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Le banche centrali si preparano alla crisi bancaria globale?
di Jack Rasmus
Quasi quattro anni dopo la crisi bancaria del 2008 e con più di 11 trilioni di iniezioni di liquidità negli USA e nell’Eurozona-Inghilterra-Giappone, il sistema bancario globale sta nuovamente mostrando chiari segni di crescente instabilità. Nonostante diverse sessioni di “stress test” bancari su entrambe le sponde dell’Atlantico a partire dal 2009, quella che è stata impropriamente definita una crisi del debito sovrano in Europa si sta rivelando, a ogni settimana che passa, anche una più fondamentale crisi bancaria.
La settimana scorsa ha registrato una serie di rapporti ed eventi che suggeriscono con forza che, sotto la superficie, il sistema bancario globale non è particolarmente in gran forma, e sta peggiorando. L’indicazione più recente è stata l’annuncio ieri, 21 giugno, dell’agenzia di classificazione Moody’s Inc. che ha retrocesso 15 banche di tutto il mondo. Vi sono comprese due grandi banche statunitensi, Bank of America e Citigroup, che in effetti sono tecnicamente insolventi dal crollo bancario del 2008 ma che sono state tenute a galla mediante varie misure appoggiate dalla Federal Reserve USA. Sotto pressioni del governo statunitense entrambe sono andate vendendo i loro attivi migliori a prezzi quasi di svendita al fine di aumentare il capitale. Non molto meglio è andata la banca statunitense d’investimenti Morgan Stanley, che ha recentemente guidato l’iniziale pasticciato collocamento pubblico di Facebook. Le banche francesi e inglesi, comunque, non se la sono passata meglio. HSBC, Royal Bank of Scotland, Societe General e persino la banca svizzera Credit Suisse, sono state tutte declassate. Questo genere di diffusa, globale retrocessione non ha luogo a caso. Riflette qualcosa che è sistematicamente all’opera per indebolire il sistema bancario globale.
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Lira sì, lira no, lira forse
A colloquio con Brancaccio, Giacché, Viale
di Tonino Bucci
Christine Lagarde, il direttore generale del Fondo monetario internazionale, ha pronosticato tre mesi di vita per la moneta europea, se non verranno prese misure adeguate. Anche George Soros, che di finanza s'intende, condivide la stessa previsione. Non sono profezie di sovversivi. Oggi come oggi, la principale causa di instabilità non sono né i movimenti di protesta né le sinistre radicali. Se nel giro di breve tempo la zona euro potrebbe deflagrare, ciò avverrà non per l'incombere di un “nemico esterno", ma per le contraddizioni sistemiche che caratterizzano l'assetto monetario dell'Ue. La valuta europea potrebbe crollare motu proprio, per via delle dinamiche conflittuali che si riproducono al suo interno. Tempo ce n'è poco, fosse pure soltanto per attuare quei correttivi in corso d'opera che anche i difensori dell'Ue ormai invocano. Tutti i provvedimenti attualmente oggetto di studio - fondi salvastati, eurobond, meccanismi blocca-spread, obbligazioni per finanziare grandi opere infrastrutturali, cessioni di sovranità dei paesi membri, integrazione del sistema bancario - richiederebbero riforme tutt'altro che trascurabili dei Trattati europei. E quindi tempo. Che manca.
L'instabilità del sistema è l'effetto delle risposte (inadeguate) che i vertici europei hanno dato nei confronti della crisi. Ed ecco l'interrogativo. Cosa accadrebbe se la zona euro dovesse implodere? A chi toccherebbe gestire l'uscita dall'area valutaria europea? E, soprattutto, sarebbe preparata la sinistra ad affrontare uno scenario del genere. Qualche giorno fa, dal suo blog, in un articolo a commento del voto greco, l'economista Emiliano Brancaccio ha aperto una discussione. «A pensarci bene non è affatto scontato che Syriza abbia pagato per la sua radicalità», quanto piuttosto per «l'assenza di una chiara opzione di uscita dall'euro».
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La paralisi dei potenti e l’altra Europa
di Mario Pianta
C’è poco di nuovo in quanto si è detto al vertice dei quattro maggiori paesi europei chiuso venerdi a Roma, e c’è molto di non detto sull’accelerazione della crisi europea. Tra quattro giorni a Bruxelles la stessa sceneggiatura sarà rappresentata di nuovo, questa volta a ranghi completi con 27 paesi, ma né la trama e né il finale dovrebbero riservare sorprese.
La prima “mezza notizia” è sulla tassazione delle transazioni finanziarie. Alla fine del vertice perfino il “cattivo” ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schäuble ha dichiarato che dieci paesi europei sono ora pronti a introdurla. Sarebbe una vittoria di chi chiede la Tobin tax da vent’anni; per quanto limitata a pochi paesi, aggirabile dalle strategie della speculazione e efficace a colpire sono una piccola parte delle attività della finanza, la tassa avrebbe un significato simbolico fondamentale. Per la prima volta in cinque anni di crisi, la finanza verrebbe colpita dalla politica. Non sarebbero più i governi a subire inermi ogni lunedì l’attacco della speculazione, ma sarebbe la finanza a subire un piccolo colpo. Non più – o meglio, non solo – banche private salvate dai soldi pubblici, ma nuove regole che limitano la speculazione. Il problema è che l’Europa rinuncia a una norma comune e passa a un’iniziativa di “cooperazione rafforzata” tra pochi paesi, e il Regno Unito di David Cameron – l’oppositore più ostinato - può tirare un respiro di sollievo. Vedremo se al Consiglio europeo del 28 giugno quest’iniziativa verrà ufficializzata e introdotta rapidamente.
La seconda è la “non notizia” sulla responsabilità collettiva dell’Europa sul debito pubblico. L’ha chiesta timidamente Mario Monti, proponendo che il “fondo salva-stati” compri titoli spagnoli e italiani.
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BCE versus Costituzione italiana
di Gaetano Bucci*
Le politiche “neoliberiste” imperniate sul mix stabilità istituzionale - stabilità economico-finanziaria stanno ormai compromettendo le forme del vivere civile, la coesione sociale e gli stessi livelli di sicurezza dell’unità nazionale. Sussiste una correlazione stretta tra il declino della democrazia e la crescita delle diseguaglianze e, più in generale, tra la crisi del costituzionalismo e l’involuzione delle forme - dirette e indirette - di redistribuzione del reddito. Questa situazione di decadenza generale è stata provocata dalla disapplicazione del nucleo profondo della Costituzione, ossia dei Principi fondamentali e, in specie, di quelli contenuti negli articoli 1 e 3. La Costituzione è, infatti, la forma giuridica di un patto di convivenza sociale, la cui vigenza dipende dall’esistenza di un congruo equilibrio nei rapporti di forza tra i soggetti sociali in conflitto, che - nel corso dell’ultimo trentennio - è stato manomesso duramente.
L’epicentro della regressione subita dal nostro Paese è, tuttavia, ben oltre i confini nazionali e, specificamente, negli sconvolgimenti della globalizzazione trascinata dai mercati finanziari e coadiuvata da politiche economiche che, sin dalla metà degli anni Settanta, hanno incentivato, sulle due sponde dell’Atlantico, il varo di indirizzi legislativi volti a rimuovere i vincoli alla circolazione dei capitali, a promuovere le attività speculative delle banche e la formazione di una rete inestricabile di dipendenze reciproche tra i sistemi industriali e finanziari dei diversi Paesi, in cui è stata prodotta una massa di strumenti derivati complessi e sempre meno tracciabili.
L’Italia e l’Europa sono entrate in una fase estremamente critica, che pone a rischio i risultati di mezzo secolo di storia. I dati economici dell’ultimo decennio dimostrano come l’andamento del Pil sia caratterizzato da una stagnazione ininterrotta, gli indicatori fondamentali della produttività (innovazione tecnologica; ricerca; istruzione; efficienza delle istituzioni) risultino in picchiata e l’ammontare del debito pubblico ci esponga, costantemente, agli assalti distruttivi della speculazione.
Il trattato di Maastricht
Il meccanismo di funzionamento della moneta unica ha impedito l’utilizzo di due strumenti essenziali di intervento pubblico, ossia la possibilità di determinare il livello e la composizione della spesa pubblica e quella di scegliere le forme più idonee di tassazione e, dunque, di composizione fiscale [Pivetti p. 4].
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Una tassa da filantropi
di Marco Bascetta
Nella cultura della sinistra il fisco gode da molto tempo di una solida deferenza e di una sostanziale protezione dall’esercizio della critica. Rovesciando così quella tendenza plurisecolare che vedeva le masse popolari insorgere, frequentemente e soprattutto, contro dazi, gabelle, imposte e lavoro coatto, al seguito dei tanti Masaniello prodotti dalla rapacità dei governanti. Le ragioni di questo rovesciamento sono, all’apparenza, piuttosto ovvie. Mentre ai tempi del feudalesimo prima e dello stato assolutista poi il taglieggiamento dei ceti produttivi, per quanto poveri o impoveriti, serviva a mantenere lo sfarzo delle corti, del clero e dell’aristocrazia e il debito sovrano, contratto per finanziarie guerre di espansione e di conquista che estendevano a loro volta il prelievo ai paesi sconfitti , con l’avvento della democrazia rappresentativa e dei sistemi di welfare state la fiscalità si attribuisce un nuovo principio di legittimazione: finanziare l’effettivo godimento dei diritti di cittadinanza e soddisfare i bisogni basilari della popolazione garantendo a chiunque condizioni dignitose di vita. L’obbligo di versare le imposte assume così i tratti di un imperativo morale derivante dalla «volontà generale». Tuttavia nemmeno lo stato democratico si è dimostrato capace di fugare le antiche ombre dell’arbitrio e dell’obbedienza dovuta, cresciute nell’ambiente del paternalismo assolutista.
L’opacità dei nessi amministrativi, l’autoreferenzialità degli apparati distributivi infestati di piccoli e grandi poteri che condizionano il godimento dei diritti riconosciuti rendendoli una variabile dipendente da incontrollabili costellazioni di interessi, la torbida composizione del debito pubblico stesso hanno provveduto a sbriciolare non poco quel principio di legittimazione.
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Alessandro Baricco e lo Zeitgeist
di Emanuele Zinato
Criticare una voce autorevole di Repubblica equivale tout court a essere, più o meno consapevolmente, “di destra”? Credo di no, anche se molto è stato fatto, in Italia, negli ultimi vent’anni perché le cose potessero sembrare proprio così. Ultima: la larga ospitalità concessa da organi del berlusconismo, come “Il Foglio”, a voci del pensiero critico più indocile e eterodosso, come quella di Alfonso Berardinelli, che ai tempi di “Diario”, della satira contro Eco o Scalfari hanno fatto uno dei propri maggiori cavalli di battaglia. Ultimamente, nel mirino di questi ultimi, ai “guru” di “Repubblica” si sono aggiunti Fazio e Saviano. Personalmente, credo sia necessario distinguere. Credo a esempio che alla volgarità dei talk show urlanti e scosciati la sobrietà, sia pure “politicamente corretta” e talvolta stucchevole, sia di gran lunga preferibile. Credo, insomma, per dirla tutta, che i “socialdemocratici” fossero preferibili ai “fascisti”, che il parlamentarismo borghese, sia pure coi suoi infingimenti e il suo “terrore mite”, fosse più “abitabile” di una dittatura. Sulle responsabilità dei “consumi culturali” nella degenerazione populista e mediatica della nostra vita politica occorrerà, inoltre, prima o poi decidersi a spendere energie cognitive ideologicamente indipendenti e eticamente sensibili: servirà una storiografia critica, contro i luoghi comuni e contro l’oblio controllato, e una saggistica capace di partire almeno dagli anni Settanta (da Piazza Fontana, a esempio, film a parte). Ma non credo nemmeno all’utilità di un approccio adorniano fuori tempo massimo e so bene che le cose sono in generale più “complesse”: rinvio, per questo, alla mia verifica delle parole n. 1, Libertà e comunismo, pubblicata su LPLC.
Tuttavia… tuttavia non posso fare a meno parlare di Alessandro Baricco. L’ho già fatto, una volta, all’uscita di Oceano mare. Ho tentato in seguito in tutti i modi di convincermi che si trattava di un “efficace divulgatore”, uno tra gli altri, buono quanto e forse più di un altro.
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La crisi
le dinamiche e le passioni che agitano il presente… e il futuro…….
di redazione di Connessioni
Partiamo con questa pedante citazione, perché riteniamo importante analizzare la crisi, rompendo fin da subito un tabù, che spesso aleggia nella sinistra rispetto ad un presunto ritardo nel modello di produzione capitalistico in Italia. Questo ha fatto si che ancora oggi in Italia si analizzi la crisi considerando determinate organizzazioni sociali come retaggio del passato e non come elementi strutturali e integrati nell’economia politica presente. Pensiamo ad esempio alla valutazione dell’economia criminale (mafia, camorra, ‘ndrangheta), considerata elemento parassitario rispetto ad una economia produttiva sana, valutazione che non coglie il livello di integrazione tra questi elementi.
Ci interessa partire da questo punto perché c’è il tentativo di introdurre una simile apparente contraddizione tra finanza e produzione da parte dei paladini dell’economia politica di sinistra.
Nel dopo guerra il sistema industriale italiano trovò la sua linea di sviluppo nella produzione di beni di consumo durevole, in particolare automobili ed elettrodomestici a basso costo e beni di investimento per industria ed edilizia.
L'industria è stata largamente sostenuta da investimenti pubblici. Dopo gli anni 50 si è assistito ad un boom delle esportazioni accelerato dalla costituzione dell’unione doganale con gli altri Paesi europei, il MCE (Mercato Comune Europeo), e dall’espandersi della domanda interna di quegli stessi beni.
Il processo di crisi, a partire dalla metà degli anni '70, portò all’interruzione di quel meccanismo di crescita avviato nel dopo guerra caratterizzato, nelle principali economie mondiali, dal meccanismo dell’economia mista.
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"Sinistra,occorre una strategia per uscire dall'euro"
Tonino Bucci intervista Emiliano Brancaccio
Il mio commento alle elezioni in Grecia, dal titolo Syriza paga per la sua ambiguità, ha suscitato un’animata discussione sul web. All’interessante dibattito hanno anche partecipato alcuni esponenti politici della sinistra italiana, tra i quali il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero. Riporto qui di seguito una intervista che ho rilasciato a Tonino Bucci, nella quale tra l’altro riprendo e sviluppo la mia tesi sulla tornata elettorale greca.
DOMANDA. Nonostante le elezioni in Grecia, che si ritenevano fondamentali per il futuro della zona euro, siano state vinte dai conservatori di Nuova Democrazia, gli attacchi speculativi ai titoli di stato continuano. A quanto pare, dunque, a rendere traballante l’euro non sono la sinistra radicale o i movimenti di protesta, bensì una fragilità sistemica interna. Non è così?
RISPOSTA: Lo sviluppo dei movimenti di protesta può accelerare la crisi della zona euro, ma le determinanti di questa crisi dipendono dai conflitti tra capitali europei e dalle tensioni che questi provocano sulla tenuta dell’Unione monetaria europea. Come più volte la signora Merkel ci ha ricordato, l’Unione è stata edificata su basi competitive. Il fondamento dei Trattati europei non è certo la solidarietà tra i popoli, ma la concorrenza tra capitali.
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“Discutiamo della Grecia ma guardiamo alla nostra realtà”
di Mauro Casadio*
Sembrava fatta, sembrava che l’anello debole della catena europea stesse per cedere addirittura a sinistra, invece ancora una volta le profezie funeste per l’Unione Europea non si sono avverate, anzi bisogna dire che la smentita di questo tipo di profezia negli ultimi due anni si è ripetuta più e più volte.
Frequentemente ci siamo trovati di fronte alle notizie giornalistiche che ormai la Grecia era fuori gioco e che con l’effetto domino sarebbe caduto anche l’euro, ci hanno detto che le trattative con l’Europa sul debito erano sul punto di rompersi ma poi alla fine la soluzione balzava fuori come un coniglio dal cappello. I più attivi in questo senso sono stati i filoeuropeisti, alla Amato o alla Scalfari, che ci hanno descritto fin nei minimi particolari, terrorizzanti, il baratro verso il quale stavamo correndo.
Ma nemmeno questa volta le profezie si sono avverate, addirittura il popolo greco ha sostenuto la prospettiva di drastici peggioramenti della propria condizione sociale. Saranno stati tutti dei casi questi salvataggi in extremis, oppure c’è qualcosa che non si riesce o non si vuole vedere? Come Rete dei Comunisti l’abbiamo sempre affermato con chiarezza - anche se con la coscienza che le “previsioni” non sono mai garantite - che il processo di costruzione della Unione Europea è più forte di quanto si faccia “pubblicamente” vedere, in quanto le classi dominanti del continente su questo risultato si giocano il proprio ruolo economico e strategico in un mondo dove contano sempre di più le dimensioni dei poli in competizione ed il livello di sviluppo delle “famose” forze produttive, categoria ormai dimenticata dalla sinistra.
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Freud, Marcuse e il disagio della civiltà
Written by Franco Toscani
1. Freud, il perdurare del disagio e l’enciclopedia delle scienze
Il Sigmund Freud che nel 1929 s’interroga sulla barbarie avanzante e sul “disagio della civiltà” (Das Unbehagen in der Kultur è il titolo definitivo dell’opera che ebbe come primo titolo Das Unglück in der Kultur, L’infelicità nella civiltà) - in anni che stavano preparando una delle tragedie più spaventose del XX secolo - costituisce uno stimolo potentissimo, anche per noi oggi, a porre domande essenziali sul radicamento forte del male nella costituzione psichica dell’uomo odierno, sul disagio grave del nostro tempo, sull’inciviltà di tanti aspetti della nostra civiltà.
Anche noi, infatti, in questo inizio del XXI secolo, in un’età così diversa da quella della prima metà del 1900, viviamo un peculiare disagio, un malessere, una insoddisfazione profonda, tensioni e contraddizioni che ci rodono continuamente, crisi aspre ed emergenze su cui torneremo alla fine di questo percorso.
Ciò che potremmo chiamare il perdurare del disagio è l’aspetto per noi più rilevante e significativo che è da pensare e che dà da pensare.
Cominciamo qui col raccogliere qualche spunto prezioso da questo grande saggio freudiano del 1929 - per la cui comprensione piena dovremmo riferirci pure ad altri scritti del suo pensiero più maturo, come soprattutto Die kulturelle’ Sexualmoral und die moderne Nervosität (1908), la conferenza Wir und der Tod (1915), Zeitgemässes über Krieg und Tod (1915), Jenseits des Lustprinzips (1920), Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921), Die Zukunft einer Illusion (1927), il carteggio con Albert Einstein Warum Krieg? (1932), senza alcuna pretesa di analisi sistematica (che qui intenzionalmente non svolgeremo) e sottolineando pure l’apertura dell’approccio freudiano ad una tematica necessariamente multi e interdisciplinare, che rinvia il sapere della psicoanalisi, della psicologia sociale (la cui idea, come notò Herbert Marcuse, fu prospettata dallo stesso Freud in Massenpsycologie und Ich-Analyse), dell’antropologia, del diritto, della filosofia, della sociologia, dell’economia, della storia, etc; a un’ottica fruttuosa di enciclopedia delle scienze - ad una “enciclopedia fenomenologica delle scienze”(1)- pensò acutamente e suggestivamente in Italia, negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, il filosofo Enzo Paci, il cui tentativo meriterebbe oggi di essere ripreso criticamente e approfondito, finalizzata ad una comprensione unitaria e profonda della civiltà umana nel suo complesso o dell’“uomo planetario”, come direbbe Ernesto Balducci (2).
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Cittadini della catastrofe
Gianluca Bonaiuti

«Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, ‘moderna’ e non abbia creduto di essere immediatamente davanti ad un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità». Così Benjamin, in un frangente decisivo della storia del XX secolo. A distanza di quasi un secolo dalla stesura di questa annotazione, verrebbe quasi da dire che non se ne può più di sentir parlare di crisi. Non solo nel senso che non se ne può più delle conseguenze che ad essa si addebitano in termini di effetti politici e sociali, ma perfino del fatto che in fondo, a ben vedere, sembra quasi che quello di «crisi» sia più un concetto di copertura, o di rimozione, che non un concetto di svelamento, grazie al quale, cioè, sia possibile rendere visibile qualcosa che prima non si vedeva. Sennonché, è subito evidente che la forma culturale della crisi è uno stimolo evidente all’intelligenza politica. Mai, come nei periodi di crisi, si assiste a una proliferazione di discorsi, di prese di posizione, di diagnosi e di prognosi che riguardano l’intero assetto della nostra vita in comune. Non si contano più gli interventi che hanno preso di petto la crisi, l’hanno spiegata, ne hanno discusso le premesse e le conseguenze a venire. Basterebbe forse questo argomento a legittimarne la cittadinanza nel campo della comunicazione: la crisi è uno dei principali content provider dell’intelligenza critica e, come tale, un serbatoio apparentemente inesauribile di prese di parola che impediscono la rassegnazione. Se non disponessimo di un concetto altrettanto fungibile e sfrangiato, gli stessi eventi e processi andrebbero descritti come una normale dinamica di adattamento. E, invece, conviene interpretare gli stessi eventi, gli stessi processi, le stesse decisioni come causa ed effetto della crisi, perché, come rivela uno storico tedesco tra i massimi esperti nella stratificazione storica dei suoi significati, Reinhardt Koselleck, nella crisi (la prima traduzione italiana della fondamentale voce Krise dei Geschichte Grundbegriffe è da poco uscita in libreria), si apre una chance per discutere del futuro, quasi ch’essa costituisca un’ultima riserva per proiettare in avanti speranze altrimenti condannate alla delusione preventiva, dunque alla paralisi.
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La sostenibile leggerezza della riconversione
di Guido Viale
L’orizzonte esistenziale delle nostre vite è dominato dalla crisi ambientale: non solo dai mutamenti climatici, che rappresentano ovviamente la minaccia maggiore; ma anche dalla scarsità di acqua e suolo fertile (non a causa della loro limitatezza naturale, ma dell’inquinamento e della devastazione a cui sono sottoposti); dalla distruzione irreversibile della biodiversità; dall’esaurimento del petrolio e degli altri idrocarburi (che sono anch’essi “risorse naturali”, anche se utilizzate prevalentemente per devastare la natura); dall’esaurimento di molte altre risorse, sia geologiche che biologiche e alimentari (il nostro “pane quotidiano”); dall’inquinamento degli habitat umani che riduce progressivamente la qualità della vita e delle relazioni interpersonali. A molte di queste minacce c’è chi pensa di poter fare argine con l’innovazione: nuovi materiali; nuovi processi; nuove tecnologie. È un’illusione: anche se fosse possibile affrontare così una o alcune delle grandi questioni ambientali, è la loro interconnessione in un sistema unico e complesso a imporre un approccio globale. Parlare di crescita economica, qualsiasi cosa si intenda con questa espressione, senza fare riferimento a questo quadro, è un discorso vuoto.
Scienziati di tutto il mondo, riuniti nell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) insistono nel mettere in guardia i governi che il tempo per evitare una catastrofe irreversibile che cambierà i connotati del pianeta Terra e le condizioni di sopravvivenza della specie umana sta per scadere; e che misure drastiche devono essere adottate per realizzare subito un cambio di rotta. Ma nelle recenti riunioni COP, Durban (2011), Cancun (2010) Copenhagen (2009) non è successo praticamente niente.
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L’esperimento Grecia
di Raffaele Sciortino
La Grecia è stata usata finora come un vero e proprio laboratorio di “terrorismo fiscale” da parte dei poteri forti europei e internazionali. Bene, l’esperimento non è riuscito: questo il significato principale del voto di domenica.
Una vittoria di Pirro dei fautori del memorandum, così i commentatori ufficiali meno costretti nel ruolo di imbonitori. In effetti, non solo la sinistra avanza di brutto, non solo più del 50% dei voti è esplicitamente contro l’accettazione della politica lacrime e sangue. Lo stesso voto al centro-destra ha per l’elettorato di ceto medio-piccolo -non parliamo ovviamente di borghesia compradora, clientele politiche e apparati di sicurezza- una valenza soft di ricontrattazione verso Bruxelles cui si è tolta l’arma di ricatto “non volete l’euro”. Riconoscendo tutto questo, non a caso il WSJ lamenta che la mancata affermazione odierna di Syriza paradossalmente potrebbe favorirne prossime vittorie.
L’esperimento non è riuscito non perchè la società greca non si sia impoverita enormemente, con rischio di implosione e sconforto, o perché la blanda ricontrattazione del memorandum cui a questo punto sia Berlino che il nuovo-vecchio governo ad Atene potrebbero accedere cambierà di molto le cose. Ma i greci non si sono piegati, e l’hanno manifestato anche sul piano elettorale dopo, attenzione, l’esplosione sociale del 12 febbraio scorso (quando, durante il voto parlamentare per il memorandum, ci fu una vera e propria battaglia di strada intorno a piazza Sintagma portata avanti da un fronte sociale realmente trasversale di mezzo milione di persone solo nella capitale).
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Ordinaria catastrofe
di Augusto Illuminati
La catastrofe, ormai è una citazione, consiste nel fatto che tutto continui ad andare come prima. Dopo l’ossessiva campagna perché la Grecia salvasse l’euro e la civiltà negando il voto alla malvagia sinistra syriziana – campagna che è stata l’idea-forza fra le famose “idee di Repubblica”, il Sole platonico che illumina e riscalda le Idee –, beh, adesso tutto sembra andare come prima. La borsa di Milano perde il 2,85% il lunedì dopo la festa e l’ineffabile organo di Mauro e Scalfari ammette che «il voto in Grecia non allenta dunque la tensione sui debiti pubblici periferici: lo spread torna ad allargarsi e sale a quota 465 punti base. I Btp volano oltre il 6% e i Bonos spagnoli sfondano il muro del 7% e per la prima volta i titoli spagnoli rendono più di quelli irlandesi. In rialzo anche i tassi dei bund tedeschi vicini a quota 1,5%». La crisi non si è risolta rimettendo le redini del governo greco in mano al partito (Nea Dimokratía) che aveva truccato i conti e scatenato lo sfacelo del bilancio nel 2009. E la Merkel si è affrettata a rimangiarsi tutte le promesse che erano state spese con soave licore per attirare voti ai truffatori della destra ellenica. Toccante l’esultanza per il risultato non solo dei berluscones, vorrei vedere, ma di Monti, Pd, Repubblica, Corriere e compagnia berciante. Peccato, davvero peccato che tutto sia rimasto eguale: speculazione dilagante, scazzi Eu-Usa, crollo della propensione al risparmio, spread in salita, discesa del Pil italiano, credit crunch, disoccupazione. Non era colpa di Syriza, allora. Vuol dire che è colpa della Merkel. E naturalmente dei sindacati che, assai flebilmente, pretendono di “correggere” (mica di stoppare) la riforma del mercato del lavoro. Anzi, diciamolo, la colpa è degli esodati. Che esodassero una volta per tutte, che si togliessero dai coglioni, ora che serve remare tutti insieme a Monti, dritti nel maelström.
Soprattutto, che non si voti, per carità, altrimenti finiamo come in Grecia, dove Samaras ha vinto, ma difficilmente riuscirà a formare un governo duraturo. E soprattutto finisce che M5S di Grillo ci porta via tutte le greppie di governo e sottogoverno.
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Sette brevi lezioni dal voto in Grecia
nique la police
Il voto greco che ha portato i moderati di Nuova Democrazia alla maggioranza relativa, guadagnando un bonus di 50 seggi, ci regala qualche breve lezione per il futuro. Italiano ed europeo.
PRIMA. Non è vero, come è accaduto in Grecia, che le forti proteste non incidono sul quadro politico istituzionale. In tre anni Pasok e Nuova democrazia sono passate da una percentuale vicina all'80 per cento a poco più del 40. Da partiti alternativi sono stati costretti a coalizzarsi contro il resto della società greca. Oggi in Grecia la rappresentanza politica antiausterità è attorno al 50 per cento dei voti.
SECONDA. Non è vero che alle elezioni i premi di maggioranza garantiscono la governabilità e sono politicamente neutri. Con una legge simile a quella studiata da Violante mesi fa, uno dei due ex partiti reciprocamente alternativi entro schemi di compatibilità sistemica (Nuova Democrazia) ha guadagnato il bonus e si è potuto permettere di attirare in una alleanza l'ex avversario (il Pasok). In Italia questo esempio potrebbe dire qualcosa.
TERZA. I governi neoliberisti e i media europei influiscono sul voto degli altri paesi mentre le sinistre no. La Merkel si è augurata, prima delle elezioni, una vittoria di Nuova Democrazia, i media europei (per tacere di quelli italiani) hanno presentato una eventuale vittoria di Syriza come il caos. Tirando la volata ai grandi fondi speculativi per un'eventuale affossamento di ciò che resta della Grecia. Le sinistre europee, quelle italiane in testa, non hanno fatto presenza nello spazio comunicativo continentale. Quando si vota in un paese che si sente isolato, tutto questo conta e sposta voti. Per esempio, era così impossibile per Vendola, Landini, die Linke, Front de Gauche andare in Grecia a non far sentire solo Tsipras?
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Il teorico (serio) del partito anti-euro
“Uscita dell’Italia dolorosa ma inevitabile”
Marco Palombi intervista Alberto Bagnai
Materiali per servire ad un più consapevole dibattito sull’euro. Avremmo potuto chiamare così questa chiacchierata con uno dei pochi economisti italiani che sulla moneta unica ha sempre espresso quelle che un eufemista definirebbe profonde perplessità.
In realtà, Alberto Bagnai, che insegna politica economica a Pescara e in Francia, pensa che occorra uccidere l’euro proprio per salvare l’Europa e non per disfarla: per questo il nostro – allergico tanto al pensiero economico mainstream, quanto ai fulminati della Spectre massofinanziaria alla Paolo Barnard – ha deciso da un paio d’anni di uscire dalla cerchia dell’accademia per divulgare una verità che per lui è semplice quanto evidente: la moneta unica è stato un brutto affare. Per spiegarlo, riempie il suo blog di articoli chiari e divertenti, numeri e riferimenti bibliografici che lasciano poco spazio ai dubbi. Non bastandogli il blog, peraltro, sta organizzando un convegno scientifico a Pescara per il 22 e 23 giugno. Titolo: Euro: manage it or leave it. Le sue teorie sono spesso spiazzanti per i non addetti ai lavori; per questo non gli abbiamo posto domande in senso stretto, ma l’abbiamo costretto a interagire con un ipotetico europeista un po’ naif e sinceramente democratico, le cui informazioni derivino esclusivamente dagli editoriali pubblicati dai due più grandi quotidiani italiani. Ecco il risultato.
L’euro va bene, è che c’è la crisi dei debiti sovrani.
I maggiori economisti internazionali, a partire da Paul Krugman e Paul De Grauwe, non la pensano così. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 – quando esplode la bolla dei mutui subprime – la crisi avrebbe colpito prima Grecia e Italia (debito pubblico al 110% e al 106% del Pil). Ma i mercati puniscono prima Irlanda (44%), Spagna (40%) e Portogallo (65%), solo dopo Grecia e Italia.
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La partita della sinistra
Alberto Burgio
Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi?
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt'al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l'oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.
Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l'ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent'anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l'attuale situazione?
In particolare la sinistra - in tutte le sue diramazioni - di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all'origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent'anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.
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Bellofiore, considerazioni su crisi, Europa e… barbarie
di Alfonso Gianni
«Il primo dovere della sinistra è - puramente e semplicemente - il rigetto senza ambiguità delle politiche di austerità», afferma perentoriamente Riccardo Bellofiore in La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra (Trieste, Asterios, 2012, pp. 74, euro 7). Il libro, di poca mole ma di grande sostanza, (che reca in esergo un verso di Heinrich Heine, «Il posto è vacante! Le ferite aperte» dedicato alla memoria di Edoarda Masi e Lucio Magri) esce accompagnato dal suo gemello La crisi capitalistica, la barbarie che avanza (Trieste, Asterios, pp. 77, euro 7). L’argomento è la grande crisi economica mondiale, ma più esattamente si dovrebbe dire il marxismo e la crisi. Il nocciolo di entrambi i libri consiste, infatti, nella critica da un punto di vista marxista delle diverse letture della crisi e allo stesso tempo nella critica dei comportamenti della sinistra di fronte alla crisi.
Va da sé, infatti, che l’affermazione di cui sopra non sta avendo i successi desiderati. La sinistra moderata, quella che Bellofiore definisce social-liberista, non solo ai tempi di Toni Blair, ma nelle spire di una crisi che per l’Europa, con l’eccezione della Germania e del suo satellite, la Polonia, appare ancora più grave di quella che prese le mosse dal crollo di Wall Street nell’ottobre del 1929, ha assunto pratiche e atteggiamenti anche più liberisti del neoliberismo, mettendo in mostra il tipico entusiasmo dei parvenu. Quando questa rivista uscirà dalla tipografia, sarà già stata modificata la nostra Costituzione, con l’introduzione nell’articolo 81 dell’obbligo del pareggio di bilancio, vero mantra del credo neoliberista.
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Crisi, equità, sviluppo*
Vorrei rovesciare l’ordine dei concetti che compongono il tema di questa tavola rotonda. Non soltanto perché di sviluppo (di crescita, in realtà) si parla molto in questi ultimi mesi, ma anche perché è opportuno avere qualche punto fermo. Qualcuno da tempo ha sottolineato l’opportunità di azzerare la crescita o di attivare un processo di decrescita (gli studiosi del Club di Roma e Georgescu-Roegen tra i precursori; tra i principali fautori: S. Latouche; in Italia, G.Ruffolo, M. Cacciari ed altri) per salvaguardare il futuro del pianeta e, con esso, dell’umanità. Si tratta di persone stimabili e devo dire che condivido le loro preoccupazioni, che non possono essere dismesse molto facilmente sul piano analitico. Però, dello sviluppo abbiamo necessità. Deve trattarsi non di sola crescita e deve essere sostenibile, ma dello sviluppo non possiamo fare a meno. Una prospettiva, alla John Stuart Mill, di stato stazionario, nella quale non ci sia motivo per ‘urtarsi e scavalcarsi’ e ci sia spazio per la contemplazione della natura e per la riflessione, è certo densa di aspetti esteticamente, ecologicamente ed eticamente apprezzabili. Temo però che una tale prospettiva sarebbe possibile soltanto con una redistribuzione drastica delle attuali ricchezze, nell’ambito dei paesi sviluppati e, soprattutto, fra questi e i Pvs. Infatti, lo stato stazionario sarebbe accettabile soltanto da chi abbia attualmente una posizione di privilegio nella società. Ma la redistribuzione potrebbe avvenire soltanto attraverso scontri violenti e con costi umani inimmaginabili. La redistribuzione è necessaria, non può essere affidata al trickle down, ma ad un’azione riformatrice lunga e tenace, dove il termine riformatrice è inteso nel senso in cui esso era usato da Caffè.
Passiamo ora alla crisi. Nella crisi siamo immersi. Quali ne sono i costi immediati e quali i riflessi sulle prospettive di sviluppo? I costi immediati sono enormi. Non mi occupo dei costi politici della crisi, per i riflessi perniciosi che essa può avere, come già in passato, sulle velleità autoritarie nei paesi più coinvolti.
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Sul confine fra forza e violenza
Ida Dominijanni
Capita a volte che il momento più giusto, per un gesto politico, coincida con quello più scomodo. Capita, in particolare, quando il gesto politico in questione prende di mira il conformismo imperante, attaccandolo in un punto sensibile. Capita, nella fattispecie, all'ultimo saggio di Luisa Muraro, un «gransasso» Nottetempo intitolato Dio è violent, che piomba per l'appunto come un sasso nelle acque stagnanti del dibattito politico, attaccandone il conformismo nel punto sensibile, irritato e irritante, della violenza (e della nonviolenza).
Mossa imprevista, da parte di una pensatrice femminista: non ci ha abituate, l'ordine del discorso dominante - e anche l'ordine dominante del discorso femminista - a mettere gli uomini dalla parte della violenza, e le donne, che della violenza maschile sono l'oggetto prediletto, dalla parte della nonviolenza? Non è un fatto assodato che l'ordinamento democratico escluda la violenza e sia anzi teso a neutralizzarla ogni volta che compare, e che a questo comandamento democratico si sia infine piegata,«senza se e senza ma», anche tutta la sinistra erede di una tradizione novecentesca che dalla violenza non era stata esente? C'è qualcosa da scompaginare, e che cosa, in questo quadro assodato e tranquillizzante?
Qualcosa c'è, e in verità si è scompaginato da solo: l'ordine del discorso non dice più la realtà delle cose. Nella realtà delle cose, gli ordinamenti democratici vanno a braccetto con guerre illegali violentissime ma definite «giuste» e «umanitarie», con un uso sempre più cinicamente violento di alcuni poteri (per primo quello economico-finanziario), con una governamentalità biopolitica che con una violenza sempre più subdola fa presa sui corpi e sulle anime dei governati, con un'esplosione di micro e macroviolenza quotidiana insensata ed efferata contro gli altri (dal cosiddetto femminicidio alle bombe di Brindisi) e contro se stessi (i suicidi da disperazione economica).
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L'evaporazione del padre nella scuola "senza Legge"*
Daniele Balicco intervista Massimo Recalcati

La Legge, per come la pensa la psicoanalisi, vale a dire la legge simbolica, che è la legge della castrazione, si manifesta attraverso l’introduzione dell’impossibile. La Legge segnala l’esistenza di una soglia, di un limite che è impossibile valicare, riprendendo per altro una tradizione che sta all’origine dei testi biblici. E tuttavia, a differenza dei testi biblici, questo impossibile non si chiama Eden, ma incesto. Cosa significa? Significa che è impossibile per l’uomo fare esperienza di un godimento illimitato, che è il godimento della cosa materna. Questo godimento senza limiti è interdetto dalla Legge, la cui funzione è precisamente quella di introdurre il senso del limite come elemento costitutivo dell’esperienza umana. Nello stesso tempo, questo impossibile è ciò che paradossalmente apre la possibilità stessa del desiderio.
Per venire al nostro caso, il diritto ad essere puniti è un diritto, senza dubbio. Tuttavia, per uno psicoanalista questa idea rischia sempre di scivolare verso un terreno che è quello del godimento sadico di chi esercita la punizione.
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I nodi gordiani dell'Europa
di Claudio Gnesutta
L’incertezza sul futuro dell’euro si accentua di giorno in giorno per l’assenza, o meglio per i pericolosi ritardi, che l’attuale dirigenza politica europea manifesta nel trovare soluzioni che diano respiro ai paesi più deboli dell’eurosistema a superare le difficoltà finanziarie in cui sono coinvolti.
È paradossale che un sistema monetario immaginato per consolidare la società europea in un progetto di Unione sovranazionale operi invece come moltiplicatore delle tensioni politiche interne quando viene investito da uno shock proveniente dall’esterno. La crisi finanziaria si è infatti diffusa a diversi livelli (produttivo, occupazionale, di finanza pubblica, del sistema bancario ecc.) evidenziando la sua natura “sistemica” che rende molto problematiche le politiche di stabilizzazione di molti paesi dell’eurozona. Se le istituzioni della moneta unica hanno dimostrato di poter contenere gli effetti della crisi sul sistema bancario, esse si sono invece dimostrate ampiamente inefficaci nel fronteggiare le difficoltà del settore pubblico e del suo debito. Anzi, la linea di austerità imposta dalle autorità di Bruxelles, volta a privilegiare il riequilibrio dei conti pubblici in un contesto di conclamata recessione, ha ovviamente reso ancor più complessa la situazione dei paesi più deboli.
L’inadeguatezza istituzionale dell’eurozona si manifesta nell’asimmetria dei suoi meccanismi. Essi hanno richiesto (e richiedono) ai paesi-membri di rinunciare a importanti strumenti di politica economica (monetaria e valutaria) per favorire lo sviluppo dell’Unione, ma, nel momento delle difficoltà, li lascia soli nel risolver da sé i propri problemi. Se tutti si sono sottoposti a una regola comune, logica vorrebbe che tutti dovrebbero sentirsi compartecipi nella gestione delle difficoltà che sono accentuate da questo squilibrio istituzionale dell’euro.
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Scuola e istruzione beni comuni?
La scuola oltre il limite, ovvero insegnare fuori dal neoliberismo
Marco Ambra intervista Sandro Chignola
Marco Ambra: Partiamo proprio dai processi di riorganizzazione della scuola in corso dagli anni ’90. Lei li ha descritti nei termini di una ristrutturazione secondo l’ideologia del new public management: la graduale privatizzazione della scuola pubblica, l’implementazione di una tecnologia didattica delle competenze, il coinvolgimento di tutti gli share holders (genitori, studenti, funzionari pubblici, dirigenti) nella valutazione dell’attività didattica, anche attraverso strumenti di misurazione statistico-quantitativa (come le prove INVALSI). In che modo questi punti-guida dell’azione riorganizzatrice della scuola pubblica creano uno spazio nel quale può inserirsi quello che Foucault, nella Nascita della biopolitica, rileva come uno dei dispositivi più efficaci del neoliberismo: l’idea di un individuo imprenditore di sé, ontologicamente primo rispetto alla società nella quale agisce? In che senso questa riorganizzazione è sostenuta da un’episteme pedagogica espressione della didattica delle competenze?
Sandro Chignola: Il fatto che io mi riferisca a Sicurezza, territorio e popolazione e alla Nascita della biopolitica per decostruire gli interventi di riforma che si sono abbattuti sulla scuola pubblica a partire dagli anni ’90 è qualcosa che in qualche modo Foucault stesso auspicava quando ribadisce, nelle interviste, di pensare alla propria opera come ad una cassetta degli attrezzi. L’opera foucaultiana non è una disciplina o un pensiero chiuso nella propria coerenza, quanto piuttosto una «freccia scagliata al cuore del presente» (Habermas), un repertorio di argomenti, mosse, analisi che potevano e possono essere proseguite.
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La dannazione tedesca sull’euro*
Sergio Cesaratto
La crisi finanziaria europea ha subito una accelerazione, attesa dagli osservatori più avveduti. Esaminiamone gli esiti possibili e la loro eventualità.
(a) La continuazione delle attuali politiche imposte dalla Germania di sostegni tampone ai paesi periferici e austerità. Il fallimento dell’aiuto concesso alle banche spagnole lo scorso fine settimana e la possibile vittoria di Syriza nelle elezioni greche (che ci auguriamo) suonano la campana a morto per tale strategia.
(b) Una integrazione europea più stretta che da un lato dia una qualche rassicurazione ai mercati di una garanzia europea sui debiti, e dall’altro avochi a una commissione tecnica a Bruxelles le decisioni nazionali di bilancio. Tale piano non è altro che un rafforzamento della prima strategia, inaccettabile sotto il piano della democrazia - diventeremmo de jure colonie tedesche - e disastroso sul piano economico: la periferia europea sarebbe condannata a un declino che la ridurrebbe a livelli di vita assimilabili ai paesi più poveri dell’Europa dell’est.
Nessuna delle due strategie assale alla radice il problema europeo: una drammatica perdita di competitività della periferia dovuta alla moneta unica in paesi fragili già esposti alla globalizzazione. Per assalire tale problema le strategie sono due:
(c) Quella più auspicabile è che la Germania, di fronte al baratro, decida di assumere il ruolo che per importanza economica e politica le spetta di paese leader europeo e globale.
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“Non fregheranno i 5 stelle con Saviano, Passera o Montezemolo”
Marco Travaglio intervista Beppe Grillo
Ora mi tocca diventare moderato, sennò questi partiti spariscono troppo rapidamente. Sono anni che dico che sono morti, ma insomma, fate con calma, non esagerate a prendermi alla lettera…”.
Beppe Grillo se la ride mentre strimpella la sua pianola canticchiando su una base vagamente jazz, nel salotto della sua villa bianca con vista sul mare di Sant’Ilario (Genova). Accanto c’è quella rossa dove viveva Bartolomeo Pagano, l’attore che interpretava Maciste nei kolossal degli anni ’10 e ’20, ora abitata dai suoi eredi. Ma “Grillo contro Maciste” è un film che rischia di uscire presto dalle sale: l’ultimo sondaggio di La7 dà i Cinquestelle al 20 per cento, seconda davanti al Pdl, a 5 punti dal Pd.
“Se ne stanno andando troppo in fretta. Io faccio di tutto per rallentare, mi invento anche qualche cazzata per dargli un po’ di ossigeno, ma non c’è niente da fare, non si riesce a stargli dietro. Devo darmi una calmata nell’attaccare i partiti, anzi devo convincere la gente a fare politica, a impegnarsi, a partecipare. È una fase nuova, dobbiamo cambiare un po’ tutti, anch’io. La liquefazione del sistema è talmente veloce che domani rischiamo di svegliarci e non trovarli più. E poi come si fa? Non siamo pronti a riempire un vuoto così grande”. In casa, alla spicciolata per il pranzo, arriva l’intero Comitato Centrale del terribile M5S: il fratello maggiore Andrea, pensionato, la moglie Parvin e i figli più piccoli Rocco, 18 anni, e Ciro, 11. Andrea ha già letto tutti i giornali e fa la rassegna stampa al volo. Parvin dice che Renzo Piano telefona in continuazione per sapere come sta Beppe, ha paura per lui dal primo V-Day. Rocco non sopporta che il padre venga riconosciuto per strada, lo vorrebbe sempre col casco della moto in testa. Per Ciro invece, che si allena in giardino col pallone contro le finestre, un po’ di popolarità non guasta. “Ma cosa scrivi, facciamo due chiacchiere e basta. Per le interviste è presto, lasciami godere ancora qualche giorno lo spettacolo.
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