicché i “protagonisti alla Quazza” si ritrovarono incastrati “tra la Scilla dello Stato, giudicato stragista, e la Cariddi di un terrorismo rosso senza prospettive”. Ma è proprio da questa situazione di estrema difficoltà che emerge la maturità e l’esemplarità del giudizio storiografico di Quazza rispetto ad esempio alla superficialità con cui Marco Pannella nel 1980 accosta l’attentato di via Rasella a Roma nel 1944 e la strage della scorta e il rapimento del Presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. Contro questa interpretazione errata Quazza richiama la necessità della contestualizzazione, la distinzione “tra la violenza partigiana di massa e terroristica di pochi vedeva in atto una revisione antistorica del problema che trascinava nel gorgo Marx, Mazzini, Garibaldi, Bakunin, l’ottobre sovietico, l’occupazione delle fabbriche, lo sciopero con boicottaggio e picchettaggio, gli Arditi del Popolo, Carlo Rosselli, la guerra civile spagnola, la Resistenza e la Rivoluzione del terzo mondo”.

Tutto sprofondava in un unico indistinto accomunando chi esercitava “la violenza dall’ alto, la violenza della classe dominante, con coloro che hanno sempre combattuto, anche con la violenza dal basso, l’oppressione e lo sfruttamento”. L’autore ricostruisce la differenziazione operata da Quazza tra il 1945 e gli anni Settanta quando la violenza che insanguina il Paese non è più solo fascista, ma anche di gruppi nati sulla sinistra ammantati di slogan, obiettivi e fraseologia rossa. Quella scelta, operata da gruppi di sinistra che praticavano la lotta armata era necessaria, inutile o dannosa? Nel contesto dell’Italia di allora non era affatto necessaria, derivava da un’ analisi politica sbagliata, e diventava non solo inutile, ma dannosa per le sorti della lotta politica stessa. La violenza politica andava valutata coi mezzi dell’ analisi storica senza cedere all’enfasi strumentale e alle campagne di stampa del momento. A volte anche le cause migliori come fu il caso della Resistenza erano state costrette a far ricorso alla lotta armata: “Tuttavia non bisognava cadere nel vizio estetizzante della violenza, farne un feticcio, occorreva considerarla nei termini di moralità e/o immoralità secondo un approccio che poi fece proprio Claudio Pavone nel suo lavoro sulla moralità della Resistenza”. Sono riflessioni che trovarono poco spazio quando furono coraggiosamente affermate, oggi si vorrebbe sperare che possano almeno essere maggiormente apprezzate e non solo sul piano storiografico.

Per quanto, sia il biografo che il biografato, si possano immaginare estranei a schemi di filosofia della storia, il libro nella sua puntuale ricostruzione non si può dire del tutto alieno dall’ingiunzione benjaminiana della storia come destino e della libertà come balzo di tigre nel passato a riscattare le sofferenze e le durezze che gli sconfitti delle lotte passate hanno affrontato.

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