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La memoria della Shoà: due posizioni in conflitto
di Stefano Levi Della Torre
Questa è una tragica lezione della storia: i discendenti di un popolo perseguitato per secoli dall’Occidente, cristiano e poi razzista, possono diventare al tempo stesso i persecutori e il bastione avanzato dell’Occidente nel mondo arabo.
Edgar Morin, La resistenza dello spirito, La Stampa, 24 gennaio 2024
“Le vittime che si fanno carnefici”? Fino a ieri, ho sempre obiettato a questa formula accusatoria, per l’incommensurabile sproporzione tra gli atti subiti dagli ebrei come vittime fino alla Shoah, e gli atti compiuti da ebrei come persecutori o carnefici. Ma ora questi due termini, vittime e carnefici, si confrontano in modo ravvicinato: il 7 ottobre 2023 ebrei, e Israele nel suo insieme, sono stati vittime della terribile aggressione, strage, stupro, rapimento di massa di Jihad e Hamas, ma in sequenza immediata degli ebrei e Israele, perché vittime, sono diventati carnefici, e da settimane stanno devastando e facendo strage indiscriminata nella Striscia di Gaza, con 25000 morti finora, e un numero imprecisato di feriti e mutilati. Il fatto che le vittime si siano fatti carnefici è evidente. È contestabile?
Sullo sfondo di questa parabola compiuta, che le parole di Edgar Morin descrivono in breve, si svolge la Giornata della Memoria del 2024.
1. Sulla memoria della Shoah, si sono contrapposte in questi anni due tesi. Secondo la prima, la Shoah è paradigma di ogni strage programmata e genocidio in quanto riassume tutte le modalità che in altre persecuzioni compaiono in parte, e la memoria della Shoah vale non solo per se stessa, ma anche a focalizzare l’attenzione su ogni altra “crudeltà di massa” del passato e del presente al fine di mobilitare le coscienze e l’azione perché fatti simili non si ripetano né per gli Ebrei né per altri.
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Perché “La Storia” di Elsa Morante non piacque troppo a sinistra
di Linda Dalmonte
La pubblicazione della Storia di Elsa Morante fu uno di quei casi grandiosi in cui la storia che voleva rappresentarsi da fuori, finì involontariamente per cogliere sé stessa “dal di dentro”. Tutto il dibattito critico che ne seguì, elogi e accuse da più fronti, sono in un certo senso immanenti all’opera: non si può parlare della Storia di Elsa Morante prescindendo dal dibattito letterario che infervorò nell’estate del 1974 (anzi, proprio la congiuntura storica in cui – inconsapevolmente – si inserisce, e che dal romanzo è inseparabile, fa da cartina da tornasole per comprendere il senso storico di quegli anni).
Sulla sinossi non ci soffermiamo: La Storia racconta la vita della maestra “mezza ebrea” Ida Ramundo, e di suo figlio Useppe, nato da uno stupro nel 1941; e ne segue le avversità, gli incontri, i momenti di indigenza, nel corso della seconda guerra mondiale, fino al noto epilogo (qui per i dettagli: https://it.wikipedia.org/wiki/La_storia_(romanzo)).
Il successo di massa
Effettivamente, si trattava di un romanzo che non soltanto usciva nel periodo migliore per le vendite, alle soglie dell’estate e del tempo libero che si profilavano nel giugno del ’74. Di più: fu proprio Morante a fare pressioni perché venisse stampato direttamente in edizione economica, col prezzo modicissimo di 2.000 lire (nonostante il rincaro della carta e i forti contraccolpi della crisi del ’73); insieme alla trovata di apporre alla copertina un sottotitolo “audace”, che non poteva che rinvigorire le opinioni di chi ne vedeva un mero battage pubblicitario: «Uno scandalo che dura diecimila anni». La prima tiratura, di centomila copie, si esaurì in brevissimo tempo; spesso accompagnata da uno slogan predisposto da Einaudi: «Un grande romanzo, una lettura per tutti».
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Le guerre di religione non esistono
di CityStrike
Vale la pena di approfondire la tendenza, abbastanza diffusa, che porta a considerare la guerra tra Israele e Palestina come un conflitto religioso. Conflitto da cui i comunisti dovrebbero tenersi fuori dal momento che, per chi guarda alla realtà attraverso la prospettiva del materialismo dialettico, la religione va considerata come l’oppio dei popoli.
Per approfondire la questione è necessario fissare due punti:
cosa intendiamo, riferendoci a Marx, per religione;
cosa intendiamo con l’espressione “guerre di religione” (espressione che abbonda non soltanto nei resoconti dei media ma anche sui libri di storia nell’analisi dei conflitti e delle guerre).
L’oppio dei popoli
Questa definizione si accompagna sempre alla locuzione “come ha detto Marx la religione è…”. Ma se vogliamo veramente entrare nel senso di questa celebre espressione, dobbiamo sottrarci a qualsiasi semplificazione da social network: Marx non poteva certo accompagnare questa frase all’immagine di qualche pittoresca sfilata di santi, icone o flagellanti – come fosse autoevidente nel suo significato. Per coglierne il senso originario nella sua complessità vale quindi la pena di riportarla per esteso, nel suo contesto discorsivo:
«Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. Infatti, la religione è coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un’entità astratta posta fuori dal mondo.
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La sfuggente politica di Netanyahu non è uno stratagemma, ma un ritorno alla vecchia strategia sionista
di Alastair Crooke - strategic-culture.su
Una volta, il defunto Ariel Sharon, leader militare e politico israeliano di lungo corso, aveva confidato al suo caro amico Uri Dan che “gli Arabi non avevano mai veramente accettato la presenza di Israele… e quindi una soluzione a due Stati non era possibile – e nemmeno auspicabile“.
Nelle menti di questi due – così come della maggior parte degli israeliani di oggi – c’era il “nodo gordiano” che caratterizza l’essenza del Sionismo: come mantenere diritti differenziati su un territorio fisico che include una vasta popolazione palestinese.
I leader israeliani ritenevano che, con l’approccio non convenzionale di Sharon basato sull'”ambiguità spaziale“, Israele fosse sul punto di trovare una soluzione all’enigma della gestione dei diritti differenziati in uno Stato a maggioranza sionista ma con al suo interno minoranze consistenti. Molti israeliani ritenevano (fino a poco tempo fa) che i palestinesi fossero stati relegati con successo in uno spazio politico e fisico delimitato – e che fossero addirittura “scomparsi” da ogni parvenza di significato – solo che Hamas, il 7 ottobre, ha fatto saltare in aria tutto questo elaborato paradigma.
Questo evento ha innescato un diffuso ed esistenziale timore che il progetto sionista possa implodere, se le sue particolari fondamenta sioniste dovessero essere messe in dubbio da un’ampia resistenza pronta a entrare in guerra per risolvere la questione.
Un recente articolo del giornalista statunitense Steve Inskeep – Israel’s Lack of Strategy is the Strategy – mette a fuoco un apparente paradosso: mentre Netanyahu è molto chiaro su ciò che non vuole, allo stesso tempo rimane ostinatamente opaco su ciò che vuole come futuro per i palestinesi che vivono in un territorio condiviso.
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Lo strano caso del caso Moro – Parte Seconda
di Davide Carrozza
Lo scorso 13 Gennaio un mio articolo sulla puntata di Report dedicata al così detto caso Moro, è stato ripreso e pubblicato da Sinistra in Rete (LINK), una sorta di archivio molto popolare di articoli e documenti per la discussione politica. Come era lecito aspettarsi, numerosi commenti all’articolo hanno ripreso molte delle teorie complottiste che aleggiano da decenni sul caso Moro (su questa definizione torneremo), con lo scopo di screditare le tesi da me sostenute. Anziché rispondere ai singoli commenti preferisco affrontare le questioni poste con un altro articolo, approfittando delle sollecitazioni per scrivere anche di altre questioni rimaste ancora insolute, sulla puntata di Report e su tutta la vicenda.
Malgrado sia difficile negare la preparazione e l’erudizione dei miei detrattori, appare evidente che la letteratura saggistica di cui si sono nutriti sia interamente di natura dietrologica e che mai si siano imbattuti in altro tipo di volume sul tema. A loro parziale difesa c’è da dire che tale letteratura, che nei decenni è divenuta un vero e proprio genere, è purtroppo molto vasta e si è riprodotta in serie grazie all’incredibile successo editoriale, trovando terreno altrettanto fertile in ricostruzioni cinematografiche fantasiose, documentari, programmi televisivi, fino a coinvolgere l’insospettabile Sen. Pellegrino, presidente della Commissione Stragi, convinto durante un’audizione che davvero si verificò l’irruzione nel paesino di Gradoli, frutto invece della suggestione cinematografica del film “Il caso Moro “di Giuseppe Ferrara dell’86. Tuttavia, non c’è bisogno di essere un esperto del tema per capire che ciò che risponde alle esigenze di natura economica, spesso non coincide con i tempi lunghi e farraginosi della ricerca storiografica fine a se stessa, spesso fiaccata dall’assenza di fondi e addirittura a volte perseguitata, come dimostra il caso di Persichetti (LINK).
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I guardiani della memoria e la crisi della democrazia
di Valentina Pisanty
Da più di vent’anni la memoria della Shoah ha contribuito a riempire il vuoto lasciato dalla crisi delle grandi utopie rivoluzionarie del Novecento; utopie il cui schema narrativo si fondava sulla storia eroica dell’emancipazione degli Oppressi dagli Oppressori. Diventando egemonica, la narrazione “vittimo-centrica” dell’Olocausto (e di altri eventi traumatici che ricalcano quel modello narrativo) ha spinto ai margini il paradigma rivoluzionario e ha conquistato il cuore della coscienza occidentale, come racconto ammonitore delle catastrofi dalle cui ceneri è sorta l’Europa del dopoguerra. Ma che tipo di identità può ricavare i suoi valori democratici dalla promessa solenne “Mai Più”? Un’identità che nega il conflitto come uno dei rapporti umani primari e costitutivi. Non è peraltro chiaro a cosa si riferisca il “Mai Più”. Alla guerra in quanto tale? All’antisemitismo tout court o alla persecuzione di qualsiasi minoranza stigmatizzata? Allo sterminio su scala industriale o a qualsiasi altra forma di discriminazione?
Come che sia, l’equazione Per Non Dimenticare = Mai Più è talmente radicata nel senso comune che a pochi viene in mente di metterla in dubbio. Eppure le smentite non mancano. Violenze razziste in crescita esponenziale, parate di simboli fascisti, diffusione dell’odio on- e offline, partiti xenofobi al potere, e ora la guerra. Perché facciamo così fatica a prendere atto che qualcosa non ha funzionato? La riluttanza ad ammettere il fallimento delle politiche della memoria è sintomatica di un principio di autoritarismo che si è insinuato nelle pieghe della retorica e delle politiche della memoria, spesso a insaputa di chi le pratica.
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E’ già “tutta colpa di Netanyahu”: esecutore spietato e parafulmine del Sistema
di Konrad Nobile
È fin dai primi giorni della efferata reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre che noto un certo fenomeno che definisco di “Netanyahu-izzazione” nella descrizione dell’operato di Israele.
Vi è una tendenza molto diffusa infatti, che riguarda anche certi canali e personaggi “alternativi”, a puntare la lente d’ingrandimento e a concentrare le critiche nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.
Probabilmente anche sull’onda della crescente e forte impopolarità, interna a Israele, al presidente del Likud (ovvero il partito sionista, conservatore e nazionalista, che ha preso la maggioranza dei voti alle elezioni parlamentari del 2022) si è progressivamente accesa una corsa internazionale alla polemica contro “Bibi”, visto da alcuni come il maggior responsabile del 7 ottobre, da altri come uno spregiudicato leader genocida troppo influenzato dalla destra sionista, da altri ancora come il principale ostacolo alla pace tra Israeliani e Palestinesi.
E così, in un crescendo che partendo dal basso va dal grottesco sinistro Fratoianni, che blatera sul processare Netanyahu per crimini di guerra, fino ad arrivare a un’amministrazione statunitense insofferente per le scelte del capo dell’esecutivo di Tel Aviv, con tanto di accese tensioni (narrateci da molte testate giornalistiche -1) tra un irritato Biden e Netanyahu, pare che i vari problemi che stanno infiammando il Medio Oriente possano essere alla fin fine ricondotti a uno scellerato primo ministro, talmente cinico da giocare con l’allungamento di un conflitto, rendendosi responsabile di migliaia di morti e tensioni internazionali sempre più incandescenti, pur di salvare la sua carriera politica e tutelarsi da beghe giudiziarie.
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Gaza: Una finestra orrenda sulla crisi del capitalismo globale
di William I. Robinson e Hoai-An Nguyen
Mentre il mondo assiste inorridito al crescente numero di vittime tra i civili palestinesi e Israele affronta le accuse della Corte internazionale di Giustizia per il crimine di genocidio, la carneficina di Gaza ci offre una finestra spettrale sulla rapida escalation della crisi del capitalismo globale. Collegare i fili dalla spietata distruzione israeliana di Gaza a questa crisi globale richiede un passo indietro per mettere a fuoco il quadro generale. Il capitalismo globale deve affrontare una crisi strutturale di sovraccumulazione e stagnazione cronica. Ma i gruppi dominanti devono anche affrontare una crisi politica di legittimità dello Stato, di egemonia capitalista e di disintegrazione sociale diffusa, una crisi internazionale di contrapposizione geopolitica e una crisi ecologica di proporzioni epocali.
Le élite aziendali e politiche globali sono in preda alla sbornia del boom capitalistico mondiale della fine del XX e dell'inizio del XXI secolo. Hanno dovuto riconoscere che la crisi è fuori controllo. Nel suo Rapporto sui rischi globali per il 2023, il World Economic Forum ha avvertito che il mondo si trova ad affrontare una "policrisi" che comporta un'escalation di impatti economici, politici, sociali e climatici che "stanno convergendo per dare forma a un decennio unico, incerto e turbolento". L'élite di Davos potrebbe non sapere come risolvere la crisi, ma altre fazioni dei gruppi dirigenti stanno sperimentando come plasmare l'interminabile caos politico e l'instabilità finanziaria in una nuova e più letale fase del capitalismo globale.
Mentre l'esito militare della guerra di Gaza deve ancora essere determinato, non c'è dubbio che Israele e i suoi sostenitori negli Stati centrali del sistema capitalistico mondiale stiano perdendo la guerra politica per la legittimità.
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Profitti reali ed eresie immaginarie
di Giacomo Cucignatto, Lorenzo Esposito, Matteo Gaddi, Nadia Garbellini, Joseph Halevi, Roberto Lampa, Gianmarco Oro
Una risposta a Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell’inflazione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri
Gli autori del volume L’inflazione: falsi miti e conflitto distributivo hanno risposto alla recensione di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri
Diamo spazio alle loro argomentazioni perché ci sembra interessante poter guardare da vicino un dibattito su temi economici spesso lasciati alla sola disputa tra esperti. Sempre più sentiamo la necessità di riflettere su proposte di politica economica che vengano però da una prospettiva di classe e in conflitto con le sfide poste dal capitalismo contemporaneo.
Premessa
Sono contro le discussioni astratte. Il marxismo ci richiama sempre al concreto
(G. Lukács, 1968)
Quando abbiamo deciso di scrivere L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo il nostro obiettivo era quello di preparare il materiale didattico per un corso di formazione sull’inflazione rivolto a funzionari e delegati sindacali. In particolare, ci premeva chiarire alcuni punti di carattere generale e avanzare un’analisi dell’esplosione della dinamica dei prezzi nel 2022-2023. Scopo del corso era quello di fornire ai lavoratori e ai loro rappresentanti strumenti per rispondere concretamente al crollo dei salari reali.
Dopo le prime giornate di inizio marzo – a Milano, Mestre e Bologna – il corso è stato replicato una ventina di volte in svariati contesti territoriali, e altre “repliche” sono in preparazione.
Si è trattato di uno sforzo realmente collettivo: sebbene ciascuno di noi abbia partecipato direttamente alla stesura di uno o più capitoli, la struttura del volume e i contenuti di ogni saggio sono stati discussi e condivisi collettivamente, e dunque il contenuto di ciascun capitolo è da attribuire a ciascuno di noi.
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Il nuovo radicalismo di destra secondo Adorno (e come potremmo contrastarlo)
di Marco Rizzo
Parte I
Poco più di tre anni fa è stata tradotta ed edita per la prima volta in Italia una conferenza che Adorno tenne nel 1967 presso l’Università di Vienna, su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria1. Oggetto della conferenza, la riemersione e la crescita elettorale in Germania del neofascismo, nella fattispecie dell’NPD (Partito Nazional Democratico di Germania), allora appena fondato. Nel momento in cui si tiene questa conferenza l’NPD è in una fase di ascesa, tale da lasciar presagire un suo possibile ingresso nel parlamento tedesco alle elezioni federali del 1969; da qui la misurata ma ferma preoccupazione che fa da filo conduttore al discorso di Adorno.
Vale la pena riprendere in mano anche oggi questo breve testo per due motivi. In primo luogo occorre evidenziare che quando Adorno identifica alcuni caratteri ricorrenti della propaganda della nuova destra, quando descrive gli strumenti di cui questa si serve per catturare le menti di alcuni ceti sociali specifici, ha il pregio di impostare l’argomento su un piano che è già direttamente volto alla lotta politica: si tratta di costruire una cassetta degli attrezzi, un insieme di pratiche di base, degli strumenti di osservazione e di analisi da cui partire e mettersi al lavoro per contrastare un pericolo che avanza. Il secondo motivo deriva conseguentemente dal primo, ed è, un poco sorprendentemente, lo stile della conferenza. A differenza della complessità concettuale e della densità di riferimenti letterari ben noti ai lettori e alle lettrici di opere come Dialettica dell’illuminismo o Minima moralia, il linguaggio a cui Adorno ricorre in questo discorso risulta invece sobrio e comunicativo. Forse a causa della presenza di un uditorio e della conseguente natura orale della trattazione, o forse a causa dell’argomento in questione, che non ammette elitarismi di sorta, il fondatore dell’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte ha insomma cura di far sì che i suoi spunti possano essere compresi e raccolti senza troppa difficoltà anche da un pubblico di non iniziati.
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Le fasi dell'imperialismo e Lenin
Il capitale monopolistico finanziario nel divenire in processo
di Gianfranco Pala*
Il senso di questa riedizione del poscritto di Gianfranco Pala al libro "Imperialismo" è in memoria dell’anniversario della morte di Lenin avvenuta il 21 gennaio 1924. Più che una commemorazione vuole essere un nesso con analisi che in un passato, anche recente, sembravano essere utili alla crescita di una coscienza sociale, che avrebbe potuto costituire un argine, almeno, alla voracità dell’imperialismo come spartizione del mondo.
Oggi si parla di pace ma “non si dice di quale pace”; che potrà essere “solo un armistizio, una tregua, una preparazione a un nuovo massacro di popoli”. Tuttora continua “l’uso di mezzi pacifici per imporre una pacifica dominazione” cui contrapporre una “guerra democratica, giusta, rivoluzionaria”. Lenin chiedeva di rivendicare in modo fondamentale da parte degli sfruttati “pace e pane”, e oggi l’impoverimento aumenta esponenzialmente su tutto il pianeta. Le analisi possono corredarsi di fatti attuali e contingenti, ma le categorie di riferimento hanno bisogno di essere rammentate e, quando possibile, arricchite. Il virgolettato riguarda frasi di Lenin del 1917 [Carla Filosa].
* * * *
Il capitalismo è progressivo rispetto al feudalesimo,
e l’imperialismo è progressivo rispetto al capitalismo pre-monopolisltico.
Non sosterremo la lotta delle classi reazionarie
contro l’imperialismo e il capitalismo.
[V.I.Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo (1916)]
{Progress, Mosca 1974, os, ii, p.581}
1. Anzitutto si deve avere bene in mente che si sta analizzando l’imperialismo moderno e non l’imitazione caricaturale dell’attitudine “imperiale” delle più diverse forme di potere del passato, man mano che esse venivano accumulando e consolidando la loro forza.
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Lenin e la transizione dal capitalismo al socialismo
di Andrea Catone
A 100 anni dalla morte di Lenin riteniamo utile pubblicare la relazione di Andrea Catone tenuta in occasione del Convegno Lenin e il Novecento, Urbino, 13-15 gennaio 1994. Atti a cura di Riggero Giacomini e Domenico Losurdo, pubblicati da La Città del Sole, Napoli, 1997, pp. 175-215
1. Il concetto di transizione
Il termine transizione diventa equivoco e inutilizzabile per l’analisi scientifica quando lo si assuma nel suo significato letterale di ‘stato di passaggio’, forma astratta del divenire, momento relativo di un assoluto processo di trasformazione del reale. In questo senso tutto appare come transizione: qualsiasi società o regime sociale, dovrebbe essere definita di transizione, poiché segna il passaggio da una forma di società all’altra o da una precedente a una successiva formazione economico–sociale. […] Se si vuol dare al termine ‘transizione’ un significato che non sia indeterminato, non si può parlare concretamente di ‘problemi della transizione’ che in relazione a regimi e a periodi storici di trapasso da un modo determinato di produzione, riferibile a un’organica formazione sociale, a un altro modo di produzione proprio di una nuova formazione sociale (Gerratana, 320).
Lenin, com’è noto, non dedica nessun lavoro specifico a una teoria della transizione dal capitalismo al socialismo. Tuttavia, il problema della transizione è costantemente presente al suo orizzonte, almeno a partire dal momento in cui si fa concreta la possibilità della rivoluzione socialista.
Al di là delle svolte strategiche (l’ultima in ordine di tempo e forse la più travagliata è quella della NEP), rimangono alcune costanti nella sua concezione della transizione.
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21 gennaio 1924: 100° anniversario della morte di Lenin
di Fabrizio Poggi
In occasione del 100° anniversario della morte di Valdimir Il'i? Lenin, si ripropone un tema legato all'ultimissimo periodo della sua vita, accuratamente indagato da una parte della storiografia russa, ma meno conosciuto in Italia (se si escludono i lavori, per un verso, di Grover Furr e quelli, di stampo opposto, di Luciano Canfora): l'autenticità, o la paternità leniniana, degli ultimi testi inseriti tardivamente nel volume 45 delle Opere complete (PSS: Polnoe Sobranie So?inenij; 5° ed. russa; 1964) e qua e là definiti “Testamento” di Lenin.
Più precisamente, il tema è quello della dubbia attribuzione a Lenin di lettere, dettati, appunti compresi tra il 23 dicembre 1922 e il 2 marzo 1923, prima del forte peggioramento del suo stato di salute, tra il 6 e il 10 marzo del '23: “Lettera al Congresso” e “Aggiunta alla lettera”; “Sull'attribuzione di funzioni legislative al Gosplan”; “Sull'aumento del numero di membri del CC”; “Per la questione delle nazionalità o sulla “autonomizzazione””; “Pagine di diario”; “Sulla cooperazione”; “Sulla nostra rivoluzione”; “Come riorganizzare la RabKrIn”; “Meglio meno, ma meglio”.
In un'esposizione necessariamente limitata, si concentrerà l'attenzione quasi esclusivamente sulla “Lettera al Congresso” e su alcuni passaggi degli altri testi che, in qualche misura, ruotano attorno alla presunta volontà di Lenin di estraniare Stalin dalle funzioni di General'nyj Sekretar' (GenSek) del CC del RKP(b).
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Il mondo di Lenin. Passaggio a Oriente
di Luca Cangemi
Il discorso di Lenin sull’Oriente è anche il discorso di un nuovo, necessario, rapporto tra il movimento operaio dei paesi capitalistici dell’occidente e i popoli in lotta per la liberazione dal giogo coloniale. La Rivoluzione russa viene vista come il ponte tra queste due realtà. La sconfitta del movimento operaio e del marxismo in occidente pongono ora problemi enormi
Lenin è tornato, o forse non se è n’è mai andato in questo secolo trascorso dalla sua morte, anche se nell’ultimo trentennio l’abbattimento delle sue statue è stato uno sport abbastanza diffuso. Oggi qui e lì qualche statua viene ripristinata ma soprattutto in modo abbastanza improvviso (specie per i più distratti) riemerge il valore fondativo della frattura politica e, diremmo, epistemologica operata da Vladimir Ilic.
Se la cifra di questi nostri anni convulsi è il tendenziale rovesciamento della ri-colonizzazione (americana) del mondo, più nota sotto il nome di globalizzazione, e persino il tramonto del dominio occidentale sul globo (esito tutt’altro che scontato ma possibile), allora è necessario tornare a studiare l’iniziativa leniniana poi sviluppatisi lungo assai tortuosi sentieri ben oltre la fine del Secolo Breve (che sembra pretendere di diventare molto lungo) che di questi sconvolgimenti è, indiscutibilmente, la matrice. È come se attraverso la faglia leniniana prorompesse una nuova ondata di materiale storico incandescente, che non si può comprendere se non si torna alle caratteristiche originarie di quella frattura.
Che di frattura decisiva si tratti fu chiaro subito ai protagonisti di questa lunga storia. Il carattere “sconvolgente” e “costituente” delle idee di Lenin e degli atti del governo sovietico (sin dai primi giorni) sull’autodeterminazione dei popoli sono rilevati con stupore praticamente da tutti gli esponenti che da posizioni assai diversificate (a volte lontanissime da quelle dei comunisti) si pongono il tema dell’emancipazione delle nazioni costrette dagli europei alla condizione di colonie o semicolonie.
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Due Popoli, uno Stato: per il tramonto del «Sionismo Reale»
di Pino Cabras e Simone Santini
Ricopio per intero un lungo articolo pubblicato nel libro “Demoni in Terra Santa” (Visione editore, ottobre 2023). L’articolo ha come autori Pino Cabras e Simone Santini e riprende una vecchia riflessione sulla nuova Guerra dei Cento Anni e su un percorso di soluzione politica che esce da tutti gli schemi. Buona lettura!
Quel che ora leggete – un’analisi controcorrente sul tema più grave della crisi del Vicino Oriente – è un articolo in gran parte già edito, così come già edita è la dinamica che periodicamente si ripete con nuovi episodi che replicano lo stesso cliché nella Guerra dei Cento Anni in Terrasanta. Avevamo già pubblicato sul sito Megachip nel giugno 2010 gran parte di queste riflessioni, ma sentiamo l’esigenza di riproporle a nuovi lettori, con alcune notevoli attualizzazioni.
Non è facile parlarne mentre va in onda a reti unificate Tele Netanyahu. Il 15 ottobre 2023 sulla piattaforma X il premio Pulitzer Glenn Greenwald (forse il giornalista più autorevolmente impegnato al mondo sulla libertà di parola) è stato in proposito lapidario: «Esattamente come è accaduto con il COVID, e poi con la guerra in Ucraina, il sistema di censura su più fronti implementato dai governi occidentali è stato nuovamente attivato – ancora una volta a un livello sorprendentemente nuovo – per vietare il dissenso dalla politica dell’UE nei confronti di Israele/ Guerra di Gaza».
Ancora oggi in tanti estraggono da un cilindro sempre più consumato la vecchia idea della soluzione “Due Popoli Due Stati”. Temiamo che questo sia un coniglio morto e in avanzato stato di decomposizione. Riproponiamo perciò un’analisi controcorrente che per la Terrasanta invece immagina una soluzione certo più complessa, ma che forse meglio garantirebbe tutti. Naturalmente è una soluzione che rimanda al futuro. Per ora (lo sappiamo e non lo scordiamo), stanno parlando le armi e le stragi. Per ora impera nei media occidentali il marketing della disumanizzazione del Nemico. Ma dopo cosa accadrà?
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Cento anni dalla morte di Lenin
di Salvatore Bravo
Cento anni ci separano dalla morte di Lenin, in un arco temporale così ampio nel quale la trasformazione sembra la cifra del nostro tempo. I processi trasformativi sono governati da leggi che bisogna decriptare, in modo da storicizzare ciò che appare “l’assoluto in Terra”. Lenin può essere un punto di riferimento dialettico per pensare “il tempo nuovo della Rivoluzione”. Il capitalismo nella sua fase imperiale occupa lo spazio e il tempo per neutralizzare ogni prospettiva storica altra. La logica competitiva-imperiale è nel quotidiano e si estende anche nelle attività divergenti. Il tempo libero è in continuità con la logica competitiva, la coscienza infelice motore della storia è anestetizzato dall’anglosfera. Le tossine del capitale sono tentacolari e hanno l’effetto di neutralizzare l’immaginazione concettuale con cui pensare l’alternativa. Occupare lo spazio-tempo in senso assoluto conduce a un pessimismo depressivo generalizzato, in quanto il presente all’ombra del capitale “sembra tutto”, non c’è scampo a esso. Il capitalismo è percepito come “totalità/gabbia d’acciaio senza alternativa” alla quale non si può sfuggire. Il centenario di Lenin avviene in un clima storico senza speranza. La possibilità di confrontarsi con un rivoluzionario che “ce l’ha fatta”, è motivo per comprendere l’importanza dell’evento e riattivare la dimensione della speranza.
Il capitalismo esalta gli organici al sistema e i disperati che si adattano rabbiosi e reificati. Lenin ci dimostra con la sua storia individuale inscindibile dalla storia del partito comunista, che la storia non è mai conclusa. Il rivoluzionario di ogni epoca deve cogliere le occasioni della storia che improvvise possono materializzarsi per trasformarle in azione. Lenin dunque dimostra che la prassi bisogna prepararla e agguantarla nel contempo.
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I tempi storici non ammettono confronti
Due stuzzichini
di Michele Castaldo e Alessio Galluppi
* * * *
Il popolo, la destra, le compagnerie di sinistra e la dirompenza della talpa
di Michele Castaldo - www.michelecastaldo.org
Si è accesa una disputa su un accadimento di rilevanza uguale a zero, ovvero sui saluti romani di un gruppo di persone che si sono radunate per celebrare l’anniversario di Acca Larenzia, cioè dell’uccisione di alcuni militanti di estrema destra da parte di militanti di estrema sinistra nel 1978.
I fatti: «Acca Larenzia è la denominazione giornalistica del pluriomicidio a sfondo politico avvenuto a Roma il 7 gennaio 1978, per opera di un gruppo armato afferente alla sinistra, nel quale furono uccisi due giovani neofascisti appartenenti al Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, assassinati davanti alla sede del Movimento Sociale Italiano in via Acca Larenzia, nel quartiere Tuscolano. A tali fatti è strettamente legata la morte di un terzo attivista della destra sociale, Stefano Recchioni, ucciso qualche ora dopo negli scontri con le forze dell’ordine avvenuti durante una manifestazione di protesta organizzata sul luogo stesso dell’agguato».
Dai fatti menzionati ne scaturisce una onorificenza che ogni anno fanno i militanti di estrema destra, o dichiaratamente fascisti, recandosi sul luogo commemorando i morti col saluto romano, ovvero col braccio teso in avanti e la mano aperta.
Apriti cielo! «L’ombra del fascismo s’avanza ancora! » «Perché la presidente del consiglio tace? » e ancora «Perché non si dichiara apertamente antifascista»?
Mettiamo i piedi per terra e cerchiamo di ragionare seriamente non tanto sul passato, dove pure molte cose andrebbero chiarite solo per amore della verità, ma siccome la storia la raccontano e la scrivono i vincitori, pazienza.
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Come venne sconfitto l’Occidente
di Pepe Escobar - sputnikglobe.com
Emmanuel Todd, storico, demografo, antropologo, sociologo e analista politico, fa parte di una razza in via di estinzione: è uno dei pochissimi esponenti rimasti dell’intelligentia francese della vecchia scuola – un erede di quelli come Braudel, Sartre, Deleuze e Foucault che avevano affascinato i giovani nati dopo la Guerra Fredda, dall’Occidente all’Oriente.
La prima chicca che riguarda il suo ultimo libro, La Défaite de L’Occident (“La sconfitta dell’Occidente”), è il piccolo miracolo di essere stato pubblicato la scorsa settimana in Francia, proprio in un Paese NATO. Più che di un libro si tratta di una vera e propria bomba a mano, scritto da un pensatore indipendente, basato su fatti e dati verificati, che fa saltare l’intero edificio della russofobia eretto intorno all'”aggressione” dello “zar” Putin.
Alcuni settori dei media aziendali francesi, rigorosamente controllati dagli oligarchi, questa volta non hanno potuto ignorare Todd, per diversi motivi. Soprattutto perché era stato il primo intellettuale occidentale, già nel 1976, a prevedere la caduta dell’URSS nel suo libro La Chute Finale, basato sull’analisi dei tassi di mortalità infantile dell’Unione Sovietica.
Un altro motivo fondamentale era stato il suo libro del 2002 Aprés L’Empire, una sorta di anteprima del declino e della caduta dell’Impero, pubblicato pochi mesi prima dello Shock & Awe in Iraq.
Ora Todd, in quello che ha definito il suo ultimo libro (“Ho chiuso il cerchio”), può permettersi di rischiare il tutto per tutto e descrivere meticolosamente la sconfitta non solo degli Stati Uniti, ma dell’Occidente nel suo complesso, concentrando le sue ricerche sulla guerra in Ucraina.
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Nuovo Patto di Stabilità: può piovere per sempre
di coniarerivolta
Il 2023 si è chiuso con un impeto di chiarezza e onestà intellettuale. Le istituzioni europee hanno, infatti, cercato di sgomberare definitivamente il campo da tutte le sciocchezze con cui anime candide e utili idioti ci ammorbavano dai mesi concitati della pandemia (l’Europa è cambiata! Mai più austerità, la priorità è il benessere delle popolazioni! La lezione è servita, l’Europa ha finalmente capito le virtù di una politica economica espansiva e coordinata!). Con la fine del 2023, infatti, è scaduta la sospensione del Patto di Stabilità e Crescita che era stata decretata per contenere le conseguenze economiche del Covid-19. Una sospensione che, lungi dall’essere dettata da considerazioni di natura umanitaria sulla macelleria sociale che sarebbe derivata dall’applicazione pedissequa delle regole, ha avuto come principale obiettivo quello di salvaguardare i profitti. Ora che l’emergenza è finita e i profitti sono salvi, si torna alle regole.
Dopo mesi di negoziazioni, proposte della Commissione Europea e una ricerca di compromessi sempre più al ribasso, pochi giorni prima di Natale il Consiglio Europeo ha ‘finalmente’ trovato un accordo per la riforma della governance economica europea, riaffermando in maniera forte e chiara che l’austerità fiscale è Il principio cardine dell’integrazione europea.
Apparentemente, niente di nuovo sotto il sole, giusto? Purtroppo non è esattamente così. Per capire perché le nuove regoli fiscali rappresentino un salto di qualità e un ulteriore giro di vite, è necessario fare un passo indietro. Fino a prima della sua sospensione, sancita nei mesi più duri della pandemia, il cosiddetto Patto di Stabilità e Crescita era il meccanismo principe di disciplina delle finanze pubbliche dei Paesi membri dell’Unione Europea.
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Le Bimbe di Bibi coprono le Bombe di Bibi
di Pino Cabras
Come nascondere un genocidio. Un pezzo di borghesia italiana filoisraeliana vuol far dichiarare il 7 ottobre “femminicidio di massa”. Si nasconde il massacro di migliaia di donne a Gaza e le gravi incongruenze del New York Times
Qualche settimana fa, un gruppo di donne molto in vista di un settore della borghesia italiana filoisraeliana ha lanciato una poderosa raccolta di firme per dichiarare “femminicidio di massa” la strage del 7 ottobre. Non bastava più la strage in sé, ormai soverchiata simbolicamente dai numeri della carneficina di massa perpetrata dai Netanyahu Boys con più kilotoni di Hiroshima e Nagasaki messi insieme. Serviva unirla a uno dei vettori di esecrazione più usati da qualche anno in qua per innescare indignazione: la parola femminicidio. Hamas, secondo le autrici dell’appello, non si è limitata a un’azione di violenza terroristica, perché voleva colpire le donne in quanto donne. Nell’appello non viene fatto cenno alcuno alla furia genocida che ha distrutto quasi tutte le case, le scuole, gli ospedali e qualsiasi altra infrastruttura di Gaza. Non si fa menzione alcuna delle quasi diecimila donne innocenti, in buona parte minorenni, sventrate fin qui dalle bombe di Bibi il genocida seriale. Non sono citate le migliaia di giovani madri che hanno visto profanare la loro maternità nella penosa raccolta dei corpicini esanimi o a brandelli dei loro figlioletti o che non riescono più a dissetare e nutrire quelli che sono scampati alla caccia dei droni. Non si fa cenno, insomma, al più grande femminicidio di massa mai perpetrato da quando è stata inventata la parola femminicidio: ossia il femminicidio di massa delle donne di Gaza.
Me le vedo, emozionate e indignate, le raffinate signore, durante l’impeto di un “facciamo qualcosa”, “scriviamo qualcosa”, tese a sostenere “il diritto-di-Israele-di-difendersi” a tutti i costi. C’è Andrée Ruth Shammah, rinomata regista teatrale che in Israele vede «un esperimento meraviglioso di integrazione, quel mettere insieme tutte le genti del mondo, arabi, russi, polacchi, francesi, ashkenaziti, sefarditi.»
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La centralità del lavoro e del conflitto nella costruzione del MpRC
di Fosco Giannini*
Per presentare il nostro progetto politico, pubblichiamo la relazione, approvata all’unanimità, con cui il coordinatore nazionale ha introdotto la riunione del Coordinamento Nazionale del Movimento per la Rinascita Comunista, lo scorso 14 gennaio.
Abbiamo costituito, in tante e tanti di tutta Italia, il Movimento per la Rinascita Comunista (MpRC) lo scorso 11 novembre a Roma, non casualmente, presso la sala “Intifada”. E oggi siamo chiamati, moralmente e politicamente, in questo nostro primo Coordinamento Nazionale, ad aprire i lavori rimarcando di nuovo la nostra piena e attiva solidarietà al popolo palestinese e la nostra totale e severa condanna delle politiche sanguinarie e fasciste portate avanti dal governo e dall’esercito di Israele.
Abbiamo lanciato sulle nostre pagine Facebook e in Rete (e cogliamo l’occasione per ringraziare il compagno Massimo Cazzanelli, responsabile del Dipartimento Comunicazione e tutti i compagni del Dipartimento per il grande lavoro che stanno facendo) un appello e una raccolta di firme a sostegno della giusta iniziativa della Repubblica del Sudafrica, subito appoggiata dalla Repubblica di Cuba, che chiede che Israele sia condannata per genocidio presso il Tribunale dell’Aya. Aderite a questo nostro Appello, compagne e compagni, e fate aderire, poiché l’orrore che Netanyahu sta disseminando a Gaza, con la ferina complicità degli Usa e dell’Ue, non deve essere nemmeno per un minuto dimenticato, ma “fissato” nella storia e in essa per sempre tramandato.
Alta deve dunque rimanere la nostra attenzione e la nostra iniziativa a fianco del martoriato ed eroico popolo palestinese, come alta deve essere la nostra attenzione sui fatti del Mar Rosso e i bombardamenti anglo-americani sullo Yemen, che rafforzano il rischio di un allargamento della guerra in tutto il Medio Oriente.
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La guerra dei Greci e la nostra
di Giovanni Di Benedetto
Recensione del libro di Andrea Cozzo "La logica della guerra nella Grecia antica", Palermo University Press, 2024, Ed. riv. e corr.
Il mondo contemporaneo rischia di precipitare inesorabilmente nel baratro della guerra planetaria. Non si contano più gli scenari geopolitici divenuti teatro di conflitti bellici: Russia e Ucraina, Yemen, Iran e Pakistan, Israele e Palestina, Siria e, in Africa, Libia, Congo, Sudan, Nigeria, Etiopia, per citare i casi più noti. In questo quadro, davvero sconfortante, la pubblicazione dell’ultimo libro di Andrea Cozzo, “La logica della guerra nella Grecia antica” (Palermo University Press, 2024, ed. rived. e corr.), risulta essere quanto mai utile e opportuna, soprattutto per chi si dedica alla professione dell’insegnamento e della trasmissione del sapere.
Il lavoro di Andrea Cozzo si propone, come suggerisce il titolo stesso, di analizzare la costruzione delle retoriche della guerra nella Grecia antica. A una prima superficiale osservazione ci si potrebbe chiedere quale dovrebbe essere il nesso tra lo studio delle guerre nel mondo antico e la riflessione sugli eventi militari dei giorni nostri. Troppo diversi i contesti storici e le forme della riproduzione socioeconomica, in particolare la forma specifica della produzione borghese. Tuttavia, occorre rimarcare che lo studio dell’autore è costruito con lo sguardo rivolto costantemente alla nostra drammatica contemporaneità che, come è a tutti noto, è segnata, come si diceva, dall’esplosione in tutto il mondo di decine di conflitti. Non si pensi dunque a un lavoro le cui riflessioni colte sarebbero confinate alla ristretta cerchia degli specialisti del mondo antico, filologi e storici della lingua greca in primis. Il tentativo del pregevole lavoro di Cozzo è di fare dialogare il mondo antico, con le sue problematiche e le sue contraddizioni, con il presente, per meglio fare luce sui problemi che oggi si pone lo storico, e con lui il lettore e, più in generale, il cittadino consapevole.
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La contro-insurrezione estesa
di Ana María Morales
Come interpretare, a più di tre anni dalla grande sollevazione indigena e popolare dell’ottobre 2019 che era riuscita a mettere in ginocchio il governo di Quito, l’attuale esplosione di violenza in Ecuador? Il governo di Daniel Noboa ha dichiarato lo stato d’eccezione e il coprifuoco per combattere la sua guerra contro l’escalation della violenza armata dei Narcos. È noto da molto tempo, tuttavia, che la “guerra alla droga”, è una strategia opaca che ha coperto da decenni ben diversi e tremendi obiettivi elaborati dai governi degli Stati Uniti, della Colombia e del Messico, per citare solo i più rilevanti. Anche in Ecuador, naturalmente, le spettacolari esplosioni di violenza dei giorni scorsi sono il frutto di un lungo processo. Su Comune lo ha raccontato molto bene Francesco Martone nei giorni scorsi. Raquel Gutiérrez Aguilar, filosofa, matematica, femminista e molte altre cose, che insegna all’Università messicana di Puebla ma ha grandi conoscenze e una lunga esperienza di lotta in tutta l’America latina (perfino nella guerriglia katarista nella Bolivia degli anni Ottanta), proprio alla luce del confronto con la guerra al narcotraffico messicana, offre in questa intervista una interpretazione dell’attuale situazione ecuadoriana che mette in luce elementi in parte originali e di grande interesse. A cominciare dalle connessioni con la sollevazione del 2019, inquadrando lo scontro tra Stato e Narcos di queste settimane in una nuova declinazione, “estesa” o ampliata, della tradizionale tecnica di contro-insurrezione. Il fatto che un’esplosione così rilevante e acuta di una violenza – anche nelle carceri sotto il controllo dello Stato – in apparenza apolitica, sostiene Raquel, non sia in un primo momento ascrivibile a una fase di contro-insurrezione, è proprio una delle sue caratteristiche innovative, in un momento di grande caos sistemico, quella di cercare di rimanere occulta agli occhi degli analisti e della società intera. In altri termini, non si tratterebbe dell’apparente scontro di potere tra criminalità organizzata e Stato ma di una sorta di assestamento di potere tra soggetti ormai indistinguibili.
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La tempesta perfetta della crisi tedesca
di Alessandro Scassellati
Senza l'energia a basso costo e con un forte calo delle esportazioni il modello tedesco si muove rapidamente verso la deindustrializzazione. Mentre i lavoratori del trasporto ferroviario, i camionisti e gli agricoltori stanno scioperando si intravede un disastro politico e socio-economico legato al ritorno dell'austerità
Da sempre motore economico (a cui l’industria italiana è molto legata attraverso le supply chains) e potenza politica dell’Unione Europea, la Germania è alle prese con un potente mix di problemi strutturali profondi e a breve termine che – insieme a un Governo diviso e apparentemente inefficace – hanno spinto gli osservatori e gli economisti a parlare (di nuovo, come alla fine degli anni ’90) di “malato d’Europa”.
I lavoratori ferroviari, i camionisti e gli agricoltori sono tra coloro che sono scesi in strada o in sciopero in tutta la Germania dall’8 gennaio con proteste a livello nazionale, per rivendicazioni che vanno dalle retribuzioni e condizioni di lavoro ai tagli ai sussidi agricoli e all’aumento dei pedaggi autostradali per i veicoli pesanti entrato in vigore all’inizio di dicembre. Con elezioni chiave in programma quest’anno negli Stati della Germania orientale, molti osservatori temono che il nuovo spirito di mobilitazione dei lavoratori possa giocare direttamente nelle mani di una vivace estrema destra.
Le proteste di lavoratori autonomi come gli agricoltori e i trasportatori di merci, così come gli scioperi nel settore ferroviario statale, non sono coordinati, concentrandosi su rivendicazioni diverse e in alcuni casi legati a controversie che precedono l’attuale Governo. Ma il loro consenso ha dato all’estrema destra un’occasione perfetta per alimentare le fantasie populiste di un colpo di Stato. Sui suoi canali di social media, il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD) ha dipinto l’immagine di gente comune “portata alla rovina da una leadership politica irresponsabile come nel Medioevo”, e ha esortato i cittadini a unirsi a quello che ha chiamato uno “sciopero generale”. Lo stesso hanno fatto altre organizzazioni di estrema destra come i Liberi Sassoni (un piccolo partito estremista di destra fondato nel 2021) e La Terza Via (Der Dritte Weg, un partito neonazista formato nel 2013 da ex membri del gruppo estremista di destra NPD)1.
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Confronto tra il modo in cui l'Occidente e la Cina offrono prestiti ai Paesi in via di sviluppo
di John P. Ruehl - countercurrents.org
Le istituzioni economiche occidentali consolidate stanno affrontando una sfida formidabile da parte dei nuovi arrivati cinesi, ognuno dei quali offre strategie di prestito distinte e competitive con conseguenze di vasta portata per le infrastrutture e lo sviluppo globale
Nell'ottobre 2023, nel corso delle celebrazioni per il 10° anniversario della Nuova via della seta (Belt and Road Initiative, BRI) della Cina a Pechino, i leader pakistani e cinesi hanno firmato un accordo multimiliardario per un progetto ferroviario. Come componente centrale degli sforzi della Cina per promuovere l'integrazione economica e sviluppare le infrastrutture all'estero, il Pakistan ha ricevuto un'importante assistenza allo sviluppo da Pechino attraverso il Corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC) da 62 miliardi di dollari.
Tuttavia, anche le nazioni occidentali e le entità finanziarie hanno effettuato manovre strategiche in Asia, con il Fondo monetario internazionale (FMI) che ha approvato un prestito di 3 miliardi di dollari per il Pakistan a luglio, "salvandolo dall'insolvenza sul debito". Altri Paesi della regione stanno sperimentando una concorrenza simile. Il Bangladesh, ad esempio, ha inaugurato il Collegamento ferroviario del Ponte Padma (Padma Bridge Rail Link) legato alla BRI in ottobre e settimane dopo ha ricevuto un prestito di 395 milioni di dollari dall'UE. Nello stesso mese, lo Sri Lanka ha concluso un accordo sul debito con la Cina, mentre gli Stati Uniti hanno concesso un prestito di 553 milioni di dollari per la costruzione di un porto a Colombo all'inizio di novembre.
Con l'aumento della competizione per le infrastrutture e gli investimenti negli ultimi anni, si sono intensificati gli stalli tra i finanziatori occidentali e cinesi per la ristrutturazione del debito e gli sgravi. I creditori esitano a offrire pacchetti di sgravi, temendo che la concessione di un creditore possa consentire al Paese debitore di utilizzare il denaro degli sgravi per pagare gli altri. Queste impasse sottolineano le sfide che il sistema finanziario dominato dall'Occidente da decenni e le iniziative di prestito devono affrontare.
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