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Per la critica del cibo in forma di merce
A proposito del pamphlet di Wolf Bukowski
di Afshin Kaveh
Si intitola La merce che ci mangia. Il cibo, il capitalismo e la doppia natura delle cose (Einaudi 2023, pp. 50, 2,99 euro) ed è l’ultimo libricino – purtroppo non disponibile in formato cartaceo ma edito esclusivamente in ebook – di Wolf Bukowski. L’autore ruota attorno al blog Giap della Wu Ming Foundation, è collaboratore della rivista Internazionale e in passato aveva già dedicato alcuni sforzi riflessivi al medesimo argomento, per esempio nei volumi Il grano e la malerba (Ortica Editrice 2012) e La danza delle mozzarelle (Edizioni Alegre 2015), oltre ad essersi impegnato nella critica alle narrazioni dell’organizzazione urbanistica del “decoro” nel libro La buona educazione degli oppressi (Edizioni Alegre 2018) di cui conservo un piacevole ricordo personale: la sua presentazione a Sassari nel 2020, immersi, alla sera, nella cornice di Piazza Santa Caterina ai piedi della scalinata della facciata della chiesa monumentale.
Da allora non mi sarei mai aspettato che, a distanza di pochi anni, mi sarebbe capitato tra le mani un testo come La merce che ci mangia, una breve ma intensa riflessione critica che prende avvio da una costruzione teorica profondamente diversa dalle precedenti stesure di Bukowski. L’autore, infatti, fin dalle prime battute si domanda: «il cibo è una merce?». Potrebbe sembrare un quesito di poco conto, di frivola importanza, soprattutto di fronte «alle navi cariche di cereali che attraversano gli oceani, alle grigie fabbriche di conserva che divorano pomodori, ma anche alle colorate corsie d’un ipermercato, tra le quali ci smarriremmo se i marchi, le etichette, non ci prendessero per mano», esempi che condurrebbero chiunque a rispondere affermativamente al quesito.
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La questione Taiwan, all’inizio del 2024
di Alberto Bradanini
In un incontro dell’American Enterprise Institute tenutosi il 2 novembre 2021 in Florida – alla presenza di personalità politiche del fronte trumpista, tra cui H. Brands, D. Blumenthal, G. Schmitt, M. Mazza, J. Bolton e altri – la destra repubblicana era giunta alla conclusione che la strategia cinese di riassorbimento dell’isola non ha nulla di eccentrico o ideologico. Persino un immaginario governo amico degli Stati Uniti metterebbe in cima all’agenda politica il recupero di Taiwan, territorio storicamente cinese, che però si scontra con la maggioranza dei taiwanesi, per ora contraria.
Per la dirigenza del paese, ça va sans dire, la via preferibile dovrebbe essere quella pacifica, consapevole che un ipotetico conflitto con Taiwan avrebbe pesanti riflessi sulla stabilità e la crescita economica, senza contare che le forze armate di Taipei (a prescindere dal possibile intervento americano) renderebbero assai costosa sotto ogni punto di vista un’ipotetica invasione dell’isola.
Le elezioni presidenziali tenutesi a Taiwan il 13 gennaio scorso hanno decretato la vittoria di Lai Ching-te (William Lai), vicepresidente uscente della Repubblica di Cina (è questa la denominazione ufficiale dell’isola). Lai, il cui insediamento è previsto per il 20 maggio, è oggi l’esponente di punta del Partito Democratico Progressista (DPP) che ha governato negli ultimi otto anni.
La presidente uscente, Tsai Ing-wen, prima donna a vincere le elezioni, per di più per due volte consecutive (2016 e 2020), si era dimessa da presidente del partito lo scorso autunno dopo la sconfitta alle elezioni amministrative. La Tsai non era comunque rieleggibile per limiti di mandato.
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Le radici valutarie del conflitto in Ucraina
di Francesco Schettino (Università della Campania L. Vanvitelli, Napoli/Caserta)
1. L’ultima grande crisi e la conflittualità valutaria
Anche il più grande sostenitore delle logiche dell’attuale modo di produzione, se mosso da onestà, non potrebbe negare che da almeno 25 anni il capitale mondiale, nella sua interezza, versa in uno stato di difficoltà, come mostrato dalla Figura 1, seguendo una tendenza ribassista già emersa almeno dalla fine degli anni sessanta, come avremo modo di spiegare più avanti.
Il denominatore comune di questa tendenza di medio-lungo periodo può essere individuato nell’eccesso patologico di sovrapproduzione1 che impedisce a tutto il valore prodotto di essere collocato adeguatamente o, in altre parole al plusvalore complessivo di tradursi in profitto a causa della limitatezza del mercato mondiale e della domanda pagante in grado di assorbire tale sistematico eccesso. In questo capitolo tenteremo di focalizzare il nostro campo di indagine sulle evoluzioni del ritmo di accumulazione delle ultime due decadi, ossia a partire dal biennio 2007/2008, periodo ricordato da molti come quello della “crisi finanziaria”. Già l’adozione diffusa di questa limitativa definizione, ormai ampiamente acquisita e sussunta, descrive adeguatamente la natura e l’entità del tentativo di nascondere le vere peculiarità della crisi emersa nel 2008 come epifenomeno di un problema che, come abbiamo già iniziato a vedere è più antico ed endemico al sistema.
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La Germania in crisi è il futuro dell’Europa
di Thomas Fazi
Le proteste degli agricoltori hanno messo in luce la debolezza di Berlino
Per gran parte dell’era Merkel, la Germania è stata un’isola di stabilità economica e politica in mezzo alle acque perennemente tempestose dell’Europa. Quei giorni, tuttavia, sembrano un lontano ricordo. L’Europa è ancora in crisi, ma ora la Germania ne è l’epicentro. È ancora una volta il malato d’Europa.
Le manifestazioni antigovernative sono rare in Germania. Così, quando a metà dicembre centinaia di agricoltori arrabbiati e i loro trattori sono scesi a Berlino per protestare contro il previsto taglio dei sussidi per il gasolio e delle agevolazioni fiscali per i veicoli agricoli nell’ambito di una nuova ondata di misure di austerità, è stato chiaro che c’era qualcosa in ballo. Il governo, evidentemente preoccupato, ha fatto immediatamente marcia indietro, annunciando che lo sconto sarebbe rimasto in vigore e che le sovvenzioni per il diesel sarebbero state eliminate gradualmente nell’arco di diversi anni, invece di essere abolite immediatamente. Gli agricoltori, tuttavia, hanno detto che non era abbastanza e hanno minacciato di intensificare le proteste a meno che il governo non si riservasse completamente i suoi piani.
E sono stati di parola: nelle settimane successive, migliaia di agricoltori hanno inscenato proteste di massa, non solo a Berlino ma in diverse città, bloccando persino le arterie autostradali e portando di fatto il Paese alla paralisi. Il governo, a sua volta, ha fatto ricorso a uno dei trucchi più vecchi ed efficaci del manuale politico: affermare che dietro le proteste c’era l’estrema destra, nel tentativo di delegittimare gli agricoltori e spaventare la gente. Ma questa volta non ha funzionato. Le proteste non solo sono continuate, ma sono cresciute e hanno attirato anche lavoratori di altri settori — pesca, logistica, ospitalità, trasporto su strada, supermercati — e comuni cittadini.
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Il primo giudice a Gaza
di Micaela Frulli
Con una storica ordinanza la CIG obbliga Israele a prendere tutte le misure necessarie per evitare un genocidio. Sebbene poco vincolante la decisione può innescare azioni politiche in sede ONU e dei singoli Stati, in attesa della sentenza definitiva
La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) con sede all’Aja è il massimo organo giudiziario delle Nazioni Unite, con competenza a dirimere le controversie tra Stati. Si tratta di un organo che fa parte delle Nazioni Unite, lo Statuto della CIG è allegato alla Carta dell’ONU e gli Stati lo sottoscrivono nel momento in cui aderiscono all’organizzazione, pur non accettando automaticamente la giurisdizione della Corte per ogni controversia che li riguarda. Il collegio è composto da 15 giudici, in rappresentanza di tutte le principali aree geografiche e culture giuridiche, che vengono eletti dall’Assemblea generale e dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. Le sentenze e le ordinanze emesse dalla CIG sono vincolanti per le parti in causa. È importante distinguere la CIG da un altro importante tribunale internazionale con sede all’Aja, la Corte penale internazionale, che esercita la propria giurisdizione nei confronti degli individui sospettati di avere compiuto crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e aggressione.
È proprio di fronte alla CIG che il 29 dicembre 2023 il Sudafrica ha citato in giudizio lo Stato di Israele per una serie di atti compiuti nel contesto delle operazioni militari condotte nella striscia di Gaza a seguito degli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023: tali atti infatti sono contestati come potenziali violazioni della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. Nella storia della CIG, ci sono state altre controversie tra Stati relativamente alla violazione della Convenzione sul genocidio. Due di questi casi sono ancora pendenti (Gambia c. Myanmar e Ucraina c. Russia) mentre, tra i casi meno recenti, il più importante è sicuramente quello che ha visto contrapposte la Bosnia-Erzegovina e la Serbia (all’epoca Serbia-Montenegro), nel quale la CIG nel 2007 ha condannato la Serbia per mancata prevenzione del genocidio di Srebrenica.
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Il silenzio dei dannati
di Chris Hedges – The Chris Hedges Report
Le nostre principali istituzioni umanitarie e civili, comprese le più importanti istituzioni mediche, si rifiutano di denunciare il genocidio di Israele a Gaza. Questo smaschera la loro ipocrisia e complicità
A Gaza non c’è più un sistema sanitario efficace. I neonati muoiono. Ai bambini vengono amputati gli arti senza anestesia. Migliaia di malati di cancro e di persone che hanno bisogno di dialisi non vengono curati. L’ultimo ospedale oncologico di Gaza ha cessato di funzionare. Si stima che 50.000 donne incinte non abbiano un luogo sicuro dove partorire. Vengono sottoposte a parti cesarei senza anestesia. I tassi di aborto spontaneo sono aumentati del 300% dall’inizio dell’assalto israeliano. I feriti muoiono dissanguati. Non ci sono servizi igienici né acqua pulita. Gli ospedali sono stati bombardati e bombardati. L’ospedale Nasser, uno degli ultimi funzionanti a Gaza, è “prossimo al collasso“. Le cliniche e le ambulanze – 79 a Gaza e oltre 212 in Cisgiordania – sono state distrutte. Sono stati uccisi circa 400 medici, infermieri, operatori sanitari e operatori sanitari – più del totale di tutti gli operatori sanitari uccisi nei conflitti di tutto il mondo messi insieme dal 2016. Altri 100 sono stati detenuti, interrogati, picchiati e torturati o sono scomparsi ad opera dei soldati israeliani.
I soldati israeliani entrano abitualmente negli ospedali per effettuare evacuazioni forzate – mercoledì le truppe sono entrate nell’ospedale al-Amal di Khan Younis e hanno chiesto ai medici e ai palestinesi sfollati di andarsene – e per rastrellare i detenuti, compresi i feriti, i malati e il personale medico. Martedì, travestiti da operatori ospedalieri e civili, i soldati israeliani sono entrati nell’ospedale Ibn Sina di Jenin, in Cisgiordania, e hanno assassinato tre palestinesi mentre dormivano.
I tagli ai finanziamenti per l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA) – punizione collettiva per il preteso coinvolgimento nell’attacco del 7 ottobre di 12 dei 13.000 operatori dell’UNRWA – accelereranno l’orrore, trasformando gli attacchi, la fame, la mancanza di assistenza sanitaria e la diffusione di malattie infettive a Gaza in un’ondata di morte.
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La macchina della dipendenza
di Diego Viarengo
Lo smartphone è stato progettato per rubarci l'attenzione, e il tempo: esiste un modo per disintossicarsi?
“You don’t get cured”. In una battuta di The West Wing, scritta da Aaron Sorkin, c’è una lezione sulle dipendenze. Leo è il capo gabinetto del Presidente degli Stati Uniti, il personaggio che risolve problemi: affronta crisi di stato con incrollabile senso di giustizia, prima di fare colazione segnala al New York Times un errore nelle parole crociate e – in segreto – partecipa alle riunioni degli alcolisti anonimi. La cura non c’è. Le persone dipendenti sono in trattativa perenne con l’oggetto della loro dipendenza. Non si guarisce. Ci sono periodi di astinenza più o meno lunghi. È la situazione in cui ci troviamo con il nostro smartphone.
Scrive Juan Carlos De Martin nel libro-manifesto Contro lo smartphone (add, 2023): “lo smartphone è una macchina che è stata esplicitamente progettata, anche con l’apporto di neuroscienziati e di psicologi, per creare dipendenza”. Nel 2014 l’iPhone era più redditizio delle sigarette Marlboro, un prodotto incessantemente pubblicizzato che contiene una sostanza in grado di dare assuefazione fisica. Le applicazioni dello smartphone sono costruite per non essere abbandonate e, a differenza delle sostanze, si adattano alle modalità d’uso creando un percorso di rafforzamento basato sulle abitudini individuali, osserva lo psicologo Matthias Brand su Science, in un articolo sulla dipendenza da internet. Siamo dipendenti dal telefono e non c’è cura, solo periodi più o meno lunghi di astinenza.
Torno nelle aule in cui seguivo le lezioni all’università con più curiosità che nostalgia: sto andando al Laboratorio di disconnessione digitale, primo piano, aula 22, Palazzo Nuovo, Torino. È la terza sessione del seminario, si discutono le regole dell’esperimento di auto-etnografia condotto da Simone Natale, professore di storia e teoria dei media oltre che autore di Macchine ingannevoli (Einaudi, 2022).
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I kulaki di ieri e la tosse dei contadini di oggi
di Algamica*
Il giornale la Repubblica del 3 febbraio in un articolo di Massimo Giannini dedicato alla generalizzata e composita rivolta dei contadini europei titolava «le proteste degli agricoltori: il doppio schiaffo dei nuovi kulaki». L’uso spregiudicato del termine “kulako” per definire l’agricoltore in sommossa di questi giorni è suggestivo. Sappiamo che il termine origina dal “turco-tataro” e che divenne comune nel gergo popolare tra i russi delle campagne nel suo senso figurato di “arraffatore”. Questo sostantivo andò poi a definire quello strato sociale delle campagne che risultò dalla riforma agraria del 1906 nella Russia zarista e che prevedeva l’assegnazione delle terre ai contadini attraverso il pagamento in denaro. Un passaggio che si rendeva necessario per velocizzare l’accumulazione nella estesa campagna russa, che per una serie di circostanze storiche materiali arrivò in ritardo a sviluppare quei rapporti di mezzadria nonostante la riforma della servitù del 1861, che viceversa si era sviluppata in maniera più marcata nelle regioni più occidentali dell’odierna Ucraina, nelle quali già sotto il possedimento della Confederazione Polacco-Lituana e fin dal 1500 gli investitori di capitali e ricchi mercanti tedeschi, olandesi e francesi favorivano la produzione delle derrate agricole per l’esportazione nell’Europa continentale e dunque alimentando aspettative di maggiori guadagni. Un fattore materiale che andò a comporre il quadro generale della relazione storica conflittuale tra città e campagna, che sarebbe divenuto successivamente nella Russia bolscevica l’elemento sociale endogeno cavallo di troia del processo storico impersonale della penetrazione finanziaria dei paesi imperialisti occidentali e anche l’anello reale della aggressione militare contro la rivoluzione bolscevica, negli anni venti e in quelli a seguire.
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L'attualità della rivoluzione. Il Lenin del giovane Lukács
di Mario Tronti
A cent’anni dalla morte del grande rivoluzionario, un estratto di un testo inedito di Mario Tronti sul Lenin del giovane Lukács. Il saggio completo farà parte di «Che fare con Lenin? Appunti sull’attualità della rivoluzione», a cura di Andrea Rinaldi, con contributi di Guido Carpi, Rita di Leo, Maurizio Lazzarato, Damiano Palano, Gigi Roggero, di prossima pubblicazione per DeriveApprodi.
«Il politico è portato a proseguire sulla stessa strada che ha dato il via alla rivoluzione; il teorico della politica è capace di vedere la necessità di passare a una fase ulteriore, che in qualche misura smentisce anche i presupposti della Rivoluzione stessa».
* * * *
Il primo capitolo di Lenin. Teoria e prassi nella personalità del rivoluzionario porta il titolo «L’attualità della rivoluzione».
Quali sono gli elementi per cui una rivoluzione operaia di stampo marxista si può considerare attuale? Ci sono due condizioni che si devono incontrare, ma storicamente succede molto raramente: una crisi di sistema di fondo, che non si può più gestire, che non si può più risolvere, quindi un dato oggettivo che favorisce evidentemente l’iniziativa rivoluzionaria; una soggettività rivoluzionaria già pronta, che sta lì, già organizzata, pronta a cogliere il momento e portare a termine l’evento rivoluzionario. Quella di Lukács era l’epoca in cui queste due condizioni si erano incontrate proprio in Russia, paese sconfitto nella Seconda guerra mondiale e allo sbando, tra guerra e miseria. Lì era presente un nucleo bolscevico, un’organizzazione che aveva già attraversato un momento rivoluzionario – dal carattere cosiddetto «democratico», non ancora socialista – nel 1905, che vede l’occasione di sfruttare questa situazione di crisi.
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Cosa attendersi da Hamas1
di Alessandro Mantovani
Le voci di un imminente cessate il fuoco a Gaza e di uno scambio di prigionieri-ostaggi fra Hamas e Israele si rincorrono da giorni2 e, con le dichiarazioni di Londra e Washington di un possibile riconoscimento dello Stato palestinese, non si può escludere una prossima fine delle operazioni militari. Cosa avverrà dopo? Una parte di questa risposta si trova nella natura e nella storia dell’organizzazione che più delle altre ha lasciato il suo segno sullo storico attacco a Israele del 7 ottobre 2023: Hamas, che in arabo significa “zelo”, ed è l’acronimo di Ḥarakat al-Muqāwama al-Islāmiyya (“Movimento di resistenza islamica”).
I Fratelli musulmani
Nel 1928 in Egitto, allora sotto mandato britannico, nasce un movimento islamista chiamato Fratellanza musulmana. Fondatore Hassan Al-Banna, il quale predica un ritorno all’Islam originario, non conseguibile senza fine del dominio straniero. Il rigorismo dei Fratelli musulmani respinge tanto il conservatorismo delle gerarchie quanto la secolarizzazione sul modello occidentale (per Al-Banna l’Islam contiene in sé la dimensione politica).
Inizialmente i “Fratelli” si limitano al terreno religioso e culturale. Presto Al-Banna realizza che per il suo progetto è necessario permeare la società. Si rivolge allora agli ulema, ai capi delle confraternite religiose, ai notabili, ai funzionari dello Stato, ma anche agli studenti, ai contadini, ai lavoratori. Mano mano che la “Fratellanza” cresce, e cresce rapidamente (siamo negli anni ‘20 del secolo scorso e l’Egitto è in ebollizione), essa non solo penetra nelle istituzioni caritative e di assistenza, bensì ne fonda e sviluppa una rete capillare. Prassi che diventerà il suo marchio distintivo. Dalla metà degli anni ‘30, pur non costituendo un partito, i Fratelli entrano anche nell’agone politico.
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Cento volte Lenin
di Gianmarco Pisa
Il contributo di Lenin, nella storia del movimento operaio e democratico, in tutta la sua profondità e attualità
Movimenti democratici, lotte partigiane, resistenze antifasciste e antiautoritarie, lotte di liberazione dei popoli, scalate al cielo rivoluzionarie, tutte devono qualcosa a Lenin, ai contenuti dei suoi scritti, alle iniziative della sua direzione politica, alle realizzazioni dell’esperienza sovietica.
Tra i più grandi, se non il più grande, dei prosecutori e innovatori del pensiero dei fondatori, Karl Marx e Friedrich Engels, Lenin (Vladimir Il’ič Ul’janov: Simbirsk, 1870 – Gorki, Mosca, 1924) ha fornito un impulso formidabile, essenziale, allo sviluppo del marxismo e, in generale, del pensiero e della prassi del movimento operaio, e ha rappresentato un’ispirazione luminosa, prospettica, per generazioni di comunisti, partigiani, rivoluzionari, per l’oggi e per il domani, letteralmente ai quattro angoli del pianeta.
Organizzatore della frazione bolscevica in seno al marxismo russo; principale protagonista dell’Ottobre rosso, la vittoriosa rivoluzione d’Ottobre del 1917; capo del primo governo della Russia sovietica, il primo compiuto Stato socialista della storia, e poi, dal 1922, dell’Unione sovietica; teorico e costruttore della democrazia consiliare attraverso il sistema dei Soviet, della programmazione economica, della Nuova Politica Economica, delle grandi conquiste sociali da lui inaugurate e quindi proseguite dalla successiva direzione politica dell’Unione sovietica; e ancora, ispiratore della moderna teoria dell’imperialismo e teorico del moderno diritto dei popoli all’autodeterminazione, è impossibile sintetizzare grandezza e attualità del contributo di Lenin, sul piano politico e filosofico, alla storia e al pensiero del movimento operaio.
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La NATO guida il riarmo globale tra cyberwar e tecnologie quantistiche
di Antonio Mazzeo
Alea iacta est. Il dado è tratto. Ciò che disse Cesare prima di varcare il Rubicone e iniziare la guerra contro Pompeo, lo hanno ripetuto duemila anni dopo i Capi di Stato maggiore della difesa dei 31 paesi membri della NATO più la new entry di Svezia. Solo che stavolta sarà guerra totale e in ogni angolo del pianeta, prima contro Mosca e poi contro Pechino. E se sarà necessario, generali e ammiragli si dichiarano pronti a usare le più sofisticate tecnologie di distruzione di massa.
Il 17 e 18 febbraio i vertici delle forze armate dell’Alleanza si sono dati appuntamento a Bruxelles per il Military Committee NATO: all’ordine del giorno come accelerare il processo di trasformazione delle strategie e delle “capacità di combattimento” e come garantire l’implementazione immediata dei nuovi “piani di difesa” approvati al summit di Vilnius della scorsa estate. È in atto una spasmodica corsa verso il riarmo globale e la NATO si candida a divenire il motore della ricerca e dello sviluppo delle tecnologie di morte, possibilmente in partnership con le grandi holding del complesso militare-industriale e con un ampio numero di attori della società “civile” (università, centri di ricerca, start up, agenzie spaziali nazionali e internazionali, ecc.).
“Le regole su cui si basa l’ordine internazionale sono sotto un’immensa pressione”, ha esordito il vicesegretario generale della NATO, Mircea Geoană, all’apertura della sessione di lavoro del Military Committee dedicata alle “priorità della deterrenza”. Geoană è pure ricorso al minaccioso frasario dei tempi più bui della Guerra fredda, condendolo con suggestivi accenni geologici. “Le placche tettoniche del potere stanno cambiando”, ha enfatizzato il vicesegretario NATO.
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Adam Smith a Pechino
di Salvatore Bravo
Il comunismo nella formula cinese è nell’Occidente motivo di discussione. Non pochi comunisti ritengono che in Cina il montante capitalismo del dragone sia soltanto mera apparenza, in quanto lo Stato cinese usa e incentiva gli appetiti borghesi e capitalistici per sollecitare la produzione e risolvere la piaga della povertà. I risultati sono strabilianti, la Cina è oggi avviata a superare gli Stati Uniti nella produzione ed è concorrente temibile in campo tecnologico, funge da katechon all’onnipotenza a stelle e strisce.
Nel testo di Arrigo Giovanni Adam Smith a Pechino, l’autore dimostra che la via cinese al comunismo passa attraverso la formula smithiana. Adam Smith con la sua “La ricchezza delle nazioni” è spesso citato, ma nei fatti pochi sono i lettori del testo di Adam Smith. Due sono gli obiettivi che si desumono dal saggio di Arrigo: rimuovere i pregiudizi su Adam Smith e dimostrare come la via cinese verso il benessere collettivo passi attraverso il mercato efficacemente controllato e non certo dal pensiero marxista e marxiano.
Adam Smith non è stato il fautore dell’autoregolamentazione del mercato, ma dello Stato forte che regola il mercato. La Cina applica la formula smithiana inconsapevolmente. Il mercato in Cina è solo un mezzo, i capitalisti e la borghesia sono al servizio del benessere collettivo. Non vi sono monopoli, ma capitalisti in competizione, per cui la Cina comunista risulta essere più liberale nei principi degli Stati che si dichiarano baluardo del sistema liberale e liberista:
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Stati Uniti e Cina allo scontro globale
Epilogo
di Raffaele Sciortino
"Pubblichiamo il capitolo di aggiornamento al volume di Raffaele Sciortino "Stati Uniti e Cina allo scontro globale", redatto nello scorso settembre per l'edizione inglese del libro che uscirà per Brill il prossimo aprile."
Questo capitolo, che aggiungiamo alla traduzione dell’edizione originale uscita nell’ottobre del 2022, mira a dar conto sinteticamente delle principali novità (relative) che si sono date nell’ultimo anno. Ne risulta confermata, crediamo, la tendenza alla disconnessione US-Cina e alla riconfigurazione del mercato mondiale (in senso marxiano) ma ancora al di qua di quelle precipitazioni drammatiche che possono portare a una sua vera e propria frammentazione attraverso crisi economiche, sociali e geopolitiche senza ritorno. La globalizzazione, così, sempre meno vale come cornice data dell’accumulazione mondiale, e sempre più come terreno di aspra competizione che dal livello dei singoli capitali trascresce a quello tra stati nazionali nel quadro della contrapposizione di fondo tra Occidente imperialista e Cina.
Inizieremo dalla principale novità: il cambio di passo impresso da Washington alla strategia del decoupling anti-cinese, sullo sfondo delle crescenti difficoltà statunitensi e occidentali nello scenario di guerra ucraino. Ne rintracceremo i primi effetti evidenti sulla dinamica già ben delineata di rallentamento generale della globalizzazione. Concluderemo con alcune osservazioni sulla risposta cinese, che a fronte dell’acuirsi dello scontro con gli Stati Uniti sta mostrando una continuità di linea strategica, e sulle prospettive di un’economia mondiale segnata dall’incertezza ma non (ancora) in recessione generale. Il che contribuisce a dar corpo a quella che abbiamo definito una sfida “riformista” sui generis all’ordine internazionale egemonizzato da Washington.
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Rileggere oggi il “Manifesto contro il lavoro”
di Paolo Lago
Gruppo Krisis, Manifesto contro il lavoro e altri scritti, introduzione di M. Maggini, prefazione di A. Jappe, postfazione di N. Trenkle, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 164, euro 16,00
È sicuramente un’esperienza interessante rileggere oggi il Manifesto contro il lavoro (Manifest gegen die Arbeit) del Gruppo Krisis, uscito in Germania nel 1999 e tradotto per la prima volta in italiano nel 2003 per DeriveApprodi1. Come ci informa Massimo Maggini nell’introduzione di questa nuova edizione uscita per i tipi di Mimesis, il Manifest ebbe in Germania altre tre edizioni, la seconda già nel settembre del 1999, la terza nell’ottobre del 2004 e la quarta ed ultima nel 2019. Le teorie esposte nel Manifest appartengono alla corrente di pensiero chiamata Wertkritik, cioè “Critica del Valore”, secondo la quale la crisi che sta investendo il sistema del capitale è irreversibile ed è determinata proprio dalla crisi del lavoro, provocata a sua volta dalle varie ‘evoluzioni’ che esso stesso ha subito nel tentativo di aumentare e rendere migliori le sue applicazioni tecnico-scientifiche. Ciliegina sulla torta è stata la “rivoluzione micro-elettronica”, che ha espulso e reso inutili enorme masse di forza lavoro umana, ormai improduttive dal punto di vista della valorizzazione capitalistica. Naturalmente, come ricorda anche l’autore dell’introduzione, il lavoro che attaccano gli studiosi della “Critica del Valore” non è tanto l’operare umano in sé quanto invece quello che Marx definisce “lavoro astratto”, non finalizzato al benessere degli individui ma all’aumento del profitto e all’accumulazione monetaria in vista di nuovi investimenti.
Gli autori del Manifesto sono tre fra gli studiosi di spicco del Gruppo Krisis: Robert Kurz, Norbert Trenkle e Ernst Lohoff. La presente edizione2 ripropone, insieme al Manifesto, dei saggi significativi di questi studiosi (ai quali si aggiunge un saggio di Anselm Jappe) già presenti nella traduzione italiana del 2003.
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La resa dei conti
di Alberto Burgio
Nell'articolo di oggi, Alberto Burgio sviluppa i ragionamenti già espressi nel suo ultimo articolo «Salute al duce!». La reazione alle conquiste delle lotte operaie e del movimento operaio che si è sostanziata negli ultimi trenta/quaranta anni, arriva a compimento oggi con una radicalizzazione delle nuove logiche di dominio che si può comprendere come processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, ci dice l'autore. L'avanzata di Alternative für Deutschland in Germania e le riforme che sta portando avanti il governo Meloni sono, in tal senso, paradigmatiche.
* * * *
Approfitto dell’ospitalità di Machina per tornare sui temi trattati nell’intervento precedente e provare a svilupparli.
Chiarisco subito il punto: sono convinto che oggi in Italia (come in larga parte dell’Europa e dell’Occidente) sia in atto un processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, e che in questo processo giunga a compimento una fase (ultra quarantennale) di reazione organica alle conquiste che il movimento operaio e i movimenti anticoloniali avevano ottenuto nei «Trenta gloriosi» (sino alla metà degli anni Settanta).
Sul piano economico la reazione alle conquiste del movimento operaio e alle lotte anticoloniali nel trentennio post-bellico (conquiste salariali e politiche; in termini di diritti, indipendenza e influenza politica) si è basata (1) sulla mondializzazione del sistema di accumulazione, che ha disarmato il lavoro salariato e (2) sull’egemonia del capitale finanziario, che ha sradicato la sovranità economica degli Stati nazionali.
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La vergognosa strumentalizzazione del Giorno della Memoria
di Lorenzo Vagni
Il 27 gennaio 1945 è una data fondamentale, una ricorrenza che non va dimenticata e il cui significato è necessario tramandare alle nuove generazioni. Quello che è stato internazionalmente istituito come Giorno della Memoria commemora la liberazione da parte dell’Armata Rossa del campo di concentramento di Auschwitz, nei pressi della città polacca di Oświęcim, il cui complesso di campi di concentramento e di sterminio fu il più grande realizzato dalla Germania e in cui si stima persero la vita oltre un milione di persone. La celebrazione della giornata fu stabilita dalle Nazioni Unite nel 2005, in occasione del sessantesimo anniversario della liberazione del campo, per commemorare le vittime dell’Olocausto, lo sterminio di due terzi della popolazione ebraica europea, oltre che di una serie di minoranze considerate inferiori dall’ideologia hitleriana.
Senza soffermarsi sugli eventi storici che portarono alla liberazione di Auschwitz da parte dei soldati sovietici, che segue cronologicamente la presa dei campi smantellati dai tedeschi di Majdanek, Chełmno, Bełżec, Sobibor e Treblinka, è necessaria una riflessione sul Giorno della Memoria e sul suo significato. La liberazione dei campi di concentramento e di sterminio rese possibile la scoperta degli orrori commessi nei lager nazisti, per lo più rimasti celati fino alla controffensiva sovietica e occultati dalle SS, che si affrettarono a distruggere quante più prove del genocidio non appena l’avanzata dell’URSS in quei territori si rivelò inarrestabile. La conseguente diffusione delle immagini, delle notizie e delle testimonianze dei sopravvissuti ebbe un notevole impatto sull’opinione pubblica in tutto il mondo, provocando sgomento per le atrocità commesse dai fascisti in tutta Europa e per ogni forma di genocidio, segregazione e discriminazione razziale.
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La dialettica dell’ecologia, un’introduzione
di John Bellamy Foster
Pubblichiamo dal sito Antropocene.org, rassegna internazionale di ecosocialismo, la traduzione di un importante saggio di John Bellamy Foster dal numero di gennaio della rivista Montly Review
L’intera natura si trova in un perpetuo stato di flusso…
Non vi è nulla che sia chiaramente definito in natura…
Ogni cosa è legata a tutto il resto…
Denis Diderot [1]
Come ha osservato l’ecologo di Harvard e teorico marxiano Richard Levins, «probabilmente la prima indagine di un oggetto complesso studiato come un sistema è stato il capolavoro di Karl Marx, Il capitale», che ha esplorato sia la base economica che quella ecologica del capitalismo, inteso come sistema socio-metabolico.[2] La premessa della Dialettica dell’ecologia, così come affrontata in quest’articolo, è che troviamo soprattutto nel materialismo storico classico/naturalismo dialettico, il metodo e l’analisi che ci permette di collegare “la storia del lavoro e del capitalismo” alla storia della “Terra e del pianeta”, consentendoci di indagare da un punto di vista materialista la crisi dell’Antropocene propria del nostro tempo.[3] Nelle parole di Marx, l’umanità è sia “una parte della natura”, che una “forza della natura”.[4] Nella sua concezione non era presente alcuna rigida divisione tra storia naturale e storia sociale. Piuttosto, «La storia della natura e la storia dell’uomo [umanità]» erano pensate come «l’una in dipendenza dall’altra sin tanto che l’uomo esisterà».[5]
Da questa prospettiva, la relazione tra lavoro, capitalismo e metabolismo terrestre, è al centro della critica dell’ordine esistente. «Il lavoro», scriveva Marx, «è, anzitutto, un processo che passa tra l’uomo e la natura, un processo attraverso il quale l’uomo, per mezzo delle sue stesse azioni, media, regola e controlla il metabolismo tra sé e la natura.
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Il fango e le stelle
di Giorgio Agamben
Tutti ricordano l’aneddoto, narrato da Socrate nel Teeteto, della servetta trace, «arguta e graziosa», che ride osservando Talete che, tenendo fisso lo sguardo verso il cielo e le stelle, non vede quel che gli sta sotto i pedi e cade in un pozzo. In un appunto del Quaderno genovese, Montale rivendica in qualche modo il gesto del filosofo, scrivendo: «Chi trascina i piedi nel fango e gli occhi nelle stelle; quello è il solo eroe, quello è il sol vivente». Che il poeta ventunenne compendi e anticipi in questo appunto l’essenza della sua futura poetica, non è sfuggito ai critici; ma altrettanto importante è che questa poetica, come ogni vera poetica, implichi per così dire una teologia, sia pure negativa, che uno studioso attento ha drasticamente riepilogato nella formula «teologia della briciola» («Solo il divino è totale nel sorso e nella briciola» – si legge in Rebecca, «Solo la morte lo vince se chiede l’intera porzione»).
La teologia che è qui in questione, com’è evidente già nel dualismo «fango/stelle» dell’appunto giovanile e nelle «buie forze di Arimane» evocate in un intervento del 1944, è certamente gnostica. Come in ogni gnosi, i principi – o gli dei – sono due, uno buono e uno malvagio, uno assolutamente estraneo al mondo e un demiurgo che lo ha invece creato e lo governa. Nelle correnti gnostiche più radicali, il dio buono è così estraneo al mondo, che nemmeno si può dire che esista: secondo i Valentiniani, egli non è esistente, ma pre-esistente (proon), non è principio , ma pre-principio (proarche), non padre, ma pre-padre (propator). E come è estraneo al mondo, è anche estraneo al linguaggio, paragonabile a un abisso (bythos) intimamente congiunto al silenzio (sige):
«Il silenzio, madre di tutto ciò che è emesso dall’abisso, in quanto non poteva dire nulla dell’ineffabile, tacque; in quanto comprendeva, lo chiamò incomprensibile».
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Riflessioni sulla Palestina
di Comitato Antimperialista Arezzo e Collettivo Millepiani Arezzo
1. Resistenza e Rivoluzione in Palestina
Il genocidio che lo Stato neocoloniale israeliano sta perpetrando sui palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, un genocidio che strazia le sue vittime con tutta la sproporzione tecnica dei suoi mezzi offensivi, a cominciare dal calcolato piano generale – amministrativo, militare ed etnico – inflessibilmente seguito, si scontra tuttavia con un ostacolo, poiché viene contrastato, e quindi indebolito, nella sua furia genocida, dalla irriducibile Resistenza di mobilissime formazioni di fedayyin, che spuntano improvvise e che scompaiono prontamente in quelle distese di macerie che una volta erano gli edifici di Gaza. Il genocidio sta dentro una guerra implacabile: una guerra di sterminio, da una parte; una guerra di liberazione dall’altra. Questo è il senso storico e politico di quanto sta avvenendo in Palestina, dal quale non si può assolutamente prescindere, in un’azione di massa che miri a dare forza e valore all’espressione “Palestina libera”, gridata in tutte le piazze. Infatti, se non si appoggia, se non si rende visibile, se non si dà un volto politico alla “lotta di liberazione armata” del popolo palestinese, la parola d’ordine “Palestina libera” diviene semplice coreografia. Occorre pertanto rendere netto e inconfondibile il profilo della lotta di liberazione armata dei palestinesi e, contemporaneamente, occorre adoperarsi con tutte le nostre forze per conquistare le masse popolari occidentali a un deciso e completo “riconoscimento” di questa guerra popolare di liberazione. Come per la Repubblica spagnola, aggredita nel ’36 dall’imperialismo nazifascista, e per il Vietnam bombardato con il Napalm dall’imperialismo statunitense negli anni Sessanta, una mobilitazione internazionalista sostenne il peso di una lotta comune, così oggi, di fronte alla “soluzione finale” avanzante a Gaza con gli aerei e i blindati israeliani, diventano urgenti le idee e le parole d’ordine internazionaliste per sostenere fino in fondo e senza perifrasi la Resistenza palestinese.
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I guerrafondai, i sonnambuli e i movimenti per la pace
di Alfonso Gianni
Non era mai successo nulla di simile: un impero (la Gran Bretagna) promette una terra non sua a un popolo che non ci vive senza chiedere il permesso a chi ci abita1
Gideon Levy
Cessate il fuoco! Ora! Questo grido, rivolto in particolare alle due più sanguinose guerre in corso - tra le 60 attualmente in atto nel mondo -, in Ucraina e in Palestina, ha attraversato le piazze e le strade delle principali città del Sud e del Nord del globo terrestre. Il popolo della pace, variegato e multiforme, è tornato a farsi, sentire, a imporsi all’opinione pubblica, malgrado i tentativi di nasconderne o sminuirne la forza e l’estensione da parte dei mass media mainstream. Non siamo di fronte a quella dimostrazione di grande forza e compattezza, pur nell’articolazione geografica, che contraddistinse le celebri manifestazioni del 15 febbraio del 2003 e che fecero scrivere al New York Times che aveva preso corpo una seconda potenza mondiale. Neppure quella straordinaria prova di forza fermò la guerra, ovvero l’aggressione degli Usa e dei paesi volenterosi all’Iraq. Ma essa entrò nella storia, sedimentò una diffusa coscienza civile, trasformò il pacifismo da una opzione morale e individuale in un obiettivo politico condiviso da milioni di persone disposte ad attivarsi per il suo conseguimento. Le manifestazioni che si sono susseguite in centinaia di città lo scorso 13 gennaio2 e che continueranno a riproporsi e ci auguriamo a crescere, non sarebbero potute avvenire senza poggiare sull’humus fertilizzato da quella storica giornata di inizio di secolo. E a farlo in condizioni assai più difficili di allora. Nel 2003 l’obiettivo era chiaro: impedire agli Usa di fare quello che poi hanno fatto in Iraq, sconvolgendo quel territorio e l’insieme del Medio Oriente, con conseguenze che proprio ora mostrano i loro devastanti effetti.
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Israele è una democrazia?
di Paolo Arigotti
Esiste una frase che molti analisti e giornalisti amano ripetere: Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente.
Da quelle parti, eccezion fatta per la “cleptocrazia” libanese, l’unica nazione che si avvicinerebbe (forse) agli standard democratici occidentali sarebbe la Turchia, dove però esiste una minoranza perseguitata, quella curda, che potrebbe fornire qualche spunto per un possibile confronto col caso israeliano.
Mettendo da parte ogni facile polemica, prima di tutto sarebbe necessario stabile cosa si intenda per “democrazia”, per poi applicare il concetto al caso concreto.
L’enciclopedia Treccani[1] definisce democrazia qualunque “forma di governo in cui il potere risiede nel popolo, che esercita la sua sovranità attraverso istituti politici diversi; in particolare, forma di governo che si basa sulla sovranità popolare esercitata per mezzo di rappresentanze elettive, e che garantisce a ogni cittadino la partecipazione, su base di uguaglianza”. Lo stesso dizionario contiene anche la definizione di “democratura”, neologismo riferito a un “regime politico improntato alle regole formali della democrazia, ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale”[2].
Il politologo Robert Dahl, nel suo saggio I dilemmi della democrazia pluralista, individua nel pluralismo un elemento imprescindibile per ogni assetto che voglia dirsi democratico; Norberto Bobbio, filosofo del diritto, definiva democratici i gruppi nei quali le determinazioni collettive sono caratterizzate da due regole: un’ampia partecipazione diretta o indiretta e le decisioni scaturiscano da una libera discussione a maggioranza. Naturalmente potremmo continuare con le citazioni, prendendo le mosse dall’antica Grecia, ma come notava qualche anno fa il filosofo Salvatore Veca[3]: “una soddisfacente teoria della democrazia è a tutt’oggi lungi dall’essere disponibile e […] le nostre analisi dei fatti e delle istituzioni dei regimi democratici oscillano fra descrizioni e prescrizioni, aspirazioni e valutazioni che difficilmente risultano a volte fra loro coerenti.”
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La cassetta degli attrezzi
Postille a "Guerra e rivoluzione"
di Carlo Formenti
In "Guerra e Rivoluzione" (2 voll. Meltemi, Milano 2023) ho affrontato alcuni temi "scabrosi" sui quali il marxismo occidentale non può esimersi di riflettere, se vuole uscire dalle secche in cui lo hanno impantanato decenni di opportunismo, settarismo e dogmatismo. Personalmente ritengo che l'opportunismo (vedi le ricorrenti tentazioni elettoralistiche e la conseguente disponibilità al compromesso con le borghesie liberali), benché pernicioso, abbia causato meno danni del settarismo e del dogmatismo, cioè della riproposizione rituale e ottusa di dogmi che un secolo di storia ha impietosamente falsificato. È questo crampo ideale che ha impedito alle formazioni neo comuniste di radicarsi nel sociale e raccogliere consensi (mi riferisco all'arruolamento di nuove leve di militanti, non a qualche manciata di voti) fra i lavoratori e le giovani generazioni. In questo articolo propongo alcuni approfondimenti relativi ai temi affrontati nel libro uscito qualche mese fa. Non toccherò - se non marginalmente - le questioni relative alle trasformazioni strutturali del tardo capitalismo e alle nuove forme di socialismo emerse in Cina e America Latina, perché si tratta di problemi sui quali sono già tornato su queste pagine, per concentrarmi invece: 1) sulla critica degli "ismi" (economicismo, progressismo, eurocentrismo, universalismo, ecc.) che hanno sterilizzato il marxismo occidentale; 2) sulla questione della forma partito.
PS. In questa seconda parte ho cercato di ridurre al minimo l'apparato di note in quanto si tratta di un testo assai lungo (il doppio del precedente) quindi, se avessi applicato gli stessi criteri, le note sarebbero state più di cinquanta e forse avrebbero sfiorato il centinaio, appesantendo la lettura. Per riferimenti bibliografici più esaustivi rinvio alla bibliografia generale di "Guerra e rivoluzione". Mi preme infine precisare che l'ultimo libro di Alessandro Visalli ("Classe e partito", Meltemi 2023) ha ispirato molte delle riflessioni che troverete nelle prime pagine anche se non è citato direttamente.
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L’occhio del padrone
di Tiziano Bonini
Guidare un camion è un’attività molto complessa: richiede forza fisica, concentrazione mentale per lunghi periodi di tempo, destrezza nei movimenti, controllo delle proprie emozioni, capacità di cooperazione con altri camionisti, un’attività cognitiva continua, per evitare di fare incidenti o mantenere a lungo la stessa direzione di marcia. Eppure, quando si parla di professioni che implicano un lavoro cognitivo, ci si riferisce sempre ad altri tipi di lavori, come la designer, la programmatrice informatica, la manager di azienda…, tutte professioni diventate centrali con l’emergere della società dell’informazione e con la diffusione dei computer nei luoghi di lavoro, nelle istituzioni e nelle case private. Il camionista non è considerato un lavoro prettamente “cognitivo”. Eppure, gli attuali sistemi di intelligenza artificiale fanno ancora molta fatica ad automatizzare i complessi processi cognitivi che stanno alla base della guida umana di un camion. Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ha inavvertitamente dimostrato che lavori apparentemente poco qualificati come guidare un camion richiedono molta “intelligenza”, destrezza fisica e qualità emotive, e sono a tutti gli effetti dei lavori “cognitivi”. I veicoli a guida autonoma, infatti, dipendono dall'IA che impara via via a imitare le decisioni intelligenti dei conducenti sulla strada. “Se, infatti, la capacità di guidare un veicolo può essere tradotta in un modello algoritmico è perché guidare è un’attività con una componente logica, – perché, in ultima analisi, all labour is logic”, (p. 3), tutte le attività lavorative per essere eseguite presuppongono operazioni mentali logiche, che possono essere misurate, calcolate e riprodotte da un sistema logico come una rete neurale.
Questa è la constatazione da cui parte il bellissimo libro di Matteo Pasquinelli, The Eye of the Master, A Social History of Artificial Intelligence (Verso Books, 2023, di prossima traduzione italiana presso Carocci), per dimostrare come l'intelligenza artificiale sia una serie di tecnologie che emergono dal tentativo di “cattura” dell'intelligenza sociale incorporata nelle relazioni umane.
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Anche se è un genocidio, non verrà fermato
di Chris Hedges - chrishedges.substack.com
La sentenza della Corte Internazionale di Giustizia è stata una vittoria legale per il Sudafrica e i palestinesi, ma non fermerà il massacro
La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) si è rifiutata di soddisfare la cruciale richiesta avanzata dai giuristi sudafricani: “Lo Stato di Israele dovrà sospendere immediatamente le sue operazioni militari a Gaza e contro Gaza”. Ma, allo stesso tempo, ha inferto un colpo devastante al mito fondamentale di Israele. Israele, che si dipinge come eternamente perseguitato, è stato accusato in modo credibile di aver commesso un genocidio contro i palestinesi di Gaza. I palestinesi sono le vittime, non gli autori, del “crimine dei crimini“. Un popolo, un tempo bisognoso di protezione dal genocidio, ora lo starebbe commettendo. La sentenza della Corte mette in discussione la stessa ragion d’essere dello “Stato ebraico” e sfida l’impunità di cui Israele ha goduto fin dalla sua fondazione, 75 anni fa.
La Corte Internazionale di Giustizia ha ordinato a Israele di adottare sei misure provvisorie per prevenire atti di genocidio, misure che saranno molto difficili, se non impossibili, da realizzare se Israele continuerà a bombardare a tappeto Gaza e a colpire indiscriminatamente le infrastrutture vitali.
La Corte ha chiesto a Israele di “prevenire e punire l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio”. Ha chiesto a Israele di “adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria urgentemente necessari”. Ha ordinato a Israele di proteggere i civili palestinesi. Ha chiesto a Israele di proteggere le circa 50.000 donne che partoriscono a Gaza. Ha ordinato a Israele di prendere “misure efficaci per prevenire la distruzione e garantire la conservazione delle prove relative alle accuse di atti che rientrano nell’ambito dell’articolo II e dell’articolo III della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio contro i membri del gruppo palestinese nella Striscia di Gaza”.
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